foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

http://www.megghy.com/immagini/animated/bobine/bandes-10.gif INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA

80x80 LIBRI: HTML - EBOOK - BOOK

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

I NAPOLETANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

LUIGI DE MAGISTRIS. CONDANNA, SOSPENSIONE DA SINDACO E LA SFIDUCIA NELLA MAGISTRATURA

 

SCAMPIA MOCI DA SAVIANO..........................E

 SCAMPIAMOCI DALLA GIUSTIZIA CORROTTA

 

 

 PREFETTI E POLIZIA PRETENDONO RISPETTO

 

 LA MAFIA DEI MAGISTRATI CORROTTI: ARRESTATI GIUDICI TRIBUTARI

 

VIDEO ABUSI POLIZIA

MAFIA. OPPIDO E CASTELLAMMARE. LE TRAVEGGOLE E GLI INCHINI DELLA MADONNA.

 

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE

 

INNOCENTI IN CARCERE. GIOVANNI DE LUISE.

 


SOMMARIO

INTRODUZIONE.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

VEDI NAPOLI? NO! BEVI NAPOLI E PUOI MUORI.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

NAPOLI JIHADISTA.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

ROBERTO SAVIANO. GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

LA METAMORFOSI DEI FORCAIOLI: LUIGI DE MAGISTRIS.

DAVIDE BIFOLCO. MORIRE A 16 ANNI. “LA CAMORRA TI PROTEGGE. LO STATO TI UCCIDE”?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

STATO INFAME, GIUSTIZIA SPREGEVOLE. TORTORA E GLI ALTRI.

MAGISTRATURA INCONTROLLATA ED INCONTROLLABILE.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

PARLA ANTONIO IOVINE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

LA CAMORRA MEGLIO DELLO STATO?

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD. COSENTINO, TU VUO’ FA’ LL’AMERICANO, MA SI NATO IN ITALY.

LA CELLA ZERO.

NAPOLI FALLITA.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.

DELINQUENTE A CHI?

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

MAGISTRATURA ED ABUSI: POTERE MAFIOSO?

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

GIUDICI IMPUNITI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

NAPOLI 40 ANNI DOPO.

E CHE DIRE DEL CONCORSO TRUCCATO PER DIRIGENTE SCOLASTICO?

VEDI NAPOLI E …POI MUORI!

PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.

PARLIAMO DI LUIGI DE MAGISTRIS.

I FALSI PROFETI. LA MAFIA VIEN DALL'ALTO. IN TERRA DI ILLEGALITA’ NESSUNA TOGA O DIVISA PUO’ CHIAMARSI FUORI, PUR DECANTATI DA SOMMI POETI PARTIGIANI.

SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME.

A NAPOLI VITTIME INNOCENTI. SI MUORE PER NIENTE, NELL’INDIFFERENZA E SENZA OTTENERE GIUSTIZIA.

PREFETTI, IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE. ANCHE A NAPOLI!!!

VIGILI URBANI. PARLIAMO DI VIOLENZA DELLE ISTITUZIONI, OMERTA' ED IMPUNITA'.

NAPOLI  MASSONICA. MASSONERIA CONTRO NAPOLI.

NAPOLI MAFIOSA. MA NON E’ TUTTO CAMORRA.

I PRECARI DELLA CAMORRA.

MAGISTRATI CONTRO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

NAPOLI TRA ORGOGLIO E RANCORE.

POLITICA, ISTITUZIONI E CAMORRA.

VITTORIO PISANI. L’ANTI SAVIANO ASSOLTO DOPO ANNI DI FANGO.

LE ACCUSE DELLA PROCURA AL CAPO DELLA MOBILE.

LE PECCHE DI ROBERTO SAVIANO.

QUANDO LA QUESTIONE MORALE E’ BIPARTIZAN.

MAGISTROPOLI, IN CHE MANI SIAMO?

MALAGIUSTIZIA.

INGIUSTIZIOPOLI: TORTORA E GLI ALTRI.

USI ED ABUSI MUNICIPALI.

E POI SIAMO ALL'INVEROSIMILE. QUANDO I FURBI A NAPOLI HANNO SEMPRE RAGIONE.

AFFITTOPOLI.

ORMEGGIOPOLI.

PARCHEGGIOPOLI.

MORTOPOLI.

AMBIENTOPOLI.

LAUREFICIOPOLI.

SFRUTTAMENTOPOLI.

CONCORSOPOLI.

GIUGLIANO E LE ISTITUZIONI MARCE.

AD ISCHIA: ARRESTATO IL SINDACO.

ISCHIA. ABORTI CLANDESTINI E FALSI OBIETTORI DI COSCIENZA.

NOLA ED I SUOI PARADOSSI.

PORTICI E L'ASSENTEISMO AL COMUNE.

POZZUOLI E LE SUE ISTITUZIONI.

TORRE DEL GRECO E LA GIUSTIZIA LUMACA.

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca  

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.  

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo  su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

VEDI NAPOLI? NO! BEVI NAPOLI E PUOI MUORI.

Bevi Napoli e poi muori, l'inchiesta - shock degli Usa. Acqua contaminata, con tracce pericolose di uranio. Gas velenosi che escono dal suolo. Il rapporto completo dei militari Usa sui rischi dei rifiuti tossici in Campania. Che concludono: “Nessuna zona è sicura, nemmeno nel centro di Napoli”, scrivono  Gianluca Di Feo e Claudio Pappaianni su “L’Espresso”. Per Carmine Schiavone, cugino del padrino Sandokan, la camorra ha sistematicamente inquinato le falde acquifere della Campania con milioni di tonnellate di rifiuti tossici: «Non solo Casal di Principe, ma anche i paesi vicini sono stati avvelenati. Gli abitanti rischiano di morire tutti di cancro, avranno forse vent’anni di vita». Ma le parole nefaste del camorrista trovano più di un riscontro nell’unico grande studio esistente sugli effetti delle discariche clandestine. Lo ha realizzato il comando dell’Us Navy di Napoli: oltre due anni di esami, costati 30 milioni di dollari, per capire quanto fosse pericoloso vivere in Campania per i militari americani e le loro famiglie. Dal 2009 al 2011 è stata scandagliata un’area di oltre mille chilometri quadrati, analizzando aria, acqua, terreno di 543 case e dieci basi statunitensi alla ricerca di 214 sostanze nocive. Le conclusioni sono state rese note da diversi mesi e sostanzialmente ignorate dalle autorità italiane. L’analisi del dossier completo di questa ricerca però offre la sola diagnosi completa dei mali, con risultati sconvolgenti. Non ci sono santuari a prova di veleno: gli esperti americani hanno individuato luoghi con “rischi inaccettabili per la salute” disseminati ovunque nelle due province, persino nel centro di Napoli. Per questo scrivono che è impossibile indicare zone sicure dove risiedere: i pericoli sono dappertutto, pure nella fastosa villa di Posillipo dell’ammiraglio in capo. Sostengono che in tutta la regione bisogna usare soltanto acqua minerale per bere, cucinare, fare il ghiaccio e anche lavarsi i denti. Nelle due province non si deve abitare al piano terra, dove penetrano i veleni che evaporano dal terreno, e vanno evitate cantine o garage sotterranei. Ci sono tre “zone rosse” ( guarda la mappa interattiva ) intorno a Casal di Principe, Villa Literno, Marcianise, Casoria e Arzano dove in pratica vietano di prendere casa: i rubinetti pescano da pozzi contaminati da composti cancerogeni e dal suolo escono gas micidiali mentre la concentrazione di discariche tossiche è troppo alta. Nei grandi complessi statunitensi di Capodichino e di Gricignano d’Aversa le minacce per la salute sono considerate “accettabili” solo “perché il personale vi resta in media per 2,2 anni e comunque per meno di sei anni”: una scadenza che non va superata. Dallo scorso giugno i contratti per tutti gli altri centri residenziali in Campania sono stati disdetti: persino quello della lussuosa villa di Posillipo che ospitava l'ammiraglio in capo, dove i rischi erano “accettabili” solo per un periodo di tre anni. La diagnosi più angosciante riguarda l’acqua e certifica quanto sia profondo il male nelle falde. Il 92 per cento dei pozzi privati che riforniscono le case costituiscono “un rischio inaccettabile per la salute”. Ma ci sono minacce anche negli acquedotti cittadini: esce acqua pericolosa dal 57 per cento dei rubinetti esaminati nel centro di Napoli e dal 16 per cento a Bagnoli. Come è possibile che pure la rete idrica pubblica sia inquinata? Gli americani scoprono che l’acqua dei pozzi clandestini riesce a entrare nelle condotte urbane, soprattutto in provincia. In oltre la metà dei pozzi, gli esperti trovano una sostanza usata come solvente industriale - il Pce o tetracloroetene - considerato a rischio cancro. La diossina invece è concentrata nel territorio tra Casal di Principe e Villa Literno, ma pur essendo alta non costituisce una minaccia. Tra tanti dati inquietanti, spunta un incubo che finora non si era mai materializzato: l’uranio. Gli esami lo individuano in quantità alte ma sotto la soglia di pericolo nel 31 per cento delle case servite da acquedotti: ben 131 su 458. Quando si va ad analizzare i pozzi, il mistero aumenta: è rilevante nell’88 per cento dei casi, mentre nel 5 per cento il livello diventa “inaccettabile”. Ossia in un pozzo su venti si riscontra una quantità di uranio che mette a rischio la salute. Tutti i campioni che superano il livello di allarme però sono stati scoperti nell’area di Casal di Principe e Villa Literno. Proprio lì dove il pentito Carmine Schiavone ha descritto processioni di «camion dalla Germania che trasportavano fanghi nucleari gettati nelle discariche». Nel verdetto sull’aria però gli scienziati si scontrano con un problema metodologico: delle 27 sostanze potenzialmente cancerogene individuate in Campania esaminando oltre 90 mila campioni, sei non sono censite negli Stati Uniti. Se queste sei non vengono considerate, allora i rischi di Napoli sono inferiori a quelli di una metropoli americana. Ma se si stima l’effetto di tutti i veleni, allora i napoletani corrono pericoli di tumore e asma cinque volte superiori a un abitante di New York o Los Angeles.

'Sequestrate l'Espresso'. La nostra inchiesta fa paura, scrive “L’Espresso”. La copertina dell'Espresso è dedicata all'inquinamento di Napoli e rende noti i risultati sconvolgenti di una ricerca del comando americano sul territorio eseguita nell'arco di due anni. Il consigliere della Campania Corrado Gabriele ha chiesto l'intervento della magistratura per vietare l'uscita in edicola del giornale: 'E' procurato allarme'. Ecco la nostra risposta. "Invitiamo il consigliere regionale Corrado Gabriele a leggere sull’Espresso l’accurata inchiesta sulla situazione ambientale in Campania prima di esprimere giudizi e addirittura chiedere l’intervento della magistratura per un eventuale reato di procurato allarme. Il servizio dell’“Espresso” rende noti i risultati inediti e sconvolgenti di una corposa ricerca richiesta dal comando americano di Napoli, eseguita da primari laboratori di analisi sulla base di campioni di acqua, cibo, terreni, fumi raccolti lungo l’arco di due anni – dal 2009 al 2011 – su un’area di oltre mille chilometri quadrati e costata ben 30 milioni di dollari. Il rapporto conclusivo è stato trasmesso da diversi mesi alle autorità italiane, ma finora mai reso pubblico. Pensiamo che far finta di niente, prendersela con chi fa informazione invece che con chi dovrebbe impedire il traffico di rifiuti tossici gestito dalla criminalità organizzata può solo peggiorare la vita di chi vive in quelle zone e da anni sopporta le terribili conseguenze dell’inquinamento. La Direzione dell’“Espresso”.

Il lancio dell'Ansa. NAPOLI, 14 NOV. 2013 - Il consigliere regionale della Campania del Pse, Corrado Gabriele, annuncia che intende presentare un esposto alla Procura della Repubblica di NAPOLI per chiedere ''di accertare se non sia il caso di verificare gli estremi della violazione dell'articolo 658 del Codice Penale e vietare l'uscita in edicola di domani delle copie'' de L'Espresso dopo l'annuncio di una copertina sulla quale c'è scritto: 'Bevi Napoli e poi muori, Acqua contaminata ovunque... Nessuna zona è sicura". Secondo Gabriele, potrebbe configurarsi il reato di procurato allarme evidenziando "il danno all'economia campana e soprattutto il danno psicologico per milioni di cittadini napoletani e campani che oltre a subire le conseguenze dei rifiuti seppelliti in Campania devono vivere nel terrore di utilizzare l'acqua e i prodotti agricoli della nostra terra". A giudizio del consigliere regionale la copertina ''E' offensiva e andrebbe censurata''; di qui l'invito ai lettori ''della storica rivista a boicottare la vendita la vendita delle copie dell'Espresso in edicola questa settimana''. "E' assurdo - sottolinea Gabriele - che si faccia una campagna contro l'immagine della nostra città… nel mondo: propongo a tutti i lettori abituali de l'Espresso di destinare il prezzo di copertina agli aiuti umanitari che l'Ong Save The Children sta promuovendo per i bambini delle Filippine rimasti senza casa e senza famiglia inviando sms al 45509". Analoga iniziativa, annuncia Gabriele, ''sarà presentata a Roma dal capogruppo dei Socialisti alla Camera l'on. Marco Di Lello''. Gabriele annuncia che sarà alle 13 all'ufficio notifiche di reati, alla Torre B del Palazzo di Giustizia di Napoli, per presentare l'esposto.

Trent’anni di inerzia veleni e omertà. Leggete la nostra sconvolgente inchiesta di copertina. Gli americani, non sindaci e ministri di casa nostra, svelano una realtà che tutti conoscono, molti nascondono e per cambiare la quale nessuno si è mosso, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Napoli, esterno giorno, martedì 12 novembre. Agenti della polizia municipale, su segnalazione di abitanti della zona, sequestrano a un privato cittadino tre sacchi contenenti rifiuti speciali a rischio provenienti dal Cnr, il Centro nazionale delle ricerche, poco prima che finissero in discarica. La notizia è la numero cinque o sei di alcuni siti locali. Come se fosse vicenda di ordinaria amministrazione. E in fondo un po’ lo è, ormai, tragica routine che nessuno riesce ad arrestare. Scorrete con attenzione, per esempio, il documento che pubblichiamo in esclusiva, le tabelle che lo completano. Ne emerge uno spaccato agghiacciante dei veleni nascosti intorno a noi, sopra di noi, sotto di noi: fumi acque terreni cibo. Pericolosi, cancerogeni, mortali. L’aggressione del territorio è tale da pensare che estirpare il male sia ormai pressoché impossibile. Parole e cifre che fanno venire i brividi, e si prestano a più di una riflessione. La prima è che a dirci la drammatica verità non sono sindaci, ministri, tecnici di casa nostra, ma militari americani preoccupati di salvaguardare la salute dei loro dipendenti temporaneamente in Italia. I quali pur di avere risultati attendibili non esitano a spendere milioni di dollari. La seconda riflessione: troppo facile voltare la testa e dire «ma è Napoli, la Campania, la terra dei fuochi» quasi che la vicenda non ci appartenesse. In quei terreni, grazie alla camorra che ha trasformato la campagna in discariche a cielo aperto, sono sepolti i rifiuti di mezza Italia, di mezza Europa, forse anche scorie nucleari – tedesche? francesi? – scarti di impianti simili a quelli che non abbiamo voluto qui. E c'è poi l'amara constatazione che governi, forze politiche, amministratori, imprenditori ci hanno lasciato avvelenare lentamente senza che nessuno si muovesse. Per anni. Il 7 giugno del 2007 Roberto Saviano svelava su “l’Espresso” i meccanismi con i quali la malavita trasforma la spazzatura in business e in veleni, e le conseguenze che ne derivano: «La vera tragedia è che attraverso il meccanismo dei rifiuti non hanno soltanto avvelenato le terre, appestato di cancro migliaia di persone, divelto la bellezza di interi territori, stuprato piantagioni, colture, divorato montagne, non hanno solo spremuto danaro da ogni cosa viva e morta, non hanno soltanto fatto questo al presente. Ma hanno contaminato per sempre ciò che sarà». Infatti. Un anno dopo Gianluca Di Feo ed Emiliano Fittipaldi pubblicavano su “l’Espresso” la sconvolgente testimonianza di Gaetano Vassallo, l’imprenditore che per conto dei Casalesi aveva ideato il traffico dei rifiuti. Cominciava così: «Intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso indicare...». Ed è di pochi giorni fa la divulgazione dei verbali d’interrogatorio di Carmine Schiavone, cugino di Francesco - Sandokan, re dei Casalesi («Gli abitanti di quelle zone avranno, forse, venti anni di vita») reso alla commissione antimafia nel 1997. E secretati fino a oggi. Però via via trasmessi ai dieci governi, ai cinque parlamenti, ai cinque sindaci di Napoli e ai quattro governatori regionali eletti nel frattempo. Inutilmente. Nonostante la buona informazione facesse il suo lavoro. Ultima riflessione. In un Paese in cui vince l’immobilismo, dove i fatti contano sempre meno e non decidere è diventato una missione, il giornalismo d’inchiesta è sempre più importante. E appena si svelano i segreti più nascosti, ecco scattare la smentita che non smentisce, la diffida, l’avvertimento. Perfino la minaccia violenta, come il caso di Lirio Abbate dimostra. A maggior ragione quando magistratura e politica impiegano secoli per accertare la verità o prendere provvedimenti. Cosa avrebbe dovuto fare “l’Espresso”? Attendere che i magistrati di Napoli concludessero le loro inchieste sui rifiuti, oggi non ancora chiuse? O che la commissione antimafia rendesse note le confessioni di Schiavone? O che governi, sindaci, amministratori prendessero provvedimenti risolutivi che ancora non ci sono? Insomma, tacere? Certo che no. Continueremo sulla nostra strada. Fino a che la terra dei fuochi non brucerà più.

“Così ho avvelenato Napoli”. Il 12 settembre 2008 “l’Espresso” uscì in edicola con le prime rivelazioni complete sui rifiuti tossici sepolti in Campania. Erano le dichiarazioni del pentito Gaetano Vassallo, un manager di camorra che aveva gestito in prima persona il traffico di sostanze velenose: «Intendo riferire sullo smaltimento illegale di rifiuti tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimento realizzato in cave, terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito». Si trattava di un documento choc, che descriveva nel dettaglio l’inquinamento dell’acqua e del terreno, facendo i nomi di boss, imprenditori, politici e pubblici ufficiali collusi con i clan. Per la prima volta, vennero pubblicate anche le accuse del collaboratore di giustizia contro Nicola Cosentino, allora potente sottosegretario dell’Economia. I verbali di Vassallo erano secretati. E per questo furono perquisiti subito casa e ufficio degli autori dell’articolo, Emiliano Fittipaldi e Gianluca Di Feo, e di Claudio Pappaianni, che da Napoli scrive per “l’Espresso”. Perquisizioni ripetute la settimana dopo, quando il nostro giornale è tornato a pubblicare altre rivelazioni sull’infiltrazione della camorra nell’emergenza rifiuti. Quelle informazioni erano e sono fondamentali per capire cosa rischiano gli abitanti della Campania e chi sono i responsabili.
Una questione determinante per la vita di tre milioni di persone su cui “l’Espresso” insiste dal 2005, anche grazie alle inchieste di Roberto Saviano. Ma le risposte non sono ancora arrivate.

Così ho avvelenato Napoli. Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per due decenni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari: uno sconvolgente racconto della devastazione di una regione. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio, scrivono Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldisu “L’Espresso”. Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all'anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito... Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l'acqua e l'aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell'emergenza ha poi legalizzato questo inferno. Gaetano Vassallo è stato l'inventore del traffico: l'imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell'impero di Gomorra. I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi. La rete di protezione. Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell'Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi. Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell'ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile. Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile? "Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l'architetto Bovier del Commissariato di governo e l'ingegner Avallone dell'Arpac (l'agenzia regionale dell'ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L'ingegner Avallone era praticamente 'stipendiato' con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti". Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell'ordine 'a disposizione' e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell'ultima leva politica alle società dell'immondizia. L'età dell'oro. Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l'uomo che assieme a Francesco 'Sandokan' Schiavone domina il clan dei casalesi. All'inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C'era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi. I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C'è l'avvocato Cipriano Chianese. C'è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa". Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell'oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie". Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno. La banalità del male. Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all'infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l'esatta posizione dell'invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi 'buchi' semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi. L'aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all'immondizia di Napoli città. All'imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave.  "I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi 'sistemata', anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell'acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola". L'import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l'asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell'affare, a partire dai Mallardo.  "Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l'uso dei nostri timbri, in modo da 'coprire' e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell'Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall'Acna furono gestiti dall'avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo".  Un'altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta. Il patto con la politica. Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. È lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici. Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall'onorevole Nicola Cosentino e anche l'onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest'ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto". Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell'ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni '80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei 'nostri' candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio 'lo zio' a far arrivare questo messaggio". Lo 'zio', spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all'ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L'elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l'avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all'Economia. "Faccio presente che sono tesserato 'Forza Italia' e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L'ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l'elezione in Parlamento".  Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di 'Sandokan' Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte 'a monte' dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell'affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me". Vassallo non se la prende. È abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un'emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive

 Andrea Signini su “Rinascita”.

“IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

Nomine, indagato Luigi de Magistris. Inchiesta sulla scelta del comandante della polizia municipale Luigi Acanfora. I pm ipotizzano l'abuso d'ufficio. Il sindaco: designato un ufficiale di valore, scrivono Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia su “L’Espresso”. Dopo l’inchiesta sulla “Coppa America” e quella sulle buche stradali, il sindaco di Napoli inciampa in un altro ostacolo lungo il percorso della rivoluzione arancione. Luigi de Magistris è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio dalla Procura di Napoli. Secondo i pm avrebbe favorito l'amico Luigi Acanfora, di cui è stato testimone di nozze, nella nomina a comandante dei vigili urbani. Acanfora è tenente colonnello della Guardia di Finanza, ma non avrebbe i titoli previsti dalla legge per ricoprire l'incarico: il suo grado non è equiparato alla qualifica da da dirigente e quindi non ha un'esperienza in funzione dirigenziale. Su questo si incentra l'ipotesi d'accusa della magistratura partenopea. La nuova inchiesta riapre il dibattito sui criteri adottati dal primo cittadino nella scelta dei vertici dell'amministrazione comunale. Criteri, in questa vicenda, che sarebbero improntati sul “vincolo amicale” in assenza della qualifica prevista per questo ruolo. La guida del terzo corpo di polizia municipale d'Italia è rimasta vacante per oltre un anno fino alla decisione di de Magistris, che ha designato Acanfora come nuovo comandante. Nomina che viene finalmente formalizzata nel dicembre 2013 dopo ripetuti annunci, ma in via sperimentale. L'occasione per Acanfora di presentarsi ai caschi bianchi promettendo: «Cercherò di meritare la vostra stima tutti giorni». Nel giro di due mesi però è arrivato un nuovo rinvio procedurale. La nomina è stata ritirata a inizio febbraio, in seguito alla bocciatura del piano di riequilibrio delle finanze comunali da parte della Corte dei Conti. Una sospensione, di fatto, mentre il sindaco ha confermato la sua decisione: «La casella per ora non sarà coperta, ma il prescelto è il colonnello Acanfora. Per il momento non è stato possibile procedere alla nomina, per i prossimi mesi la sede di comando della polizia sarà vacante». Adesso nella vicenda irrompe l'iniziativa della procura. L'indagine è nata dall'esposto presentato dal generale Luigi Sementa, numero uno della polizia municipale dal 2008 fino al luglio 2012, quando il suo contratto è scaduto e per ragioni legate al patto di stabilità non rinnovato. L'ufficiale non ha accettato l'esclusione dal vertice e il suo rapporto con il sindaco si è incrinato, con un duro scambio di accuse. Dopo l'indicazione di Acanfora, a metà dicembre, il generale Sementa ha deciso di rivolgersi ai magistrati affidandosi allo studio legale Coronella-Longhi. In buona sostanza, secondo l'ex comandante della polizia municipale, la nomina di Acanfora sarebbe avvenuta senza comparazione “dei curricula dei candidati estranei all'amministrazioni, pure regolarmente pervenuti”. Adesso i pm guidati dal procuratore Giovanni Colangelo hanno deciso di esaminare tutto l'iter. Dal rispetto dei requisiti di legge, che prevedono la nomina di un dirigente mentre – come si legge nell'esposto - secondo l'ordinamento militare “un soggetto munito del grado di Tenente colonnello non può essere equiparato ad un dirigente”. Fino al peso dei rapporti personali tra de Magistris e il nuovo comandante: il sindaco è, infatti, testimone di nozze di Acanfora e amico di vecchia data dai tempi dell'impegno del sindaco come pubblico ministero in Calabria. Il sindaco ha respinto le accuse con determinazione: «Il dottor Acanfora, qualora diventasse comandante della polizia municipale come io spero, proviene dalla Guardia di Finanza e, insieme a me, ha portato avanti indagini contro le ecomafie, la corruzione e le massonerie deviate. Certo, lo dico con ironia soprattutto dopo aver letto i giornali, ho avuto il torto di farlo conoscere ad un magistrato di Catanzaro con cui, poi, si è sposato».

Camorra e Pd, tante sorprese nell'inchiesta. Molte anomalie nei seggi di Secondigliano sui voti per Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri alle primarie, scrive Panorama. Paghi uno, prendi due. A Secondigliano, nel 2011, il clan Lo Russo aveva messo i saldi: per 50 euro, vendeva voti per l’abbinata primarie-amministrative. Pacchetto "deluxe", tutto compreso. L’inchiesta della Dda sulle consultazioni di partito per la scelta del candidato sindaco pd sta per essere chiusa: dalle 30 utenze sotto controllo è venuto fuori di tutto. "Prepariamoci ché a Napoli succederà il casino" si lascia scappare un faccendiere al cellulare intercettato mentre discute di incarichi e poltrone. Le anomalie nei seggi ad alto rischio riguardano due partecipanti in particolare: Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri. Il primo è un europarlamentare, il secondo invece è stato sottosegretario agli Esteri ed è l’uomo politico campano più vicino al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Non sono indagati né accusati di alcunché, i due. Ma i carabinieri hanno lavorato soprattutto sui loro risultati elettorali e sui loro "portatori d’acqua". Intanto, da poche settimane anche la Procura antimafia di Salerno ha aperto un fascicolo sulle consultazioni "democrat". C’è da scoprire perché, nell’appartamento di un imprenditore edile sospettato di amicizie coi boss dell’agro nocerino-sarnese, siano state trovate durante una perquisizione decine e decine di tessere in bianco, firmate dal segretario Pier Luigi Bersani per la campagna 2012, ma non appartenenti al "pacchetto" numerato che la direzione nazionale aveva consegnato alla federazione provinciale. Da mesi, accuse e dossier avvelenano l’aria nel Pd: il voto per le preselezioni del novembre scorso (97 per cento a Salerno città per Matteo Renzi) è stato annullato dalla commissione di garanzia, e pure la tornata elettorale di due domeniche fa per la segreteria regionale che ha visto trionfare la renziana Assunta Tartaglione (fermatasi all’89 per cento nel capoluogo) finirà entro breve in direzione nazionale. Il deputato lettiano Guglielmo Vaccaro, tra i primi a denunciare brogli e movimenti sospetti attorno alle urne, è già stato convocato dal pm Vincenzo Montemurro. E siamo solo all’inizio.

Intervista esclusiva all'altro Saviano: "La lotta alla mafia non ha colore". Roberto Maroni? "Contro la mafia è uno dei migliori ministri dell’Interno". Il centrosinistra? "In Campania mi ritiene un nemico". A sorpresa, lo scrittore anticamorra spiega: "La mia non è una lotta di parte", scrive di Pietrangelo Buttafuoco su “Panorama”. Perfino la bomba. Una stupida bomba anarchica, fortunatamente non esplosa, all’Università Bocconi . E un clima che volge al peggio. Con un premier sporcato dal sangue , un matto in mezzo e l’Italia che ancora una volta si divide: i "cattivi " al potere e i "buoni" nella malinconia narcisista. Panorama incontra un Roberto Saviano sinceramente scosso di averle tutte le ragioni per raddrizzare le gambe ai cani, ma di non poterlo fare.  per tutto quello che accade in questo finale d’anno intinto nell’odio. La responsabilità della parola è forte: la sua lo è per la diffusione che ha raggiunto. E questa conversazione con l’autore di Gomorra fa seguito a un’intervista di Panorama a Roberto Maroni , il ministro dell’Interno che ha fatto quartiere a Caserta, giusto per imporre la presenza dello Stato in quella che fino a ieri era terra di nessuno. O ancora oggi? La parola a Saviano.

Maroni ha fatto la sua recensione a Gomorra nel modo più lusinghiero: scatenando il fuoco contro la camorra. Cos’altro resta da fare per far sì che il suo libro diventi inattuale?

«Maroni ha il merito di avere iniziato un’azione indubbiamente più forte di quanto sia stato fatto in precedenza. E sul fronte antimafia è uno dei migliori ministri degli Interni di sempre. Mi riferisco in primo luogo al Casertano, finora quasi ignorato dall’intervento statale centrale. Dico però che è solo l’inizio, perché nel Casertano c’è ancora molto da fare. I due latitanti più importanti sono ancora liberi, Michele Zagaria e Antonio Iovine; aziende legate alle organizzazioni continuano a fare affari; il ciclo del cemento e dei rifiuti è ancora nelle loro mani. Basta parlare con i responsabili della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, e non solo. Il lavoro di Maroni è stato ed è fondamentale, però non pensiamo neanche lontanamente che si sia sconfitta la camorra. È un inizio, insomma, ma non basta. Il problema è un altro. Questo governo agisce, e spesso con successo, soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti. Potere mostrare i camorristi e i mafiosi arrestati diviene prova dell’efficacia della lotta alla mafia. Ma questo governo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica.»

Ma i sequestri non ci sono?

«Sì, certo, i sequestri di beni ci sono, però i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. E poi i sequestri spesso vengono sbandierati due tre volte nella cronaca, quando invece sono parti di una stessa operazione.»

Cioè che cosa accade?

«Prima i beni vengono congelati, poi viene fatta la richiesta di sequestro, e alla fine il sequestro viene effettuato. Questi tre passaggi generano tre notizie, facendo spesso sembrare che le azioni contro l’impero economico sono state tre anziché una. Inoltre la parte maggiore dei beni in Campania e in Calabria non è realmente riutilizzata. Su questo so che Maroni sta lavorando. E spero nella sua efficienza, perché per ogni bene non assegnato, e ce ne sono decine e decine, il simbolo mafioso si va affermando: come dire "ecco che cosa fa lo Stato, ci porta via e lascia tutto in rovina". Le organizzazioni vogliono questo, infatti distruggono spesso i beni.»

Magari il ministro Maroni un suo consiglio potrebbe accettarlo, no?

«Allora: un po’ di idee da condividere con Maroni le avrei. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo rimettere all’asta i beni dei mafiosi. Perché li acquisterebbero loro, di nuovo, o quantomeno tornerebbero in loro proprietà. Lo scudo fiscale, per esempio, fa rientrare capitali con origine illecita o sospetta in Italia e per le mafie è un favore. Questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia, non solo la mia. Bisognava fare altro, intervenire altrove sul piano legislativo.»

Per esempio?

«Bisogna cominciare a mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata; togliere ai mafiosi il rito abbreviato, inserito con la menzogna di velocizzare i processi. Non è così, basta seguire la prassi giudiziaria e capirlo. Mi spiego meglio. Nei procedimenti contro la mafia, il rito abbreviato complica tutto. Se su 100 imputati 50 lo scelgono e gli altri no, quando si va in udienza per questi ultimi bisogna riesaminare la posizione degli altri già giudicati e risentire tutti i testimoni. Non vi sarebbe alcun risparmio di tempo. Ci vogliono pene adeguate e nessun beneficio di legge per i reati di mafia.»

La destra, lei dice, ha tradito i valori antimafia. Ma come si spiega che proprio questo governo, presieduto dal "presunto mafioso" Silvio Berlusconi, abbia fatto più di ogni altro esecutivo contro la criminalità organizzata?

«Ho sempre fatto riferimento alla tradizione che fu della destra antimafia. Paolo Borsellino si riconosceva in questa tradizione. E spero e credo che questa tradizione importante sia ancora viva nella base dei militanti, soprattutto nel Sud Italia. Attenti, però: non è soltanto guardando ai numeri o a determinate scelte che si possono stabilire il merito e l’impegno complessivo di un governo. I governi spesso sono costretti ad agire contro le mafie quando queste divengono troppo pericolose per la vita del Paese. Ricordo che Giovanni Falcone fu chiamato da Claudio Martelli a costruire quella che poi sarebbe stata la superprocura antimafia, e questo avveniva durante un governo Andreotti. In un momento in cui ci furono, solo per fare qualche esempio, prima l’uccisione di Libero Grassi e poi, nel marzo 1992, quella di Salvo Lima. E poi c’è un’altra cosa molto semplice da dire, sempre a partire da questo esempio. Ricordo la lezione di Aldo Moro quando disse: "Lo Stato non è un monolite che va verso un’unica direzione". Questo vale pure per i governi: valeva allora per il ministro della Giustizia Martelli, vale oggi per il ministro dell’Interno Maroni. Dopodiché non tutti gli arresti e i sequestri sono veramente importanti. Molti di questi arrestati venivano ricercati da anni, persino da decenni. Il contrasto antimafia vive anche, e spesso principalmente, di forza propria. Ovvero della continuità del lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, che copre intere legislature. Ovvio che poi qualsiasi governo in carica si fregi del successo ottenuto. Ma quel risultato è il frutto di sforzi che giungono da ben più lontano, indipendenti dalla politica.»

Questo dunque non è un governo che mette i mafiosi in trappola?

«Intendo dire che non è questo un governo con la priorità antimafia, tutt’altro. Nonostante gli sforzi di Maroni. I problemi stanno altrove, in altri disegni legislativi di cui non è così immediato vedere il nesso con la criminalità organizzata. Ma che portano con sé rischi enormi.»

Quali rischi?

«Per esempio quello che riguarda la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diverrebbe talmente difficile poterle fare, e ancor più poterle proseguire per un tempo adeguato a ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, ossia rallentata. In più si rischia di privare gli inquirenti dell’unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno. Se i magistrati si trovano davanti a grandi limitazioni nell’uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppo contro chi possiede nel proprio armamentario ogni dispositivo tecnologico e sofisticato di cui è in grado di usufruire.»

Giusto, ma poi le intercettazioni servono solo a far uscire sui giornali gli sms di Anna Falchi con Stefano Ricucci, stiamo freschi...

«Comunque, andiamo avanti. L’altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così, fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici, va a finire che spesso un boss si fa 5 anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul "processo breve" cambia, ma solo in peggio.»

Quindi che cosa bisognerebbe fare, a suo avviso?

«Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena dev’essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo Stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento.»

Una domanda sottovoce: Berlusconi è colluso con la criminalità?

«Rispondo a voce normalissima. Ci sono state inchieste e processi che hanno fatto il loro corso. E spero che potrà essere così ancora adesso. Esistono il diritto, le procedure, mille norme precise che consentono di arrivare a una verità attendibile oppure a stabilire che gli elementi non sono sufficienti per potersi pronunciare. E chiunque voglia farsi un’idea seria e autonoma non deve che fare lo sforzo di andarsi a studiare le carte processuali: tutte. Di una parte e dell’altra.»

Torniamo a bomba: perché quando è un governo di centrosinistra a condurre la guerra alla mafia gli si riconoscono tutti i meriti, mentre quando lo fa un governo di destra si fanno tanti distinguo, del tipo: è merito della polizia e della magistratura?

«Non sono certo io a operare questo genere di distinguo. Il centrosinistra ha responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali. Le due regioni con più comuni sciolti per mafia sono Campania e Calabria. E chi le ha amministrate negli ultimi 12 anni? Il centrosinistra. Ma io questa cosa l’ho detta e ridetta, l’ho fatta presente in vari articoli e interventi. E per questo mi sono meritato la fama di essere uno che, per interesse personale, infanga la sua terra. Quanto mi ha attaccato il centrosinistra campano, che ancora oggi mi considera un nemico! Solo pochi, pochissimi mi sono stati vicini.»

Ma una vittoria sulla camorra, ottenuta dalla destra come dalla sinistra, oggi è più a portata di mano oppure no?

«Prima di parlare di vittoria la invito ad andare a vedere con i suoi occhi. Provi ad andare sulla Napoli-Caserta e veda quante colonne di fumo s’innalzano. Decine e decine di roghi ogni giorno, gestiti dai clan testimoniati nel sito internet laterradeifuochi.it . Maroni è l’unico che potrebbe fare qualcosa.»

Lei intende dire che ci sono camorristi conclamati in libertà?

«Spesso capita che lo stesso mafioso in dieci anni venga arrestato anche cinque, sei volte di seguito, e sempre per reati gravissimi. È stata una delle conseguenze della possibilità di patteggiamento in appello, che per fortuna l’attuale governo ha abrogato con il cosiddetto pacchetto sicurezza.»

Con quale risultato?

«In pratica, prima succedeva che, trovando un accordo fra avvocato e pubblico ministero, per il mafioso diventava assai più conveniente andare in carcere e uscirne abbastanza presto, piuttosto che scontare una pena lunga: quella che spesso portava il detenuto a collaborare, una condizione preliminare per poter smontare il meccanismo dei clan. Sulla base dei riscontri oggettivi che le dichiarazioni consentono di trovare, e non (come si crede o si vuole far credere) sulla base delle singole dichiarazioni. Comunque il divieto del patteggiamento in appello per i reati di mafia è stato un passo avanti. Purtroppo però sono stati fatti contemporaneamente altri passi legislativi che rendono assai più debole la lotta alla mafia: dei passi indietro.»

Ma perché nei giornali c’era sempre tanto pudore nel raccontare un eroe come Paolo Borsellino, fino al punto di edulcorarne l’adesione al Msi per farla diventare una generica "simpatia monarchica "? Lei sa che Beppe Alfano, un giornalista siciliano ammazzato dalla mafia , era un militante di destra? Perché si perpetua questa idea infame che solo la sinistra sia vergine e pura, mentre la destra affareggia con i mafiosi?

«È un errore far diventare la battaglia antimafia una battaglia di parte. Bisogna uscire dal luogo comune. Credo lei sappia benissimo che io ho sempre detto, ribadito, sottolineato l’impegno di tanti uomini della destra nella lotta alla mafia. Non solo uomini come Borsellino, ma anche militanti comuni. La lotta alla mafia non è stata e non dev’essere né apparire mai appannaggio di una sola parte politica. Anche perché le mafie non guardano a destra o sinistra, ma soltanto al proprio interesse e all’avvicinabilità dei rappresentanti politici, a qualsiasi livello essi si trovino. La politica collusa non ha colore. In ogni caso, in questo momento moltissimi politici di centrodestra sono coinvolti in inchieste per concorso in associazione mafiosa.»

Lei parla del famoso e contestato "accrocco " tra i due articoli del Codice penale: il 110 e il 416 bis ...

«Sì. E qui vale la stessa cosa che per la sinistra: se la politica vuole dimostrare di fare sul serio, nella sua volontà di lotta alla mafia, deve fare lavorare la giustizia con serenità. Ma questo non è tutto, secondo me. Dovrebbe, a prescindere dagli iter giudiziari, assumersi anche il problema di chi sceglie come proprio rappresentante. Perché proprio questo rientra nei compiti di una politica che decide di agire e di farsi carico attivamente dei problemi del Paese. O, come ho detto tante volte: dovrebbero essere anche gli elettori, i cittadini, a esigere che i candidati della parte che scelgono diano piene garanzie di trasparenza in questo senso.»

Perché lei, che non è di sinistra né di destra, passa come un "sincero democratico ", al punto di fare da testimonial per una somarata quale la "difesa della Costituzione"? Lei non è un impiegato della fureria conformista: perché non le lascia fare a Fabio Fazio , queste sparate?

«Di Fabio Fazio dico soltanto che gli sono amico e quindi con lui farei volentieri ciò che lei definisce "sparate". Non mi sono mai scelto gli amici per conformismo. Come scrittore, mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt... E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore.»

Questa è bella. E perché avrebbe dovuto considerarla inferiore?

«Non dica così, altrimenti certi casalesi del politicamente corretto chissà cosa credono. Il barone parlava di "ceto dello spirito" e lei è pure un bello guaglione...Come scrittore è lì che mi sono formato, ma questo non significa che oggi mi senta in contraddizione se difendo la Costituzione. Non credo che la Costituzione italiana oggi sia di sinistra o di destra. Mi sembra semplicemente una base per garantire una convivenza equa a tutti i cittadini, per conservare lo stato di diritto che è una condizione indispensabile anche per la lotta alle mafie. E credo pure che il suo richiamo all’unità di questo Paese sia qualcosa d’importante. Personalmente, terrei che continuasse a esistere un paese di nome Italia, e penso che ci terrebbe pure Gabriele D’Annunzio. Non dimentichiamoci che non sono certo le organizzazioni criminali, italiane o straniere, a subire in negativo eventuali riassetti federalistici. So che a lei la parola democrazia fa venire l’orticaria, ma per ora è anche il meglio che abbiamo prodotto.»

A ogni modo: non rischia di essere confuso con un firmaiolo d’appelli? Forse ai tempi di Luigi Calabresi le avrebbero chiesto di firmare il famoso appello...

«No, non sono un firmaiolo. Credo che l’appello di cui mi sono fatto promotore fosse un chiaro invito a ripensare a un certo progetto. Era un invito indirizzato a Berlusconi, non lanciato contro il presidente del Consiglio. Mi spiace doverlo ribadire un’altra volta. Non ho mai inteso la mia lotta come una lotta di parte. Non avrei mai scritto quell’appello, se non fossi convinto che il suo contenuto rappresenta un interesse comune che va al di là degli schieramenti politici.»

Però, visto il clima...

«Ecco: proprio visto il clima, non posso che correre il rischio di essere confuso con i firmaioli d’appello. Non temo di schierarmi su una determinata questione, se è questo ciò che in un dato momento la coerenza con le mie idee esige. Ma, proprio per rispondere alla sua domanda provocatoria: io oggi non firmerei nulla che possa essere visto come una delegittimazione dei poteri dello Stato. Per esigere un chiarimento di chi invece potrebbe averne abusato, esistono altri modi, secondo me migliori e più adeguati, a partire dalla stessa informazione, quando è libera e seria.»

A proposito, perché in tv lei va solo dai tipi come Fazio o dai soliti "compagnucci "? E mai, proprio mai, da chi canta fuori dal coro? Quelli che cantano fuori dal coro perché sa bene che ci sono. Ricorda "Otto e mezzo"?

«Con Che tempo che fa si è instaurato un rapporto di ottima collaborazione, che mi ha consentito di fare una puntata difficile come l’ultimo speciale, dove parlando di libri abbiamo battuto X Factor per numero di spettatori. E questo è merito della loro libertà e capacità di credere in progetti che in televisione sono considerati impossibili e perdenti, e che loro rendono possibili e vincenti. Fazio è stato il primo ad avermi permesso in tv, in prima serata, di parlare dei regimi totalitari comunisti: mi dica chi altro l’ha fatto, al di fuori dei documentari. Prova di reale libertà sia da quelli che lei chiama conformismi, sia dai dettami di una televisione interessata solo all’audience facile. In tv sono andato da Enrico Mentana , e fu una delle puntate in assoluto più viste in Mediaset...»

Altro che. E i ragazzi di Casa Pound, il centro sociale di destra, fecero la ola per la sua chiusa dedicata al poeta.

«... e sono stato anche da Daria Bignardi, che mi invitò prima di tutti. Cerco di non fare troppe uscite perché temo di stancare. Però conto di andare in molte trasmissioni che mi piacciono, e dove invece non sono ancora stato. Ma anche in alcuni tg non ci metterei piede: non perché hanno direttori con certe idee politiche, no; solo perché ottundono, coprono, non lasciano spazio al racconto della realtà, fanno il lavoro di ufficio stampa governativo. Perché fanno pessimo giornalismo, in breve. Non perché non condivida le loro idee. Tutt’altro. La qualità prima di tutto.»

Però i conformisti di sinistra non le perdonerebbero una "cantata stonata". Sono peggio di certi casalesi, loro: sono vendicativi. Pensi se solo lei dicesse: è vero, questo è il governo che più di tutti ha fatto contro la criminalità organizzata. Che cosa accadrebbe?

«Lo direi, se fosse vero, e non avrei alcun problema. Ho già raccontato in maniera articolata come la penso. E ho pure ricordato quanto poco rispetto ho ottenuto per quello che lei chiama conformismo di sinistra, continuando a denunciare il malgoverno e la collusione in Campania e pure in Calabria. Devo forse ricordare ancora l’ostilità con la quale sto pagando queste mie ripetute prese di posizione? Devo ricordare che in Campania sono per questo odiato da quasi tutti?»

Una delle sciabolate più efficaci di Saviano fu quella di abituare tutti noi del Sud a uno scandalo: e cioè che non è vero che chi resta sia uno sfigato. Il Sole 24 Ore sta per pubblicare l’elenco delle città italiane e le nostre due saranno messe in coda, mentre Catania torna la Milano del Sud. Per le mostre di Lucio Fontana e di Alberto Burri (quello della copertina di "La Bellezza e l’Inferno", il suo ultimo libro), per esempio. Ricorda che cosa ha detto Maroni a Panorama ? Che un imprenditore suo compaesano gli ha detto: "Finalmente posso ricominciare a lavorare a casa mia".

«Magari è così a Catania, ma a Caserta proprio no. Caserta resta uno dei luoghi più corrotti d’Italia. È difficilissimo anche soltanto essere assunti senza una protezione, fosse pure per fare il cameriere per un weekend. Il Sud vive una situazione difficilissima, e le spinte del Nord a volersi occupare solo di se stesso, per non parlare di quelle più chiaramente razziste, non sono certo d’aiuto. Se passa l’idea che tutto ciò che è buono e produttivo sta a Nord, e che basta allontanare la parte malata perché la parte sana sia salva, è finita. Ed è finita, purtroppo, non solo la lotta per recuperare il Meridione, ma perché il Nord è terra d’investimenti e d’infiltrazioni enormi, che ormai c’entrano pochissimo con le residenze forzate o cose del genere.»

Lei ritiene davvero che oggi la rete affaristico- mafiosa sia così estesa?

«È ridicolo pensare che organizzazioni presenti in tutto il mondo non continuino a occupare massicciamente Milano o l’Emilia-Romagna. Anzi, ogni frazionamento va solo a favore della criminalità globalizzata. A Sud c’è un potenziale enorme. Liberiamolo.»

Chissà, forse solo i ricchi potranno salvare il Sud. Perché alla fine il crimine "non conviene".

«Lo dice sempre Andrea Vecchio, il costruttore siciliano che non paga il pizzo al prezzo di vedersi saltare sempre i cantieri. Lei che cosa ne pensa? Purtroppo il crimine paga ancora. Paga persino a chi, semplicemente, si appoggia alla forza delle organizzazioni criminali. Paga agli imprenditori "puliti" che si avvantaggiano della loro liquidità, della loro capacità di ottenere monopoli, di abbassare i costi, di fornire i servizi "chiavi in mano ". Non possiamo contare sulle scelte virtuose di chi dispone dei mezzi economici per potersele permettere. Dobbiamo agire in modo che davvero divenga più conveniente fare impresa lontano da ogni collusione. Essere antimafioso deve portare un profitto. Soltanto così sconfiggeremo le alleanze trasversali con i clan. Quindi no, non saranno i ricchi a salvare il Sud; ma la Confindustria può fare più di un esercito di volontari, missionari e associazioni. Questo è certo.»

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA……

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali.

Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.

Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".

A Radio Capital dichiara (14 luglio):

"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".

Ok, e le dimissioni?

"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".

All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):

"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".

Era un "intervento politico più articolato":

"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".

E non accusatelo di razzismo:

"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".

Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.

"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:

"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.

A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":

"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".

Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":

"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".

Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.

Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?

"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".

Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?

"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".

Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?

"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".

Si sente abbandonata anche dal Pd?

"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".

A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.

L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.

Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa.   «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero.  Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool  era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è  Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è  Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è  Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.

Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.

Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato.  Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.

Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro -  di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della  querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che  il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.

La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.

La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni,  con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.

Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9  cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).

In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.

La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali  innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.

In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.

Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività.  Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.

In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza".  La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.

In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.

"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".

Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?

"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".

Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?

"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".

Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.

"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".

Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?

"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".

Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?

"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".

Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà  -  ripeteva Carminati a Riccardo Brugia  -  ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker."Camorra capitale" non si accontenta delle periferie. Roma è grande, e le opportunità sono ovunque. Ponte Milvio diventa così un nuovo crocevia di affari, un presidio strategico allestito intorno al Concept Garage, l'autosalone dove venivano a rifornirsi Massimo Carminati, Giovanni De Carlo, e tanti altri della banda. A gestirlo è Jacopo Sanvoisin, classe '72, una formazione nelle scuole private di Roma Nord e un debole per i "cattivi ragazzi". In uno degli allegati all'informativa di Mafia Capitale, i carabinieri del Ros definiscono Sanvoisin "vicino a soggetti di sicura caratura criminale quali Raffaele Gerbi, inteso Alan, e Angelo Senese", il figlio di Vincenzo Senese e nipote del boss Michele. Dalle indagini Sanvoisin risulta abituale utilizzatore dell'utenza telefonica intestata alla società Professional & Partners Group, all'interno della quale lavorano proprio Raffaele Gerbi e Angelo Senese che, pur essendo solo un dipendente, percepisce uno stipendio pari al doppio di quello previsto per i proprietari. Un privilegio riservato solo al nipote di un boss.

Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro. 

'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo.  Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e  già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.

La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni  che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo  Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo  alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito,  me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

Patria-ordine-legge: lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Ogni anno, dopo il Natale, Capodanno e la Befana, si reitera la liturgia pagana dell’osanna all’ordine della Magistratura, con la liturgia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.

LITURGIA APPARISCENTE

Da Wikipedia si legge. L'Anno giudiziario, nell'ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all'anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell'attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell'anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d'appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L'inizio dell'Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d'ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell'ordine giudiziario circa lo stato dell'amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l'inaugurazione dell'Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.

In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.

LITURGIA AUTOREFERENZIALE

In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale "Alfredo Marsico" di Lagonegro (Potenza) "hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario" in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, "raccogliendo l'invito dell'Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia".

Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell'anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.

Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta", forma proverbiale in italiano insieme all'equivalente "Chi si scusa, si accusa".

Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.

E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.

Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.

LITURGIA AUTORITARIA

C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».

Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.

Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.

Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». 

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?  

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.  

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile». 

Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".

PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!

Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio

2004: 219.146

2005: 189.588

2006: 159.703

2007: 164.115

2008: 154.671

2009: 158.335

2010: 141.851

2011: 128.891

2012: 113.057

2013: 123.078

Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". 

«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura - dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».

Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. 

I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su  “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.

«Quella riforma mai». Lo stop dei magistrati, scrive “Il Garantista”. Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni. Palermo, le scorte e i giudici scoperti. Prevedibile. Ma non privo di incidenti. C’è n’è uno spiacevole a Palermo, dove il procuratore generale facente funzioni Ivan Marino esclama «pausa caffè», s’incammina sul tappeto rosso, inciampa, batte la testa e riprende la cerimonia con un cerottone sul volto. Dopodiché, nella sua relazione, si concede un passaggio destinato ad alimentare polemiche. Alla sala gremita in cui spicca l’assenza dei pm della “Trattativa” (marcano visita tutti, dall’aggiunto Vittorio Teresi ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) Marino dice: «Non si può sottacere che la indubitabile, contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente», ovvero Di Matteo, «con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti prima, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi». Come a dire: per proteggerne uno, particolarmente in vista, lasciano alla mer-cè di ritorsioni e proiettili noialtri. Obiezioni che ricordano tanto quelle rivolte a Giovanni Falcone venticinque anni fa. E’ proprio d’altronde Marino a dirlo: «Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80, allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’ufficio Istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante». «Il problema non siamo noi» Si avverte un certo nervosismo, tra le toghe. Contro quelle palermitane arriva la stoccata del presidente della corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, secondo il quale «la dura prova dell’audizione al Quirinale » poteva essere risparmiata «al Capo dello stato, alla magistratura e alla Repubblica» (un ampio estratto della relazione di Canzio è pubblicato nella pagina a fianco, ndr). Ma a dare l’dea della sindrome da accerchiamento di giudici e pm sono soprattutto le polemiche montate dall’Associazione magistrati. Il sindacato delle toghe organizza conferenze stampa per criticare la riforma della Giustizia. A Milano con il segretario Rodolfo Sabelli e a Bari con il presidente Maurizio Carbone, che sbotta: «Respingiamo fortemente questa idea demagogica secondo cui il problema della giustizia siamo noi magistrati e non chi intasca le tangenti». E ancora: «Vediamo riforme banalizzate con slogan, che ci mettono al centro del problema attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». A Milano si registrano anche le critiche durissime dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, indirizzate a Renzi e anche al nemico storico, Silvio Berlusconi: intanto liquida le riforme come un «pacchetto» che è «ben misera cosa rispetto a i progetti elaborati prima: non poche norme peccano di distonia, cioè sono irragionevoli ». Prima fra tutte la cosiddetta salva-Berlusconi che non rispetterebbe «quei criteri di progressività in materia tributaria sanciti dalla stessa Costituzione. Inoltre da questo pacchetto è stato escluso il reato di falso in bilancio». In realtà è stato da poco riproposto al Senato nel ddl Grasso. In sala, il viceministro Costa appare perplesso. Sempre nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo si assiste alla sfilata del procuratore capo Bruti Liberati con tutti i suoi aggiunti, escluso Robledo che non si fa vedere. Nel coro di rivendicazioni e critiche ce n’è qualcuna non scontata come quella del pg di Torino Marcello Maddalena, che boccia l’idea di una «nuova Procura nazionale antiterrorismo». Il presidente della Corte d’Appello di Roma Marini accenna a una generica commistione tra malavita e ultras, con il ripescaggio del caso di Genny ’a carogna. Lo dice in un’aula disertata dalla Camera penale: «L’inaugurazione dell’anno giudiziario, ancor più nelle sedi locali, è un rito anacronistico, asimmetrico e vuoto», dice il presidente Francesco Tagliaferri. Vuoto o meno che sia, di sicuro c’è molto nervosismo.

Giustizia, scontro aperto tra Renzi e i magistrati, scrive “La Stampa”. Il pg di Torino Maddalena: vuole farci crepare di fatica. Il premier: «Polemiche ridicole, quelle toghe hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». Scontro rovente tra i magistrati e Matteo Renzi nella settimana già calda del Quirinale. Dimenticati i fasti della Merkel, il premier è stato improvvisamente riportato alle vicende di casa nostra dai molteplici attacchi piovuti dai magistrati durante l’inaugurazione 2015 dell’anno giudiziario. Da Torino è partita la bordata più pesante. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». Parole feroci. Renzi, dopo averle lette, in serata si è rivolto amareggiato ai suoi più stretti collaboratori: «Accusarci di voler far “crepare” i magistrati per una settimana di ferie in meno significa che hanno un disegno o più semplicemente che hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». E oggi su Facebook rincara la dose: «Sono contestazioni ridicole. Non vogliamo far “crepare di lavoro” nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo». «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti», rilancia Renzi. Stop quindi ai magistrati «che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo». «E mi dispiace molto - aggiunge il premier - perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far crepare di lavoro”».  Facile prevedere strascichi. Anche perché le critiche piovute dai magistrati durante le cerimonie che si sono svolte in tutta Italia investono svariati aspetti della riforma del governo. A Milano, Laura Bertolè Viale, avvocato generale dello Stato, si scaglia contro il decreto fiscale e la clausola di non punibilità: «Chiamata giornalisticamente anche “licenza a delinquere”, introduce una clausola espressa in termini solo percentuali che crea una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e maggiori dimensioni». A Bari, Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm, è molto critico per la storia delle ferie tagliate: «Respingiamo questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti». A Bologna, il presidente della Corte di Appello, Giuliano Lucentini, parla del pericolo che l’Italia corre se i suoi giudici sono delegittimati: «Pensavo, finito un certo periodo, che le cose potessero cambiare». Il riferimento è ovviamente a Berlusconi. E proprio il sostanziale parallelismo sulla questione giustizia rischia di rinvigorirei critici del premier. 

“Quello di Renzi è un attacco alla categoria, piuttosto agisca per limitare le prescrizioni”. Intervista di Andrea Rossi su  “La Stampa” al procuratore generale di Torino dopo le polemiche all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».

Al di là dei modi, esiste un problema di produttività?

«Le faccio un esempio. La Corte d’Appello di Torino nel 2014 ha esaurito 5735 provvedimenti contro i 4490 del 2013». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».

È questa - la prescrizione - la vera emergenza dunque?

«L’amministrazione della giustizia non può permettersi di lavorare a vuoto, a maggior ragione quando la prescrizione interviene durante l’appello: significa che nelle fasi precedenti giudici, pubblici ministeri, gip, gup e tutto il personale amministrativo hanno lavorato per niente, svolgendo inconsapevolmente il ruolo di Penelope, con la differenza che Penelope lo faceva apposta». 

Esistono soluzioni in grado di arginare il problema?

«I rimedi non mancano: assegnare ai procedimenti criteri di priorità, archiviare i casi minimali e soprattutto, ovviamente, modificare la prescrizione».

Come?  

«Suggerisco due ipotesi. Far decorrere la prescrizione dal momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, perché è in quel frangente che scatta l’interesse della persona (e dello Stato) a risolvere al più presto la sua posizione. In secondo luogo, interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado. In questo modo, tra l’altro, si scoraggerebbero molti imputati dal fare ricorso con la sola speranza di dilatare i tempi per arrivare alla prescrizione».

Il rito stantìo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio. 

2004: 219.146

2005: 189.588

2006: 159.703

2007: 164.115

2008: 154.671

2009: 158.335

2010: 141.851

2011: 128.891

2012: 113.057

2013: 123.078

La magistratura dopo Mani pulite ha iniziato “una parabola discendente”, con la “disaffezione” dei cittadini per le “credenziali mortificanti” che esibisce, come i processi lumaca e il degrado delle carceri, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche le “frequenti tensioni e polemiche” soprattutto tra pubblici ministeri con “forme di protagonismo, cadute di stile e improprie esposizioni mediatiche”. Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e umana dimostrazione di come con la Legge Breganze - che fa avanzare automaticamente le carriere dei magistrati - anche un pm che negli anni Settanta non era noto alle cronache per l’iperattivismo giudiziario (fu requirente nello scandalo Italcasse che grosso modo finì tutto a tarallucci e vino, tranne modeste condanne a Giuseppe Arcaini e soci nel 1989) possa arrivare ai vertici della magistratura, ce l’ha messa tutta per colorire la propria relazione di inizio anno giudiziario tenutasi a Roma nella mattinata di ieri nella consueta aula magna del “Palazzaccio”. Ma certo non ha sottolineato quei dati, come quelli sulle prescrizioni forniti un mese fa dal vice ministro Enrico Costa senza dire niente a nessuno nel governo, che dimostrano come la lentezza dei processi penali e il fatto che un milione e mezzo di loro finiscano in vacca ogni dieci anni è al 74 per cento imputabile al non lavoro dei pm e dei gip, non certo alla “melina” degli avvocati. Così come Santacroce non ha di certo rievocato i dati scoperti dal sito errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi che parlano mai smentiti di un dossier nascosto sugli errori giudiziari in Italia dal 1989 al 2013: 50mila in 25 anni, pari a duemila l’anno. Una percentuale da Terzo Mondo. Sempre ascrivibile agli errori di pm e gip che aprono inchieste su qualsiasi cosa si muova sulla terra ma spesso con risultati disastrosi. Certo, è difficile chiedere all’“oste” di smentire la qualità del vino. E i magistrati ormai sono definiti persino nei saggi dei giornalisti de “L’Espresso” come Stefano Livadiotti come l’“ultra casta”. Ma oramai che il re in toga sia nudo è sotto gli occhi di tutti. I dati di Costa ad esempio sono disarmanti: “Su poco più di un milione e mezzo di casi in dieci anni... i numeri indicano che nell’ultimo decennio i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai gip sono stati 1.134.259: il 73 per cento del totale. A questi si aggiungono le 63.892 sentenze di avvenuta prescrizione emesse dai Gup. La quota restante è spalmata tra Tribunali (209.576), Corti d’appello (131.856), Cassazione (3.293) e Giudici di pace (9.559)”. Se questi dati nelle inaugurazioni degli anni giudiziari vengono tenuti quasi nascosti, o con poco rilievo, ogni dibattito sulla giustizia parte male in termini di onestà intellettuale. Questo grazie anche ai giornalisti che militano nel partito della forca: il convegno in cui Costa distribuì anche la tabella dei dati ministeriali in questione, sebbene trasmesso da Radio radicale, è stato bellamente ignorato dai quotidiani cartacei e anche on-line ha avuto un rilievo pari a zero. Proprio Costa in quell’occasione disse che “oltre il 70% delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Un’anomalia che non può essere ricondotta ad azioni dilatorie della difesa, ma spesso è legata a un dribbling non dichiarato dell’obbligatorietà dell’azione penale che si traduce in una selezione dei casi da prendere in carico”. Parole che ieri non si sono sentite da parte di Santacroce, che ormai aspetta solo di andare in pensione con il massimo dell’anzianità prevista (ex Legge Breganze di cui sopra). Chi oggi vorrebbe abolire l’appello o allungare a dismisura i termini della prescrizione con quale buona fede chiede queste misure e ignora i dati di via Arenula? Va detto che già nel 2007 una ricerca dell’Eurispes commissionata sempre dalle Camere penali allora presiedute da Giuseppe Frigo (la ricerca fu condotta sotto la supervisione di Valerio Spigarelli che poi sarebbe succeduto a Frigo in quella carica) aveva avuto analoghi risultati. Stesso discorso sugli errori giudiziari strettamente legati alla vexata quaestio della mancata responsabilizzazione civile per colpa grave dei magistrati. Sapere che ci sono 2mila errori giudiziari l’anno, che diviso per 365 giorni è come dire che ogni 24 ore sei persone finiscono in carcere innocenti, lascia del tutto indifferenti Anm e quotidiani nazionali che vendono al volgo che i veri problemi dell’Italia sono “la corruzione e l’evasione fiscale”. E che invocano sceriffi e leggi speciali per qualunque cosa e con qualsivoglia pretesto. Con questo dialogo tra sordi che ormai continua da almeno vent’anni quel che è chiaro è che il Paese che ritiene di essere la culla del diritto oggi come oggi rischia di diventarne la bara. E all’estero questo problema viene visto in un’ottica meno moralista e più pragmatica. Cosa che spiega gli investimenti con il contagocce delle imprese straniere in Italia. Più che paura della corruzione c’è il terrore di finire in qualche tritacarne mediatico giudiziario con un pm di provincia in cerca di notorietà per fare carriera. Allora sì che son dolori...

Nuovo anno giudiziario. L'Anm la butta in rissa contro i politici corrotti. IL segretario Anm: "Respingiamo tesi che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". Il ministro Orlando: "La giustizia inefficiente rallenta la crescita", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Come ogni anno l'inaugurazione dell'anno giudiziario fornisce uno spaccato sullo stato di salute della giustizia in Italia. "La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale - afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando - rende quest’ultima sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano. In un Paese come il nostro - ha proseguito Orlando - caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico". Orlando ha poi sottolineato che "questi poteri in termini assoluti, non sono più forti di prima, ma piuttosto è più debole l’organismo che attaccano. La criminalità organizzata - ha detto - non ha più le forme tradizionali e la tradizionale collocazione geografica circoscritta ad alcune regioni del sud Italia. Si è espansa, ha cambiato forme e metodi mimetizzandosi nei contesti in cui si sviluppa. Si confonde e si sovrappone alle reti collusive che avvolgono le pubbliche amministrazioni". Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti", ha detto a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Bari. In una conferenza stampa convocata nell’ambito della mobilitazione permanente contro la riforma della giustizia che prevede la responsabilità civile dei magistrati, Carbone ha parlato di «riforme banalizzate con slogan che ancora una volta hanno messo al centro del problema noi magistrati, attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». I magistrati esprimono "assoluta insoddisfazione". "Le risposte noi con le sentenze e con le indagini le stiamo dando - ha continuato Carbone - siamo primi in Europa per produttività nel settore nella giustizia penale e secondi per smaltimento di cause civili, ma abbiamo il dovere di dire che alcune riforme non sono all’altezza della situazione". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado". E da Milano il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, rincara la dose: "Siamo i primi a volere le riforme ma ci vuole coerenza, agli annunci devono corrispondere i fatti". Sabelli non esita a sottolineare come "il dibattito sulla giustizia è ancora troppo pieno di pregiudizi". I magistrati "non si chiudono in una forma corporativa e non rifuggono dal principio di responsabilità ma l’approccio del governo non è stato sufficientemente meditato". Se il testo sulla responsabilità civile "è stato purificato da aspetti che avrebbero leso il principio di indipendenza della magistratura", restano ancora degli aspetti di "un approccio non attento", in particolare contro "l’eliminazione del filtro di ammissibilità e l’introduzione della categoria del travisamento del fatto e delle prove". Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". ll procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, Marcello Maddalena, si sofferma sulle misure anti-terrorismo di cui si parla da giorni, dopo gli attentati di Parigi. "Più lo Stato possiede dati certi meglio è. Parlo anche di quelli relativi al Dna e alle impronte digitali". E prosegue: "Se questi dati li posseggo correttamente, non capisco perché non li possa utilizzare. Invocare la privacy mi pare del tutto fuori luogo in generale, invocarla poi in questo momento mi sembra privo di ogni ragionevolezza e di ogni senso dello Stato". Il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, dedica un ampio capitolo del suo intervento alla penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia, sottolineando come vi sia, da parte della mafia una "interazione-occupazione". "La forma di penetrazione e la veloce diffusione del potere della ’ndrangheta all’interno dei diversi gangli della società lombarda - ha detto Canzio - può paragonarsi all’opera distruttiva delle metastasi di un cancro". Quanto all'Expo Canzio osserva che lo Stato è vigile. "Nel distretto milanese e in vista di Expo 2015, lo Stato è presente e contrasta con tutte le istituzioni l’urto sopraffattorio della criminalità mafiosa, garantendo - nonostante la denunciata carenza di risorse nel settore giudiziario - la legalità dell’agire e del vivere civile con coerenza e rigore".  Ma l’esercizio della giurisdizione, prosegue Canzio, "non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni, dettate, di volta in volta, da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei diritti e degli interessi in gioco". Poi denuncia il rischio che "dal pensiero corto alla sentenza tweet o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma - si chiede- che ne resterebbe della cultura democratica della giurisdizione?". A margine dell'inaugurazione Canzio commenta la notizia dello smarrimento e danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione (atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma): "Si tratta di un fatto indegno di uno Stato moderno, che non deve succedere". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, sottolinea che "mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà. Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione - dice - sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva". Nella sua relazione il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Antonio Marini, evidenzia che "i procedimenti di prostituzione minorile sono stati ben 190 a fronte dei 35 iscritti nel precedente anno giudiziario, quindi si deve prendere atto di un incremento nelle nuove notizie di reato del 442%". Violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori (stalking). Nel distretto di Roma e Lazio, nel periodo che va dal primo luglio 2013 al 30 giugno 2014, si è registrato un vero e proprio "boom" di reati contro la libertà sessuale.  Per Marini da tempo diversi gruppi criminali hanno scelto Roma e il Lazio per poter mettere in piedi i loro affari, sfruttando così la vastità del territorio, la presenza di tantissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione e immobili. Ed evitano di farsi la guerra per non dare nell’occhio. Nella relazione del procuratore generale c’è un lungo capitolo dedicato ai "gruppi criminali, compresi quelli dediti al narcotraffico», nel mirino dei magistrati della Dda. "Dalle indagini - ha evidenziato Marini - emerge che c’è un patto esplicito per evitare che questi contrasti, che pure ci sono, degenerino in atti criminali eclatanti che rischierebbero di attirare l’attenzione degli inquirenti e dei media. Meglio trovare un compromesso e continuare a fare affari".

Renzi replica ai magistrati: "Italia patria del diritto, non delle ferie". Su Facebook parole dure del premier dopo le inaugurazioni (e le polemiche) dell'anno giudiziario. Risposta a Maddalena: sulle vacanze critiche ridicole, scrive “La Repubblica”. L'Italia "che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far 'crepare di lavoro' nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". E' dura la replica di Matteo Renzi alle polemiche sollevate ieri durante le inaugurazioni dell'anno giudiziario. In particolare in risposta alle parole del procuratore generale di Torino Maddalena. Sono "ridicole" le "contestazioni" di alcuni magistrati contro il taglio delle ferie, dice Renzi su Facebook. Che poi lancia un altro affondo:  "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo. E mi dispiace molto perchè penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo, e lo dico, senza giri di parole, che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia il premier ci vuol far crepare di lavoro". "Noi - chiarisce Renzi - vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale. Per arrivare rapidamente a sentenza, bisogna semplificare, accelerare, eliminare inutili passaggi burocratici, andare come stiamo facendo noi sul processo telematico, così nessuno perde più i faldoni del procedimento come accaduto anche la settimana scorsa". "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta - torna a dire - allo strapotere delle correnti che oggi - accusa - sono più forti in magistratura che non nei partiti". "A chi mi dice 'ma sei matto a dire questa cose? non hai paura delle vendette?' rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici devono sapere che il Governo, nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, è pronto a dare una mano. Noi ci siamo. L'Italia che è la patria del diritto prima che - rimarca - la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far crepare di lavoro nessuno, ma - puntualizza Renzi - vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo".

Renzi: «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Il premier replica alle toghe: «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo», “il Corriere della Sera”. «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi e attacca duramente i magistrati che a loro volta, come nel caso di Torino, avevano contestato alcuni presunti provvedimenti del governo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti» spiega Renzi su Facebook. «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo» scrive ancora Renzi sul celebre social network. «E mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”». «Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali», sottolinea Renzi. «L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi», sottolinea ancora il premier. «A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge ancora su Facebook - devono sapere che il Governo (nel rispetto dell’indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo». La replica dell’Associazione nazionale magistrati alle parole di Renzi non si faceva attendere. «Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%» scrive l’Anm in un post pubblicato su Facebook. Per l’associazione: «Le critiche che vengono dai magistrati sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia: i casi di corruzione clamorosi più recenti e più noti non sono indiscrezioni». L’Anm rileva: «Il Governo trovi le risorse per coprire le oltre 8.000 scoperture nell’organico del personale amministrativo. Accanto alla messa alla prova, alla non punibilità per tenuità del fatto, al processo civile telematico, sono troppe le riforme timide o assenti. Quanto alle correnti, riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell’associazionismo, da sempre respingiamo ogni degenerazione ispirata a logiche di potere. Non si può non trovare di cattivo gusto - conclude il post - il richiamo ai magistrati uccisi. Noi stessi siamo molto cauti nel richiamarci al ricordo dei colleghi caduti per il loro servizio: lo facciamo solo per onorare la loro memoria e il loro sacrificio, non per accreditare la nostra serietà». In serata sul tema è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «Le critiche delle ultime ore al progetto organico di riforma sono ingenerose. Dispiace che l'Anm non colga il passaggio solenne dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per recuperare obiettività».

Napolitano contro i giudici: «Basta protagonismi», scrive Virginia Spada su “Il Garantista”. Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, che ieri è intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici». «Lo Stato di tensione – ha detto – e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura». Il capo dello Stato, che per tutto il mandato non ha mai smesso di criticare le esternazioni dei magistrati, ieri si è sentito in dovere di rincarare la dose e le critiche, dopo le proteste dell’Anm contro la legge sulla corruzione (considerata troppo debole) e soprattutto contro la riforma della giustizia. Se a via Arenula, si chiede ai magistrati di occuparsi delle sentenze e non delle scelte del governo, il Quirinale non è da meno: «Ho ripetutamente richiamato l’esigenza che tutti facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale. La credibilità delle istituzioni e la salvezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno». Al capo dello Stato, con le valigie ormai pronte per lasciare il posto al suo successore, premono le riforme. Tra cui quella della giustizia. Non si tratta di una questione per lui secondaria. Più e più volte ha rilanciato la questione dell’indulto e dell’amnistia, ma dal Parlamento le sue parole non sono state accolte. Ora si aspetta che la macchina-giustizia migliori. «È indubbio – ha continuato davanti al Csm – che ciò cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema della giustizia». Ma per Napolitano questo non può avvenire se i magistrati continuano a sovrapporsi alle scelte che spettano al Parlamento e al governo. L’Associazione nazionale magistrati ha annunciato una mobilitazione in vista dell’inaugurazione anno giudiziario. Ma il messaggio del Quirinale è chiaro e irrevocabile: sono da evitare «i comportamenti impropri e altamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa».

Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l’ennesima inaugurazione dell’anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l’esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa magistratura, oltre che dei singoli magistrati, messa così, la cosa ha dell’incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani – o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c’è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) – ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe – che so? – nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l’unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare – e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione – è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l’occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di “inciampo”) del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad “una parabola discendente”. Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale – che si dice appunto discendente – possa mai sperare di tornare ad “ascendere”. Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite – con Di Pietro in testa – incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti “di sangue,” naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura – il governo – ed una contro- natura – la magistratura – a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l’unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi – in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell’intera vita – viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l’ambaradàn di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l’essenziale. Da qui l’inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent’anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d’umanità. Preoccupati, come dev’essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere.

NAPOLI JIHADISTA.

Napoli capitale della jihad. È la principale centrale europea di documenti falsi: il paradiso per qualunque terrorista islamico voglia colpire sul continente. Non a caso uno degli attentatori di Madrid era stato fermato col clan di Secondigliano. Vogliamo l'esercito, scrive Federica Dato su “L’Intraprendente”. Mentre Roberto Saviano è impegnato a ricordarci che Maurizio Gasparri il 99,99% delle volte farebbe bene a tacere, cosa di cui lo ringraziamo enormemente, a noi vien da chiederci: signori, come la mettiamo con Napoli? Perché il fatto gravissimo a detta dello scrittore è questo tweet: “#VanessaeGreta sesso consenziente con i guerrieri? E noi paghiamo”. Il vicepresidente del Senato ha abboccato a una bufala. È scoraggiante (non da oggi) che ricopra cariche politiche e ahìnoi non è la prima esternazione imbarazzante. L’autore di Gomorra non la manda giù e inizia la sua campagna di sensibilizzazione. Per carità. Eppure siamo come ossessionati da quell’unico pensiero: come la mettiamo con Napoli? Folli, certamente, ma ci fa più specie il fatto che la città di Pulcinella sia una tappa obbligata per il terrorismo islamico, che lì ci sia la principale centrale europea di documenti falsi. Lì, tra il mare e il Vesuvio, i terroristi trovano coperture e dimore. Le inchieste sono firmate dalla magistratura partenopea, che ha collaborato con Digos e Ros. Cosa c’entra l’attentato di Madrid con Secondigliano? Uno degli attentatori era stato fermato «insieme ad alcuni camorristi dei clan proprio poco tempo prima della tragedia. All’epoca accertammo che era in possesso di una patente italiana falsificata che aveva utilizzato per viaggiare tranquillamente dalla Spagna all’Italia». A parlare è Michele Del Prete, magistrato della dda napoletana. Quindi, Gasparri permettendo, come la mettiamo con Napoli? Saremmo un tantino in guerra, la camorra sarebbe una delle cose che maggiormente terrorizza l’Europa, ormai infiltratasi oltre confine (la Germania in tal senso non è messa bene). Poi ti torna alla mente, d’improvviso, quella teoria para-israeliana per cui in «Italia di attentati non ce ne sono ancora stati perché è un Paese troppo comodo, una sorta di albergo-supermarket senza controlli». Te la puoi raccontare per un po’ di mesi che la faccenda non è così. Non tiene, la favola si sgretola sotto i colpi della realtà. L’estremismo islamico avanza, tenta di convertire più occidentali possibili, le armi migliori. Il massacro di Charlie Hebdo è costato 20mila euro. Forse abbiamo finanziato, liberando Vanessa e Greta, circa 500 attentati. David Cameron, che magistralmente ha sottolineato a Papa Francesco che «abbiamo diritto ad offendere le religione» (Dio salvi l’Inghilterra!), ha espresso contrarietà per la linea politica supina di certe nazioni (la nostra in prima fila) di fronte agli islamisti. Non a caso i loro ostaggi li sgozzano, a noi mandano i bigliettini di ringraziamento. Napoli è il regno dell’anarchia e della miseria. È la faccia peggiore dell’Italia, in cui le regole non esistono. Una città in mano alla criminalità organizzata, in cui, per dirla banale, i vigili ti chiedono di non viaggiare in motorino con il casco, ché rischi la pelle sembrando un killer. È normale sembrare un killer. Napoli è una terra di cancro, di rifiuti tossici e tumori, di Stato morto, morti di Stato e uomini stritolati da una divisa. Eroi, quelli. Le mancava solo il sangue dei terroristi. Le mancava la jihad, ora ha anche quella. Come la mettiamo, dunque, con Napoli? Serve l’esercito permanete, serve abbattere fisicamente alcune periferie, palazzi interi, scantinati e i traffici che ci sono dentro. Tutto letteralmente imbottito di esplosivo. Serve imporre la legalità. Con ogni mezzo. Siamo in guerra, Napoli lo è da anni. Napoli è la camorra e va ripulita specie per gli onesti che ci vivono, vessati in ogni modo possibile, abbandonati alla mercé delle belve.

Napoli, la rete jihadista all'ombra del Vesuvio. Porta d'ingresso, base logistica e nascondiglio. Il ruolo di Napoli, e della camorra, nella tela di Isis e al Qaeda. Tra fornitura d'armi, documenti e banconote false, scrive Enzo Ciaccio su “Lettera 43”. In piazza Garibaldi a Napoli, nel cuore della stazione ferroviaria, gli stranieri appaiono più che mai divisi in bande: i cinesi contro i nigeriani, gli algerini contro gli ucraini, gli ivoriani contro i polacchi. La camorra li osserva. E tiene viva “la guerra”, che fa il suo gioco e consente di distrarre le forze dell’ordine impegnandole a sedare risse e schiamazzi, furtarelli e prostitute. Intanto, nell’ombra, gli affari veri prosperano: armi, droga, esplosivi, documenti falsi, mappe per scomparire nel nulla, covi e “consigli” per sfuggire ai controlli. Confessa un residente: «Piazza Garibaldi a Napoli è quasi il luogo ideale per chi di mestiere fa il terrorista e ha bisogno di aiuto». Di Torre del Greco, paesone a due passi da Napoli, è lady Jihad, cioè Maria Giulia Sergio, 27 anni, oggi Fatima Az Zahra, teorica del niqab (il velo islamico), che si è convertita a Maometto e ha seguito il suo compagno nelle fila “rivoluzionarie”. Jacine, invece, era un giovanotto alto e segaligno, la pelle olivastra, i modi garbati. Musulmani e cristiani, nei vicoli alle spalle della Ferrovia dove fungeva da vice imam nella moschea di corso Arnaldo Lucci, ne dicevano un gran bene. Perciò, in molti rimasero sbalorditi quando la Digos - una mattina agli inizi degli Anni 2000 - arrivò in forze alla moschea per arrestare il giovane Jacine con l’accusa di essere un terrorista islamico travestito da religioso, uno che «nelle omelie in arabo incitava alla violenza contro l’Occidente» contando sul fatto che in zona quella sua strana lingua «era conosciuta da pochi». Napoli, crocevia e punto di appoggio per militanti islamici in cerca di obiettivi da colpire: se ne torna a discutere, ora che a Parigi le armi hanno ripreso a uccidere nel nome di Allah. Napoli base logistica. E ponte per raggiungere Milano, Monaco di Baviera, Barcellona, Londra, Parigi, a disposizione di chi arriva dall’Africa e dal Medio Oriente con intenti stragisti. Napoli culla. E rifugio del Male. Ma anche nascondiglio per esuli, criminali, sbandati di ogni etnia. Raccontano in questura: «Qui è la meta ideale per chi intende procurarsi documenti truccati, denaro fasullo, armi clandestine, mappe che illustrano gli itinerari più sicuri per valicare indisturbati le frontiere, o almeno quel poco che ne è rimasto dopo le aperture sancite dal trattato di Schengen». Di episodi sconcertanti, che confermano il ruolo nevralgico di Napoli nella rete planetaria di cui si avvalgono i seguaci di Isis e Al Qaeda, se ne contano a decine. Uno dei più recenti, ermetico ma mica troppo, è dato dai tre libri sulla fede e sull’etica islamica del filosofo turco Huseyin Hilmi Hisik ritrovati abbandonati il 10 gennaio negli Scavi di Pompei, all’interno del Foro civile. Ad accorgersi di quei libri è stato uno dei custodi. I carabinieri stanno tentando di individuare - attraverso l’esame delle telecamere a circuito chiuso - chi li abbia lasciati lì e per quali motivi. Sul piano giudiziario, risultano molteplici le inchieste avviate nel tempo dai magistrati della procura di Napoli. Fino alla seconda metà degli Anni 90, la Campania è stata al centro delle attenzioni da parte dei magistrati impegnati a combattere contro i gruppi terroristici più importanti e pericolosi. Tra questi, c’è chi ricorda il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, federato ad Al Qaeda, di cui facevano parte con ruolo da dirigenti anche tre algerini poi arrestati nel 2005 a Napoli e a Brescia. Si chiamavano Yamine Bouhrama, Khaled Serai e Mohamed Larbi. Napoli, per gli inquirenti, è nel cuore di molti fra i militanti islamici: il gruppo Jamail Tal islam, per esempio, che - secondo fonti pakistane - avrebbe animato azioni terroristiche contro la presenza italiana in Iraq. O quelli del Gcim, il gruppo combattente islamico marocchino che sarebbe in contatto permanente con gli algerini e in grado di garantire supporto logistico in diversi Paesi europei e in Marocco. Anche i militanti del Gia, cioè il Gruppo islamico algerino, che poi si sono uniti al succitato gruppo salafita, erano (e sono?) di casa nei vicoli alle spalle di piazza Garibaldi, aiutati da gruppi di connazionali stanziali, contigui ma non sempre coinvolti, che risiedono da tempo a Napoli e ben conoscono i segreti e i gli innumerevoli “servizi” che il mondo criminale locale (la camorra, innanzitutto) è in grado di offrire a chi è di passaggio e ne ha assoluto bisogno. Un passaporto, una pistola, un letto per dormire, un po’ di banconote ben contraffatte, qualche fucile o un carico di esplosivo. I vicoli rappresentano una garanzia di efficienza. L’omertà diffusa fa il resto. Prezzi modici, tempi stretti, riserbo assoluto. Ha raccontato Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia ed ex capo dell’antiterrorismo alla procura di Napoli: «Il capoluogo campano, con il Casertano e il Nolano, è una delle principali porte di ingresso in Europa per chi vuol diventare terrorista o lo è già». A confermare le parole del magistrato, c’è chi ricorda l’esclamazione enunciata dall’imam guerrigliero di Milano, Sayed Abd el Kader, arrestato in quanto vicino ad Al Qaida, che nelle intercettazioni telefoniche si lascia sfuggire il suo affettuoso «saluto ai fratelli di Napoli». Da Lotfi Raissi a Ryad Hannouni: terroristi all'ombra del Vesuvio. Tra gli inquirenti c’è chi ricorda: «È stato accertato che il pilota algerino Lotfi Raissi, accusato dall’Fbi americano di essere stato l’istruttore di volo dei quattro kamikaze dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, era transitato per Napoli». E che all’ombra del Vesuvio «aveva soggiornato anche uno degli integralisti islamici arrestato a Francoforte perché in contatto con Mohammed Atta, l’uomo che dirottò il volo American Airlines che andò a schiantarsi contro una delle Torri prese di mira». E ancora: in questura hanno memoria del franco algerino Ryad Hannouni che, dopo essersi addestrato in Pakistan, trovò rifugio a Napoli dove gli fu possibile procurarsi in breve tempo documenti falsi, computer e la materia prima per fabbricare esplosivi. Hannouni fu preso dalla Digos il 2 ottobre 2010. Grazie al suo arresto, fu scoperta una cellula che aveva intenzione di compiere attentati in Francia: in nove furono arrestati tra Marsiglia e Avignone. Oggi a Napoli le due moschee, quella di piazza Mercato e quella di corso Lucci, sono costantemente monitorate dagli uomini della Digos. Senza soste è anche il dialogo con i due imam, che però non possono garantire nulla sui comportamenti di eventuali cellule o singoli individui in transito. Conferma un inquirente: «Napoli, col suo aeroporto e soprattutto col porto che consente collegamenti diretti col Nord Africa, è un luogo facile da raggiungere. Abbiamo scoperto che il rione Vasto e piazza Garibaldi pullulano di task force improvvisate composte da due o tre persone (napoletani di malavita) in grado di stampare documenti in pochi minuti grazie a un computer e a una stampante termica. I moduli in bianco li rubano negli uffici comunali, specie quelli in provincia». Qualche anno fa furono arrestati 28 pakistani al rione Forcella, nel cuore del centro storico dominato dai più antichi clan di camorra: nel basso in cui erano accatastati, i pakistani nascondevano armi e cartine con l’indicazione degli obiettivi da colpire. Forcella non è lontana dal porto, dove non di rado si individuano container pronti all’imbarco (o appena sbarcati) stracolmi di bazooka e lanciamissili, mitragliatrici, pistole, kalashnikov, munizioni, materiali esplosivi. Anche a Salerno il porto è monitorato dagli inquirenti, che lo hanno inserito tra i 15 siti più a rischio a livello nazionale. Tensione, paura. Per gli investigatori più esperti, ci si ritrova di fronte ai cosiddetti «nipotini di Hjra w’al Takfir», la terribile sigla dietro cui negli Anni 90 si nascondevano gli estremisti nordafricani che vedevano nella Jihad l’unica strada per liberare i propri Paesi. E per garantirsi la gloria eterna, «alla destra di Allah».

Napoli crocevia internazionale per la falsificazione di documenti destinati ai terroristi. Stando alle inchieste della procura il capoluogo campano sarebbe una delle centrali europee di produzione e distribuzione di documenti falsi per terroristi di matrice islamica, scrive Amalia De Simone su “Il Corriere della Sera”. Napoli è una tappa, una città di transito, per molti personaggi di spicco del terrorismo islamico. A Napoli c’è la principale centrale europea di produzione e distribuzione dei documenti falsi e possono essere garantite coperture e nascondigli. Lo dimostrano le numerose inchieste condotte dai magistrati della procura partenopea con Ros e Digos. Da Napoli, per esempio, è passato uno dei terroristi implicati nell’attentato di Madrid. «Fu fermato insieme ad alcuni camorristi dei clan di Secondigliano proprio poco tempo prima della tragedia. All’epoca accertammo che era in possesso di una patente italiana falsificata che aveva utilizzato per viaggiare tranquillamente dalla Spagna all’Italia», spiega Michele Del Prete, magistrato della dda di Napoli che per lungo tempo si è occupato di antiterrorismo conducendo indagini e processi tra i più interessanti sul fenomeno della presenza di cellule terroristiche sul nostro territorio. «A Napoli c’era il consolato algerino e la comunità algerina era ben radicata così in città arrivarono anche appartenenti al Gruppo Islamico armato e al Fronte islamico di salvezza. In particolare ha vissuto a Napoli e qui lo abbiamo arrestato e processato anche Djamel Lounici un personaggio molto importante per la comunità algerina. Il suo carisma era tale che alcuni testimoni dicevano che sarebbero accorse tante persone per poter ascoltare Lounici, anche solo per una deposizione in un processo». Sempre a Napoli c’è stato uno dei primi casi di “collaboratori si giustizia” (anche se un vero e proprio status giuridico da pentito non lo ha mai avuto) di un aderente ad una cellula terroristica islamica: «Il suo contributo è stato fondamentale - spiega Del Prete – perché ci ha permesso di ricostruire dall’interno una serie di caratteristiche delle organizzazioni terroristiche islamiche che hanno basi in Italia. Per esempio lui ci ha spiegato che in una delle moschee Napoletane esisteva un consiglio ristretto che di fatto discuteva i finanziamenti ai gruppi terroristici che venivano raccolti attraverso i contributi (spesso inconsapevoli) dei fedeli e soprattutto dei commercianti». Anche l’ascolto delle intercettazioni offre uno spaccato del terreno in cui si sviluppano e mescolano i gruppi terroristici. Commentano gli attentati di Londra e Sharm el Sheik augurandosene altri, discutono di materiali apparentemente innocui come fertilizzanti o profumi ma che invece possono essere usati per preparare ordigni. «Nelle nostre indagini già nel 2005 appare la sigla Al Qaeda nel Maghreb che poi è diventata un marchio, una sorta di network sotto cui si riuniscono vari gruppi. Noi abbiamo riscontrato che sotto questo brand agivano non solo organizzazioni ma anche singoli che magari subivano il fascino della propaganda». Molte indagini napoletane hanno evidenziato collegamenti dei personaggi presenti nella città partenopea con Londra, la Spagna, la Norvegia, la Finlandia, il Belgio e altre città italiane tra cui Milano e Vicenza, oltre che la vicina Salerno. «In questa città si sono spesso create condizioni favorevoli per ottenere appoggi logistici, scambio di armi e documenti falsi. - chiarisce Del Prete riferendosi ancora a Napoli - Basti pensare che esistono gruppi specializzati che reperiscono i fogli dei documenti nei vari comuni, nelle prefetture e alla motorizzazione spesso organizzando furti su commissione». Non mancano tracce di contatti tra i clan della camorra e i terroristi. Secondo i cablogrammi di Wikileaks, l’FBI ritiene che il denaro della droga di ‘Ndrangheta e Camorra finanzi gruppi terroristici armati attraverso il traffico di droga.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

Il traffico dei vestiti usati. La camorra è riuscita a fare milioni anche con gli con gli abiti di seconda mano, scrive Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera". Inizialmente era un’indagine sul traffico di vestiti usati, quelli raccolti negli appositi cassonetti in molte città e destinati – dopo adeguati trattamenti di pulizia e igiene – ai più bisognosi. Un servizio pubblico nel quale s’era infiltrato il malaffare e probabilmente una fetta di camorra napoletana: gli abiti donati venivano raccolti da società e cooperative gestite da personaggi che non si dedicavano ad alcuna lavorazione (oppure lo facevano solo parzialmente) e poi spedivano clandestinamente i carichi verso l’Africa e l’Est europeo. Una truffa che garantiva spese ridotte rispetto a quelle da sostenere rispettando le procedure, e guadagni maggiorati. Questo ha accertato l’indagine della Squadra mobile di Roma, facendo ipotizzare alla Procura un’associazione a delinquere che nel solo 2012 ha prodotto un giro d’affari di oltre un milione e mezzo di euro: circa 1.300 tonnellate di «rifiuti tessili» gestiti fuori dalle regole, lucrando sulla generosità dei cittadini e l’aiuto agli indigenti. Ma i magistrati ipotizzano il trattamento fraudolento di almeno «12.000 tonnellate, con conseguente possibilità di guadagno di vari milioni di euro». Nonché l’estensione della truffa a zone sempre più vaste del Paese. Poi è arrivata l’inchiesta su «Mafia capitale» e le cooperative gestite da Salvatore Buzzi, considerato il «grande corruttore» della politica e dell’amministrazione capitolina, oltre che «anima imprenditoriale» della presunta associazione mafiosa guidata da Massimo Carminati. E allora il giudice dell’indagine preliminare Simonetta D’Alessandro, che ieri ha ordinato l’arresto di quattordici persone, ha voluto inserire anche questa speculazione nei possibili interessi del gruppo criminale. Perché tutto passa per l’Ama, l’Azienda municipalizzata a cui fa capo anche quel tipo di raccolta differenziata, sulla quale – nel periodo in cui era sindaco Gianni Alemanno, lo stesso coperto dalle verifiche della Mobile – «Mafia capitale» avrebbe esercitato un forte condizionamento. «L’Ama registra nomine volute dalla consorteria mafiosa – accusa il gip D’Alessandro —, riconducibili direttamente ai disegni di Carminati e Buzzi, rimozioni parimenti targate e contatti corruttivi continuativi». Un «sistemico e patologico intreccio tra delitti di criminalità organizzata e distorsione dell’azione amministrativa», in cui il magistrato contestualizza anche quest’altra storia. Una delle persone coinvolte nell’indagine sul traffico di indumenti è la stessa che nell’inchiesta per mafia risultò accordarsi con Buzzi per rinunciare a un appalto per la manutenzione dei giardini nelle ville storiche alla quale era interessato il presunto socio occulto di Carminati. Un patto a metà tra intimidazione e promesse di affari futuri, che secondo l’accusa risponde a una precisa logica (mafiosa) per la spartizione degli affari realizzati col denaro pubblico. Ora i controlli sulla raccolta dei vestiti regalati dai cittadini che stanno meglio a quelli più poveri alza il velo su un nuovo aspetto del malaffare. Il trattamento dei panni da riciclare veniva assegnato con procedure agevolate ad associazioni «non profit» come le cooperative, proprio per le sue caratteristiche «sociali»; garantendo – nelle intenzioni – un sostegno alle persone disagiate e il rispetto di norme igieniche rigorose. Invece gli abiti venivano presi e portati negli stabilimenti dove dovevano essere lavati e disinfettati, ma la procedura non era rispettata per niente, o solo in minima parte. I camion per i trasporti venivano stipati di indumenti chiusi negli stessi sacchetti lasciati dai donatori, e solo l’ultima fila, quella visibile a un’ispezione superficiale, era composta dagli appositi sacchi bianchi riempiti con le stoffe trattate regolarmente. La polizia l’ha verificato su un camion fermato il 28 novembre 2012, e una e-mail inviata da uno degli arrestati al destinatario del carico in Tunisia ne spiegava il motivo: «Sono cominciati dei controlli nei porti per vedere se la merce è stata completamente igienizzata. Spero che hai capito. Dillo anche ai nostri clienti. Quando passerà questo momento ricomincio a fare quello che abbiamo sempre fatto». A Roma e in un numero sempre maggiore di altre città, come emerge dalle conversazioni intercettate. Le società gestite dagli indagati, riferiscono gli inquirenti, «stanno espandendo la loro competenza su diversi comuni del territorio nazionale. In particolare è in via di conclusione un contratto con la Caritas per la raccolta degli indumenti usati presso i Comuni di Bergamo e Brescia. Il giro di affari è impressionante poiché si parla di numerosi quintali di materiale da poter rivendere». I camion viaggiavano con documentazione falsificata che certificava «processi di trattamento e recupero» mai avvenuti. Nella ricostruzione dell’accusa la centrale di raccolta era in Campania, gestita dal clan di camorra (ora disciolto, specificano gli investigatori) dei fratelli Cozzolino. Uno dei quali – Aniello, tra i destinatari dell’ordine di arresto – risulta latitante in Sud Africa da tempo. Proprio in Sud Africa era indirizzata, secondo gli inquirenti, una parte degli abiti sottratta alla gestione regolare. Non tutta, scrive il gip, «dal momento che molti carichi raggiungono anche l’Europa dell’Est e vengono presumibilmente collocati nel Maghreb». 

La Camorra nel business degli abiti usati. Così i boss lucravano sui cassonetti gialli. Un'organizzazione legata alla malavita campana ha fatto milioni gestendo il giro d'affari dei vestiti lasciati per beneficenza dai cittadini nei contenitori ai lati delle strade. Un giro gestito da cooperative sociali borderline e per cui sono finite in manette 14 persone. E sullo sfondo il ruolo di Carminati e Buzzi e la gestione anomala dell'Ama, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Vestiti usati, stracciati, sporchi, sono oro per la camorra. Magliette, pantaloni, maglioni e giubbotti, che finiscono nei cassonetti gialli ben visibili ai lati delle strade di ogni quartiere sono il nuovo business per i clan e di Mafia Capitale. Così hanno saputo trasformare una merce senza più alcun valore in una montagna di quattrini. La scoperta della Squadra Mobile di Roma guidata da Renato Cortese e coordinata dalla procura antimafia di Roma ha dell'incredibile. Ma rende bene l'idea di come le cosche sappiano sfruttare qualunque possibilità di fare soldi. In manette sono finite quattordici persone accusate di traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere che aveva tra i suoi scopi quello di raccogliere, trasportare, cedere e gestire una quantità enorme di indumenti usati grazie agli appalti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche che senza gara hanno affidato ad alcune cooperative il servizio. Lavori conquistati a Roma, in Abruzzo, in Campania. Ma il traffico vero e proprio aveva come terminali il Sud Africa, i Paesi del Nord Africa e l'Est Europa. A capo dell'organizzazione, secondo gli inquirenti, il boss della camorra Pietro Cozzolino elemento di vertice del clan di Portici-Ercolano (Napoli) e il fratello Aniello. Uno dei promotori sarebbe invece Danilo Sorgente, titolare della cooperativa New Orizon, una delle due coop che a Roma hanno gestito da monopoliste il settore del recupero degli abiti usati. «Un sistema collaudato di “rete” mediante il quale le imprese riescono ad acquisire affidamenti diretti per il servizio di raccolta della frazione tessile differenziata presso i Comuni di Lazio, Campania e Abruzzo, attraverso compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazione degli affidi» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale della Capitale. Complicità politiche dunque, molte delle quali ancora tutte da scoprire. Sindaci, assessori, consiglieri comunali, che avrebbero intrattenuto, non solo a Roma e dintorni, rapporti con gli indagati e con le cooperative pigliatutto. In rapporto sia con Legacoop che con la Caritas per quanto riguarda il recupero degli indumenti usati. Imprese sociali che godevano anche di uno speciale regime fiscale e di agevolazioni per l'assunzione di persone svantaggiate, come per esempio i detenuti. La gestione dell'affare prevedeva il finto recupero della merce raccolta e la sistematica falsificazione dei documenti di trasporto e dei certificati di «igienizzazione»: la legge prevede che gli abiti raccolti prima di poterli reinserire nel mercato vadano disinfettati e ripuliti. L'associazione scoperta dalla polizia, invece, per risparmiare non avrebbe effetuato questo passaggio e spediva direttamente all'estero i prodotti, che senza questo passaggio potevano diventare nocivi per la salute. Un esempio: una delle cooperative coinvolte, Lapemaia onlus, nei primi otto mesi del 2012 ha smerciato quasi tre tonnellate di abiti usati tra la Tunisia la Polonia e la Campania, guadagnando mezzo milione di euro. Il ricarico su ogni chilo venduto all'estero andava dai 35 ai 58 cent. Spiccioli che vanno moltiplicati per le 12 mila tonnellate: a tanto corrisponde, secondo uno degli indagati, il business. La spedizione, dai porti di Salerno e Civitavecchia, avveniva attraverso società di intermediazione che servivano a facilitare la falsificazione dei documenti e la spedizione verso Nord Africa e Europa dell'Est. Il meccanismo insomma è sempre lo stesso. Il tipico giro bolla che permette di declassificare i rifiuti. Un meccanismo che gli imprenditori della camorra conoscono molto bene. Con questo meccanismo è stata infatti avvelenata la provincia di Caserta trasformandola in Gomorra. I documenti raccolti dalla squadra Mobile coinvolgono indirettamente la società partecipata dal Comune di Roma Ama Spa, l'ente che affida il servizio già coinvolta nell'indagine Mafia Capitale . Il giudice per le indagini preliminari ha un giudizio netto su come è stata gestita la società e punta il dito sul potere che esercita il braccio destro del boss Massimo Carminati sull'azienda : «Tutti (gli indagati ndr) trovano la premessa del loro agire nella disfunzionale gestione di Ama SpA, nel fattuale potere gestorio in essa esercitato dal referente di tutte le cooperative sociali, Salvatore Buzzi, il cui assenso è stato la premessa della ripartizione del territorio comunale per la raccolta del tessile». In altre parole è stato necessario il permesso del ras delle cooperative romane, Buzzi, perché la camorra e gli imprenditori indagati potessero lucrare sugli abiti usati. A Buzzi, pur non facendo parte di questa associazione scoperta dalla Mobile, «si deve, tuttavia, l’operatività del sistema», grazie a lui è possibile l'aggancio all'ambito istituzionale, al mondo di sopra. Insomma è Buzzi «il raccordo terminale delle consorterie che si dividono l’affare dei rifiuti tessili a Roma», e lo farebbe tramite un imprenditore, tale Mario Monge, presidente dell'importante consorzio Sol.co che dal Comune di Roma ha pure ottenuto la gestione di un bene confiscato alla mafia, il nuovo cinema Aquila. Così come la stessa cooperativa Horizons, che fa parte di Sol.co e che gestisce quello che un tempo era il quartier generale di Enrico Nicoletti, il cassiera della banda della Magliana. È Monge. secondo gli inquirenti, che organizza l'incontro tra i titolari delle cooperative coinvolte nel traffico, l'ex assessore della giunta capitolina ai tempi di Veltroni Dante Pomponi e i rappresentati della Coin, per programmare un eventuale affidamento del servizio a Roma Sud ed Est. Buzzi e Monge, stando agli atti dell'indagine, dialogano e sono in rapporti. Anzi gli investigatori su questo sono più precisi: «Chi vuole vincere non paga più – come un tempo – solo alla Pubblica Amministrazione, in un contesto che è solo corruttivo, ma paga al titolare di poteri di fatto all’interno della Pubblica Amministrazione, poteri che sono correlati al dominio della strada(cioè Buzzi e "er Cecato ndr), e che si proiettano nel mondo istituzionale, condizionandolo anche con la corruzione, poteri che sono, in una parola, di stampo mafioso». A conferma di ciò riportano un episodio: «Le cooperative che risultano vincenti all’apertura delle buste 2013 (per la raccolta degli indumenti usati) sono quelle che hanno rinunciato all’appalto per la raccolta del rifiuto multimateriale, e sono quindi gratificate dal Buzzi». Ama Spa è per gli investigatori roba di Carminati. «Ama S.p.a. società posseduta dal comune di Roma, all’interno della quale – sotto l’occhiuta regia di Carminati  - si è svolta la collocazione in posizione apicale di soggetti che rispondono a un’organizzazione che non può che dirsi mafiosa, per i mezzi che utilizza, per i soggetti che la praticano e per la finalità che la animano». Parole pesanti che si aggiungono ai risultati dell'inchiesta su Mafia Capitale. Ma non finisce qui: «Buzzi , interfaccia economico di Carminati, che costituisce il regista anche dell’Ati Roma ambiente, aggregato di consorzi di imprese cooperative che è costola del più ampio disegno di ripartizione degli appalti distribuiti dall’Ama spa, in materia di verde pubblico , raccolta multimateriale dei rifiuti, raccolta del tessile». L'ipotesi della procura è che oltre a Mafia Capitale in Roma Ambiente ci sia anche la camorra guidata dal boss Cozzolino, uno degli artefici del grande traffico internazionale. Per questo secondo i detective della Mobile «vi è una concreta emergenza documentale, che consentono di chiarire che nemmeno gli appalti per i rifiuti tessili, connotati, peraltro, da un giro d’affari di milioni d’euro, sono sfuggiti alla regola della programmazione e del controllo nell’erogazione; e alla stura, anche, ad attività di interesse della criminalità organizzata, che hanno compromesso totalmente i beni della salute e dell’igiene pubblica, pur di massimizzare i profitti, nei Pesi esteri destinatati dell'invio».

Il business milionario degli abiti usati. Ogni anno circa 10mila tonnellate di vestiti finiscono nei cassonetti gialli presenti in tutte le città italiane. Ma solo una piccola parte arriva a chi ne ha davvero bisogno o viene utilizzata per sostenere progetti di solidarietà. Su questo enorme giro d'affari, grazie a regolamenti poco chiari e all'assenza di controlli, spuntano molte associazioni ambigue e la stessa criminalità organizzata. Come confermano anche gli ultimi sviluppi dell'inchiesta su Mafia Capitale che hanno portato all'arresto di 14 persone, scrivono Luigi Dell'Olio e Clemente Pistilli, con un commento di Carlo Ciavoni su “La Repubblica”.

Le troppe ambiguità di un circuito opaco scrive Luigi Dell'Olio. "Raccolta indumenti usati: grazie per il vostro aiuto", recita l'adesivo a caratteri cubitali apposto sul cassonetto giallo. Una scena che si può incontrare a Roma, Milano, Napoli, così come in centinaia di centri italiani di piccole e medie dimensioni. Ogni giorno decine di persone si recano presso i cassoni e vi depositano gli abiti che non utilizzano più, convinti di dare conforto ai più poveri. Complice la presenza di didascalie negli adesivi relativi alle principali destinazioni. Peccato che le cose non vadano sempre così: la maggior parte degli abiti raccolti, infatti, finisce nel circuito del riciclo, venduta a negozi specializzati in abiti vintage o a chi gestisce le bancarelle del mercato. Nel migliore dei casi, una piccola quota viene destinata a organizzazioni caritatevoli, ma la rendicontazione in merito è molto deficitaria e solo pochi (che fanno della trasparenza un tratto distintivo della loro attività) accettano di parlare. Così non sorprende che sul business si siano fondate organizzazioni criminali, che operano attraverso truffe ai cittadini e intimidazioni nei confronti degli operatori onesti. L'ultima conferma arriva dai 14 arresti eseguiti giovedì 15 gennaio dai carabinieri nell'ambito dell'inchiesta su Mafia Capitale. La raccolta differenziata dei rifiuti tessili è cresciuta sensibilmente negli ultimi tempi fino a raggiungere il 12% del totale (che si aggira su 80mila tonnellate annue), pari a 2 kg a persona, secondo stime dell'Ispra (ministero dell'Ambiente). Che tali rimangono, dato che non esiste un censimento ufficiale proprio per la carenza informativa di cui si è già accennato. Gli operatori del mercato formano un ventaglio molto ampio: vi sono enti caritatevoli così come organizzazioni senza fini di lucro attive nella cooperazione internazionale, ma anche aziende commerciali, oltre che cooperative sociali. Senza trascurare i casi di società for profit che agiscono in collaborazione con associazioni per i poveri, ma destinando a queste ultime solo poche briciole (spesso gli impianti di raccolta vengono collocati strategicamente accanto alle chiese). Il tratto comune a quasi tutte queste iniziative è che quasi mai gli abiti raccolti finiscono per coprire e scaldare i più poveri. Anche se va riconosciuto che donare gli abiti resta un valore, così come l'attività di chi utilizza i proventi della rivendita per finalità sociali/caritatevoli. La maggior parte dei comuni italiani ha affidato il servizio a operatori che raccolgono gli abiti dai cassonetti e li vendono a ditte di stoccaggio per pochi centesimi al pezzo (da 20 a 30, in base alla loro qualità). Il trattamento degli abiti raccolti prevede prima la selezione (escludendo i capi destinati al riutilizzo, ad esempio perché troppo rovinati) e poi l'igienizzazione, da effettuare prima che gli abiti siano rimessi nel ciclo post consumo. Diverse inchieste della magistratura hanno però messo in luce la non corretta gestione della filiera degli abiti usati (senza le giuste autorizzazioni per lo stoccaggio e per  il trasporto). Il fatto che non si abbia il pieno controllo della filiera presta il fianco ad  attività di trattamento illecito di rifiuti. Un fenomeno che ha portato anche a diversi arresti e accertamenti da parte dei carabinieri per l'ambiente. La scorsa primavera la Procura di Roma ha aperto un'indagine in merito, rilevando il diffuso interesse della camorra per questo business (i cassonetti gialli sono 1.800 nella Capitale, per un incasso annuo intorno ai 2 milioni di euro), che si è manifestato anche attraverso intimidazioni alle aziende impegnate nella filiera, dirette a eliminare la concorrenza. Partendo da alcune denunce anonime, il sostituto procuratore della Capitale, Alberto Galanti, ha scoperto che gli abiti usati, una volta prelevati, venivano rivenduti (soprattutto all'estero) senza i dovuti trattamenti di igienizzazione che la normativa impone prima della commercializzazione. Un filone di questa indagine è passato sotto la competenza della Direzione Investigativa Antimafia, che messo nel mirino i presunti legami tra i clan camorristici e diverse aziende impegnate nell'igienizzazione dei capi, con sede a Capua e San Sebastiano al Vesuvio, che avrebbero rilasciato attestati di trattamenti conformi alla legge, in realtà mai avvenuti. Per la mala campana non si tratta di una novità dato che già nel 2011 la Dda di Firenze aveva eseguito un centinaio di arresti dopo la scoperta di un traffico illecito di indumenti usati provenienti dalla raccolta sul territorio, in larga parte gestito dal clan camorristico Birra-Iacomino di Ercolano. Il processo che è seguito ha portato per la prima volta alla condanna di mafia per un imprenditore toscano "per condotta connessa alla sua attività imprenditoriale". Raccolti alla rinfusa e imballati, spiega il Report Ecomafie di Legambiente, gli abiti erano stati messi in vendita al pubblico nelle bancarelle dei vari mercati rionali, senza alcuna precauzione igienica, saltando dunque le fasi di selezione, cernita e igienizzazione, previste dalla procedura. Nello stesso filone si è mossa anche l'indagine New Trade, che lo scorso anno ha portato la Dda di Firenze a indagare il titolare di una ditta di Prato, che avrebbe messo in piedi un sistema di traffici illeciti di rifiuti plastici e abiti usati verso Cina e Tunisia. Gli indumenti venivano rivenduti senza trattamenti igienico-sanitari in Africa e nei mercatini vintage italiani. Il traffico è stimato per migliaia di tonnellate. Secondo gli inquirenti, a gestire il traffico una rete organizzata di trafficanti, che parallelamente aveva messo in atto sul territorio anche attività di stampo mafioso come estorsioni e usura.  Sono in attesa di processo anche gli imprenditori denunciati a Potenza in seguito all'operazione Panni Sporchi, che ha scoperto un flusso illegale di scarti tessili, con proiezioni anche verso l'Albania e alcuni paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Fingendo un'attività umanitaria, gli indumenti usati venivano raccolti e rivenduti illegalmente in Italia e all'estero. L'operazione ha portato al sequestro preventivo di 18 automezzi impiegati nel trasporto in tutta la penisola e alla denuncia di 57 persone, indagate per associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa, per un giro d'affari valutato dai forestali "in alcuni milioni di euro l'anno". Tra i denunciati, anche 15 funzionari comunali che hanno autorizzato la raccolta degli stracci senza aver verificato il possesso delle relative autorizzazioni da parte degli addetti alla raccolta. "Girando di casa in casa o attingendo ai cassonetti adibiti al recupero di indumenti  -  scrivono gli investigatori del Corpo forestale dello Stato  -  i presunti responsabili hanno raccolto abiti usati per commercializzarli sul territorio nazionale e internazionale".  Inoltre, spesso capita che qualcuno tiri fuori i sacchetti dai cassonetti e si appropri dei pezzi migliori, lasciando a terra il resto. Si tratta di illeciti, commessi da persone che vivono di espedienti: alcuni tra loro prelevano gli abiti per indossarli, ma la maggior parte li usa per venderli nei mercatini abusivi. Complessivamente, il danno alla raccolta è minimo, anche se questo produce un disordine ambientale. Vi è poi un mercato parallelo relativo alle aree private. Sarà capitato a tutti di trovare, affissi su portoni e citofoni, volantini per la raccolta di indumenti usati, con l'indicazione del giorno e dell'ora per il ritiro. Si tratta per lo più di biglietti anonimi o con indicazioni approssimative, che difficilmente consentono di risalire a chi gestisce il servizio. In questi casi, la raccomandazione è di segnalare il fatto alle autorità. A San Donato (Milano), addirittura, sono stati scoperti cassonetti abusivi collocati sui marciapiedi cittadini, di colore e conformazione simile a quelli ufficiali, ma abusivi (privi di logo e posizionati senza autorizzazioni). Le indagini dei carabinieri sono partite proprio grazie alla segnalazione di un cittadino. Al di là degli illeciti, la sensazione diffusa è di una scarsa trasparenza nel mercato. In pochi accettano di raccontare il proprio business, di spiegare quanta parte dell'incasso genera profitti e quanto invece viene destinata ad azioni caritatevoli. "Occorrerebbero normative per obbligare gli operatori del mercato a una maggiore trasparenza informativa nei confronti della comunità", osserva Karina Bolin, presidente dell'organizzazione umanitaria Humana People to People Italia, che nella Penisola gestisce 4.788 contenitori all'interno di 946 comuni e impiega 120 persone, con una raccolta che lo scorso anno è stata di 15,45 tonnellate. "Pubblichiamo ogni anno un bilancio delle attività svolte", rivendica Bolin ricostruendo la filiera: "Gli abiti estivi in buono stato vengono inviati in Africa (1,034 tonnellate lo scorso anno), dove sono regalati solo in casi di emergenza. Negli altri casi sono venduti a prezzi accessibili per ottenere fondi da impiegare per i progetti sociali attivi localmente. Gli abiti non adeguati all'invio in Africa, vengono venduti in Italia e in altri paesi europei, sia al dettaglio sia all'ingrosso. Con i fondi ricavati, oltre ad autofinanziare la nostra attività, impieghiamo gli utili per i progetti di sviluppo nei Paesi emergenti (pozzi, scuole e interventi sanitari) e per azioni sociali e di tutela ambientale in Italia. Andrebbe inoltre imposto l'obbligo di trasparenza dell'intera filiera, dalla raccolta degli abiti usati fino alla loro destinazione finale, e una rendicontazione adeguata", prosegue Bolin. "Anche perché non è giusto trarre in inganno i cittadini, inducendoli a pensare che i vestiti siano destinati a un'attività sociale: al contrario in questo settore si muovono molti operatori non in regola, spesso non controllati dalle istituzioni per la mancanza di adeguati strumenti di verifica".

Le mani della Camorra sugli stracci di Roma, scrive Clemente Pistilli. Gli abiti usati a Roma non hanno più la puzza degli stracci e neppure quell'odore acre ma caldo della beneficenza. Sulle pezze è ormai forte il profumo dei soldi e a imprimerlo sono state le mafie, camorra napoletana in testa. Un affare da oltre due milioni di euro l'anno quello dei 1.800 bidoni gialli sparsi nella capitale, dove i romani svuotano il guardaroba. Troppo ricco per sfuggire ai clan, che da circa un decennio - in base alle ultime indagini condotte dall'Antimafia capitolina - starebbero cercando di imporre la loro legge a suon di minacce e attentati, a partire da quelli alle tre principali cooperative che raccolgono i vestiti vecchi per conto dell'Ama, municipalizzata incaricata dell'igiene urbana, fino a trovare anche qualche forma di intesa con quelle che erano le loro vittime e a rientrare nella spartizione degli appalti pubblici con regista Mafia Capitale. Un business ideato dalle mafie ad Ercolano, in Campania, esportato in Toscana, a Prato, e infine nel Lazio e in Abruzzo, con protagonisti ex collaboratori di giustizia fuori controllo. I tentacoli stretti dai clan sulla capitale sono stati scoperti dopo due anni di indagini compiute dalla Mobile di Roma sulle tonnellate di stracci dirette in Africa e nell'Europa dell'Est, secondo la Dda senza disinfettare e ripulire gli abiti usati raccolti, e con una denuncia presentata nella scorsa primavera ai carabinieri di Cisterna di Latina da un imprenditore del posto, Alfonso Balido, originario di Napoli, impegnato nella Balidex, società che stocca vestiti vecchi. Un anello della catena delle pezze. L'Ama ha dato l'appalto per svuotare i cassonetti degli stracci a due consorzi, per i quali lavorano cinque cooperative. Le coop vendono i vecchi vestiti alle aziende come quella di Cisterna, che a loro volta li cedono a società campane che si occupano della cernita. E di passaggio in passaggio il valore delle pezze cresce. Basta poi evitare la sterilizzazione, o imporre i prezzi alle ditte di stoccaggio, e le somme schizzano verso l'alto. Proprio quello che fa la camorra. A Balido un gruppo di campani ha cercato di imporre il pizzo, furiosi perché aveva iniziato ad acquistare dalla coop New Horizons, prima appannaggio di una loro azienda con sede a Ferentino, nel frusinate. L'imprenditore, con la sua denuncia, il 12 giugno ha fatto arrestare dai carabinieri i fratelli Simone e Pietro Cozzolino, ex pentiti in libertà, e i nipoti dei due, Vincenzo Cozzolino e Vincenzo Scava. Le indagini sono poi andate avanti e le prove dell'estorsione mafiosa, per il pm antimafia romano Lina Cusano, sono talmente evidenti che ha chiesto e ottenuto dal gip Anna Maria Gavoni il giudizio immediato per i quattro, difesi dagli avvocati Giuseppe Bucciante e Giusi Grigoli, un processo iniziato il 16 dicembre a Latina. Gli inquirenti però hanno scoperto anche il cuore dell'infiltrazione della camorra delle pezze. Alla coop Lapemaia, tra il 2004 e il 2009, il deposito è stato bruciato tre volte e alla New Horizons una volta. Il titolare de Lapemaia, Marcelo Rodolfo Ocana, cinque anni fa, denunciò alla polizia: "Temo seriamente per la cooperativa, per la mia incolumità e quella dei miei venti dipendenti, considerando che, notoriamente, il mercato in questione interessa le organizzazioni criminali, camorra in particolare". Ma le intimidazioni sarebbero continuate. "Cozzolino a Cisterna fece capire  -  ha dichiarato lo scorso anno Ocana ai carabinieri  -  che la piazza di Roma era sua". Minacce infine anche alla coop Rau, come confermato agli inquirenti da un socio della cooperativa, Biagio Di Marzio: "Cozzolino mi minacciò in un bar sulla Prenestina Nuova". Ma c'è di più. A un tratto alcune delle coop vittime delle intimidazioni, come Lapemaia e la New Horizons, avrebbero preso parte all'affare illecito degli stracci che, senza alcuna sanitizzazione, venivano spediti all'estero, sotto la regia sempre di Pietro Cozzolino, e del fratello Aniello, latitante dal 2008, tanto che anche manager, come Ocana, e dipendenti delle cooperative sono stati arrestati giovedì scorso. Senza contare che per l'Antimafia sporchi sarebbero anche gli stessi appalti affidati dall'Ama per raccogliere gli stracci, frutto di "compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazioni degli affidi", in cui avrebbe avuto un ruolo di primo piano sempre quel Salvatore Buzzi ritenuto la cassaforte dei fasciomafiosi. E Balido? "La metà dei clienti che avevo a Napoli non vuole più lavorare con me", ci ha confessato due mesi fa, attendendo l'esito del processo in corso a Latina. Il prezzo che si paga denunciando la camorra. Come distinguere gli operatori seri. Come si è detto, nel settore della raccolta di indumenti usati regna la confusione in merito alle modalità di valorizzazione dei capi e dei ritorni per la comunità. Ma la situazione non è del tutto trasparente nemmeno sul fronte dei cassonetti perché, accanto a quelli posizionati in accordo con le amministrazioni comunali, spesso vi sono iniziative estemporanee, nelle quali è difficile persino capire chi sono i promotori e chi si occupa della raccolta. Alcuni accorgimenti possono aiutare a fare una scelta consapevole: sul contenitore per la raccolta degli indumenti devono essere indicati gli estremi della società o associazione che si occupa della raccolta, con un numero di telefono (se c'è solo un cellulare e non un fisso qualche sospetto può essere legittimo), l'indirizzo della sede e il sito Internet. È fondamentale, inoltre, che sia indicata la finalità dell'iniziativa di raccolta. Chi ha dubbi sulla conformità del cassonetto, può verificarne la regolarità telefonando al proprio Comune, che possiede la mappatura completa dei contenitori autorizzati. In alcuni centri queste indicano si trovano anche online.

Ogni città raccoglie a modo suo, scrive Luigi Dell'Olio. La situazione è molto diversificata a livello nazionale, quanto a modalità della raccolta e soggetti impegnati nell'attività. Il tratto comune (tranne poche eccezioni) è la scarsa trasparenza in merito all'incasso della raccolta e alla quota destinata effettivamente a iniziative sociali.

A Torino la municipalizzata Amia ha messo a punto un prontuario online con indicazioni puntuali: il materiale da conferire (abiti, maglieria, biancheria, cappelli, coperte, borse,  scarpe e accessori per l'abbigliamento), le modalità ("gli abiti usati devono essere riposti in sacchetti o imballaggi ben chiusi") e le destinazioni ("il materiale in buono stato viene gestito da aziende che lo mandano nei Paesi in via di sviluppo, mentre ciò che resta viene riciclato per l'ottenimento di materie prime, quali ad esempio la lana rigenerata").

Genova si è dotata di un sistema di tracciabilità che privilegia la trasparenza. Collegandosi al sito Staccapanni si ricavano informazioni sul servizio  -  curato dalla Fondazione Auxilium e dalla Caritas Diocesana, in collaborazione Amiu (Azienda Multiservizi e d'Igiene Urbana) e della cooperativa sociale Emmaus, che cura materialmente il servizio. Nello spazio Web sono presenti i numeri dell'attività (260 contenitori, 1.400 tonnellate raccolte), oltre alla destinazione dei capi, che segue tre strade: una parte viene selezionata e distribuita alle persone in stato di bisogno. Quello che avanza e risulta in buono stato, viene venduto ad operatori del mercato dell'abito usato, mentre il materiale in pessimo stato viene ritirato come pezzame industriale, senza che ciò produca ricavi economici.

A Milano la raccolta è affidata a un gruppo di cooperative sociali organizzate da Caritas Ambrosiana e Compagnia delle Opere, che provvedono al loro riutilizzo o riciclaggio. La capofila è la onlus Vesti Solidale, che ha messo a punto il sito Internet "Dona Valore", la stessa scritta che campeggia sui cassonetti che aderiscono all'iniziativa, con la rendicontazione delle attività svolte. "Complessivamente impieghiamo circa 50 lavoratori provenienti da situazioni di disagio", spiega il responsabile dalla onlus Carmine Guanci. "Dall'amministrazione comunale non riceviamo nulla; l'80% dei proventi della rivendita serve per coprire i costi del servizio e pagare gli stipendi. Il resto finisce nelle iniziative sociali". Nel 2013 sono stati destinati 290mila euro a sostegno dei progetti presentati dalle cooperative promosse da Caritas Ambrosiana e socie del Consorzio Farsi Prossimo. Un dato in crescita rispetto ai 228mila euro del 2012.

Il Comune di Padova ha affidato il servizio alla Caritas Diocesana, che ha predisposto il sito Internet "Che fine fanno", con l'intento di garantire trasparenza alla gestione del materiale riposto nei contenitori gialli. Il servizio è materialmente svolto da un gruppo di cooperative sociali  -  Città solare, Il Grillo, Cooperativa Ferracina, Montericco e Cooperativa Sociale insieme  -  che, attraverso accordi con alcuni comuni e con le società Etra, Acegas-Aps, Veritas, PadovaTre gestiscono la raccolta degli indumenti nel territorio della Diocesi patavina, che comprende cinque province venete. Al termine del processo di recupero e smaltimento le cooperative sociali destinano una parte degli utili derivanti dallo smaltimento o vendita (il 7%) per la realizzazione di alcuni progetti di Caritas Padova, rendicontati sul sito.

A Bologna hanno da poco debuttato i nuovi contenitori studiati da Hera, singolari per colorazione (il grigio, che si armonizza con i cassonetti stradali) e la "vestizione" (giocata su icone che hanno l'obiettivo di rendere facilmente comprensibile ai cittadini la funzione del cassone), con l'obiettivo di far crescere i numeri, dopo che già nel 2013 è stato raggiunto il livello ragguardevole di 647 tonnellate. Materialmente la raccolta è stata affidata al consorzio di cooperative sociali Ecobi, che è subentrato alla gestione frammentata che ha caratterizzato gli anni precedenti. Riunisce imprese locali, come La Fraternità (Ozzano), La Piccola Carovana (Crevalcore) e Pictor (Budrio). Vestiti e scarpe, per il momento, vengono stoccati presso gli impianti di due Onlus (Fraternità e Piccola Carovana). Una volta a regime, invece, Ecobi farà autorizzare a Ozzano un vero impianto di trattamento e selezione, che consentirà un puntuale controllo di tutta la filiera, dalla raccolta alla reimmissione sul mercato, posti di lavoro. Le cooperative infatti, potranno rivendere il materiale raccolto e tenere per le proprie attività sociali i ricavi. Questo sistema permette di non avere costi per Hera né, per il Comune.

A Roma lo scorso anno sono state raccolte 9.500 tonnellate di abiti usati (contro le 7.250 dell'anno precedente), attraverso 1.800 contenitori (nel 2008 erano appena 504), dislocati in tutto il territorio della capitale. Il prelievo (effettuato una volta a settimana, con l'impiego di 61 operai) viene svolto dall'associazione temporanea di impresa Roma Ambiente, composta da due consorzi, l'Alberto Bastiani e Il Solco. Entrambi contattati per questo servizio, non hanno voluto fornire numeri sulla raccolta e sulle destinazioni dei proventi. Di certo si sa che i numeri in gioco sono rilevanti: l'incasso stimato annuo è di 2 milioni di euro all'anno, tanto che ora l'Ama (spa del Comune di Roma) ha in corso il nuovo bando per l'assegnazione triennale del servizio, dal quale conta di incassare una somma consistente. La raccolta viene effettuata da un totale di 61 operatori (le coop danno lavoro anche a ex-detenuti, offrendo loro una possibilità di reinserimento), in media una volta a settimana. Il 15% circa degli abiti usati raccolti finisce nei negozi di vintage, il 45% nei Paesi in via di sviluppo soprattutto in Africa, il 25% viene impiegato come pezzame e il resto diventa scarto o finisce in beneficenza.

Infine a Napoli tre anni fa è stata bandita una gara d'appalto, che ha visto primeggiare il duo composto dalla Onlus Ambiente Solidale e della F. lli Esposito Sas. Gli aggiudicatari, che hanno posizionato un contenitore ogni 1.500 residenti, sono tenuti a corrispondere ad Asia (Agenzia servizi di igiene ambientale) Napoli 3 centesimi per ogni Kg di rifiuto raccolto. Somme che compongono un fondo impiegato per attività umanitarie.

Beffa atroce, ma resistiamo al cinismo, commenta Carlo Ciavoni. La solidarietà, il sentimento umano di aiutare il prossimo, che prende forma in azioni organizzate o individuali e spontanee, mostra a volte il suo volto fasullo, furbo, arcigno. Tutto così diventa più sgradevole, molto di più di quando ci si sente semplicemente fregati, da qualcuno che t'infila le mani in tasca per rubare, o ti raggira con un trucco. L'atto solidale, sospinto da ideali religiosi o laici che siano - quando viene tradito e sbeffeggiato, in chi lo compie si trasforma in un dolore acuto, come un chiodo nella propria intimità etica. La storia dei cassonetti gialli, con tutti quegli indumenti regalati a chi ne ha bisogno, si aggiunge ad altre beffe compiute alle spalle di chi cerca di cambiare in meglio la vita dei disgraziati di questo mondo i quali, senza chiederlo, dovrebbero ricevere senza troppi maneggi ciò che viene loro donato. Purtroppo, l'universo della Cooperazione e del volontariato nella sua complessità non è stato ancora analizzato a fondo. C'è da comprendere, infatti, quali proporzioni abbia davvero il fenomeno della speculazione sugli aiuti umanitari, se esiste, e che profilo ha il volto nascosto della Cooperazione, in ogni sua forma possibile. Si calcola, ad esempio, che nel mondo operino circa 50mila Organizzazioni non governative (Ong) e che le attività riferibili al cosiddetto Terzo settore (cioè Ong, Onlus, fondazioni, enti di carità, cooperative, soprattutto agenzie Onu) muovano un mare di denaro di circa 400 miliardi di dollari. Valentina Furlanetto - giornalista a Radio 24 - un paio d'anni fa ha scritto un saggio, assai contestato per la verità, anche con ottime ragioni, ma che ha avuto comunque il merito di accendere l'attenzione su un aspetto in questo ambito di cose, altrimenti nascosto dalla "nebbia" dei buoni sentimenti. Il saggio s'intitola L'industria della carità - Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza - Chiarelettere - 243 pagine, 13.90 euro). La Furlanetto sferra un attacco frontale al mondo della Cooperazione e del volontariato. E traccia un elenco di organizzazioni da lei annoverate fra le più ricche: Save the Children, World Visione Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna). Poi si domanda da dove provengano quei soldi e si risponde che arrivano da enti pubblici o da donazioni private. La giornalista denuncia sprechi, ma anche i vuoti del nostro sistema d'assistenza e sottolinea come il Terzo settore sia lievitato negli ultimi quarant'anni: da una ventina che erano negli anni '60, le Ong italiane (una piccola porzione del Terzo settore) oggi riconosciute ufficialmente sono 248, coinvolte in 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, e impegnano 5.500 persone, con un budget gestito di circa 350 milioni di euro l'anno. Bene, detto tutto ciò, va però precisato che, semmai tutto questo "esercito" non ci fosse - e sono tutti a dirlo - quella parte del mondo, circa l'80% dell'umanità, non avrebbe compiuto enormi progressi per quanto riguarda la riduzione delle morti per fame, nel calo vistoso della mortalità infantile e della povertà in genere, oltre che aver aumentato complessivamente la scolarità. La macchina solidale costa: è vero. E sicuramente il rapporto tra quanto viene investito nei progetti di aiuto e il valore reale che resta sul terreno potrà (dovrà) migliorare di molto, a vantaggio dei beneficiari. Ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei cooperanti (che non vanno confusi con i missionari) lavora compiendo scelte spesso difficili di distacco dal proprio ambiente, con stipendi nient'affatto faraonici (almeno nella stragrande maggioranza dei casi) e che comunque riescono sempre a portare a termine programmi di sviluppo o interventi d'emergenza in contesti spessissimo difficili e pericolosi. In casi come questo dei cassonetti di raccolta fasulli, dunque, sarebbe bene non dar sfogo a fantasie che mettano tutto e tutti nello stesso calderone, in una baraonda "de magna-magna" che davvero sarebbe sbagliato e ingiusto associare a questo complicatissimo mondo. La totalità delle organizzazioni che lavorano per aiutare il prossimo, nelle emergenze, nei progetti di sviluppo, o nel lavoro sottile e complesso di chi punta sulla crescita della consapevolezza dei diritti (ignorati da intere popolazioni nel modo povero) lo fanno in totale trasparenza. Tutto è migliorabile, certo, ma sarebbe un grave errore mescolare tutto questo patrimonio di passioni e competenze con fattacci di cronaca nera dai quali, come nella vicenda dei cassonetti gialli, non a caso, fa capolino anche la camorra.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una «grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo». La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato le 15 pagine di motivazioni con le quali lo scorso 7 ottobre ha respinto l’istanza di rimessione proposta da 15 dei 52 imputati del processo «Ambiente svenduto». Il collegio presieduto da Umberto Giordano (consigliere relatore Margherita Cassano) ha sostanzialmente accolta la tesi del sostituto procuratore generale Enrico Delehaye e della stessa Procura di Taranto che aveva sollecitato, inviando una memoria firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dagli aggiunti che si sono occupati dell’indagine, la permanenza del processo a Taranto. A rivolgersi alla suprema corte erano state le società Riva Fire (guidata da Claudio Riva) e Riva Forni Elettrici (presieduta da Cesare Riva), imputate ai sensi della norma che disciplina la responsabilità giuridica delle imprese; e le persone fisiche Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio morto lo scorso 30 aprile, l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, gli ex direttori del siderurgico Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, i dirigenti della fabbrica Ivan Dimaggio, Salvatore D’Alò, Salvatore De Felice, Angelo Cavallo, i fiduciari del gruppo Riva Lanfranco Legnani e Giuseppe Casartelli; l’ex responsabile dell’ufficio romana Caterina Vittoria Romeo; l’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà. A sorpresa, però, il giorno della discussione dell’istanza, aveva aderito alla richiesta di spostamento a Potenza del processo, tramite l’avvocato Luca Sirotti, anche il commissario dell’Ilva Piero Gnudi. L’azienda, sottoposta a commissariamento dal giugno del 2013, è imputata nel procedimento per i profili penali previsti dalla legge 231 del 2001 ma Enrico Bondi, primo commissario, non aveva firmato l’istanza di rimessione. Gnudi, nominato lo scorso giugno dal governo Renzi, aveva evidentemente deciso diversamente dal suo predecessore, dando mandato al suo legale di appoggiare la richiesta di spostamento del processo, con argomenti molto critici nei confronti del gip Patrizia Todisco e del gup Vilma Gilli. I giudici della Suprema Corte però hanno ritenute viziate le argomentazioni dei proponenti che «muovendo da indimostrate inferenze totalizzanti, valorizzano una logica presuntiva e dubita dell'imparzialità di un intero ufficio giudiziario non sulla base di fatti verificabili, ma di mere congetture che non trovano riscontro in circostanze obiettive». La Cassazione tornerà ad occuparsi di «Ambiente svenduto» il 4 febbraio, esaminando l’istanza di ricusazione del gup Vilma Gilli presentata dall’avvocato Michele Rossetti, legale dell’ex assessore provinciale Michele Conserva, uno dei 52 imputati.

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com. Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi, Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano cercato di far perno sull'articolo 45 del codice di procedura penale. Ovvero, come recita l’articolo, "la sicurezza o l'incolumità pubblica", o ancora "la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali" che possono turbare lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato, pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro aspettative. Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla grande industria e come escort foraggiata. In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni, circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza successo, quindi, i difensori degli imputati - tra i quali il professor Franco Coppi - hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici, amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio Stefano, per arrivare ad avvocati (c'è anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza, come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.

Sarah Scazzi: perché il processo resta a Taranto, scrive Diana De Martino su “Golem Informazione”. In più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice. L’omicidio di Sarah Scazzi è uno di quegli eventi delittuosi che, per una serie di ragioni non tutte comprensibili, ha assunto una dimensione di enorme rilievo sugli organi di informazione, e di riflesso sull’opinione pubblica. Proprio tale abnorme interesse mediatico è stato posto alla base dell’istanza di rimessione presentata dalla difesa di Sabrina Misseri, come è noto imputata assieme alla madre Cosima Serrano, dell’omicidio della giovane Sarah. In sostanza i difensori hanno sostenuto che la campagna di stampa tuttora in corso, dai toni quanto mai accesi ed astiosi nei confronti delle imputate, nonché la pressione dell’opinione pubblica pesantemente schierata per la colpevolezza delle 2 donne, avevano determinato un oggettivo condizionamento nelle attività del Pubblico Ministero e nelle valutazioni del GIP nonché del Tribunale del Riesame di Taranto. A fondamento di tale prospettazione la difesa riepilogava una serie di anomalie riscontrate nell’attività della Procura quali la mancanza di vaglio critico degli interrogatori in cui Michele Misseri, modificando l’originaria versione, aveva accusato la figlia Sabrina; la mancata considerazione delle successive ritrattazioni di tali accuse; l’affidamento di ulteriori consulenze finalizzate ad allineare le conclusioni tecniche con le nuove prospettazioni accusatorie; le iniziative assunte nei confronti dei precedenti difensori di Sabrina Misseri, indagati per fatti inerenti all’esercizio del mandato difensivo; le limitazioni alla corrispondenza dei detenuti Michele e Sabrina Misseri nonché la perquisizione nella cella del Misseri e il sequestro di tutta la corrispondenza rinvenuta. L’attività inquirente era stata orientata, secondo la difesa, dal forte condizionamento che la Procura aveva subito di fronte ad un opinione pubblica ormai schierata contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Ma tale inquinamento si era esteso agli uffici giudicanti cosicché, ad avviso della difesa, proprio tale pesante condizionamento spiegava la revoca della misura cautelare nei confronti di Michele Misseri, che pure in numerose interviste continuava a proclamarsi l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. L’istanza di rimessione formulata sulla base di tali elementi è stata rigettata dalla Corte di Cassazione, con una motivazione a mio avviso del tutto condivisibile, che mette in luce i vari profili di infondatezza degli argomenti difensivi. Va premesso che l’istituto della rimessione, previsto dall’art. 45 del c.p.p., ha la finalità di garantire l’imparzialità e l’indipendenza del giudice nonché l’inviolabilità del diritto di difesa. In pratica la norma stabilisce che quando, per gravi situazioni ambientali, si presenti come probabile un condizionamento dei giudici, che non potrebbero dunque determinarsi in piena libertà ed indipendenza, il procedimento debba essere trasferiti ad altra sede. Si tratta peraltro di uno strumento eccezionale, che non tollera interpretazioni estensive in quanto la conseguente “translatio iudicii” va a collidere con un altro principio costituzionale ovvero quello del giudice naturale. La prima osservazione che deve essere fatta è che le “gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo” devono anche essere “non altrimenti eliminabili”. Ciò vuol dire che vengono in rilievo non l’imparzialità o l’indipendenza del singolo giudice o dello specifico collegio, perché in tali ipotesi sono previsti gli abituali strumenti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione, tutti meccanismi destinati ad eliminare le situazioni che possono incidere sulla libertà di autodeterminazione e sull’indipendenza del singolo magistrato, senza incidere sul principio del “giudice naturale”. Perciò le “gravi situazioni locali” a cui fa riferimento la norma, e che legittimano il trasferimento del processo ad altra sede, devono essere tali da pregiudicare la libertà di determinazione del complessivo ufficio giudiziario. L’art. 45 c.p.p. dunque autorizza lo spostamento del processo nel caso in cui emerga che la grave situazione ambientale, alternativamente:

1) pregiudichi la libera determinazione delle persone che partecipano al processo;

2) metta in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica;

3) determini motivi di legittimo sospetto.

Nella vicenda in esame si evidenzierebbero – secondo la prospettazione difensiva – le ipotesi di cui alle lettere a) e c). Al riguardo la giurisprudenza ha in più occasioni specificato che il pregiudizio alla libertà di determinazione degli attori del processo implica l’idea di una vera e propria coazione, fisica o psichica; mentre il legittimo sospetto coinvolge la probabilità, fondata su dati obiettivi e concreti, che risulti compromessa l’imparzialità di giudizio. In sostanza, poiché l’istituto della rimessione serve ad assicurare che il giudizio si svolga secondo gli irrinunciabili criteri di libertà e di indipendenza, esso può essere attivato soltanto in via eccezionale, quando, sulla base di elementi concreti, si possa ipotizzare che il giudice sia coartato fisicamente o psichicamente ad una determinata decisione ovvero vi sia il pericolo che possa essere condizionato.

Non sembra che tale situazione possa ravvisarsi a proposito del procedimento relativo all’omicidio di Sarah Scazzi per i seguenti motivi:

- in primo luogo la situazione che sarebbe alla base del sovvertimento del regolare svolgimento delle dinamiche processuali non è una situazione locale bensì nazionale. Proprio il clamore sulla stampa e sui mezzi televisivi - richiamato dalla difesa - ha evidentemente una ricaduta non sulla realtà del distretto di Taranto bensì su tutto il territorio nazionale: i talk show, i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli stessi social-network raggiungono ogni parte del territorio nazionale, cosicché lo spostamento del processo presso l’ufficio giudiziario di Bari (ai sensi dell’art. 11, richiamato dall’art. 45 c.p.p.) non risolverebbe in alcun modo la situazione di potenziale condizionamento.

- in secondo luogo, tale potenziale condizionamento dei magistrati di Taranto non è stato in alcun modo provato. Ed infatti gli argomenti evidenziati a tale proposito dalla difesa, da cui emergerebbe che l’attività inquirente è stata svolta con una sorta di accanimento o di “interpretazione meramente congetturale e illogica” delle emergenze, rappresentano in realtà - come la Cassazione ha riconosciuto - l’espletamento delle funzioni che l’ufficio di Procura è chiamato a condurre istituzionalmente. Analogamente i provvedimenti giurisdizionali indicati dalla difesa come “l’espressione di un pesante condizionamento ed inquinamento dell’attività giurisdizionale” non sono altro che le motivate e ponderate valutazioni dell’organo giudicante.

Si ha anzi l’impressione che la difesa tenti di ottenere – tramite l’istanza di rimessione – una nuova valutazione degli elementi posti alla base delle misure cautelari, in tale sede non consentita. È evidente che nel successivo corso processuale, il complessivo compendio probatorio dovrà essere sottoposto ad un vaglio particolarmente stringente in relazione alle varie ricostruzioni del delitto emerse nella fase di indagine, ma certo l’eventuale rivisitazione degli elementi emersi spetterà alla Corte d’Assise e non alla Cassazione, né può essere veicolata da un’istanza di rimessione.

Resta da aggiungere che in più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice.

Ed infatti chi svolge funzioni giudiziarie è abituato a compiere scelte ed attività che sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, e spesso di critica anche esasperata. Ma il giudice non per questo svolge le sue funzioni con un’indipendenza menomata o con un giudizio minato da imparzialità.

Sarah Scazzi. Mentre la Cassazione lascia il processo a Taranto in procura ci si interroga per capire qual è il sogno migliore, scrive Massimo Prati su “Volando Contro Vento”. Volevate il processo a Potenza? Per quale motivo visto che a Taranto, a parte il tribunale invivibile in estate (ma le udienze sono iniziate e siamo solo in autunno), si sta benissimo? E vero, a Potenza l'aria è  fresca e si è meno ossessionati, ma vuoi mettere il gustarsi il mare in inverno? Quindi si resta a Taranto, tutti se ne facciano una ragione perché, come ha detto il procuratore Franco Sebastio, anche fosse cambiata la sede il quadro accusatorio sarebbe rimasto invariato. Per cui, dato che il quadro rimarrà invariato ed il processo si celebrerà nel luogo di origine, dobbiamo aspettarci prima una condanna a 30 anni e poi un'assoluzione in Appello (ultimamente capitano queste cose in Italia)? Può sembrare io vada controcorrente dato che tutti i giornalisti ieri e ieri l'altro hanno scritto di una nuova vittoria delle Misseri (tutti tranne il solito noto che ha scambiato i giudici di Cassazione con quelli di Assise). E questo perché nel Palazzaccio romano si è stabilito che le decisioni dei giudici di Taranto devono essere riviste in quanto fallaci in quasi ogni punto. Ed è vero, la Cassazione ha cassato per l'ennesima volta i giudici di Taranto e, per essere onesti, li ha pure bacchettati di brutto. Ma a guardare bene il tutto non sono io ad andare controcorrente in quanto nella stessa sentenza si accreditano un sogno, basta decidersi e dire quale dei tre portati dagli inquirenti ai giudici si ritiene giusto, le testimonianze ex novo di chi in prima ed in seconda battuta aveva dato orari differenti, ed un range cronologico all'interno del quale Sarah sarebbe morta. Per lo meno si accredita la formula ed il metodo usati dai giudici nell'accettarli. E non può essere che così dato che non è compito della Cassazione andare nel dettaglio e decidere se quanto portato dalla procura ha basi solide, e ci sarà tempo e modo per l'Accusa di ribadirle a processo, le testimonianze, e cercare di farle diventare verità definitive, e ci sarà tempo e modo per la Difesa di provare a tornare alla prima tesi. Ed io credo non sia così complicato, perché se non paiono fallaci quattro testimonianze che cambiano nel tempo, inizialmente concordanti in tutto e per tutto, anticipando o spostando gli orari in modo da tornare ad essere concordanti per affrancare una nuova ricostruzione, significa che il modo di fare chiarezza è ambiguo e non idoneo ad entrare in un processo. Significa che nessun alibi portato a discolpa potrà mai ritenersi valido. E non solo a Taranto ma ovunque ed in qualsiasi processo lo si porti. Significa che ai procuratori basterà convincere chi indirettamente l'alibi l'ha fornito, meglio ancora se assecondato da chi fa tele-disinformazione, specialmente nei più seguiti programmi pomeridiani (vanno bene sia la D'Urso con gli onnipresenti avetranesi, a partire da Anna Pisanò, sia la Venier coi suoi opinionisti e psicanalisti tascabili, buoni per tutte le occasioni, escluso il Marazzita), per poter disporre di una diversa ricostruzione dei fatti, per poter disporre di un maggiore spazio temporale e di un alleato in più. E questo non è ciò che voleva chi ha scritto le tavole della legge. Non lo voleva ma è quanto avviene in Italia, ed è già avvenuto, da quando le indagini sono seguite ossessivamente dai media. Tanto che pare quasi un fatto normale, nei giorni o nei mesi, il cambiare le testimonianze acquisite. E che i giudici credano che il tempo agevoli il ricordo a me pare una presa per i fondelli bella e buona. Come può la mia mente, fra due tre o quattro mesi, ricordare meglio ciò che ha visto ieri o una settimana fa? Come può la mia mente dopo essere stata il bersaglio continuo dei programmi televisivi pregiudizievoli, programmi in cui mi hanno detto e ripetuto che i magistrati "hanno una montagna di prove così" e che quella determinata persona è un'assassina, programmi che mi hanno fatto cambiare idea sull'uomo che inizialmente ritenevo un orco ed ora ritengo manipolato, perché ha "solo" gettato il corpo della nipote in una cisterna piena d'acqua (è stato costretto il poverino)... ripeto, come può la mia mente essere tranquilla e neutrale ad ogni interrogatorio in cui mi si dice che quanto ho dichiarato precedentemente non ci sta nel quadro accusatorio già sistemato e concordante? Come può la mia mente non credere di essersi sbagliata visto che il tam tam mediatico mi continua a dire che non è quello l'orario in cui ho visto e che per essere giusto deve spostarsi di, addirittura, 35/40 minuti? Ma i giudici di Cassazione, oltre ad aver concordato con quelli di Taranto che le procedure giuridiche adottate per anticipare o spostare gli orari erano nelle regole, in un certo senso hanno reso valido, anche se in modo del tutto particolare, uno dei sogni del fioraio. Certo è che in procura devono decidere quale sogno e quale ricostruzione vogliano portare al processo, visto che al momento ne stanno utilizzando tre, ed è ora che optino per la ricostruzione che ritengono migliore. Ma qual'è la migliore? Quella della coppia Cerra/Pisanò che parla di un sequestro avvenuto in via Deledda con Sarah presa per i capelli e trascinata in casa, racconto che si dice fatto dal fiorista alla Cerra poi da questa a sua madre e da quest'ultima ai magistrati? Oppure la migliore è quella delle sorelle Scredo? In questa si è parlato di un sogno dove si diceva ci fosse stato uno strangolamento avvenuto in auto da parte di un ombra robusta dai capelli neri chiamata Sabrina Misseri. Anche nel caso in questione il tutto è partito dalle parole del fiorista, stavolta però da quelle dette alla moglie, che passando di bocca in bocca sono arrivate alla Giuseppina Scredo e sono state scoperte dagli inquirenti, grazie alle intercettazioni telefoniche, mentre la stessa le riportava alla sorella Anna. Ma non sarà che dopo averlo tolto dagli imputati del processo principale, ed averlo messo in stand-by in attesa di decisioni, verrà accettata la ricostruzione dello stesso Buccolieri che, sempre in via onirica, ha semplicemente detto di aver visto la Serrano intimare alla nipote di salire in auto? Perché c'è una enorme differenza fra una testimonianza e l'altra, è innegabile, ed a mio modo di vedere pare che nei giorni, anzi nei mesi, il racconto del fioraio sia stato ripreso da più persone e sia stato, in base a chi lo ha ascoltato e ripetuto, modificato più volte e da più bocche (il solito telefono senza fili). Ma forse la mia è una mente troppo pessimista e condizionata da quanto visto e letto nel tempo, perché la sentenza è sostanzialmente davvero favorevole alle donne ora in carcere. I giudici di Cassazione hanno scoperto quali trucchi sono stati usati da chi continuamente metteva in scena nuovi giochi di prestigio. Hanno scoperto che sarebbe potuto accadere (ma il mio è uno scrivere per assurdo) che Sabrina Misseri fosse processata e condannata due volte, visto che ha due imputazioni diverse per la stessa accusa. Hanno scoperto che non ci sono indizi validi a pronosticare una certa condanna e che, quindi, la ragazza sta in carcere da un anno in base al nulla. Hanno scoperto che non si sa ancora quale sia il luogo in cui i magistrati di Taranto vogliano collocare l'omicidio, in auto, in casa, in garage, sotto il fico, in piazza, dal fiorista? Hanno scoperto che al tribunale di Taranto dal 1987 non amano aggiornarsi sulle Leggi che periodicamente entrano a far parte del Codice Penale italiano. Hanno scoperto che non si è dato spazio alla perizia della Difesa, quella sulla localizzazione dei cellulari, preferendo non aprirla neppure e continuare con la perizia che più li agevolava. Hanno scoperto che a Taranto ci si è dimenticati di ascoltare il Misseri quando ne ha fatto richiesta ed anche dopo, sia quando ha cambiato versione che quando si è inserito agli atti un suo soliloquio, dando di questo un'interpretazione parziale senza chiedere all'occultatore cosa volesse significare in realtà con quelle parole. Hanno scoperto che non si è cercato di capire cosa intendesse dire Sabrina Misseri quando "confessava" la sua colpevolezza ad Anna Pisanò, preferendo accettare le dichiarazioni di quest'ultima senza approfondirne il significato. Hanno scoperto che non esiste motivo alcuno, i giudici di Taranto non l'hanno scritto, che spieghi la carcerazione di Cosima Serrano. Hanno scoperto che i magistrati pugliesi non sanno se questa fosse a conoscenza dello "sfrenato amore" di sua figlia nei confronti di Ivano, non ci sono risultanze che lo provino, hanno scoperto che la si è inserita nel delitto, sia avvenuto in auto oppure in casa o in qualsiasi altra parte, senza giustificarne i motivi. Perché Cosima Serrano avrebbe dovuto aiutare sua figlia ad uccidere la nipote? Per "amore di mamma"? Ed inoltre a Roma hanno capito, salvo poi chiedere ai giudici tarantini di decidere quale ricostruzione accettare (come ho scritto sopra), che non si può ascrivere alle indagate il "sequestro di persona" in base a tre modus operandi onirici differenti e difficilmente provabili. Insomma, il caos continua in quel di Taranto. Però, seppure ora i magistrati debbano mettersi in riga, studiare ed aggiornarsi maggiormente, dopo la sentenza che li ha cassati all'80% nell'animo hanno qualche speranza di condanna in più. Una nasce dai cellulari delle due arpie che il giorno successivo la scomparsa non stavano, come detto dai loro difensori, alla ricerca della nipote ma stazionavano nei pressi di una cisterna. Questo la Cassazione non l'ha cassato, ma per renderlo credibile dovranno trovare il modo di restringere il raggio d'azione della cella che ha agganciato i cellulari, al momento di una ventina di chilometri. Un'altra nasce dal fatto che a Roma non si sono permessi di entrare nello specifico, guardando solo la forma e la scrittura, ed hanno lasciato passare liscia l'affermazione che vuole l'omicidio avvenuto fra le 14.00 e le 14.40. Ciò però non significa che il delitto si sia compiuto fra le 14.05 e le 14.15 (come ha scritto il patologo e come affermano i procuratori) perché potrebbe essere avvenuto anche 25 minuti dopo e restare ugualmente in questo lasso di tempo. Perciò il dire che si possono accettare le ricostruzioni degli orari accertati dalla procura, a riguardo di quanto fatto da Sarah prima della sua morte, anche se pare una forzatura per via delle testimonianze postume, in realtà non è sbagliato. Per capirlo basta fare un ragionamento logico (come ho scritto non toccava alla Cassazione farlo o spiegarlo ma lo si farà in Assise... chi lo spiega questo al giornalista pugliese?). Gli inquirenti tarantini danno credito al dottor Strada che in perizia scrive la morte essere giunta ad un'ora dall'aver mangiato il cordon bleu. E tutto andrebbe a posto se Sarah l'avesse mangiato alle 13.10. Ma le nuove testimonianze della madre e della badante vogliono che la ragazzina lo abbia mangiato alle 13.30, dopo aver ricevuto (a suo dire) il messaggio della cugina e poco prima di prepararsi per uscire di casa (l'orario è agli Atti). Ebbene, in base a questo è capibile da tutti che l'aggressione non può essere iniziata che attorno alle 14.30, e non fra le 14.05 e le 14.15 come si ipotizza nella ricostruzione della procura (che ha inserito appositamente un sms ed una telefonata dell'amica, a cui Sarah non ha risposto, per far credere che alle 14.18 fosse già cadavere). E se l'aggressione si posiziona sulle 14,30, e con quanto portato in Cassazione (pur non volendolo dire) lo dicono i Pm che prendono come base la perizia di Luigi Strada e non io, i minuti disponibili per l'omicidio, parlo di quelli necessari a Sabrina Misseri, tornano ad essere insufficienti per lei ma sufficienti per altri. O vogliamo credere che mentre la figlia spediva e riceveva messaggi la madre faceva il "lavoro sporco"? Perché o crediamo questo o siamo bloccati dalla ricostruzione della procura. Ed a meno che i Pm non tornino da Concetta Serrano e dalla badante romena per cercare un diverso orario del pasto grazie ad altri sforzi mnemonici...

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

ROBERTO SAVIANO. GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.

Roberto Saviano e la gente di sinistra, martiri ovunque, comunque e per sempre. Camorra, il Tribunale di Napoli assolve i boss Iovine e Bidognetti: "Niente minacce a Roberto Saviano", scrive “Libero Quotidiano”. I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti a Napoli nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista e senatrice Pd Rosaria Capacchione. Bisognetti e Iovine, che qualche mese fa ha deciso di collaborare con la giustizia, sono stati assolti "per non aver commesso il fatto". I pm avevano chiesto la condanna a un anno e sei mesi per il primo e l'assoluzione per il secondo. Assolto anche l'avvocato Carmine D'Aniello, per il quale era stata chiesta una condanna sempre di un anno e sei mesi. I giudici della terza sezione del Tribunale di Napoli hanno condannato solo Michele Santonastaso, legale di Bidognetti, a un anno di reclusione, con pena sospesa. Il legale dovrà anche risarcire i danni all'autore di Gomorra, alla onorevole democratica e all'Ordine dei giornalisti della Campania, che si era costituita parte civile al processo. Stabilita anche una provvisionale di 20mila euro alla Capacchione. "Sono un po' frastornato - è il commento a caldo di Saviano -, tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l'attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale". Per lo scrittore la condanna del solo Santonastaso si tratta comunque di una mezza vittoria: le minacce ci sono state, sia pur non partite direttamente dai due boss che Saviano definisce "guappi di cartone". "Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita", è l'auspicio del 35enne autore napoletano, che vive sotto scorta dal 2006, quando le sue accuse ai boss della camorra salirono alla ribalta nazionale grazie al discusso e vendutissimo Gomorra. Tutto nasce da un documento firmato da Iovine e Bidognetti letto dall'avvocato Santonastaso durante un'udienza del processo d'Appello Spartacus, il 13 marzo 2008. In quel testo, i due boss accusavano Saviano e la Capacchione di essere "pseudo-giornalisti" e "prezzolati", manovrati a fini politici per colpire i due boss. Secondo il pm antimafia Antonello Ardituro, però, quelle parole altro non erano se non "messaggi" in "linguaggio mafioso" per invitare gli altri camorristi a colpire non solo Saviano e la Capacchone, ma anche altri nemici di spicco della camorra come i magistrati di Napoli Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone (accusati dai boss di "imbrogliato le carte". "Questo è un giorno decisivo e questo è un processo importante a prescindere da me, voglio essere obiettivo anche se sono coinvolto. Ciò che è certo è che sono tremendamente in ansia, lo vivo come una resa dei conti", scriveva Saviano poche ore prima sulla propria pagina Facebook. "Nella storia della camorra non era mai successo che i capi di un clan si fossero esposti così in prima persona sulla libertà di stampa, quindi questa è una novità assoluta - ricordava -. Il pentimento di Antonio Iovine è stato già anche in parte una vittoria. E' stato difficilissimo, quando sono andato in aula come testimone c'è stato un momento in cui la difesa dei boss ha cercato di processare me, di far saltare la mia credibilità".

IL PROCESSO MEDIATICO. Le minacce di morte? Una favola di Saviano. Innocenti i boss del clan dei Casalesi Bidognetti e Iovine. Condannato solo uno degli avvocati , scrive Vincenzo Imperitura su “Il Tempo”. Una condanna e tre assoluzioni: è finito così il processo più mediatico degli ultimi anni, che vedeva alla sbarra due superboss della camorra dei Casalesi, Francesco Bidognetti e Antonio Iovine (da poco divenuto collaboratore di giustizia), oltre agli avvocati storici del clan. Su tutti Carmine D’Aniello (assolto nonostante la richiesta di condanna che il pm, in fase di requisitoria, aveva fissato in un anno e sei mesi) e Michele Santanostaso, unico condannato in questa vicenda sul filo di minacce (forse) sussurrate e amplificate dai media, a cui i giudici di Napoli, in primo grado, hanno inflitto una pena di un anno e una provvisionale di 20 mila euro da risarcire all’ex penna del Mattino (e ora senatrice nelle file del Pd) Rosaria Capacchione. Si chiude così, con un sostanziale nulla di fatto rispetto alle ipotesi di reato avanzate dalla Procura partenopea (almeno per quanto riguarda i boss del malaffare), uno dei processi più controversi degli ultimi anni: lo stesso processo che mosse i suoi primi passi a seguito di un’istanza di ricusazione che gli avvocati dei boss del Casalesi poi finiti a processo avevano presentato nei confronti dei giudici napoletani che, a loro dire, non erano competenti rispetto al giudizio. Una tesi difensiva sostenuta dalla difesa degli imputati anche in sede di arringa, tanto che l’avvocato Angeletti aveva rimarcato al Tribunale che «Voi non siete i giudici naturali, doveva essere competente il Tribunale di Roma». E così, tra processi che si sgonfiano e indici di «gradimento» che perdono pezzi, quello passato da Roberto Saviano non è certamente un momento da ricordare. Appena qualche mese fa, infatti, un’altra sentenza aveva mandato assolto l’ex capo della mobile di Napoli Vittorio Pisani, tirato in ballo da un pentito che lo accusava di avere tracciato un canale privilegiato per lo stesso collaboratore di giustizia e finito (lui, Pisani, il super poliziotto che riuscì a mettere le manette ad alcuni dei pezzi più pregiati nella galassia dei latitanti di camorra) nel tritacarne mediatico per aver osato contestare, in maniera garbata, la presenza della scorta nei confronti dell’autore di Gomorra. Saviano, dal canto suo, che nei giorni immediatamente precedenti alla lettura del dispositivo aveva parlato di processo epocale (concetto poi ripreso anche da alcuni dei mostri sacri del giornalismo italiano) si è detto comunque soddisfatto della sentenza emanata dai giudici dichiarando che «dare la scorta a chi scrive significa permettere di scrivere e garantire un diritto costituzionale. Spero che questa sentenza possa essere un primo passo verso la libertà, che ora ci possa essere una mia vita nuova. Non sono imbattibili – ha detto ancora Saviano rispetto ai boss della camorra – non sono invincibili e la sentenza lo dimostra. Viene riconosciuta dopo tanti anni la minaccia. Sono un po' frastornato. Sono anni che aspettavamo questo risultato. Mi colpisce che in questo caso viene condannato un avvocato con l'aggravante mafiosa come responsabile delle minacce, come se fosse stato lo strumento usato dal clan per minacciare. Il pensiero va alla battaglia fatta in questi anni, alla possibilità di credere che le parole fanno paura. Il clan ha minacciato attraverso un avvocato i lettori e, quindi, tutti quelli che in questi anni si sono opposti ai clan». Dichiarazioni che un po’ cozzano con l’esito del dibattimento, visto che proprio i boss Iovine e Bidognetti sono stati assolti dai togati e che con la fase processuale, tutto sommato, c’entrano poco, tanto che il legale dell’unico condannato aveva ricordato come «sono da condividere molte iniziative dello scrittore Saviano e lo spirito con cui si batte, ma qui, in questo processo, noi pretendiamo che valgano le regole del processo. Quell'istanza di remissione (da cui era partito tutto il procedimento – fu un'azione processuale e non un atto di violenza o prevaricazione. Pretendiamo che qui si applichino le regole del processo. Quindi non era un atto di «fuorigioco», tantomeno di violenza verbale o minacce. Ma qui norme e regole non sono valse, per alcuni magistrati dell'ufficio della pubblica accusa». Ieri il processo è finito con una condanna e tre assoluzioni: un mezzo buco nell’acqua.

Non si sa se essere soddisfatti, perché alla fine le frettolose accuse sono state rigettate, o se essere preoccupati perché su di esse sono stati imbastiti procedimenti privi di riscontri oggettivi e addirittura condanne. Ma questo è il bottino di giustizia del giorno, prendiamocelo…, scrive Giuliano Ferrara su "Il Foglio". La Corte d’appello dell’Aquila ha cancellato la sentenza ridicola che aveva comminato in primo grado sei anni di carcere ai membri della commissione Grandi rischi, “colpevoli” di non aver indovinato la data e il luogo in cui si sarebbe verificato il terremoto. Considerati responsabili, nientemeno che di omicidio e lesioni colpose. E’ già a stento comprensibile che le vittime di un tragico evento naturale cerchino di trovare per forza un responsabile da punire, senza limitarsi a maledire la malasorte, ma non è proprio ragionevole che la magistratura si faccia condizionare dalla pressione mediatica e dal dramma fino al punto di non distinguere i reati dalle fantasticherie. Lo stesso errore, quello di inseguire la popolarità invece di raccogliere prove per sostenere le accuse vale anche per la sentenza che ha assolto, sempre ieri, due capicamorra indicati da Roberto Saviano come mandanti delle minacce che erano state ravvisate nell’intervento processuale del loro avvocato. I boss sono stati anch’essi assolti, addirittura “per non aver commesso il fatto”, il che giustifica il sospetto che la procura abbia agito, nell’istruire un procedimento fallimentare, in base alla ricerca di protagonismo e di sintonia con campagne mediatiche, invece di riscontrare le accuse attraverso gli organi investigativi preposti, che non possono essere certo sostituiti dalle considerazioni suggestive di uno scrittore. Non si sa se essere soddisfatti, perché alla fine le frettolose accuse sono state rigettate, o se essere preoccupati perché su di esse sono stati imbastiti procedimenti privi di riscontri oggettivi e addirittura condanne. Ma questo è il bottino di giustizia del giorno, prendiamocelo.

Secondo Dagospia: Roberto Saviano, i boss dei Casalesi assolti, le minacce e la scorta: tutti i misteri dell'autore di Gomorra, scrive “Libero Quotidiano”. La sentenza da parte del tribunale di Napoli, che ieri ha assolto i boss casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine dall'accusa di aver rivolto intimidazioni a Roberto Saviano, fa sorgere un dubbio significativo: chi minaccia lo scrittore di Gomorra? Una domanda che non viene cancellata dalla condanna all'avvocato dei boss, reo di aver diffamato Saviano. I falsi allarmi - E' Dagospia a sollevare questo quesito: non è la prima volta che il clan dei Casalesi viene assolto da intimidazioni a Saviano, dato che nel 2009 il pm Antonello Ardituro archiviò l'inchiesta sull'ipotesi di un attentato ai danni dello scrittore. Il magistrato accertò che si era trattato soltanto di un falso allarme, dettato da un "eccesso di zelo" da parte di un investigatore. E ancora prima, Vittorio Pisani (ex capo della Squadra mobile di Napoli) aveva firmato una relazione di servizio con cui si esprimeva negativamente sull'assegnazione della scorta. "A noi della Mobile - spiegò successivamente Pisani - fu data la delega per riscontrare ciò che Saviano aveva raccontato sulle minacce ricevute, ma dopo gli accertamenti demmo il parere negativo". "Ma chi è Saviano?" - Infine è stato lo stesso Antonio Iovine ad affermare ai pm nello scorso giugno: "Ma chi è Saviano? Ma che ce ne importa a noi?". Resterebbero da vedere le informazioni riservate sui pericoli che corre Saviano: quelle sono in mano al ministero dell'Interno, che ha il compito di assegnare le scorte. Roberto Saviano scriveva su Twitter, alla vigilia della sentenza sui boss che lo avrebbero minacciato: “Sono in attesa della sentenza. In attesa di un passaggio essenziale della mia vita”. I boss sono stati assolti, mentre è stato condannato il loro avvocato per averlo diffamato. A questo punto, passati molti anni dall’assegnazione di una scorta a Saviano, e dopo questa sentenza, è forse lecito chiedersi: chi minaccia davvero Roberto Saviano? L'assoluzione “per non aver commesso il fatto”, decisa ieri dal Tribunale di Napoli, per i boss casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine – accusati con l'avvocato Michele Santonastaso, unico condannato a un anno (pena sospesa), di aver rivolto intimidazioni allo scrittore di Gomorra durante il processo Spartacus – più che dare una risposta solleva questa domanda. Da chi Saviano viene protetto da un imponente apparato di sicurezza secondo solo a quello del presidente della Repubblica? Nel giugno 2009, il pm della Dda Antonello Ardituro archiviò l'inchiesta sull'ipotesi di un attentato ai danni dello stesso scrittore ordito dal clan dei Casalesi. Il magistrato, oggi consigliere del Csm, accertò che si era trattato di un falso allarme dettato da un “eccesso di zelo” da parte di un investigatore. Ancor prima, era stato l'ex capo della Squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani (autore, peraltro, dell'arresto proprio di Michele Zagaria e di Antonio Iovine) a firmare una relazione di servizio con cui dava parere negativo all'assegnazione della scorta. Spiegò tempo dopo il poliziotto al giornalista Vittorio Zincone che “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo”. Pisani fu attaccato a furor di popolo per quelle dichiarazioni e l'unico che confermò la correttezza di quella valutazione tecnica fu il generale dei carabinieri Luigi Sementa, all'epoca comandante della polizia municipale del capoluogo. In ultimo, è stato proprio Antonio Iovine, neocollaboratore di giustizia, a raccontare com'è che lui – allora superlatitante di camorra – aveva vissuto il fenomeno Gomorra. “Tu sei scemo, ma chi è, ma che ce ne importa a noi di questo Saviano?”, ha detto il pentito ai pm che lo hanno interrogato in carcere nel giugno scorso. “Santonastà (Michele Santonastaso, il legale condannato, ndr), ma perché non ti stai zitto con questo Saviano? Ma lascialo perdere…”. Sicuramente, il comitato del ministero dell’interno che assegna le scorte, ha informazioni riservate sui pericoli che corre Saviano che il pubblico non conosce (e non potrà mai conoscere, per ragioni di riservatezza e sicurezza). Ma con la sentenza di ieri cade una delle poche (potenziali) minacce che sono emerse in questi anni.

L’intervento di Sansonetti: da vero garantista. Si dice Cucchi, si intende Saviano. Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo ”stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – ”Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi ( e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza?

P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.

Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’ efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’ alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.

Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....

Un Giudice di Fabrizio de André

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura,

ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,

o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,

che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;

la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore,

per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale,

giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"

e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».  

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

Elezioni, gli impresentabili al Sud. Le elezioni amministrative in Italia, dalla Campania alla Puglia: quando la realtà supera la fantasia, scrive Sabino Labia su Panorama. Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha invitato gli elettori della Campania a non votare i cosiddetti impresentabili presenti, numerosi, nelle liste apparentate al candidato del Pd alle Regionali, Vincenzo De Luca. Un invito che in molti stentano a capire dal momento che il Pd campano, Vincenzo De Luca stesso e il Pd della Nazione, guidato sempre da Renzi, hanno comunque avallato quei nomi prima di depositare le firme. Un po' di storia, in questo, caso, serve. A soli dieci anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e dopo appena tre tornate elettorali, il 25 gennaio 1955 l’allora ministro dell’Interno, Mario Scelba, presentò un progetto di legge il cui titolo riportava Norme per la disciplina della propaganda elettorale. La motivazione era che bisognava porre un freno al dilagare di ogni genere di esagerazione economica e, soprattutto, di decenza e cattivo gusto durante le campagne elettorali. Naturalmente quella proposta rimase tale e non divenne mai legge. Questo curioso precedente, sta a dimostrare che in Italia, da sempre, il lungo ed estenuante periodo che precede il voto rappresenta una sorta di fiera paesana, o ancora di più, un’orgia carnevalesca dove i candidati sono le maschere che vi partecipano. Il Principe della risata, il grande Totò, con il film Onorevoli fu il primo a portare, sul grande schermo, tutti i vizi, per usare un eufemismo, della politica italica di quegli anni. Il candidato dal nome improponibile, Antonio La Trippa, chiuso in un bagno urlava il proprio nome da un imbuto. Naturalmente con il passare degli anni, la politica si è evoluta e nel Terzo Millennio è arrivato lo straordinario Antonio Albanese che con il suo Cetto La Qualunque, qui il cognome è di per se un vero programma, ha cercato in tutti i modi di estremizzare quella che rappresenta l’evoluzione della specie del candidato. Il prossimo 31 maggio 2015 si svolgerà in Italia una tornata elettorale di rilievo per il numero di amministrazioni locali interessate e che prevedibilmente e, immarcescibilmente, rappresenterà l’ennesimo banco di prova per Matteo Renzi e l’azione del governo. Tuttavia, nei comuni grandi e piccoli della Penisola, il voto viene visto, come dicevamo, più come una fiera paesana dove mettere in mostra ogni genere di specie e sottospecie di candidato. Uno degli esempi più evidenti di questo Carnevale si svolge in Puglia e per la precisione a Cerignola. Per la cronaca stiamo parlando di un paesone di quasi 60mila abitanti che ha dato i natali, tra gli altri, a Nicola Zingarelli, l’autore del dizionario; Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano e Giuseppe Tatarella, il ministro dell’armonia. Ebbene, la campagna elettorale del Terzo Millennio in Capitanata è già partita con largo anticipo rispetto alle date canoniche. I candidati alla carica di consigliere sono oltre 400, distribuiti in 18 liste; praticamente ogni famiglia, che si sa al sud sono numerose, ha un parente in lista e la battuta che circola in Paese è che per il compleanno, i genitori regalano un 6x3 al proprio erede, il riferimento è al manifesto elettorale. Poi ci sono, naturalmente, i pezzi grossi, i cosiddetti big che concorrono alla carica più importante, quella di sindaco. In tutto sono sette in rappresentanza di ogni genere di partito e movimento. Tra questi, c’è colui che, però, sta rubando la scena agli avversari sin dalle battute iniziali. I suoi video su youtube sono diventati realmente contagiosi, o come si dice adesso virali. La prima uscita pubblica ha visto l’arrivo del candidato in un ristorante con tanto di limousine bianca, codazzo al seguito e, come musica di sottofondo, la colonna sonora di Rocky. Per l’occasione è stato illustrato il programma, dove il punto di forza è quello di fare uscire dal carcere tutti. Ma, quello che è diventato un vero e proprio must della Rete, è la cena elettorale finita in rissa con il suo tesoriere preso a schiaffi, calci e sedia sulla schiena. Il suo motto è la libera traduzione di quello che Barack Obama utilizzò durante la sua prima elezione, e Yes we can è diventato C la puteim fall in idioma locale. Altro che Antonio La Trippa e Cetto La Qualunque, in Italia la realtà ha superato di gran lunga la fantasia.

Elezioni, i candidati «impresentabili» al vaglio dell’Antimafia. Iniziativa di Rosy Bindi: i «curricula» di inquisiti, fascisti, presunti amici di «Gomorra» valutati dalla commissione parlamentare. I risultati prima del 31 maggio, scrive Monica Guerzoni su  “Il Corriere della Sera”. Gli «impresentabili» al setaccio dell’Antimafia. Sul tavolo di Rosy Bindi c’è un fascicolo alto così, con i nomi dei candidati che negli ultimi giorni hanno riempito le pagine politiche dei giornali. I curricula di inquisiti, fascisti, presunti amici di «Gomorra», trasformisti e via sobbalzando verranno valutati dalla commissione parlamentare. Un organismo che tra i suoi compiti costitutivi annovera quello di «indagare sul rapporto tra mafia e politica, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive». Sulla base di questo principio la presidente Bindi ha avviato un’inchiesta interna, i cui risultati saranno resi noti prima delle regionali del 31 maggio. La scrematura delle liste sarà fatta attenendosi ai dettami del codice di autoregolamentazione, che l’Antimafia ha approvato all’unanimità il 23 settembre 2014. L’intento non è certo quello di condizionare il voto, ma di fornire agli elettori un vademecum che consenta di tracciare una linea netta tra i candidati puliti e gli altri, i cui nomi non andrebbero scritti sulla scheda. Dal punto di vista della legge Severino sono tutti in regola, anche quelli spuntati nelle liste di Vincenzo De Luca in Campania e che tanto scandalo hanno suscitato. Il punto, per Bindi, è l’opportunità politica di infilare, nelle liste civiche che appoggiano l’aspirante presidente, persone che non sono affatto al di sopra di ogni sospetto. E che magari, pur senza essere direttamente coinvolte in affari criminosi, hanno legami con famiglie della malavita. «L’etica della politica non è misurabile solo con gli atti giudiziari» va ripetendo Bindi, che ieri alla presentazione della Enciclopedia delle Mafie al Senato ha detto «il garantismo è un grande valore, ma la politica deve essere molto più rigorosa e darsi un codice di comportamento più stringente, che non faccia riferimento agli atti giudiziari». Per la ex presidente del Pd, insomma, la politica deve arrivare prima della magistratura: «Se si dice che nelle liste ci sono impresentabili si deve anche dire ai cittadini che gli impresentabili non vanno votati». Il presidente Pietro Grasso ha parlato della «dimensione clientelare della politica» e del rapporto di scambio con l’elettorato, «sovrapposizione» che non consente al nostro Paese «un progresso visibile sul piano della lotta alla criminalità organizzata». Il Pd è in allarme. Il presidente della Toscana Enrico Rossi ha dichiarato a Repubblica che il Pd avrebbe dovuto intervenire da Roma per «bloccare ed espellere, evitare presenze imbarazzanti e insignificanti». I senatori Capacchione, Cuomo e Saggese hanno chiesto al Nazareno di «fare pubblicamente i nomi degli impresentabili da non votare» e ora si dolgono di non essere stati ascoltati: «C’è un problema politico che la segreteria regionale del Pd non è riuscita a risolvere...». Ma Lorenzo Guerini assicura che le liste del Pd «sono pulite, di qualità e rispettano il codice etico interno». Certo, ammette il vicesegretario, alcuni casi «creano amarezza». Un «supplemento di vigilanza» sarebbe stato utile e bisognerà al più presto aprire una riflessione su quelle liste civiche che sono diventate «puri collettori di voti». Eppure De Luca si sente a posto con la coscienza e, senza imbarazzo, chiede a Renzi di «correggere» la legge Severino che potrebbe impedirgli di governare. Al Corriere Nichi Vendola ha detto di vedere «sinistre somiglianze» tra Renzi e Berlusconi, il quale aveva «confidenza con la mafia». Ma ieri il leader di Sel ha aggiustato il tiro: «Non penso affatto e non ho mai detto che Renzi abbia confidenza con la mafia. Trovo semplicemente imbarazzante il suo silenzio alle parole di Saviano sulla presenza di Gomorra nelle liste associate al candidato Pd della Campania».

Impresentabili e voltagabbana. Quanti sono gli impresentabili, ovvero gli inquisiti o, peggio ancora, i condannati? E i voltagabbana che nel giro di pochi mesi hanno cambiato schieramento saltando sul carro del probabile (almeno così pensano loro) vincitore? Ecco un primo «album» con tanto di foto, di nome e cognome, scrive Nino Femiani su “Il Corriere della Sera”.

1. Vincenzo De Luca. Vincenzo De Luca, candidato presidente del centrosinistra condannato un anno di reclusione (pena sospesa) per aver promosso «in totale assenza di motivazione» il suo braccio destro Alberto Di Lorenzo. Al momento della sentenza l’allora sindaco di Salerno commentò: «Condanna demenziale, per aver usato l’espressione project manager invece di coordinatore».

2. Vincenzo De Leo. È l’«uomo nero» di Casal di Principe e sostiene De Luca. Simpatizza per il Fronte nazionale ma dice: «Non sono di destra, sono entrato nel movimento perché appoggiava le mie battaglie contro i termovalorizzatori e quelle per la Terra dei fuochi». Ecco cosa ha raccontato in un’intervista a Gianluca Abate e pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno.

Vincenzo De Leo da Casal di Principe, l’«uomo nero» che sostiene il candidato del Pd Vincenzo De Luca...

«Questo è fango».

Perché, dire che uno è di destra è un’offesa?

«No, ma io non lo sono. E definire uomo nero uno che ha un figlio piccolo è folle».

Guardi che è lei che sta nel Fronte nazionale.

«Vero. Ma insisto: non sono di destra».

Adriano Tilgher, il presidente del suo movimento, l’uomo che fondò Avanguardia nazionale con Stefano Delle Chiaie, si definisce «il più rosso tra i neri». Dunque lei deve essere uno dei neri.

«No, io sono entrato nel movimento perché appoggiava le mie battaglie contro i termovalorizzatori e quelle per la Terra dei fuochi. E, soprattutto, mi hanno sempre detto che non è uno schieramento di destra».

Cosa pensa che sia, allora?

«I dirigenti con me si sono sempre espressi in termini movimentisti. E, anzi, hanno sempre sottolineato — così come ha fatto il presidente — che destra e sinistra non esistono più, sono categorie di un secolo passato».

Questa è una storia buona per i comizi.

«Allora mi spiego meglio. Ho sempre saputo di far parte di un movimento schierato dalla parte del popolo e contro le banche. Se poi qualcuno s’è nascosto dietro un velo dicendo di non essere di estrema destra e invece lo è, be’ in quel caso sono prontissimo a lasciare il Fronte nazionale».

Lo stesso Tilgher — in un’intervista rilasciata a Fabrizio Roncone e pubblicata ieri sul Corriere della Sera — dice di sapere bene che il tono del Fronte nazionale è «vagamente mussoliniano». E definisce «attualissimi» quei discorsi. È d’accordo?

«Ho letto. E Adriano mi ha anche chiamato per chiedermi scusa, dice che non è stato compreso».

Già, la vecchia storia delle frasi travisate. Ma sulle sue dichiarazioni non mi ha ancora risposto...

«Mi hanno turbato. Io vengo da un’esperienza universitaria di sinistra, sono stato cinque anni con il Movimento 5 Stelle che ho lasciato quando mi hanno abbandonato, ho le foto di Che Guevara su Facebook. Accostare il mio nome a quello di Mussolini è una cosa che mi fa tremare. E se per Tilgher è pubblicità gratuita, io ne pago le conseguenze. E le pene».

Lei che ne pensa di Benito Mussolini?

«Quello che ha fatto in Italia storicamente è stato un errore. Ciò detto, non sono preparato sulla sua figura».

Un altro candidato nello schieramento di De Luca, Carlo Aveta, spesso si reca a Predappio. Lei ci va?

«Predappio sarebbe quel posto dove c’è la tomba di Mussolini, vero?».

Sì.

«Neppure so in quale regione si trovi. Insisto, accostare la mia persona a quella di un estremista di destra è sbagliato. Io del Fronte nazionale non ho neppure la tessera».

Però è il segretario a Casal di Principe. Strano, no?

«Sì, in effetti c’è questa cosa strana. Ma serviva un ruolo formale per poter utilizzare il timbro e fare le denunce».

Quello che lei usa è il timbro di un movimento secondo il quale «Renzi ha dichiarato guerra agli italiani». Eppure lei sostiene il candidato del Pd. Strano anche questo, no?

«Renzi, se si propone come parla, mi piace. Ha la mentalità giusta. E Tilgher mi chiamò anche quando vide una mia foto con lui, disse che era scosso».

Il Fronte nazionale sostiene anche che Mattarella «piace agli Usa ma non a noi». Come farà se lo incontrerà da consigliere regionale?

«Non sono d’accordo con loro. Mattarella è una figura istituzionale, va rispettata».

Scusi, ma se è così mi spiega lei che ci sta a fare in quel movimento?

«Visto quel che sta accadendo mi inizio a porre qualche interrogativo, e ne parlerò con Tilgher. Se il Fronte nazionale metterà nero su bianco che non c’entra nulla con l’estrema destra e con i riferimenti a Mussolini bene, altrimenti sono pronto a uscire. Subito».

3. Carlo Aveta. Ex consigliere regionale de «La Destra» è stato folgorato da De Luca tanto da sostenerne anche la sua campagna per le primarie. È finito in una aspra polemica sui gay. «Si può ancora dire in un paese libero e democratico che questi mi fanno schifo?», scrisse sulla sua pagina Facebook riferendosi a tre omosessuali, che si tenevano per mano e si baciavano a un gay pride. Poi la rettifica ma gli imbarazzi restano nel campo che sostiene de Luca visto che Aveta è con la lista «Campania in rete» che sostiene l’ex sindaco.

4. Enrico Maria Natale. «Ho lasciato da tempo le file di Forza Italia, perché ritengo che ormai di tale coalizione sia rimasto solo il nome». Ma non è solo e non è tanto questo, ovvero i trascorsi politici, ciò che fa storcere il naso a mezzo Pd riguardo la candidatura di Enricomaria (si scrive tutto attaccato) Natale nella lista «Campania in rete» collegata al candidato governatore Vincenzo De Luca. Il fatto è che il 30enne di Casal di Principe, rampollo di una famiglia di imprenditori dagli interessi diversificati, con una «laurea» finalmente conquistata in un ateneo estero dopo alterne fortune a Lettere della Federico II, ha su di sé il peso di un cognome «scomodo» per le tante vicende giudiziarie che per 15 anni hanno interessato il padre Mario. Che ne sarà anche venuto fuori dopo due arresti ed altrettante scarcerazioni per le accuse di interposizione di beni fittizi (in pratica: di «prestanome») con l’aggravante del favoreggiamento camorristico, e si sarà anche visto riconoscere indennizzi dallo Stato per «ingiusta detenzione» e restituiti i beni sottratti, ma resta sempre — agli occhi dell’opinione pubblica (e non solo) — una persona chiacchierata.«Non posso pagare la colpa d’essere nato a Casal di Principe» si è difeso in questi giorni Enricomaria. Ma di essere figlio di Mario, evidentemente, sì. Ora tutti lo vorrebbero fuori da quella lista. A partire dal sindaco della sua città, Renato Natale, esponente storico prima dei Ds, oggi del Pd, icona anti-camorra locale e contro il quale si misurò per la corsa a sindaco quand’era ancora un esponente forzista.

5. Gennaro Castiello. Le 35 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari che hanno incastrato il consigliere comunale di Napoli Gennaro Castiello (ex Pdl, oggi in «Noi Sud», una lista pro-Caldoro) e i suoi tre collaboratori, sono dettagliate. L’accusa di voto di scambio è stata confermata dal gip di Napoli Tommaso Miranda. «Voti acquistati a pacchetti. Voti comprati a 20-30 euro a cranio. Voti cercati – scrisse il gip – nei quartieri più degradati della città, connotati da elevata povertà ove la ricerca del consenso dietro corresponsione di denaro è, evidentemente, più agevole».

6. Diego Manna. Figlio di Angelo Manna, deputato missino e almirantiano doc. È in campo con «Lista Sud» che sostiene Vincenzo De Luca.

7. Luciano Passariello. Risultava tra i 17 indagati nell’inchiesta dello scorso ottobre della Dda di Cagliari sul riciclaggio in Sardegna del denaro dei Casalesi. Passariello avrebbe pagato - secondo i pm - una prima tranche per l’ingresso, decidendo poi di non completare l’operazione. Al passaggio societario nelle mani dei Casalesi, il consigliere regionale sarebbe stato rimborsato dai clan, così come avvenuto per gli altri tre soci sardi, l’europarlamentare Salvatore Cicu (Fi), l’ex sindaco di Sestu Luciano Taccori (Fi) e il consigliere comunale Paolo Cau (Fi). Secondo le indagini della Guardia di Finanza, il giro di denaro per l’uscita dei quattro soci ammontava a 400 mila euro in contanti, di cui 130 mila a Passariello e 270 mila complessivi agli altri tre. In totale l’operazione di subentro dei Casalesi nella Tu.ri.cost è costata un milione e 30 mila euro, contro un investimento iniziale di 600 mila euro. Tutto questo, per la Dda, configurava il reato di riciclaggio contestato ai 17 indagati. Anche Passariello è candidato con Fratelli d’Italia a sostegno di Caldoro.

8. Gennaro Cinque. Ex sindaco di Vico Equense condannato in primo grado (a nove mesi) per tentato abuso d’ufficio (e siccome il reato era solo tentato, non è stata applicata la legge Severino), si è fatto «decadere» attraverso l’escamotage del ricorso a un irregolarità edilizia e ha lasciato il Comune al vice sindaco facente funzioni. Oggi in campo per Caldoro con Forza Italia.

9. Gennaro Salvatore. Era consigliere regionale e fondatore della lista «Caldoro presidente» con la quale si presenta anche oggi. Fu arrestato perché, scrisse il gip di Napoli Roberto D’Auria, furono rinvenuto «scontrini e altri titoli di spesa univocamente connessi alla vita privata dell’indagato». Tra le «pezze d’appoggio» palesemente incongruenti alle finalità istituzionali di un consigliere regionale, c’era anche lo scontrino da 23 euro e 30 centesimi per la bombola del gas della casa al mare di San Marco di Castellabate (Salerno), dove trascorreva le vacanze. Apparvero anche alcuni scontrini di tinture per capelli. Peccato che l’indagato sia calvo.

10. Franco Malvano. Ex senatore di Forza Italia ed ex questore di Napoli. Fu l’avversario di Rosa Russo Iervolino nella sfida a sindaco di Napoli. Oggi sostiene De Luca ed è candidato nella lista «De Luca presidente» per la circoscrizione di Napoli.

11. Marco Nonno. L’allora vicepresidente del consiglio comunale di Napoli fu condannato dal Tribunale di Napoli a otto anni e mezzo di reclusione al termine del processo per le proteste e gli incidenti nel quartiere di Pianura nel gennaio del 2008, quando si parlava di riaprire la discarica. Nonno fu riconosciuto colpevole del reato di devastazione. È in campo con Fratelli d’Italia e sostiene Caldoro.

12. Massimo Ianniciello. Per ottenere rimborsi non dovuti il politico campano avrebbe utilizzato fatture per operazioni inesistenti tramite una inesistente società di Bacoli con oggetto il commercio all’ingrosso di rottami, amministrata da due svedesi irreperibili e intestata a un pluripregiudicato per droga e ricettazione. Con quest’accusa militari del Nucleo Tributario della Guarda di Finanza di Napoli arrestarono nel 2012 il consigliere regionale campano Pdl Massimo Ianniciello e gli sequestrarono la casa, a copertura di un presunto danno erariale di circa 65mila euro. Truffa aggravata e peculato, le ipotesi di reato. È candidato in Forza Italia e sostiene Caldoro.

13. Pietro Foglia. Fino a pochi mesi fa era indagato solo per peculato, nell’ambito dell’inchiesta sui fondi che il consiglio regionale destina ai propri gruppi. A gennaio la posizione di Pietro Foglia, presidente Ncd del consiglio regionale si aggravò: il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e il pm Giancarlo Novelli gli contestano anche il falso materiale. Si era scoperto infatti che le ricevute del distributore di carburante da lui depositate per giustificare la spesa di 32.183 euro erano contraffatte. È candidato di Ncd e sostiene Caldoro.

14. Rosa Criscuolo. Era legata da amicizia con l’ex ministro di Forza Italia, Claudio Scajola, con il quale cenò poco prima dell’arresto del politico. È candidata con Centro Democratico che sostiene De Luca. “Non mi voglio candidare con Caldoro e nella coalizione in cui ci sono i Cesaro. Insomma mi candido con De Luca per esclusione” disse Rosa al , che fa parte del comitato nazionale dei radicali. Si professa garantista e difese in passato anche Nicola Cosentino. Con la sua associazione, la «Grande Napoli», fa - come riporta Oggi. it - «visite ispettive nelle carceri».

15. Tommaso Barbato. Ex parlamentare mastelliano fu noto alle cronache perché sputò in Parlamento addosso al collega di partito Nuccio Cusumano che aveva negato la fiducia al governo Prodi bis. A gennaio di un anno fa venne indagato nell’ambito di un’inchiesta per voto di scambio a Napoli. Insieme a lui l’ex deputato del Psi Geppino Demitry, un passato da sottosegretario. Secondo la Procura Demitry, in cambio di appoggio elettorale al figlio Antonio, candidato alle politiche del 2013 per “3L – Lista Lavoro e Libertà” (quella di Giulio Tremonti), promise un posto di lavoro al figlio di Barbato, Francesco.

16. Antonio Amente. A Melito milita ancora in Forza Italia e si oppone al sindaco Venanzio Carpentieri, segretario provinciale del Pd. Alle regionali invece è con «Campania in rete» che sostiene il centrosinistra di De Luca.

17. Alberico Gambino. Rapporti tra politica e camorra a Pagani: è l’accusa contestata al consigliere regionale uscente Alberico Gambino. Fissata per il 13 maggio l’udienza davanti ai giudici della Corte di Cassazione che si pronunceranno sull’ordinanza in carcere disposta dal Riesame di Salerno per dieci degli indagati coinvolti nella maxi inchiesta dell’Antimafia, ribattezzata «Criniera». Tra i nomi, appunto quello dell’ex sindaco di Pagani e attuale candidato con Fratelli d’Italia.

18. Paolo Romano. L’allora presidente del Consiglio regionale della Campania, Paolo Romano, fu arrestato per tentata concussione dai finanzieri del Comando provinciale di Caserta. A Romano, che finì ai domiciliari alla vigilia della campagna per le Europee, vennero contestate pressioni per far nominare persone a lui vicine come direttore sanitario e amministrativo dell’Asl di Caserta. È candidato per Ncd nel collegio di Caserta.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

L'oltraggio alla verità.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo.

Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.

L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello.

"Saluto fascista del bimbo? Una bufala di Repubblica", scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è del «nero» che si insinua nella tranquilla Cantù, turbando i sonni dei sinceri democratici? Mah. Per ora c’è un piccolo giallo che è interessante raccontare, riguardante un fascista in miniatura, un bambino con la passione per il Duce di cui molto si è discusso nei giorni scorsi. Martedì su Repubblica, con evidente richiamo in prima pagina, l'inviato Paolo Berizzi ha scritto che in una scuola materna pubblica di Cantù ci sarebbe un bambino di quattro anni con l’abitudine di fare il saluto romano. Lo maestre, indignate, avrebbero minacciato di cacciarlo dall’asilo se i genitori non fossero intervenuti. A cosa si deve tanta indignazione per il presunto Balilla? Al fatto che, suggeriva Repubblica, questo piccino è l’abominevole figlio di una «provincia “nera”». Ma perché Cantù sarebbe «provincia nera»? Lo ha scritto Berizzi: «Da due anni la cittadina in provincia di Como ospita il Festival Boreal, un raduno di ispirazione neonazista organizzato da Forza Nuova. (…) A scatenare polemiche sul raduno è stata l’autorizzazione - sorprendente - concessa dal sindaco di Cantù, Claudio Bizzozero. Il quale - in nome del “tutti hanno diritto di parola, anche i fascisti, da amministratore devo garantire questo principio democratico” - non solo ha dato il benestare all’evento (…) ma lo scorso anno si è addirittura presentato, in veste ufficiale, all’apertura del raduno per un saluto ai camerati». Capito che succede se un sindaco dà diritto di parola o di aggregazione ai fascisti? Poi il morbo si diffonde. Da genitori con le «svastiche tatuate» nascono dei bambini a loro volta fascisti, che sfoggiano il manganello al posto del ciuccio. La smentita del sindaco - C’è però un particolare che confligge con questa lettura della realtà fornita dal giornale di Ezio Mauro. Il sindaco di Cantù sostiene che, nella sua città, del bambino fascista non ci sia traccia. «Dopo che Repubblica ha pubblicato questa bufala», spiega a Libero, «ho fatto sentire tutti gli istituti e le scuole materne. E le dico che quel bambino di sicuro non frequenta una scuola di Cantù. Me lo hanno confermato i direttori e le direttrici delle scuole, che ho contattato uno per uno e che sono tenuti a dirmi le cose come stanno». Bizzozero dunque sostiene che Repubblica abbia scritto il falso: se davvero c’è un bambino che ama i saluti romani, di certo non è a Cantù. Motivo per cui il sindaco querelerà il giornale. «Ho il dovere di farlo», dice. «La bufala che ha pubblicato è allucinante». Anche al Provveditorato di Como sono sopresi. Rosa Siporso, sentita dalla Provincia di Como come referente dell’ufficio scolastico, ha spiegato: «Non abbiamo mai ricevuto segnalazioni simili». E ha aggiunto: «È strano, un dirigente scolastico di un qualsiasi nostro istituto comprensivo, a fronte di una storia del genere, quanto meno si sarebbe preoccupato di avvertire».  Dal canto suo, Paolo Berizzi conferma tutto: «È una notizia straverificata», ha ripetuto ieri a Libero. Spiega che non ha intenzione di dire di più per tutelare la sua fonte, e si professa certissimo di quanto ha pubblicato. Però non rivela quale sia la scuola. Ma come nasce questa strana vicenda? L’ha ricostruita un giornalista della Provincia, Christian Galimberti. Venerdì scorso, Paolo Berizzi si trovava a Como a presentare un suo libro. A moderare l’incontro c’era Barbara Rizzi di Ecoinformazioni, che ha raccontato: «Una maestra si è avvicinata prima dell’incontro a me e a Berizzi e ha raccontato quanto le è accaduto. Non so di quale scuola sia e di quale paese. Detta così potrebbe sembrare anche inventata? Può darsi, io non lo so». Dunque la fonte sarebbe questa signora apparsa alla presentazione del libro di Berizzi. Ed è qui che il sindaco di Cantù va su tutte le furie: «Ma non era il caso di verificare? Di chiamare il Provveditorato, per esempio? Adesso voglio proprio sapere, se questo bambino davvero c’è, che scuola frequenta, da che Comune viene. Se si trattasse di un Comune guidato dal Pd, Repubblica dirà che dove governa il Pd ci sono i bambini che fanno il saluto romano?». È una questione interessante. Perché se davvero il bambino c’è, ma non è di Cantù, la teoria della «Provincia “nera”» fa un po’ sorridere. C’è anche una curiosa coincidenza. Il libro che Berizzi è andato a presentare venerdì si intitola Bande Nere. Come vivono, chi sono, chi protegge, i nuovi nazisfascisti, e risale a qualche anno fa. Quando uscì, l’editore Bompiani fu costretto a ritirarlo. Come mai? Conteneva una foto, presentata come un documento esplosivo, che ritraeva Ignazio La Russa in compagnia di quello che veniva indicato come un uomo della ’ndrangheta. Peccato che il signore in questione fosse in realtà un carabiniere: dunque il libro dovette essere ristampato. A Repubblica i «fascisti» non portano molta fortuna.

La minaccia può venire dai magistrati.

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti. L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. (Esposto inviato a più Autorità Competenti. Lettera Morta)

I casi analoghi sono migliaia...

Dal pm di Messina, Brunelli, per un articolo del professionista Michele Schinella. Blog di giornalista oscurato dopo una querela. Oscurato il blog di informazione del giornalista professionista Michele Schinella, collaboratore di “Centonove” e “Corriere.it”, dopo una querela da parte del sindaco di Saponara (Messina), Nicola Venuto, seguita a un articolo del 2 ottobre scorso. L’oscuramento dell’intero blog – e non dell’articolo in questione – l’ha disposto il pm di Messina, Margherita Brunelli. “Il provvedimento – spiegano i legali di Schinella, Diego Lanza e Ciccio Rizzo – è abnorme e incomprensibile. Il provvedimento non ha un rigo di motivazione e oscure rimangono le ragioni di fatto e di diritto per cui il pm abbia ritenuto di adottare questa misura. Se il pm ha ritenuto che l’articolo fosse diffamatorio, sarebbe stato sufficiente oscurare il pezzo e non l’intero blog”. (Ansa).

La minaccia può venire, addirittura dagli stessi giornalisti...

Edicole online gratis, operazione per tutela diritti d’autore: 19 siti oscurati, scrive il 28 aprile 2015 “Il Fatto Quotidiano”. L'inchiesta "Black Press Review" delle Unità speciali delle Fiamme gialle contro i siti che ogni mattina mettono a disposizione dei navigatori i contenuti dei quotidiani. È stata denominata “Black Press Review” e nel mirino dell’operazione della Guardia di Finanza sono finite le edicole online, che consentono agli internauti di avere a disposizione interi contenuti di quotidiani e periodici, già dalle prime ore della giornata, senza corrispondere compensi agli editori. I finanzieri delle Unità Speciali stanno procedendo, su tutto il territorio nazionale, al sequestro e oscuramento di 19 siti e alle perquisizioni nei confronti dei presunti responsabili. Sarebbero per ora cinque le persone denunciate. I finanzieri delle Unità speciali, su delega della Procura della Repubblica di Roma, stanno eseguendo una complessa operazione in materia di tutela del diritto d’autore sul web, colpendo “edicole pirata” posizionate su server nazionali ed esteri (Repubblica Ceca, Russia, Moldavia, Svizzera e Stati Uniti). Con la collaborazione della Federazione italiana editori giornali (Fieg), la Guardia di Finanza ha identificato alcuni hacker che acquisivano indebitamente la copia digitale dei giornali e la pubblicavano su edicole online illegali. Le Fiamme Gialle hanno dichiarato che anche “una società che realizza servizi di rassegna stampa risulta interessata”. La Guardia di Finanza ha commentato: “Il fenomeno ha indubbi effetti negativi sul settore dell’editoria, che perde così ingenti risorse, con ricadute occupazionali, frustrando il lavoro, spesso pericoloso e duro degli operatori dell’informazione, che si vedono sottrarre, con un semplice click, il frutto del proprio impegno quotidiano sul campo da soggetti che operano illegalmente e senza fatica, nel web”.

La minaccia può venire dalla politica...

Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. La libertà d’informazione è… il suo blog, scrive Sandro Forte su “Il Secolo D’Italia”. Un fatto è certo: Grillo ce l’ha con i giornalisti. In nome della libertà d’informazione, il cui cavallo di battaglia è il suo blog, l’ex comico convertitosi alla politica attacca la libertà d’informazione la quale, seppure a volte propensa alla calunnia e al pettegolezzo, proprio perché tale non è passibile di censure politiche. «Taci, il giornalista ti ascolta! Si nascondono ovunque. L’unica difesa è il silenzio, il linguaggio dei segni – così scrive Grillo sul suo blog – I giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento: vanno disciplinati in spazi appositi, esterni al Palazzo. Per un’intervista chiedano un appuntamento, non bracchino i parlamentari per le scale o al cesso. All’ingresso di Montecitorio e di Palazzo Madama va posto un cartello “No gossip. Il Parlamento non è un bordello. Il Parlamento è il luogo più sacro, di una sacralità profana, della Repubblica italiana, ma è sconsacrato ogni secondo, ogni minuto, frequentato impunemente, spesso senza segni di riconoscimento, da folle di gossipari e pennivendoli dei quotidiani alla ricerca della parola sbagliata, del titolo scandalistico, del sussurro captato dietro a una porta chiusa. Qualche deputato li scambia talvolta per colleghi e parla, parla per ritrovare sul giornale quella che credeva una conversazione privata. Mercanti di parole rubate». Poi, dopo aver citato la cacciata dei mercanti dal tempio, Grillo “inventa” lo sfogo di un parlamentare che si lamenta perché «nel Parlamento romano, all’ingresso o in ascensore, anche all’urinatoio con il microfono nel taschino c’è sempre un giornalista senza tesserino». A parte taluni eccessi, certamente condannabili più sotto il profilo della deontologia professionale che per la violazione della privacy (i politici sono comunque personaggi pubblici), resta il fatto che il leader del Movimento Cinque Stelle non digerisce la stampa libera e comunque vorrebbe che l’attività dei giornalisti fosse confinata in regole ben precise, a rischio della completezza dell’informazione (per il suo blog, “libero” di scrivere qualsiasi cosa, invece nessuna restrizione). La notizia di questo ennesimo attacco alla stampa è esplosa nel bel mezzo della conferenza stampa del M5S a Montecitorio: i deputati Laura Castelli, Mattia Fantinato e Carla Ruocco stavano illustrando le loro proposte in campo fiscale ma le parole al vetriolo di Grillo non potevano certo essere ignorate. Ne è scaturito un lungo “botta e risposta” tra i cronisti e i parlamentari “pentastellati”. Alla richiesta dei giornalisti di un commento sull’idea di Grillo di cacciare i giornalisti da Montecitorio e da Palazzo Madama è sorto un vero e proprio parapiglia. Per i parlamentari del M5S si trattava di «domande fatte per oscurare il lavoro svolto in Parlamento»: «Dovreste chiederci qualcosa sul fisco», ha sbottato Carla Ruocco. I cronisti hanno rivendicato la possibilità di scegliere le domande e hanno insistito sulla «difesa della libertà di stampa», chiedendo se i deputati presenti fossero d’accordo con Grillo. Ha risposto Laura Castelli: «Grillo, come noi, chiede che i giornalisti stiano nei luoghi deputati a fare informazione e non a origliare dietro le porte dei bagni. Tutte le volte che ci siamo sentiti in imbarazzo di fronte ai vostri comportamenti ci siamo rivolti agli organi che organizzano il vostro lavoro». Un dialogo apparentemente impossibile. «Ma non temete che venga danneggiata la libertà di stampa? Il post di Grillo prima definisce “mercanti del tempio” i giornalisti e poi chiude con un doppio “vaffanculo”», ha sottolineato un cronista. La replica non si è fatta attendere: «Siamo nati con il “vaffanculo”, non vi sconcerterete adesso?». Lo scontro è poi continuato a telecamere spente. I deputati si sono sfogati dicendo che alcuni giornalisti li avevano offesi; i cronisti hanno sottolineato che «soltanto durante il fascismo veniva impedito alla stampa di assistere ai lavori parlamentari». Una deputata ha sottolineato che «negli anni Cinquanta i cronisti non potevano entrare in Transatlantico». Un cronista le ha risposto: «Certo, perché i politici dell’epoca non volevano che i giornalisti scrivessero quello che accadeva nel “Palazzo”. Allora, torniamo alla mezzadria». «Meglio la mezzadria, funzionava meglio», è stata la risposta della deputata che ha poi posto fine al “dibattito”.

La minaccia...ai giornalisti.

Giornalisti minacciati, Lazio da record. Aggressioni, intimidazioni, querele pretestuose e vari danneggiamenti. Ecco come cercano di fermare i cronisti «colpevoli» di raccontare scomode verità, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Minacciati, aggrediti, intimiditi. Gli incendiano casa e gli fanno esplodere l’auto; tentano di metterli spalle al muro spedendogli proiettili o ricorrendo a telefonate minatorie. Ma li "attaccano" anche per vie legali, con querele che poggiano sul nulla. È la vita del giornalista descritta dai dati di "Ossigeno per l’informazione", l’Osservatorio sui cronisti minacciati in Italia, promosso dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dall’Ordine dei giornalisti. Del cronista impavido che rischia fisicamente, e di quello che non arretra di fronte a una denuncia. "Penne" coraggiose che anno dopo anno rischiano la rovina e a volte la vita, come accaduto in passato.

LE INTIMIDAZIONI. I numeri rivelati da "Ossigeno" sono impressionanti. Nel 2014 i giornalisti minacciati, o in qualche modo frenati, nel nostro Paese sono stati 421, dato aggiornato al 31 ottobre scorso. Nel 2013, nello stesso arco di tempo, erano 316. Dal 2006, anno in cui è stato dato inizio al monitoraggio, ad oggi, le "penne" intimidite sono state 2085. Ma, come segnala lo stesso Osservatorio, «dietro ogni intimidazione documentata, almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche». Ma quali sono i metodi attraverso i quali i giornalisti vengono attaccati?

MINACCE E QUERELE. Si va dalla "querela per diffamazione ritenuta pretestuosa" (129 casi nel 2014 e 324 documentati dal 2011 ad oggi) all’insulto (35 quest’anno, 174 dal 2011); dall’aggressione lieve (38 quest’anno e 129 dal 2011) all’abuso del diritto (50 e 128); dalla lettera con proiettili attivi (3 e 69) alle minacce personali (17 e 83); dalle intimidazioni con striscioni e scritte (9 e 74) alla discriminazione ed esclusione arbitraria (16 e 52). Seguono intimidazioni con esplosivo (nessun caso nel 2014 ma 40 dal 2011), lettere minatorie (11 e 51), citazione in giudizio per danni considerata strumentale (20 e 47), minacce di morte (8 e 33), spari (zero e 22), danneggiamento (12 e 36), avvertimenti (11 e 30), incendio dell’auto o dell’abitazione (7 e 27). Ci sono anche le minacce via Facebook o attraverso altri social network (4 e 16) e le querele pretestuose da parte del magistrato (11 e 23). Seguono aggressioni gravi, perquisizioni invasive, furti, stalking, avvisi di garanzia per reti legati alla pubblicazione delle notizie, sequestri giudiziari di documenti e archivi, telefonate minatorie, bossoli esplosi, ecc.

AGGRESSIONI E AVVERTIMENTI. Il giornalista, in buona sostanza, si sente spesso "circondato". E le intimidazioni appaiono ancora più chiare se si analizzano per macrocategorie: le aggressioni fisiche sono passate dalle 50 del 2011 alle 43 del 2014, con un balzo fino a 63 nel 2013. Gli avvertimenti sono stati 156 nel 2011, 181 l’anno dopo, 148 nel 2013 e 121 quest’anno. I danneggiamenti nel 2014 sono stati 19 (erano 11 tre anni prima). Le denunce e le azioni legali contro giornalisti sono state 109 nel 2011, salite a 220 nell’anno in corso. Infine, gli ostacoli alla libertà d’informazione, che erano zero nel 2011, sono arrivati a 18 nel 2014. Nel "mirino" finiscono soprattutto i giornalisti della carta stampata, con 262 casi dal 2011 ad oggi, poi quelli della tv (91 casi in totale), e del web (76).

IL LAZIO PRIMEGGIA. Dal monitoraggio di "Ossigeno" emerge che nel 2014 la regione che ha registrato il numero maggiore di intimidazioni, in tutte le varie forme, è il Lazio, con 82 casi (257 dal 2011 ad oggi). A ruota seguono: Campania con 50 casi (262 dal 2011), Sicilia 43 (162 dal 2011), 42 Lombardia (230), Basilicata 34 (42), Puglia 33 (69), Veneto 33 (63), Calabria 30 (94). E ancora: 25 Emilia Romagna (60), 16 Toscana (47), 14 Piemonte (50), 11 Friuli Venezia Giulia (20), 10 Abruzzo (29), 9 Liguria (22), 5 Sardegna (14), 5 Marche (13), 2 Umbria (8), 1 Molise (13), 1 Trentino Alto Adige (4). L’unica "isola felice" è la Valle d’Aosta.

L’INCHINO E LA SCORTA. In qualche caso il nome del giornalista minacciato è noto, in altri no. Non tutti, infatti, si atteggiano a vittima e oracolo. Michele Albanese, ad esempio, del Quotidiano della Calabria , vive sotto scorta da quando ha scritto dell’"inchino" della statua della Madonna davanti casa di un boss a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Oppure Guido Scarpino, de Il Garantista, al quale hanno incendiato l’auto sotto casa. Ma l’elenco è lungo, troppo lungo per una Paese libero e democratico.

GIORNALISTI OSCURATI E NOTIZIE SOTTO SCORTA di Alberto Spampinato. Nella libera Italia sono numerosi i giornalisti che rischiano la vita, subiscono minacce, intimidazioni, ritorsioni, finiscono sotto scorta e sono costretti a una vita blindata per avere pubblicato notizie sgradite a mafiosi, camorristi, clan della ‘ndrangheta. Lo conferma la vicenda di Giovanni Tizian, che dal 22 dicembre vive protetto dalla polizia 24 ore su 24 ed è il quinto giornalista minacciato in Italia dall’inizio del 2012. Altre conferme vengono dalle storie degli altri giornalisti costretti a vivere sotto scorta. Vivono così, dal 2007, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano e un’altra diecina di giornalisti meno noti. Altre diecine (impossibile sapere esattamente quanti siano) sono sottoposti a protezioni di polizia più blande. Molti di loro hanno pubblicato in esclusiva notizie e inchieste sgradite ai boss della mafia. Pubblicare notizie approfondite sull’attività della mafia aiuta a combattere la mafia, ma è rischioso: per questo motivo in passato in Italia sono stati uccisi nove giornalisti, l’ultimo, Beppe Alfano, l’8 gennaio 1993 in Sicilia. Da allora la mafia non ha ucciso altri giornalisti, ma non ha rinunciato a fare piani per uccidere i giornalisti più irriducibili. Non ci sono stati altri omicidi perché i boss privilegiano altri mezzi, più subdoli, per condizionare l’informazione giornalistica e anche perché, per fortuna, nel frattempo, gli inquirenti hanno sviluppato strumenti di indagine più raffinati, e così hanno sventato numerosi attentati. Sono tantissimi in Italia i giornalisti minacciati dalla mafia. Ma molti di più sono i giornalisti che subiscono intimidazioni e censure violente di altra matrice: tantissime sono, ad esempio,  le querele pretestuose e le citazioni in giudizio per danni da parte di imprenditori, uomini politici, amministratori pubblici al puro fine di mettere in difficoltà il giornalista e rendere più difficile la pubblicazione di notizie sfavorevoli. Nel 2011, in Italia,  secondo i dati dettagliati di Ossigeno per l’Informazione, i giornalisti minacciati sono stati 324. L’osservatorio è stato creato ad hoc nel 2008 dalla FNSI insieme all’Ordine nazionale dei giornalisti, proprio per accertare la natura e la dimensione di questo triste fenomeno. I risultati saranno presentati nel Rapporto 2011-2012 di imminente pubblicazione e sono riassunti nelle tabelle allegate e sul sito dell’Osservatorio e in questa cifra totale: tra il 2006 e il 2011, l’osservatorio ha accertato 230 intimidazioni con 925 giornalisti coinvolti. Questa è la parte visibile di un fenomeno che rimane in gran parte sommerso e che, secondo le stime di Ossigeno è dieci volte più grande. Le dimensioni del fenomeno sono dunque grandi e non è più possibile trascurare il problema. Non è solo questione di garantire la sicurezza e la  libertà personale di centinaia di giornalisti, ma di garantire la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati, perché per ogni giornalista intimidito c’è l’oscuramento di un grappolo di informazioni di grande interesse pubblico. Non a caso il gran numero di giornalisti minacciati allarma le istituzioni internazionali e continua di anno in anno a fare perdere posizioni all’Italia nella graduatoria internazionale sulla libertà di stampa: l’ultimo declassamento è arrivato nei giorni scorsi da Reporters Sans Frontieres, ed è stato uno scivolone in basso di altre 12 posizioni. E’ dunque necessario affrontare il problema con maggiore attenzione e in modo diverso, sia prendendo provvedimenti di maggior garanzia in materia di organizzazione del lavoro giornalistico, sia sul piano politico e legislativo, per adeguare una normativa arcaica e inadeguata che rende fin troppo facile trascinare pretestuosamente in giudizio un giornalista, intimidirlo, ostacolare palesemente il suo lavoro di informatore dei cittadini. Occorre certamente modificare la legge sulla diffamazione, occorre proteggere più attivamente il diritto alla segretezza delle fonti confidenziali, occorre impedire l’abuso sistematico di alcune norme del diritto. Bisogna sciogliere questi nodi per restituire al giornalismo italiano la sua autonomia ed indipendenza. Ma intanto bisogna aiutare concretamente quei giornalisti che prendono il fuoco con le mani. Quelli che accettano il rischio. Quelli che si espongono di più e perciò subiscono intimidazioni, minacce e ritorsioni. E’ evidente che i giornalisti minacciati che corrono i pericoli più gravi devono essere difesi dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Ma gli altri giornalisti e i cittadini non possono restare a guardare: devono difenderli mettendosi al loro fianco, devono proteggerli, circondandoli di solidarietà, facendo vedere che non sono soli, dimostrando che le intimidazioni non spengono la voce del giornalista preso di mira, ma anzi la amplificano, la moltiplicano per cento, per mille, e quindi le minacce sono vane e controproducenti. Ossigeno – Bologna, 29 gennaio 2012. Alberto Spampinato, consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l’Informazione.

L’ossigeno che racconta i giornalisti minacciati, scritto da Marco Miggiano. Quanti sono i giornalisti minacciati? Quanti vivono sotto scorta? Quanti di loro hanno subito querele ed intimidazioni di ogni genere? Quanti hanno perso la vita o sono stati ammazzati perché erano divenuti scomodi o perché seguivano da vicino guerre o scontri di piazza? Un mondo ancora poco conosciuto, o meglio sottovalutato, in Italia quello dei giornalisti minacciati dalla mafie e non solo che deve assolutamente entrare nel dibattito, sia politico che culturale. Un primo serio tentativo di ridare dignità e visibilità a quanti rischiano ogni giorno la propria incolumità per cercare la notizia, arriva da Ossigeno per l’informazione, un osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da FNSI e Ordine nazionale dei giornalisti. Un progetto a cui partecipano e danno il loro contributo decine di giornalisti e giornaliste con il solo intento di approfondire questo triste aspetto del mondo dell’informazione italiana e far conoscere tante storie di coraggio e capacità professionale. Alcuni dati sono davvero allarmanti. Dal 2006 sono circa 1451 i giornalisti che hanno subito minacce, attentati, auto bruciate, proiettili recapitati a casa, agguati, percosse e violenze fisiche. Solo in questa metà del 2013 sono esattamente 204 i giornalisti che hanno subito violenze. 26 invece coloro che sono stati uccisi. Una lista che parte dal 1960, con l’uccisione di Cosimo Cristina a Termini Imerese (Palermo) fino ad arrivare al 15 aprile 2011 quanto a Gaza, dopo un breve rapimento, venne ucciso il giornalista e cooperante Vittorio Arrigoni. Da qualche tempo è stata scelta la data del 3 maggio come giornata della memoria e tutti coloro che hanno perso la vita durante il loro lavoro, vengono ricordati in una cerimonia pubblica a Perugia. Ossigeno per l’informazione si pone, quindi, l’obiettivo di sostenere e dare voce a quei tanti uomini e donne che praticano un giornalismo vero, quel giornalismo serio, sano, fatto sul campo, nelle strade, nei vicoli delle città, professionisti che senza paura affrontano chiunque pur di trovare la verità e fare informazione. Inoltre, l’Osservatorio analizza e approfondisce anche le nuove modalità di aggressione al mondo dell’informazione. Oggi, infatti, i meccanismi per intimidire sono molteplici e vanno oltre alle classiche e vigliacche violenze fisiche. Oggi la mafia, ma non solo, è cambiata, ha studiato come muoversi nella finanza, negli appalti, nelle aule di tribunale ed anche per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti dei giornalisti ha mutato il suo modus operandi. Paradossalmente, per alcuni aspetti, le nuove minacce per i giornalisti non arrivano più dalla canna di una pistola ma dalla penna di un avvocato. Quello che fa più paura ad un giornalista oggi giorno è ricevere una querela ed affrontare il processo che ne segue. Uno strumento giuridico legale utilizzato per cercare di tappare la bocca a chi fa solo il proprio mestiere. Querele pretestuose, inutili, spesso infondate ma che tolgono serenità al giornalista, così come è successo a Michele Inserra che ha ricevuto ben tredici querele consecutive dalla stessa persona, per di più da un magistrato. Si è formato un vero e proprio sistema che distrugge in maniera scientifica e ragionata soprattutto i free lance, chi viene pagato a pezzo per pochi euro, ma anche chi fortunatamente ha un contratto e lavora con grandi quotidiani nazionali. Il meccanismo è il medesimo, ma con qualche tutela in più grazie agli uffici legali preposti a risolvere tali questioni. Ricevere una querela fa scattare un meccanismo di auto difesa inconscia nella mente del giornalista che porta ad auto censurarsi, a ragionare più e più volte sull’opportunità di pubblicare o meno quella notizia. Ogni querela, ogni intimidazione corrisponde ad una notizia non data o consegnata alla cronaca in maniera approssimativa. Scatta l’ansia, la paura di perdere un processo in corso e dover risarcire per migliaia di euro la controparte e ciò significa, spesso, smettere di lavorare. E’ una partita che si gioca ad armi impari ed occorre trovare dei meccanismi legislativi che riescano a tutelare il mondo del giornalismo italiano. E’ questa, infatti, una delle tante richieste portate avanti da Ossigeno per l’Informazione che è riuscita, in particolare, a presentare le proprie proposte alla Commissione Parlamentare Anti Mafia, che per la prima volta ha dedicato un’indagine specifica rivolta ai giornalisti minacciati, focalizzando l’attenzione su ciò che avviene al sud, soprattutto in Calabria, Sicilia e Campania, quest’ultima la regione con il più alto numero di giornalisti minacciati. Un’indagine iniziata già nel 2012 durante la scorsa legislatura, interrotta per la fine anticipata della stessa, ma ripresa dopo l’ultima elezione dello scorso febbraio.  Così la Commissione Antimafia, dopo aver raccolto opinioni e proposte, ha formulato una serie di richieste al Governo e al Parlamento italiano, al fine di assicurare una maggiore protezione al mondo del giornalismo nella sua totalità. Ne è nato un dossier, dal titolo “Taci o sparo” scaricabile gratuitamente dal sito ossigenoinformazione.it, che riassume nel dettaglio tutte i problemi individuati e le proposte formulate dall’Osservatorio. Il testo presentato è a cura di  Alberto Spampinato, Dario Barà, Matteo Finco, Lorenzo Di Pietro, che si sono avvalsi anche della preziosa collaborazione di alcuni di quei giornalisti minacciati in prima persona, come Giovanni Tizian ed Arnaldo Capezzuto, oltre della professionalità e competenza di Lirio Abbate  ed Angelo Agostini. Occorre aggiornare le norme relative a questo settore e parlare, raccontare, scrivere e far conoscere le storie dei giornalisti minacciati in modo che queste non siano più singole storie, singoli uomini e donne lasciati soli ad affrontare paure e processi.

Quando il cronista finisce sotto scorta. Volti noti come Sandro Ruotolo, ma anche reporter di provincia come Michele Albanese. Sono tra i 30 e i 50 i giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta perché ritenuti in pericolo di vita, anche se i numeri ufficiali non vengono resi noti dal ministero dell'Interno. A questi vanno aggiunti gli oltre 2300 minacciati dal 2006 ad oggi con attentati incendiari, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte e le più subdole cause milionarie. "Abbiamo solo fatto il nostro lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". L'inchiesta di Giuseppe Baldessarro e Daniele Mastrogiacomo su “La Repubblica”.

"Costretti a sentirsi un pericolo ambulante", scrive Daniele Mastrogiacomo. "Lo sai la cosa che fa più male?", si chiede ad un certo punto, la voce stretta da un groppo alla gola, Michele Albanese, cronista giudiziario del Quotidiano del Sud, da dieci mesi sotto scorta. "Fa male sentirti come un estraneo, un pericolo ambulante, essere trattato come un vero appestato". Dall'altra parte del telefono senti solo l'affanno di un collega ferito. Nell'animo e nella mente. "Il contesto culturale che ti circonda", aggiunge, "alla fine ti isola, fa terra bruciata. I conoscenti, gli amici, le stesse fonti a cui ti rivolgevi per lavoro, ti evitano. Hanno paura, temono ritorsioni. Cambia tutta la tua vita. Cambia perfino il tuo modo di pensare. A volte penso: vivo sotto scorta per quello che ho scritto. Ma siamo in Italia, nel 2015. In un paese che si vanta di essere una democrazia compiuta". Tutto è iniziato con Roberto Saviano, scrittore e commentatore, con il suo "Gomorra". Un libro impressionante. Pochi, all'inizio, ci avevano fatto caso: per le cose che raccontava sembrava quasi un romanzo di fantascienza. Fu una denuncia vera. Dettagliata e attendibile. Svelava i traffici di clan dominanti nel Casertano e a Napoli e i loro intrecci con il mondo affaristico, industriale, politico. I Casalesi reagirono e decisero di minacciarlo di morte pubblicamente. Vive sotto protezione da 9 anni. Non si conosce il numero esatto dei giornalisti scortati. Il ministero degli Interni si rifiuta di indicarlo. Ma secondo stime attendibili sarebbero almeno tra i 30 e i 50. Il sito dell'osservatorio Ossigeno curato da Alberto Spampinato, fratello di un giornalista ucciso dalla mafia nel 1972, ha addirittura un contatore che aggiorna in tempo reale le minacce e le aggressioni subite dai cronisti. Nei primi sei mesi di quest'anno sono già 156, che diventano 2.300 dal 2006. Da Palermo a Torino. Incendi dolosi a macchine e portoni di casa, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte, linciaggi sulle pagine di Facebook, querele milionarie, intimidazioni, aggressioni fisiche, veri pestaggi. A guardare la mappa nera dell'informazione cade anche un diffusa convinzione: la Calabria conta solo 7 minacce mentre il Lazio con 26, la Sicilia con 23, la Campania con 20, la Puglia e la Lombardia con 18 restano in testa alla lista dei proscritti. E' accaduto spesso. Anche negli Anni 80 del secolo scorso. All'epoca il pericolo arrivava dal terrorismo. Agguati mortali, azzoppamenti, sparatorie. Chi si occupava della galassia armata di destra e di sinistra rischiava in prima persona. Il clima era pesante e cupo. Prima di uscire di casa, sorretti dall'istinto di sopravvivenza, molti attendevano di ascoltare alla radio la notizia dell'ennesimo attentato. Altri giravano con la pistola. Erano cronisti giudiziari, di nera. Ma anche firme di punta dei quotidiani: basta pensare a Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa, colpito da un commando delle Br nel novembre del 1977 e morto dopo 13 giorni di agonia; così accadde a Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, assassinato nel maggio del 1980. Le scorte si contavano sulle dita di una mano. Oggi è diverso. Forse peggio. I mandanti delle minacce e delle aggressioni non si conoscono. Perché il pericolo si annida nel business della corruzione e nella zona grigia dove si muovono le cerniere di collegamento con la politica. "E' il denaro", conferma Lirio Abbate, anche lui storico cronista giudiziario, oggi inviato de L'Espresso, da 8 anni sotto scorta "a far scattare le minacce più pesanti. Quando scavi e scrivi sugli appalti, sveli i personaggi che si muovono nell'ombra, i famosi colletti bianchi, finisci per toccare interessi che devono restare segreti. Per motivi di lavoro ho cambiato spesso città. Ma mi sono reso conto che non era tanto il contesto, la singola organizzazione criminale, a provocare la violenta reazione degli intoccabili. Erano i temi. Così è successo per Cosa nostra, così per la 'Ndrangheta e la Camorra. Così per l'inchiesta Mafia Capitale, con Massimo Carminati che si accanisce sulla mia persona". Lirio Abbate non ha una vita normale. Anche lui, come Giovanni Tizian de L'Espresso e Federica Angeli de La Repubblica, cerca una spiegazione ad una realtà che non si sarebbe mai aspettato. Ha fatto solo il suo lavoro. Ha raccolto voci, informazioni, le ha verificate. Le ha scritte. Magdi Cristiano Allam, editorialista de Il Giornale, si muove da anni circondato da 4 auto blindate. Ha raccontato il tenore dei sermoni che gli imam tenevano nelle diverse moschee italiane. Di origini egiziane, conosce l'arabo. E ha spiegato, in epoca non sospetta, che nei discorsi della preghiera del venerdì si usavano spesso parole di fuoco e di incitazione alla jihad contro gli infedeli. Lo hanno minacciato di morte. Sandro Ruotolo, da sempre inviato della trasmissione di Michele Santoro, oggi a Servizio Pubblico, è l'ultimo ad essere entrato nella lista dei giornalisti sotto scorta. E' stato pesantemente minacciato dal boss dei Casalesi Michele Zagaria. Anche lui di morte. Lo ha detto ad una delle donne che era andata a parlargli in carcere. "Ero convinto", ragiona Ruotolo, "che con l'arresto di Zagaria e Iovine la Camorra fosse stata azzoppata. Ho scoperto che tra il 2008 e il 2013 erano stati catturati 5000 camorristi. Ma anche che 300 di questi sono tornati liberi, che non è stato individuato l'arsenale, che tutti quelli che non sono accusati di fatti di sangue presto lasceranno il carcere. Eppure il ministro Alfano la settimana scorsa ha fornito in Commissione alla Camera delle cifre ufficiali su Napoli. Ci sono 78 clan, 32 dei quali in città; 4000 affiliati, di cui 1600 in città. Ma questo non era mai stato raccontato ai giornalisti. I quali, evidentemente, non lo sanno. Vuol dire che abbiamo fatto un pessimo lavoro. Ma anche che il governo ci ha mentito o tenuta nascosta una realtà drammatica".

Un'intercettazione e la vita cambia per sempre, scrive Giuseppe Baldessarro. Vive sotto scorta dal 17 luglio dello scorso anno. Una data che non potrà mai dimenticare. Prima la telefonata dalla questura di Reggio Calabria: "Deve presentarsi urgentemente presso i nostri uffici per delle comunicazioni importanti". Poi l'incontro con il Prefetto, Claudio Sammartino, e con il Procuratore, Federico Cafiero de Raho: "Abbiamo buone ragioni per ritenere che la sua sicurezza personale sia a rischio. E' necessario assegnarle una scorta, ci creda non se ne può fare a meno". In pochi minuti la vita di Michele è cambiata. La sua esistenza di cronista del Quotidiano del Sud è stata travolta. Tutto diverso: la quotidianità, gli incontri con le fonti, le giornate passate in giro a caccia di notizie e storie da raccontare ai lettori. Tutto spazzato via. Qualche ora prima le cimici della Polizia avevano registrato quella frase: "A questo lo fanno zumpare (saltare) con tutta la macchina". Una frase, una sola. Detta però tra interlocutori che sapevano bene come la 'ndrangheta non avesse digerito alcuni suoi articoli. Gente che bazzica certi ambienti, che ascolta, che raccoglie umori, che sa di cosa parla. Da quella frase, da quel giorno, Michele Albanse vive blindato. C'è la scorta che va a prenderlo sotto casa ogni volta che la chiama è c'è la vigilanza che controlla ogni segnale "strano". Non può mai uscire da solo, né gli è consentito spostarsi autonomamente. Quanto basta per portarlo a vivere le giornate quasi sempre chiuso nel suo studio: le chiama "quelle quattro mura". Il suo lavoro è radicalmente cambiato. Non ci sono più notizie da scrivere, o meglio ce ne sono molte meno. Le fonti non lo incontrano più. Non davanti ai due poliziotti che lo seguono ovunque. Non si fidano, non tanto di Albanse che le ha sempre tutelate e protette, quanto, più semplicemente, di quegli uomini che lo accompagnano, "sempre poliziotti sono". Se è vero che ovunque le notizie più interessanti viaggiano sui binari della garanzia dell'anonimato, questo vale ancora di più a Cinquefrondi, paese in cui vive Albanese, e soprattutto città della Piana di Gioia Tauro. Così il cronista che da sempre si occupa dei clan dell'area tirrenica della provincia di Reggio Calabria ora è per certi versi azzoppato. I suoi articoli sono oggi il frutto di tanta esperienza accumulata, dell'archivio sterminato che possiede, di fonti aperte come i comunicati ufficiali e di pochissimo altro. Come dice lui stesso "manca la strada". Manca cioè la possibilità di andare in giro liberamente. Quella condizione che in altri termini consente di fare il lavoro come va fatto, completo. Albanese è poi una persona che ha grande rispetto delle istituzioni e "piuttosto che andarmene ovunque con l'auto blindata, per essere giudicato come quello che ne approfitta per fare il professionista dell'antimafia", se ne sta a casa, a fare "quel che si può, ma non è la stessa cosa". Certi messaggi da queste parti valgono doppi, e lui vuole essere percepito come il giornalista che è sempre stato: umiltà e olio di gomito. Non si sente un eroe, sottolinea come "ha fatto soltanto il suo lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". Per questo, ripete, "non c'è niente da rimproverarsi". Per questo rifarebbe tutto quello che ha fatto. Michele Albanese non è isolato. Gli amici hanno continuato a frequentarlo come sempre, i colleghi hanno fatto quadrato attorno a lui, ma "la libertà non te la può dare nessuno, la libertà non c'è più". Albanese lo dice quasi a denti stretti: "Se l'obiettivo era quello di farmi smettere di scrivere, temo che ci siano riusciti", e infine "spero che finisca presto, spero di poter tornare a fare il mio lavoro cercando di essere utile alla terra bellissima e maledetta in cui sono nato. Spero di tornare presto a essere libero".

A proposito di scorte...

«Sono Scajola, mostro perfetto. Non negai la scorta a Biagi», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Nel calcio si chiama fallo di confusione. Nella procedura penale non è previsto. Ma la Procura di Bologna è quasi riuscita a riscrivere il codice e introdurre la particolare fattispecie. Ha chiesto alla locale sezione del Tribunale dei ministri di interrogare Claudio Scajola e Gianni De Gennaro nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Marco Biagi, con una postilla: domandate, hanno suggerito ai giudici il pm Gustapane e il capo dell’ufficio D’Alfonso, se intendono rinunciare alla prescrizione; se i due indagati decidono di avvalersene, hanno aggiunto i pubblici ministeri, eccovi già pronta la nostra richiesta di archiviare l’indagine. Mai visto nulla di simile. Né nel codice né nella prassi. E infatti i difensori di Scajola, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito, devono farci un comunicato sopra: «Il processo che si è svolto a Bologna rappresenta qualcosa di assolutamente surreale, è noto a tutti che l’indagato non può rinunciare alla prescrizione». E infatti la corte speciale che si forma nei tribunali quando c’è di mezzo qualcuno che ha fatto o fa parte del governo – dicesi Tribunale dei ministri – ha dichiarato l’intervenuta prescrizione senza mai aver ascoltato Scajola, e neppure De Gennaro. Di una cosa si può star certi, però: il fallo di confusione fischiato dalla Procura di Bologna annulla tutto il resto e decreterà, seppur involontariamente, quanto segue: Scajola se l’è scansata perché è un vigliacco. Non è in atti ufficiali ma tutti diranno così. «Sono il mostro, il depositario di tutte le nefandezze», dice l’ex ministro dell’Interno. Con inevitabile sarcasmo.

E perché, onorevole Scajola? Perché le appioppano sempre la maschera del mostro?

«Credo per due motivi. Uno è che oggettivamente la vicenda della casa al Colosseo, così come è stata presentata, e anche con l’ingenuità con cui ho provato a spiegarla, ha creato in qualche modo il mostro».

Quella casa che, per citare la storica frase, fu pagata a sua insaputa. Se tornasse indietro lo direbbe ancora?

«Non la direi così. Ma se avesse la pazienza di leggere con attenzione la sentenza del Tribunale di Roma, verificherebbe che i giudici hanno stabilito come le cose fossero andate proprio in quel modo. Lo hanno detto dopo un’inchiesta e un processo».

E però quell’espressione le ha nuociuto, lei dice. L’altra ragione che crea il mostro Scajola?

«Ero molto impegnato politicamente, avevo un buon seguito parlamentare e locale, ero un boccone ghiotto per i nemici. E soprattutto per gli amici».

Chi doveva capire avrà capito. Il Tribunale ha appena archiviato l’accusa ipotizzata nella nuova inchiesta sull’assassinio di Marco Biagi: omicidio volontario. Eravate indagati in due: lei e De Gennaro.

«Come hanno detto i miei avvocati questa indagine non doveva neanche cominciare. Si è gettato fumo negli occhi delle persone, è stata indotta molta confusione. Ho saputo della nuova inchiesta mentre ero in cella a Reggio Calabria, dopo essere stato ingiustamente arrestato per una vicenda, quella di Matacena, a cui ero totalmente estraneo. Poi c’è stata una passerella continua di testimoni alla Procura di Bologna. Hanno sfilato tutti tranne il sottoscritto. Non ero indagato ma mi hanno messo nella condizione di chi si sente depositario di tutte le nefandezze».

Perché non l’hanno chiamata?

«Se l’avessero fatto avrebbero dovuto iscrivermi a registro degli indagati».

E lei non lo era. Altrimenti i pm bolognesi avrebbero dovuto passare le carte al Tribunale dei ministri. Non l’hanno indagata per non perdere l’inchiesta?

«Evidentemente contava far nascere il caso. Poi hanno iscritto il mio nome e quello di De Gennaro. Non avrebbero mai potuto chiedere il nostro rinvio a giudizio per omicidio volontario. Hanno contestato la cooperazione colposa in omicidio colposo. Che era prescritta da 5 anni».

Ma intanto il caso, e il mostro, erano serviti.

«Esatto. E poi cos’ha detto la Procura? Se vuole fare chiarezza sulla vicenda rinunci alla prescrizione, come se io fossi depositario di chissà quali segreti. Ma io non potevo disporre della prescrizione, è stata dichiarata d’ufficio».

Possibile che i pm ritenessero invece l’estinzione del reato a disposizione di voi indagati?

«Sono persone che si occupano di diritto per mestiere. E l’indagine che è archiviata, non la mia posizione. Che motivo c’era di fare un pandemonio simile, per un anno? Avrebbero dovuto evitarlo per il rispetto che si deve a Biagi e alla sua famiglia. Pensiamo di aver fatto del bene, alla famiglia Biagi?»

Lei non sapeva dei rischi che correva Biagi?

«Sono uno che crede in Dio. Alla fine di questa vicenda, nel prossimo week end, avremo i confessionali pieni di cattolici che hanno creato per via mediatica l’idea di una mia responsabilità. Hanno cercato di far passare che non ho voluto dare la scorta a Biagi. Eppure c’era già stata un’indagine quand’ero ministro dell’Interno. Avevo promosso un decreto legge approvato all’unanimità in Parlamento per riformare il sistema delle scorte. Solo dopo la morte di Biagi, purtroppo, ci si è resi conto che lo scambio di informazioni tra prefetture e servizi segreti non funzionava. Non fu neanche sfiorata l’ipotesi che il ministro avesse la competenza di mettere o togliere scorte. Lo dice la legge. E cosa succede? Che a 13 anni dalla morte di Biagi, e a 12 dalla chiusura della prima indagine, lo stesso pm riapre il caso per omicidio volontario, senza indagati».

Le voci secondo cui le sarebbero stati segnalati pericoli per Biagi?

«Non era competenza del ministro dare o revocare scorte, ma certo se Maroni o altri avessero avuto percezione che c’era pericolo per Biagi e mi avessero detto oh guarda potrebbero colpirlo, avrei fatto quanto meno una segnalazione agli organi preposti».

E non ha mai avuto segnalazioni di quel tipo.

«Dagli atti mi risulta, e ne ho ampie testimonianze, che nessuno abbia detto di avermi segnalato che Biagi era una persona a rischio, meritevole di particolare attenzione. Poi c’è la lettera di Luciano Zocchi».

Il suo segretario di allora.

«All’inizio di questa seconda indagine si è detto che questo appunto lo vidi e che c’era la mia sigla, il mio visto. Non è vero, non c’è alcuna mia sigla. L’appunto era stato preparato alla vigilia della mia partenza per Washington, ed era stato lasciato in segreteria, non l’avevo con me. Quand’ero negli Stati Uniti arrivò la notizia dell’assassinio di Marco Biagi».

E la segnalazione di Casini?

«Non me ne aveva mai parlato».

Come sono finite queste voci nelle carte della Procura?

«Se i pm mi avessero chiamato avrei deposto volentieri. Non lo hanno fatto. Hanno sentito Maroni, Prodi, Casini, la mia segretaria di allora. Non me».

E’ uno di quei casi in cui, come ha denunciato Armando Spataro, si cerca il titolo sui giornali più che il processo?

«Mi sono dimesso senza aver ricevuto un avviso di garanzia, sono stato indagato 12 volte, sono passato per il più grande trafficone della storia repubblicana. Cosa resta? Assolto con formula piena a Roma per la storia della casa, archiviazione per l’inchiesta di Woodcock su Finmeccanica e per altri 8 processi. Ora arriva il nulla di fatto su questo. Resta il caso di Reggio Calabria su Matacena: lì risulto essere il primo arrestato della storia per procurata inosservanza di pena, è stato chiesto il processo immediato, ci sono state 5 udienze da ottobre e non abbiamo ancora finito di sentire il primo testimone, e questo perché c’erano prove schiaccianti. A proposito della sua domanda, le dice niente il mio curriculum? Ogni volta ho avuto titoli sui giornali, poi i processi finiscono come le ho detto».

L’avvocato della famiglia Biagi ha detto: Scajola e De Gennaro non faranno i conti con il tribunale, ma con la loro coscienza sì. Cosa risponde?

«Le ho già detto nel merito che non sento di avere responsabilità per quell’assassinio. Forse qualcuno avrà detto alla famiglia Biagi che mi era stata segnalata l’esigenza della scorta e che io l’avevo negata. Se fosse così avrebbero ragione a fare quel richiamo. Io sono convinto che la famiglia Biagi sia in buonafede. Ma che qualche pelandrone ha riferito loro che mi aveva chiesto di dare la scorta. Siccome non lo ha fatto, avrà detto che ero stato io a negarla».

Ha in mente l’identikit del soggetto?

«Aspetto di leggere le carte. Finora sono arrivate solo manine, veline, sussurri».

Ha smesso con la politica, vero?

«Voglio acquisire la piena verginità giudiziaria. Ma già domenica sono venute un centinaio di persone a casa mia ad Imperia. In Liguria faremo un buon risultato, come centrodestra. Poi si vedrà. Non mi piace lo scenario politico che si prefigura, mi piacerebbe che moderati e riformisti potessero disegnarne uno migliore».

Al giornalista Sandro Ruotolo, stretto collaboratore di Michele Santoro nella trasmissione di La7 «Servizio Pubblico», è stata assegnata una scorta. La decisione è stata presa dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, a seguito delle minacce di morte che il giornalista ha ricevuto da parte del capo del clan dei casalesi, Michele Zagaria, scrive “Il Mattino”. La decisione è stata presa in attesa della riunione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. A darne conferma è, in un tweet, la stessa redazione di «Servizio Pubblico». «Il nostro giornalista Sandro Ruotolo - si legge sul social network - è sotto scorta». Le minacce di morte al giornalista televisivo sono arrivate dal capo del clan dei Casalesi, Michele Zagaria, che, intercettato in carcere, ha detto: «'O vogl' squartat' viv'». All'origine delle minacce, un reportage di Servizio pubblico sulla Terra dei Fuochi, recentemente andato in onda su La7, che conteneva un'intervista di Ruotolo a Carmine Schiavone. «Ci sono tracce recenti di rapporti tra Zagaria, quando era latitante, e i servizi segreti. Ma parliamo degli anni Duemila», dice il giornalista in uno dei passaggi. «Non ti posso dire più niente. Lo saprai al momento opportuno», è la risposta di Schiavone, pentito del clan, morto lo scorso febbraio 2016. Messaggi di solidarietà sono subito giunti al giornalista de La7. «La camorra è più che mai attiva e vuole colpire le persone che denunciano la sua attività, un copione vecchio e che conosco bene». Così Rosaria Capacchione, senatrice del Pd e componente della commissione Antimafia, commenta la notizia che il giornalista Sandro Ruotolo è stato messo sotto scorta ,sulla base di minacce alla sua persona estrapolate da alcune intercettazioni. «La forza dello Stato - aggiunge Capacchione - si misura anche sulla base della sua capacità di proteggere chi è impegnato in prima linea non solo nelle indagini, ma anche chi ha denunciato e denuncia pubblicamente i crimini e l'illegalità. La scorta è una misura difensiva; in Campania, soprattutto nella Terra dei Fuochi, è forse ora di fare qualcosa di più contro Zagaria e gli altri clan». Su Twitter il senatore del Pd Nicola Latorre scrive: «Vicini a Sandro Ruotolo, da sempre impegnato in prima linea nelle inchieste più difficili. Con lui sempre più determinati contro i poteri criminali». Soldiarietà è stata espressa anche da Emanuele Fiano, deputato pd e responsabile Sicurezza della segreteria nazionale del Pd «Ci affidiamo alla competenza delle forze dell'ordine affinché venga salvaguardata anche in questo caso nel nostro Paese la libertà di cronaca e di inchiesta contro chi opera per inquinare la nostra democrazia». Infine sempre su Twitter il capogruppo dei deputati di Sel Arturo Scotto «Solidale con Sandro Ruotolo, grande giornalista minacciato dalla camorra. Caro Sandro, questi bastardi non fermeranno mai il tuo coraggio».

Camorra, scorta al giornalista Sandro Ruotolo Minacciato di morte dal boss Zagaria. Il braccio destro di Michele Santoro a Servizio Pubblico nel mirino del capomafia per l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Dopo le intercettazioni, provvedimento d'urgenza adottato da prefetto Gabrielli, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Ancora una volta quando l'Informazione è fatta bene, dimostra che può dare fastidio ai mafiosi. A tenerli sulla corda, a innervosirli, perché non sempre sono abituati a essere maltrattati dalla stampa. E si agitano, i boss, anche quando sono detenuti e sottoposti al 41 bis, il duro regime carcerario. Questa volta ad andare su tutte le furie è stato il boss camorrista Michele Zagaria, che ha puntato il dito contro Sandro Ruotolo, giornalista di grande esperienza, colonna portante di Servizio Pubblico al fianco di Michele Santoro. A Zagaria “capastorta” sembra non essere andato giù, e forse gli è rimasta sulla pancia, un'inchiesta giornalistica che Sandro ha mandato in onda nelle scorse settimane sulla terra dei fuochi, dove il boss ha messo le mani e fatto illegalmente tanti affari speculando sulla pelle dei campani. Dopo questa lunga inchiesta giornalistica i magistrati della Procura antimafia di Napoli hanno registrato le minacce di Zagaria contro Sandro Ruotolo. E pure contro i pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Il boss è andato in escandescenza, ha inveito contro il giornalista, fino a minacciarlo di morte: «O vogl' squartat' vivo». Per questo motivo investigatori e magistrati hanno subito ravvisato un grave pericolo per Ruotolo. Un pericolo che il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, competente per il territorio in cui lavora il giornalista, ha subito valutato, provvedendo ad assicurare a Sandro protezione, assegnandogli un servizio di scorta che sarò svolto dai carabinieri. Sulla vicenda il pool di magistrati anticamorra di Napoli sono già a lavoro per fare luce su queste minacce. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari, Zagaria da diversi mesi appare in cella molto nervoso, forse perché è messo sotto pressione dalle numerose inchieste che lo riguardano. In particolare, come aveva già raccontato la giornalista Rosaria Capacchione sul Mattino, oggi senatrice Pd, Zagaria potrebbe essere coinvolto in una possibile trattativa sui rifiuti. Capacchione ha documentato incontri segreti, tra il 2007 e il 2009, tra il potente boss, allora latitante, Michele Zagaria o un suo emissario, uomini dei servizi segreti deviati, e delegati del commissariato. Vertici che sarebbero stati finalizzati a subappalti in cambio del silenzio per la realizzazione di siti di smaltimento. Domande e circostanze ancora senza risposta a cui anche Sandro Ruotolo ha tentato di dare una lettura di questi fatti con un servizio mandato in onda proprio da Servizio Pubblico. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad un giornalista minacciato solo perché ha fatto bene il suo lavoro, mettendo in crisi un mafioso. E come tutti i mafiosi l'unico modo che conoscono è quello di reagire, o almeno tentare di farlo, con la forza e la violenza. Per comprendere quanto questo boss è sensibile a quello che scrivono i giornalisti, durante la latitanza Zagaria ha telefonato ad un cronista per “rimproverarlo” di ciò che aveva scritto su di lui. E lo aveva fatto senza aver paura di essere intercettato, ma solo per il gusto, a senso suo, di minacciare il giornalista e far notare la sua potenza e presenza sul territorio. Zagaria poi è stato arrestato, come capita prima o poi a tutti i latitanti, e adesso dubito che possa uscire presto dal carcere in cui è rinchiuso. Sono certo però che Sandro Ruotolo non si tirerà indietro e continuerà a raccontare le mafie e il loro malaffare come ha fatto fino adesso, tenendo la schiena dritta e raccontando quello che agli altri, e per gli altri intendiamo i criminali, appare scomodo.

Sandro Ruotolo, la vicinanza di Grasso: “Giornalisti liberi illuminano professione”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Alla presentazione del premio "Giustizia e verità - Franco Giustolisi" il presidente del Senato spiega che "in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita". Giornalisti che finiscono sotto scorta, come Sandro Ruotolo bersaglio del boss Michele Zagaria, cronisti minacciati, reporter a cui vengono bruciate le auto o hanno già letto il loro necrologio. Sarà a questi che pensa il presidente del Senato, Pietro Grasso, quando dice: “Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi. Ma quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese”.  Alla presentazione del premio di giornalismo di inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giustolisi”. – Grasso spiega che “in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita, in cui si combatte una battaglia quotidiana tra il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, in cui si arriva a minacce, intimidazioni, querele temerarie“. E in particolare l’ex procuratore antimafia manifesta “vicinanza” proprio a Ruotolo. “Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini”, puntualizza Grasso che indica in Franco Giustolisi un esempio, evidenziandone “il coraggio, la passione, la determinazione, lo scrupolo della verifica, il non piegarsi anche quando si sa di pagare un prezzo o correre un rischio, il non avere timore né dei padroni né dei padrini”. E ripercorrendo il percorso umano di Franco Giustolisi, autore delle inchieste sull'”Armadio della vergogna“, Grasso sottolinea: “Era un giornalista vero, scomodo, che ha dedicato la sua vita a scoprire il lato oscuro del potere e della società attraverso le sue inchieste, iniziando su Paese Sera, poi a L’Ora di Palermo, un giornale eretico che tra le sue firme ha visto ben tre giornalisti uccisi dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro e Giovanni Spampinato. Andò poi a Il Giorno, da lì alla Rai, dove fu impegnato nei primi approfondimenti televisivi con inchieste dure di informazione e di denuncia, poi all’Espresso, dove ha lavorato per più di 30 anni”.

Il nostalgico Ruotolo non stringe la mano al candidato “fascista”…, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Siamo nel 2013? A giudicare da certi atteggiamenti sembrerebbe proprio di no. Accade infatti che, alla tribuna elettorale del Tgr Lazio, il giornalista Sandro Ruotolo, candidato di Rivoluzione civile e già inviato Rai per Michele Santoro, abbia rifiutato di stringere la mano al candidato di Casapound Simone Di Stefano con la seguente motivazione: “Sono orgogliosamente antifascista”. Quindi ha fatto riferimento alle accuse omofobe comparse su Facebook contro Nichi Vendola, ha dato la colpa al movimento di Iannone (lo stesso che in passato organizzò dibattiti con la deputata Pd paladina dei diritti gay Paola Concia) e ne ha tratto le conseguenze per lui ovvie, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “E allora io dico, non ti stringo la mano”. Di Stefano ha replicato: “Ruotolo è antifascista? Problema suo. Però Zingaretti me l’ha stretta la mano”. Atteggiamenti di discriminazione che ricordano le tribune politiche in cui i giornalisti si alzavano e se ne andavano per protesta contro la partecipazione di Giorgio Almirante o, ancora, la mancata stretta di mano tra il primo ministro belga Di Rupo e Pinuccio Tatarella che da post-missino si introduceva con timidezza nel consesso istituzionale europeo.

I giornalisti liberi? Sono solo quelli di sinistra. Così dice Pietro Grasso…, scrive Annamaria Gravino su “Il Secolo D’Italia”. Contrordine compagni: in Italia non manca la libertà di stampa, mancano giornalisti liberi. A sostenerlo è stato il presidente del Senato Pietro Grasso, intervenendo alla presentazione del premio di giornalismo d’inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giusolisi”. Le parole di Grasso. «Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi», ha detto Grasso, aggiungendo che però «quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese». Grasso quindi ha ricordato i rischi corsi dai «giornalisti veri» in Italia, dove ci sono «regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita», e ha espresso la sua vicinanza a Sandro Ruotolo, di recente finito sotto scorta per le minacce ricevute dal boss Zagaria. «Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini», ha aggiunto Grasso, portando l’esempio positivo di Franco Giustolisi.

L'intervista del poliziotto sul Magazine del Corriere: "Saviano non doveva avere la scorta". Il titolo che i lettori del Corriere troveranno a pagina 78 del Magazine, a introdurre «L’intervista » di Vittorio Zincone, è: «Saviano non doveva avere la scorta». Nell’occhiello c’è il nome e cognome di chi sostiene questa tesi: Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli. Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni (oggi ne ha 42) gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare contro­corrente sul tema Saviano è impegnativo. Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta». E in tre anni non sembra aver cambiato idea: «Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni». Nemmeno di Gomorra pare entusiasta: «Ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori». È la prima volta che un uomo dello Stato mette in discussione il fenomeno Saviano, sia per quanto avrebbe inciso con il suo libro nella lotta alla camorra, sia per i rischi ai quali quel libro lo avrebbe esposto. Ma Pisani rischia di rimanere solo. Saviano, contattato dal Corriere per una replica, sceglie ufficialmente il silenzio, ma è chiaro che l’ha presa malissimo. E comunque ci tiene a far sapere di avere avuto in questi anni conferme di essere stato condannato a morte dai casalesi, anche da persone in passato vicine al clan capeggiato da Francesco «Sandokan» Schiavone e dai superlatitanti Mario Iovine e Michele Zagaria. Non risponde direttamente a Pisani, ma prende chiaramente le distanze, invece, il procuratore di Salerno Franco Roberti, fino a pochi mesi fa capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. «Non commento l’opinione personale del dottor Pisani — dice — ma vorrei ricordare che il comitato presieduto dal prefetto che assegnò la scorta a Saviano lo fece sulla base di una serie di informazioni anche confidenziali e tutte convergenti. E quindi non ho dubbi che lo siamo di fronte a un soggetto da proteggere assolutamente». Del resto la decisione di assegnare o meno la scorta a qualcuno viene presa anche considerando un contesto ambientale che può non avere riscontri certi dal punto di vista giudiziario. Per esempio non sono mai stati individuati gli autori delle scritte contro Saviano sui muri di Casal di Principe, né dei volantini trovati nella buca delle lettere dei genitori dello scrittore. Ma quegli episodi rappresentano una minaccia. Come fu una minaccia il proclama in aula durante il processo Spartacus contro Saviano, il giudice Raffaele Cantone e la giornalista Rosaria Capacchione. Per quell’episodio, però, un risvolto giudiziario c’è e c’è un’inchiesta che vede imputati Iovine e l’altro boss dei casalesi Francesco Bidognetti. Archiviata, invece, l’indagine sulla preparazione di un attentato con autobomba per uccidere lo scrittore. Se ne parlò come della confidenza di un pentito, ma in realtà non era vero niente. Non solo l’organizzazione dell’attentato ma nemmeno la confidenza del pentito.

La parlamentare Pd: «A che serve la scorta a Saviano se non ci sono minacce dei boss?» Sulla pagina della deputata democrat Giovanna Palma appare un post urticante. Poi cancellato dopo le prime furiose polemiche. Lei: non l’ho scritto né lo condivido, scrive “Il Corriere della Sera”. Un post apparso sulla pagina Fb di una parlamentare Pd e riguardante il processo per le minacce a Roberto Saviano è divenuto un piccolo «caso» politico. Protagonista Giovanna Palma, avvocato e parlamentare Pd originaria di Giugliano in Campania. Sulla sua pagina Fb, per alcuni minuti, è apparso il seguente post: «Ieri un tribunale ha assolto il boss Bidognetti dall’accusa di aver minacciato Saviano condannando un avvocato…Un flop direi, dopo che per anni ci hanno fatto credere che lo scrittore era nel mirino dei clan più sanguinari». Poi l’affondo finale che non mancherà di provocare polemiche: «In assenza di minacce di un boss a che può servire la scorta?». Va detto che il post è scomparso (forse cancellato?) dopo pochi minuti, ma sta continuando a “rimbalzare” sul web. La stessa parlamentare interpellata da un lettore sul social network dice: «Non l’ho nè scritto né lo condivido». Lasciando così intendere - anche attraverso le parole del portavoce - che si è trattato di un «fake» o di un’intrusione non autorizzata sulla sua pagina Facebook. Si attende ora una denuncia alla polizia postale per l’hackeraggio della pagina della parlamentare. Ad agosto scorso quando era stata emessa un’ordinanza di arresto nei confronti di Luigi Cesaro aveva commentato: «Il garantismo è un metodo e va applicato agli amici di partito e agli avversari. La vicenda Cesaro andava affrontata con doveroso rispetto umano da parte della politica e la doverosa terzietà da parte dei magistrati. E così è stato. Non conosco i fatti dei quali Cesaro è accusato e quindi mi astengo da ogni commento ma si tratta di una notizia positiva perché riconferma la terzietà della magistratura dimostrando che non può esistere nessuna persecuzione giudiziaria in mancanza di indizi». Parole che non erano piaciute all’interno del Pd. Palma era stata criticata sia da Luisa Bossa che da Rosaria Capacchione: «Non ho espresso alcuna solidarietà a Cesaro - aveva – sottolineato lei – ma ho posto una questione di carattere generale. Qualcuno ha strumentalizzato le mie dichiarazioni”. Trentotto anni, originaria di Giugliano, avvocato, sposata e con figli. È stata eletta per la prima volta alla Camera nel 2012. È componente della Commissione Agricoltura e della Commissione d’Inchiesta sui rifiuti.

Minacce a Roberto Saviano: boss assolti, ma lui insiste con la scorta, scrive "Imola Oggi". I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista, ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. I pm avevano chiesto alla terza sezione penale del tribunale di Napoli la condanna a un anno e sei mesi per Bidognetti e l’assoluzione per Iovine, che ora è collaboratore di giustizia. Condannato invece l’avvocato del boss Bidognetti, Michele Santonastaso a un anno di reclusione, con pena sospesa, per le minacce a Saviano lette durante un processo. “Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita” dice a Napoli Saviano, “Sono un po’ frastornato – ribadisce Saviano – tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l’attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale“. (agi)

E poi "Imola Oggi" acclude vari articoli che riguardano Saviano.

Plagio in Gomorra: Roberto Saviano condannato a pagare 60mila euro. La Corte d’Appello di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, ha condannato lo scrittore Roberto Saviano e la casa editrice Mondadori per plagio. Ovvero «illecita riproduzione» di tre articoli, pubblicati dai quotidiani locali “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta”, all’interno del libro “Gomorra”, il best seller sulla camorra che ha consacrato lo scrittore campano. Saviano e Mondadori sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. In più, nelle edizioni di “Gomorra” dovrà essere indicato il nome dell’autore degli articoli, dell’editore – la Libra Editrice scarl, difesa dall’avvocato Barbara Taglialatela – e della testata da cui sono stati tratti. Lo scrittore ha già annunciato pubblicamente che ricorrerà in Cassazione contro la sentenza d’Appello. Il primo grado era stato favorevole per lui e per Mondadori. (fanpage.it)

Gip di Roma: imputazione coatta per Roberto Saviano, Mauro e Viviano. Il gip di Roma Stefano Aprile ha disposto l’imputazione coatta nei confronti del giornalista di ‘Repubblica’ Francesco Viviano, del direttore del quotidiano, Ezio Mauro e dello scrittore Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Umberto Marconi, ex presidente della Corte d’Appello di Salerno e oggi consigliere della Corte d’Appello di Napoli. La vicenda risale al 2010 ed è relativa all’inchiesta sul dossier preparato, secondo l’accusa, dall’ex sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino per screditare Stefano Caldoro e ottenere al suo posto la candidatura a presidente della Regione Campania. Il gip ha ravvisato gli estremi del reato di diffamazione in due articoli a firma di Viviano e Saviano pubblicati il 16 e il 17 luglio del 2010; il 16 luglio, in particolare, il sommario del titolo di apertura di prima pagina recitava: Nell’ufficio di un magistrato fabbricato il dossier anti-Caldoro. Il pm Erminio Amelio aveva invece chiesto l’archiviazione. (ansa)

Roberto Saviano accusato di plagio, richiamato da Rossi con una lettera-denuncia. Stavolta Saviano, non nuovo ad accuse di plagio, per la realizzazione del monologo sul caso Eternit mandato in onda nell’ultima puntata di “Quello che non ho“, avrebbe preso spunto dai lavori di Giampiero Rossi senza citare l’autore. Dalle pagine del loro quotidiano, Antonio Padellaro e Peter Gomez, fanno notare che, se si confrontano le parole scritte da Rossi nel suo libro “La lana della salamandra” pubblicato nel 2008 e il monologo sull’amianto di Saviano si scopre che alcune parti sono addirittura coincidenti. Nella sua lettera denuncia Giampiero Rossi scrive: “Ho trovato assai meno piacevole una certa mancanza di riconoscimento per chi quel lavoro lo ha realizzato. Tu lo sai bene, fare un’inchiesta, una ricostruzione storica, un racconto completo di vicende complicate ed enormi, come questa, comporta davvero tanta pazienza, volontà, tempo, passione. Perché, dunque, non riconoscere a chi ha investito tanto, almeno la paternità di quel suo lavoro? Eppure non sono pochi i particolari che hai scelto di utilizzare nel tuo racconto e che, guarda caso, sono tutti presenti in quei due libri (nel primo soprattutto) e non altrove, perché si tratta di racconti, confidenze, piccole sfumature emerse dalla mia lunga frequentazione della gente di Casale“. Roberto Saviano non ha ancora risposto e per ora non si è pronunciato sulle accuse. Saviano fu accusato di plagio anche dal giornalista Alket Aliu, direttore del settimanale Investigim, che  lanciò  pesanti accuse allo scrittore italiano, proprio all’interno del suo editoriale, asserendo: “Saviano riconosce il diritto d’autore solo quando si tratta di firmare contratti milionari con aziende di Berlusconi. Mentre il diritto d’autore non si applica ai giornalisti albanesi”. Aggiunge ancora: “Le imprecisioni sono molte e sono conseguenza della tipica arroganza di chi pensa di saper tutto e parla di tutto ed è stato raccomandato per prendere in giro spudoratamente gli albanesi. E’ un insulto al giornalismo e agli albanesi. Se c’è un modo per fare soldi è parlando della mafia, Saviano lo ha trovato. Conviene non solo a lui, ma anche a chi paga questo spettacolo, chi vuole spostare l’attenzione sulla criminalità di strada, sulla mafia di basso profilo, mentre la vera mafia passa attraverso le banche”. (Imola Oggi)

Gomorra, Saviano condannato per diffamazione nei confronti di Boccolato. Gomorra, confermata condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Confermata una condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Il risarcimento da versare è di 30mila euro. C’è infatti una persona che si sente diffamata da Gomorra, il best seller di Saviano. Si tratta di Vincenzo Boccolato, al quale nel libro veniva attribuita l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”. Gli avvocati Santoro e Salvigni difensori del signor Vicenzo Boccolato comunicano che con sentenza n 1977/14 del 28-05-2014 la II sezione civile della Corte d’Appello di Milano, presieduta dal dr. De Ruggiero Luigi, relatrice la dott.ssa Interlandi Caterina, ha confermato la sentenza di condanna per diffamazione di Roberto Saviano, in solido con la Mondadori S.p.A. in danno del signor Vincenzo Boccolato, nel celebre libro “Gomorra”. Come scrive nottecriminale: La sentenza della I sezione civile del Tribunale di Milano aveva accertato sussistere la portata lesiva per la reputazione e l’onore di Vincenzo Boccolato per quanto scritto dal Saviano nel capitolo “Aberdeen Mondragone”, nel quale veniva attribuita al signor Vincenzo Boccolato l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”.I legali poi aggiungono: In realtà il signor Vincenzo Boccolato che vive da diversi anni in Venezuela, risulta incensurato e soprattutto estraneo a qualsiasi attività camorristica. L’avv. Alessandro Santoro, difensore del signor Vincenzo Boccolato, preso atto che Saviano e la Mondadori, noncuranti delle due sentenze di condanna già intervenute, reiterano la diffamazione del signor Vincenzo Boccolato attraverso continue ristampe del celebre libro “Gomorra”, senza provvedere alla cancellazione delle frasi “accertate come diffamatorie” dal Tribunale di Milano il 28.10.13 e confermate dalla Corte di Appello e, senza neanche citare nelle ristampe la sentenza di condanna per diffamazione già intervenuta, se non altro per una più puntuale informazione “della verità” per i nuovi lettori, rende noto di aver ricevuto regolare mandato per chiedere un nuovo risarcimento dei danni subiti e subendi per la reiterata diffamazione in danno di Vincenzo Boccolato (today.it)

Un’altra condanna per Saviano, stavolta per diffamazione in Gomorra. Lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato per diffamazione a risarcire con 30mila euro una persona citata nel suo best seller Gomorra. Lo ha deciso il Tribunale di Milano al termine di una causa civile intentata da Enzo Boccolato, assistito dall’avvocato Alessandro Santoro. Il giudice della prima sezione civile, Orietta Miccichè, ha infatti «accertato – come si legge nel dispositivo della sentenza – il contenuto diffamatorio in danno di Enzo Boccolato della frase contenuta a pagina 291 del libro intitolato Gomorra», nella parte in cui «l’autore prospetta che Enzo Boccolato insieme ad Antonio La Torre si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina». Il giudice ha quindi condannato «Saviano e Arnoldo Mondadori Editore Spa (editore del libro, ndr) in via tra loro solidale al risarcimento del danno subito da Enzo Boccolato e a corrispondergli la somma di 30mila euro». Il giudice ha anche ordinato «la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della presente sentenza a cura e spese dei convenuti una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica entro 30 giorni della notifica in forma esecutiva della presente sentenza». A carico dei «convenuti» anche le spese legali del procedimento. «Nel libro Gomorra Saviano – ha spiegato l’avvocato Santoro – aveva infatti descritto il Boccolato, che è incensurato e che da vari anni vive in Venezuela conducendo una florida attività nel campo ittico e del tutto estraneo ad ogni attività camorristica, come collegato ai La Torre in relazione al traffico internazionale di cocaina, sostenendo che questo, unitamente ai La Torre si preparava anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina».

Ecc…ecc…ecc…

San Roberto dalla Campania. Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo. La costruzione mediatica del personaggio ero’ Roberto Saviano di Davide Pinardi(Paginauno n. 16, febbraio - marzo 2010). Lo sguardo è penetrante, l’espressione sofferta. È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...L’estetica fotografica con la quale viene ritratto è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti caravaggeschi ed è illuminato da una luce che giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una Grazia superiore – che lotta contro il buio del Male. Il suo sito internet è ricco, ben curato, con versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo. La sua agenzia editoriale è la più alla moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario: Roberto Saviano – di lui stiamo parlando – non è più un personaggio di cronaca locale ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda, zozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza etica del mondo...Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja, senza scorta e assassinata – sostiene che “al momento non c’è nessuno in Italia con una storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora trent’anni, a portare due fardelli, di quelli che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”. Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie italiane molto più commoventi e degne di indignazione. Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati, di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati, di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti dimenticati...Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati, che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più grande industria editoriale nazionale di proprietà del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali e portati in scena con complesse scenografie teatrali. Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina di una libreria guardo subito dall’altra parte”. C’è da domandarsi quanti siano i testimoni in processi al crimine organizzato che odiano il giorno in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione, abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che non ricevono né plausi, né nobili inviti, né ammirazione (quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine (e nella povertà). Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o connivenza) politica con il plauso ebete alle icone comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore); va bene a coloro che, con un click telematico al giorno a favore di testi di cui forse non capiscono bene il senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo che lo trova “un grande pensatore di destra”; va bene perfino ai leghisti, perché si erge come l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta e inetta (purché non dica che Milano è una città del Sud!). Va bene infine a chi è al governo, perché esprime un’alata testimonianza ‘di coscienza’ che vola alta, altissima, e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione ai veri rapporti di potere – dopo l’appello lanciato su Repubblica contro la legge sul processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo invita a “non abbandonare il suo impegno civile e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso e dialogante”, affermando che “certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica” e che “schierarsi non significa ideologicamente”.  Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura le cause per le quali ergersi commosso: apertamente a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’, sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle impopolari (simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire un suo film da ‘promozionare’). Saviano con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla Protezione civile denuncia le vergogne collegate al terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo? (Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche considerazioni sulla presenza storica della mafia in quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi: tutti conniventi con la criminalità organizzata?) Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli extracomunitari è dovuto a un sistema economico che in Italia è fisiologico e non patologico? Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato? Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro 2009...In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa è stato impiccato in Nigeria dopo un processo farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero degli Interni. Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi, gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta non è stata respinta con sdegno. Pochi criticano Saviano. L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […] Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la Camorra da anni”. L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano “non è un eroe, al contrario dei poliziotti che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo. […] La lotta alla Camorra non si fa col varietà, con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le paillettes di prima serata, né l’impegno antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine che sul campo contrastano il crimine organizzato”. Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni? Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono stati quasi additati come complici, più o meno coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale e civile che fino ad allora l’aveva protetto, ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”; subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo della Polizia...Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso, per la Camorra, perché questa – impossibilitata dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro, eccetera? Perché non minaccia le redazioni di Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi preziosi articoli? Perché non intimidisce chi lo propone come candidato alla presidenza della Regione Campania? Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere bene della città), dopo aver visto sei appartamenti (alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato dalla proprietaria perché i vicini le avevano detto che “nella via si sarebbe persa la pace”. Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene via per sempre. Non l’ha fatto. Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia e di proprietà del comune, “da cui si gode il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo certi che in quest’oasi di pace e tranquillità Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film Festival...”. E la Camorra a loro non dice niente? Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani, o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi, gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare. Tanto più un casale gratis, un’oasi di pace... no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono. Il caso di Saviano – a mio avviso – è esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca, dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti, della sistematica mancanza di approfondimento critico in tanti operatori dell’informazione, della rapidità nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici del presente.

Roberto Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo di Walter G. Pozzi(2 luglio 2010, poi pubblicato su Paginauno n. 19, ottobre - novembre 2010). Come ricorda un vecchio adagio, è sempre meglio lasciar stare i santi. Di quanto ciò sia vero ha avuto modo di accorgersene chiunque abbia tentato di sollevare dubbi sulla veracità della figura mediatica di Roberto Saviano, per veracità intendendo i molteplici aspetti, le mille ambiguità inevitabilmente nascoste dietro un successo planetario come quello dello scrittore napoletano. Il sociologo Alessandro Dal Lago ne ha affrontato in un saggio – piuttosto claudicante quando entra nel merito dell’analisi di Gomorra (come documentato dalla redazione di Carmilla) – la funzione sociale e politica. Su PaginaUno Davide Pinardi ha criticato la sapiente oculatezza con la quale sembra scegliersi le cause da sposare – solo quelle potenzialmente molto popolari – e ha sollevato alcuni dubbi sin dalla radice del meccanismo creativo del personaggio Saviano. Si è chiesto come mai la minaccia non si sia mai estesa oltre lo scrittore, allargandosi a coloro che gli garantiscono visibilità come la redazione di Repubblica o il presentatore Fabio Fazio; come mai nemmeno un mattone sia stato lanciato contro la vetrina di una libreria napoletana che ne espone i libri. Marco Clementi, dal sito della casa editrice Odradek (che ha aperto una piattaforma di discussione), si è spinto anche oltre, entrando nel merito dei suoi testi e delle sue parole, sollevando dubbi sull’attendibilità di alcune affermazioni. Come era prevedibile, tuttavia, il dibattito sulla funzione politica e culturale che la società ha finito per riconoscere a Saviano – investitura a cui egli non si è sottratto – ha immediatamente incontrato un forte contraddittorio, non sempre impostato sulla confutazione degli argomenti, nella ferrea pretesa che ogni critica mossa a Saviano altro non possa essere che uno sterile bizantinismo. Naturale che la polemica finisse per arenarsi trasformandosi in una sorta di aut aut – tra chi è pro e chi è contro Saviano – inevitabilmente mettendo fuori fuoco un problema, tipicamente moderno, che da una trentina d’anni costringe la letteratura, e la narrativa in particolare, a una drammatica impasse. Un problema che coinvolge profondamente la cultura e la sua impotenza di fronte a quel complesso di forze, strumento invisibile manovrato dal potere, che Horkheimer e Adorno definivano industria culturale. Parlare di Saviano in termini critici, quindi, può servire a patto di assumerlo come esempio di una realtà più ampia. Anche perché resta difficile stabilire la colpa di un individuo che perde il controllo della propria immagine nel momento in cui entra a far parte del polifonico e fagocitatorio sistema mediatico, diventando una star; sia che ciò avvenga per la difficoltà di sottrarsene, sia perché il successo è un giochino che premia i suoi prescelti ripagandoli abbondantemente, lasciando al beneficato l’illusione (che si trasforma in un facile alibi) che comunque le idee e i concetti siano in grado di mantenere una loro purezza, malgrado il medium; che il messaggio arrivi pulito così come magari era partito. A questa stregua, se c’è qualcosa che si possa imputare a Saviano, è il fatto di esserci cascato, permettendo al sistema di trasformarlo, a lungo andare, in un simbolo vuoto, condannato a reiterare un se stesso sempre più simile a un qualunque prodotto di consumo da grande distribuzione. Strumento di compensazione del malcontento sociale, fino a diventare addirittura utile al potere. Di quanto complicato sia il rapporto moderno che inevitabilmente lega la produzione del sapere e il sistema consumistico aveva parlato anche Pier Paolo Pasolini agli inizi degli anni Settanta: “La televisione è un medium di massa e come tale non può che mercificarci e alienarci”. Aveva compreso, Pasolini, che per capire una società occorre capire quali merci vengono prodotte e come vengono distribuite. Nel caso specifico, la merce non è il pensiero di Saviano, bensì Saviano stesso con tutto il portato emotivo che la sua storia è ormai in grado di evocare. Storia di martire, quindi di santo virtuale. Intorno a Saviano girano ormai molti soldi, e sebbene sia sbagliato contestargli i lauti compensi, il suo essere per il sistema una gallina dalle uova d’oro rende, per ragioni che di seguito vedremo, inevitabilmente ambiguo ogni suo intervento in scena. Troppo stretta la commistione tra la struttura etica e morale dei suoi discorsi e la moneta che circola intorno alle sue parole e alla sua presenza. Il dubbio, insomma, che, per qualcuno, più di affari si tratti che non di alti valori, inevitabilmente sorge. E dato che gli esempi valgono più di mille parole – a dimostrazione di come il potere fagociti la cultura per trasformarla in merce, disinnescandone i contenuti – può essere interessante rivisitare la querelle tra lo scrittore e il suo editore Berlusconi dello scorso 16 aprile, venerdì. Una polemica che ha occupato le pagine di Repubblica per quattro giorni. La bomba esplode nella sala stampa di palazzo Chigi, quando Berlusconi rilancia un evergreen del suo vasto repertorio, secondo cui la mafia avrebbe goduto di “un supporto promozionale che l’ha portata a essere un fattore di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di centosessanta Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto”. Un sempreverde che contiene, però, una novità: per la prima volta include Gomorra tra le opere nefaste per l’italianità all’estero. Un’aggiunta che riguarda da vicino la questione affrontata in queste righe. Infatti, la prima cosa che colpisce, da parte del presidente del Consiglio, è l’innocenza: come se egli nulla avesse a che fare con il marchio Mondadori, quello che a Saviano garantisce asilo letterario e che a fine marzo, proprio poco tempo prima della zuffa verbale, ha pubblicato – edizioni Einaudi, sempre Berlusconi quindi – la nuova fatica dello scrittore napoletano: una bella confezione libro + dvd. Una stupidata? Una gaffe? Forse è qualcosa di molto peggio e di più grave, che potrebbe non riguardare solo lui. Alle parole del premier, com’era da attendersi, apriti cielo. Saviano si indigna e sabato 17 prontamente ribatte dalle pagine di Repubblica. Seguendo il filo dei suoi argomenti, ricorda le vittime di mafia, quanto sia importante denunciare (e qui cita la sua ultima opera appena uscita per Einaudi…) ed esterna il dubbio se per lui valga ancora la pena pubblicare con la casa editrice del presidente del Consiglio. Parole bellissime, importanti e cariche di pathos, capaci di smuovere la sensibilità di altri scrittori, da Starnone giù giù fino all’innocuo Ammaniti, qui e là su stampa varia. Dimostrando grande fiuto (cos’altro?) e disobbedendo ai dettami suggeriti il giorno prima dal loro datore di lavoro, gli addetti al marketing del gruppo Mondadori rincarano la dose e comprano sulla prima pagina di Repubblica – con cui lo scrittore collabora attivamente – lo spazio pubblicitario più costoso, per picchiarvi impunemente la pubblicità dell’ultimo nato di Saviano. Nel frattempo, recitato il proprio ruolo di battitore, Berlusconi esce di scena con stile e lascia spazio alla figlia, che della Mondadori è ufficiale responsabile. Il giorno seguente, domenica 18, gli uomini della Mondadori raddoppiano la puntata, e comprano spazi per pubblicizzare Gomorra sia sulla prima pagina di Repubblica che su quella del Corsera, dimostrando quanto il loro araldo sia sempre un buon affare. Ancora una volta l’ufficio marketing di Segrate dimostra doti di lungimiranza se non di preveggenza. Come poteva sapere che il proprio presidente Marina Berlusconi avrebbe scritto, in risposta a Saviano, una lettera in difesa del padre e della libertà di critica che sempre Mondadori ha riconosciuto ai propri scrittori? E anche considerando che gli uffici di una casa editrice non sono compartimenti stagni, come potevano sapere a Segrate che Saviano avrebbe risposto nella stessa pagina lo stesso giorno, approfittando della disponibilità di Repubblica (ideologicamente coinvolta dall’importanza degli alti valori in gioco), per ribadire il proprio ruolo di difensore della libertà? A rinforzare il sospetto di stare assistendo a una farsa, più che a un dibattito sulla libertà di opinione (in cui ognuno afferma di essere un campione di democrazia), intervengono i tempi tecnici per prenotare uno spazio pubblicitario in prima pagina. La Manzoni, agenzia pubblicitaria a cui si affida il gruppo L’Espresso, apre le prenotazioni degli spazi pubblicitari nel periodo di novembre/dicembre dell’anno precedente. In prima pagina il box a disposizione riservato alla pubblicità culturale (scusate l’ossimoro) è uno solo e occorre precipitarsi ad acquistarlo con largo anticipo. Ora: pur ammettendo che una grande azienda come il Gruppo Mondadori sia solita prenotare un buon numero di spazi per poi riempirli a seconda delle esigenze e delle occasioni, occorre riconoscere l’immensa fortuna degli uomini marketing di Segrate, nonché immaginare la loro gioia insperata, nel momento in cui hanno sentito alla televisione il loro padrone in pectore attaccare Saviano proprio in coincidenza della campagna pubblicitaria dell'ultimo libro dello scrittore. Ancora di più quando si sono accorti che Repubblica aveva deciso di seguire passo dopo passo l’intera polemica lanciata da Berlusconi contro il loro autore (sì, autore un po’ dell’uno e un po’ dell’altro); compreso il carteggio tra lui e Marina Berlusconi. La statura morale di Saviano impone di pensare che egli fosse all’oscuro di tutto, e di ammirare piuttosto il suo impegno nel momento in cui, con grande velocità si è messo sotto a rispondere a Marina, con il poco tempo rimastogli dal momento dell’arrivo della lettera del suo editore a Repubblica, della decisione dei redattori di Repubblica di girargliela, e l’ora di chiusura del giornale. A meno che Marina non sia stata così premurosa da inserire lo scrittore direttamente in copia nella sua mail indirizzata alla redazione del quotidiano diretto da Ezio Mauro. E se anche si fosse trattato di semplice marketing – il che naturalmente non è, visti gli alti contenuti – bisognerebbe rendere onore anche alla formidabile larghezza di vedute del nostro premier, nonché alla sua natura di uomo profondamente liberale, nel momento in cui, pur di permettere a uno dei maggiori scrittori della sua scuderia di lanciare un importante appello ai valori democratici, addirittura accetta di figurare come bersaglio ideale dell’attacco, mosso proprio dalle pagine dell’odiato quotidiano, suo più feroce oppositore politico. Questo detto, ça va sans dire, senza voler mettere in dubbio nemmeno la buona fede di Repubblica, il cui palcoscenico è talmente ampio e liberale da ospitare, il giorno dopo ancora, lunedì 19, il direttore generale Libri Trade Mondadori, Ricky Cavallero, pronto a chiedere a Saviano di non lasciare una casa editrice che sempre gli ha garantito supporto e riconosciuto grande libertà di espressione; e contemporaneamente conservare un angolino libero per lo scrittore Sebastiano Vassalli, uno dei pochi di vero valore del panorama italiano. Non sfugge tuttavia la coincidenza, non essendo, il suddetto, figura usa a venir chiamata su giornali e televisioni. Scontata e doverosa la difesa di Saviano da parte di uno scrittore tanto importante, un po’ meno la notizia, annunciata dal giornalista, dell’imminente uscita del nuovo romanzo di Vassalli, pubblicato proprio da Einaudi. Quest’esempio potrebbe bastare – il giorno dopo, martedì, leggere l’articolo di Sofri, il più dotto, indurrà quasi a tenerezza, considerato il contesto in cui si va a inserire – ma manca ancora un tocco di classe. E il colpo di tacco, puntuale, persino beffardo, arriva con un corposo articolo al centro della pagina che ricorda il gran numero di mail, arrivate dai fan di Saviano, i quali non hanno mancato di dimostragli tutto il loro affetto. Al punto che, ricorda l’estensore del testo, le vendite dei suoi libri negli ultimi tre giorni sono sensibilmente aumentate. E infatti (secondo i dati forniti dall’inserto Tuttolibri de La Stampa) il 26 aprile finalmente, sembra niente dirlo, anche l’ultimo parto dello scrittore entra in classifica. Torna alla mente il film di Elio Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Anche quando l’assassino si toglie la maschera e si rivela, nessuno ha interesse a riconoscerlo.

Semel in anno savianico licet insanire. Narrazione savianica: tra fatti, informazioni, verità e verosimiglianza, tra costruzione del senso e descrizione pornografica della società di Massimiliano Monaco (Paginauno n. 22, aprile - maggio 2011). Accidenti, ieri un elicottero dell’esercito, parcheggiato dentro il parco, lo ha inquinato mezzo facendo ruotare le sue pale per diversi minuti, e le mie per molto di più, prima di tornare da dove era venuto. Per fortuna stavo correndo e sono scappato nella metà libera dai fumi. Una volta lì però mi sono dovuto rassegnare all’evidenza olfattiva che nel frattempo mi ha raggiunto e ho deciso di prendere la via verso casa, dove mi stavano aspettando il mio cane e i suoi bisogni. Cosa stessi facendo prima di prendere quella decisione è chiaro soltanto in parte, sì stavo correndo, scappando, ma soprattutto pensando a questo articolo, confermo scappando, già iniziato, la cui sostanza era smangiucchiata qua e là. Molte pretese, poca sostanza. Il pensiero era, ed è, su come affrontare il savianesimo provando a liberarmi dal pregiudizio che Saviano sia un santo, e del conseguente senso di colpa per averlo pensato. Ahimè non sono un suo ammiratore, men che meno di chi lo santifica, ma non sono nemmeno un ammiratore di chi lo impallina con motivazioni che definisco del sospetto, delle quali però condivido la sostanza degli argomenti che utilizzano. Insomma un pasticcio principalmente emotivo dal quale non è semplice venire fuori. Come dice qualcuno di cui non ricordo il nome, anche il cuore ha i suoi pregiudizi, e il mio ne è zeppo. A complicare la situazione ci sono stati gli straordinari interventi di Benigni e Abbado alla trasmissione Vieni via con me, dopo i quali è diventato ancora più difficile accettare di avere un pensiero, seppur piccolo, non pro Saviano. Lemme lemme dico le cose che mi sono rimaste impresse di Vieni via con me: il grande sforzo di Abbado, Benigni che da del tu a Sandokan mentre Saviano, valletto muto, non è in grado di rompere la timidezza per cantare la sua terra e si esprime solo grazie alla retorica non essendo all’altezza del ruolo di narratore (lo dico alla faccia del lemme lemme e di quel ragazzo che potrebbe imparare qualcosa da Minoli), inoltre il rifiuto di Benigni a rimanere sul palco, credo consapevolmente, mentre Fazio farà l’ennesima uscita sentimental popolare, e infine una performance di teatro danza magistrale quanto la regia televisiva che ne è stata fatta. A margine di questo c’è l’establishment politico, di entrambe le parti, che alimenta la mitologia attraverso la moderna figura dell’eroe, sostituendo la fede laica a quella religiosa, c’è chi, tra i comuni mortali, altresì detti popolo, che pensa a Saviano come una vittima del sistema della comunicazione, sfruttato e sovraesposto, e per finire un articolo di Aldo Grasso, il quale, paternalisticamente, cerca di non stroncare il fenomeno sociale Saviano, aggrappandosi al fatto che, tutto sommato, i contenuti del programma sono stati buoni rispetto alla media della televisione italiana. Penso che al peggio del berlusconismo non ci sia fine e non mi butto giù dalla finestra soltanto perché voglio finire questo articolo, poi vedremo. A conti fatti i fatti sono ciò che conta e quando si vuole raccontare un accadimento si usa raccogliere le informazioni che lo riguardano, la somma delle quali descrive ciò che è accaduto. Senza nemmeno accorgermi sono passato dai fatti alle informazioni che, normalmente, chiamiamo fatti, ma che fatti non sono perché le informazioni, relative a un fatto, non sono il fatto in sé, bensì la sua rappresentazione. Se questo è vero allora implicitamente è vero anche che esiste una distanza tra ciò che accade, il fatto, e gli elementi di narrazione di un accadimento, le informazioni, che a loro volta sono un insieme di dettagli. La distanza tra un accadimento e la sua narrazione non è solo evidente di per sé, se non altro per una questione temporale, ma è anche qualcosa che si amplifica insinuandosi tra i dettagli e tra gli elementi del racconto stesso. Infatti, nel riportare un fatto, cerchiamo di ridurre questa distanza utilizzando l’elenco, presunto strumento di imparzialità, di ciò che lo compone, per poter restituire a un potenziale lettore il quadro di quanto è realmente accaduto. Al posto di quello che sto per dire prima c’era un pezzo molto più lungo e noioso sulla relazione tra accadimento, soggetto e racconto, dettagli, elementi e il loro ordine o la costruzione sfruttando la distanza fra questi, che vi risparmio perché non ho la pretesa di svolgere un compitino logico ma dinamico, quindi salto alla battuta finale: questione di difetti dei fatti. Difatti, siccome ne sto parlando nella dimensione del racconto, usare la parola fatti è inappropriato quanto comune. A questo punto chiamo a testimoniare le parole descrivere ed elencare chiedendogli che senso abbiano in ambito letterario se utilizzate con uno stile cronistico o simil tale? Penso per esempio alla Divina Commedia di Dante che inizia dicendo (Canto I): “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Come a dire, sì questa selva esiste perché altrimenti non potrei dire che è selvaggia, aspra e dura, ma attenzione a voler passare per fessi dandone una spiegazione oggettiva, quanto a dir qual era è cosa dura. Eppoi: “Tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Per trattare il bene che ho trovato devo parlare di altro, delle cose che ho scorto, e aggiungo che Dante ancora una volta rifugge una posizione assolutistica sapendo che scorgere significa distinguere con l’occhio o con la mente e in questo caso sono i suoi. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”. La verace via abbandonai, verace da vero significa che ha in sé verità, che è fonte di verità o meglio che è in realtà ciò che si afferma quindi non falso, non immaginario, non ingannevole. Come è possibile che voglia essere preso sul serio e allo stesso tempo abbandona la verace via? Da non studioso di Dante azzardo che significa non farò il cronista, non collezionerò fatti, tanto che questa opera è una macro allegoria fatta da sciami di metafore come dice Sermonti, e quindi non vi so dire, o vi dico che non vi so dire, come ci sono entrato. Proseguendo (Canto II): “Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animali che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì del la pietate / che ritrarrà la mente che non erra”. Apparecchiato, preparato a sostener la guerra che ritrarrà la mente che non erra, e dove va la sua? Dove vuole andare? Intanto, subito a chiamare aiuto: “O muse, o alto ingegno, or m’aiutate” perché riportare ciò che ha visto non basta per esprimere quello che vorrebbe; “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate”. E in fine: “Sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso” perché come per camminare ci vuole sia un piede sulla terra che uno per aria, così anche per creare un’opera, ed è fondamentale che il piede a terra regga quello in alto. Credo che la descrizione di un personaggio sia una cosa estremamente complessa perché per funzionare non deve avere solo una relazione intima con il personaggio ma più ancora con il mondo. Di Quinn, personaggio scritto da Paul Auster, sappiamo che “non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza”. Come se nel suo tempo non esistesse una verità comune a tutti in grado di cristallizzarlo ma “sappiamo, per esempio che aveva trentacinque anni”, l’età di Dante della Divina Commedia, ma questo è solo un caso, credo; “sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli”. Sappiamo cose delle quali ne capiremo il senso molto dopo, come Quinn: “Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla è reale tranne il caso”, e la Trilogia di New York è una raccolta di tre racconti polizieschi, a carattere psicologico, che immediatamente si mette in contatto con le ‘turbe’ mentali di milioni di persone incluse le mie. Quanti fatti reali sono contenuti in questo pezzettino di verità del personaggio? Forse nessuno perché “come la maggior parte della gente, Quinn non sapeva nulla del mondo del crimine. Non aveva mai assassinato nessuno, mai rubato niente, e non conosceva nessuno che lo avesse fatto [...]. Questo per altro non gli sembrava una menomazione. Nelle storie che scriveva, a importargli non era il rapporto con il mondo, ma il rapporto con le altre storie”. E ancora Auster ci dice che scrittore e investigatore sono intercambiabili: “Il lettore vede il mondo con gli occhi dell’investigatore [...]. Si è ridestato alle cose che lo circondano quasi che gli potessero parlare, quasi che, in virtù dell’attenzione che ora riserva loro, assumessero un significato altro dal mero dato della loro esistenza”. Il mero dato che tanto fa per rendere più ricco il resoconto di un fatto di cronaca. Forse qualcuno di quelli nascosti nella figura dell’avaro a partire dal primigenio vecchiaccio di Plauto che Molière travasa in Harpagon contestualizzando un tipo umano nella sua società dove la staticità di una pentola avrebbe detto, della spilorceria, meno di quanto potesse fare la spinta all’accumulo grazie all’usura. Oppure quelli nel personaggio del duca di Guermantes che Proust ci presenta così : “Si, aussi avare que fastueux, il lui refusait le plus léger argent pour des charités, pour le domestiques, il exigeait qu’elle eût les toilettes les plus magnifiques et les plus beaux attelages”. Forse tanti quanti sono gli episodi ne La ca’ dei cani di Tenca, “perché gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico, vi abbiamo introdotto la esecuzione di cento cittadini impiccati sulla pubblica piazza, quella di due frati abbruciati vivi, l’apparizione d’una cometa, tutte descrizioni che valgono per quelle di cento tornei, e che hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale”. (Queste sono per altro le righe introduttive dell’ultimo libro di Eco Il cimitero di Praga). Tenca ritiene la storia “primitiva sorgente di vero” e di questo “conservatrice eterna”, non può essere per l’invenzione mero supporto, o camicia di forza, né è lecito “spogliarla, saccheggiarla, rafforzarla”, diventando un puro pretesto di romanzesco (da un testo di Marinella Colummi Camerino). Cos’è la socialità se non un guardarsi l’un l’altro, come la domenica sul sagrato di una chiesa, con un come che in nessun modo può mascherare o inverare l’atto del guardarsi. L’individuo guarda, ricambiato, l’indistinto del mondo prossimo, dentro o fuori di sé, che l’artista, sottoinsieme derivato della categoria individuo, anch’esso guarda e ne descrive le trasparenze. Il lettore, individuo pure lui, guarda e consuma le trasparenze descritte dall’artista trapassato, attraverso la sua finestra, dal mondo dentro o fuori di sé, dell’individuo, e quindi del lettore allo specchio. Le finestre di ciascuno rispecchiano l’individuo anche per un loro stile proprio. Quello più in voga oggi è quello della rappresentazione della realtà attraverso descrizioni di dettagli, una strana forma di anatomia della società. Cercando pornografìa sul portale della Treccani, che esprime tutta se stessa con “il sapere parte da qui”, si ottiene questo risultato: “s. f. [dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’] – 1. Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore: fare della p.; è un film che contiene solo p.; una campagna moralizzatrice contro la p.; un’opera in bilico tra raffinato erotismo e triviale pornografia – 2. ant. scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Faccio attenzione a “dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’”. Se la mia conoscenza delle abbreviazioni non mi inganna, ‘der. di’ dovrebbe significare derivato di, quindi quella frase diventa “dal fr. pornographie, derivato di pornographe ‘pornografo’”. A questo punto dantescamente chiedo aiuto alla linguistica secondo la quale derivato significa, sempre Treccani alla mano (per modo di dire), che trae origini da una forma preesistente, e chiedo aiuto alla logica per concludere che se pornographie è derivato di pornographe significa che, nel mondo impalpabile, la sequenzialità temporale tra queste due parole ricade in quello palpabile dove il pornografo è esistito prima della pornografia. Ma se il pornografo è esistito prima della pornografia significa che faceva un’attività diversa da quella di produrre soggetti o immagini con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore. Cosa faceva allora il pornografo prima di fare pornografia? Qui facciamo entrare in gioco ‘ant.’, il significato più lontano nel tempo, secondo il quale anticamente pornografia significava “scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Scritto che riguarda le prostitute è un po’ vago, tanto che non si capisce come lo facesse. Ho cercato del materiale a riguardo ma sono stato poco fortunato. Allora mi verrebbe da pensare che se l’intento non fosse quello di stimolare, potrebbe essere stato quello di lasciare documentazione scritta a testimonianza della loro esistenza. Se così fosse, e arrivo alla conclusione di questo breve ragionamento, abbiamo capito che un pornografo è uno scrittore, il cui stile narrativo è descrittivo, oggi si direbbe che parla di fatti e per questo forse è stato una variante specializzata del cronista. “[...] il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d’accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l’iva” (da Gomorra, Roberto Saviano). L’avessi scritto in un tema al liceo la professoressa mi avrebbe dato due per quanto era puntigliosa quella stronza. È vero che il mondo degli scambi internazionali è fatto di categorie merceologiche, più suggestivo chiamarle voci doganali, secondo le quali è stabilito il valore commerciale della merce e, di conseguenza, gli oneri a esso attribuiti per legge. Non so se sia vero che basta un colpo di penna, e nemmeno che lo si debba fare sulla bolla di accompagnamento, considerando che una pratica doganale vive di fatture, quindi semmai sono queste a dover essere contraffatte per abbattere gli oneri, e quindi eventualmente sfregiate con un colpo di penna, ma colgo il senso generale di quella frase e lo condivido perché è vero che dando alla merce una voce simile ma non uguale si ottengono risultati peggiori che a sbagliare la voce di un doppiatore. Però i dettagli fanno la differenza e a questo proposito va menzionato il fatto che quando parliamo di merci che viaggiano da un capo all’altro del mondo possiamo parlare di meccanismi che stanno sopra le singole voci, trasformando queste ultime in voci di corridoio. Le grandi compagnie di trasporto e sdoganamento, quelle che fanno il door to door per intenderci, beneficiano di due cose; la prima è di avere un ufficio di funzionari statali ospitato all’interno dei propri uffici, capisciammè, e la seconda è una cosa che si chiama procedura semplificata. Cos’è una procedura semplificata? In breve è una procedura grazie alla quale la merce che arriva sul territorio di destinazione può venire consegnata al destinatario finale prima che la documentazione relativa a essa, necessaria per lo sdoganamento, venga presentata ai funzionari. A voi lascio immaginare il resto e il perché una voce doganale diventa una voce di corridoio – per precisione aggiungo che alcuni cambiamenti sulle regole di interscambio dovrebbero aver avuto effetto a partire da gennaio 2011 e che quindi oggi la procedura semplificata potrebbe non esserci più. A questo punto mi chiedo perché sono diventato tanto puntiglioso quanto la mia prof. del liceo. In fondo quella frase di Gomorra probabilmente ci voleva semplicemente dare l’idea della truffa e del suo essere una cosa reale e quotidiana. Ma allora perché usare un registro narrativo di verità se basta poco per scoprire che è soltanto verosimile. Verosimile come tutta la merce avariata che il governo Berlusconi ci propina? ‘ndo sta la differenza tra lui e loro? ‘ndo sta la letteratura che usa i fatti per elevarli a metafora del presente in un romanzo, come Saviano definisce Gomorra, che incipia con pressapochismo su un dettaglio anatomico di scarso interesse per capire il mondo in cui viviamo? Comunque grazie! Saviano, la verità è che sono invidioso nonostante la mia galera sia più dolce della tua.

Impresentat’arm, scrive Filippo Facci su Libero. Gli impresentabili sono: 1) Quelli condannati in giudicato; 2) No, quelli condannati in Appello; 3) No, quelli condannati in primo grado; 4) Basta che siano rinviati a giudizio; 5) Basta che siano indagati; 6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione; 7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza); 8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile; 9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale; 10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario; 11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano; 12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra"; 13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili; 13) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali; 14) Sono i voltagabbana; 15) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Un modo diverso di raccontare la mafia, scrive “Il Post”. Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia. Lo scrittore Giuseppe Rizzo ha pubblicato sul sito di Internazionale un lungo articolo nel quale critica il modo con cui si è discusso di mafia negli ultimi anni, invitando a «raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo», cioè quello che lui definisce il “secondo tempo”. Rizzo intende dire che i dati sulle attività della mafia pubblicati negli ultimi anni raccontano una situazione in lento miglioramento. Secondo Rizzo il problema rimane il modo di raccontare le vicende di mafia da parte di alcuni magistrati, politici e giornalisti, che spesso mirano solamente a sfruttarne la forte carica emotiva – innescata da popolari film e libri sulla mafia – per un proprio tornaconto. Scrive Rizzo: «La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto. […] Non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia».

La Sicilia è una guerra in due atti di Giuseppe Rizzo, giornalista di Internazionale. Mi è capitato di stare dalla parte sbagliata. In Sicilia significa che ho conosciuto e frequentato gente che poi è stata arrestata per associazione di stampo mafioso. Con alcune di queste persone ho avuto rapporti diretti, con altre ci siamo incrociate, con altre ancora ho legami di parentela. La forza dell’impatto di questi incontri va dall’indifferenza al disastro. Tutto questo mi serve per fare un discorso sulla codardia e la complessità che arriva tra poco, prima devo parlare di Ernest Hemingway e di Francis Scott Fitzgerald. Ernest Hemingway diceva che ogni generazione è segnata da un evento, e che questo evento forma l’immaginario e i racconti di quella generazione, e cioè il modo di vedere e leggere il mondo. Per la sua generazione, spiegava, quell’evento era stato la prima guerra mondiale. Per chi è nato in Sicilia negli anni settanta, o negli ottanta come me, quell’evento è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini che scortavano i due giudici. Significativamente, le stragi di Capaci e via d’Amelio entrano nella letteratura italiana in opere pubblicate in questi ultimi cinque anni. Significativamente, tutti gli autori sono nati a Palermo, e nel 1992 avevano dai quattordici ai venti anni. Pif è nato nel 1972 e ci ha girato un film. Alessandro D’Avenia nel 1977, Corrado Fortuna nel 1978 e Davide Enia nel 1974: tutti e tre ci hanno scritto sopra romanzi e racconti. Un racconto di Enia è ripubblicato in questi giorni in La guerra. Una storia siciliana, libro che raccoglie il lavoro del fotografo Tony Gentile tra il 1989 e il 1996 – tutte le immagini di questa pagina sono tratte da quel volume, e non sono che un assaggio di un lavoro onesto e a tratti disarmante. Per come la vedo io, i romanzi e i film di questi autori si legano inconsapevolmente tra loro per dire due cose: che la Sicilia è una guerra; e che, come per gli americani raccontati da Fitzgerald, nella vita dei siciliani sembra non esserci un secondo atto. Quest’ultimo punto finisce per avere conseguenze sull’Italia intera, ma ci arrivo tra un attimo, prima ho bisogno di tornare dalla parte sbagliata. Per me stare dalla parte sbagliata ha significato anche avere conosciuto e frequentato salvatori della patria che si sono poi rivelati abbagli ideologici e fregature straccione. Nello specifico ha voluto dire che mi sono innamorato di progetti civili fallimentari, di promesse di salvezza sceneggiate dalla politica e smontate dalla realtà, di rivoluzioni che al più erano contestazioni quando non teatrini. Ancora più nello specifico tutto questo si è tradotto in tessere di associazioni contro le mafie, entusiasmi per treni e cortei della legalità, litigate in difesa di Rosario Crocetta prima che diventasse governatore dell’isola, crociate affinché Totò Cuffaro fosse sbattuto in galera. Molti dei furori che hanno preceduto queste scelte sono stati degli errori, e un po’ anche certe scelte, anche se in misura differente. Il disprezzo per la politica clientelare di Cuffaro non è niente al confronto della delusione che è seguita all’insignificanza di certa sinistra, ma non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia. Julian Barnes in Metroland: “Quando muoiono le teorie? E perché? Dite pure quel che vi pare, ma finiscono eccome, e per la maggior parte di noi. È un unico avvenimento decisivo a ucciderle? Forse per qualcuno. Ma di solito muoiono d’usura, lentamente e sull’onda delle circostanze”. Giovanni Falcone al funerale del giudice Rosario Livatino, 1990. “La foto è davvero spietata: sono tutti soli dentro lo scatto, e questa solitudine senza consolazione spiega più di mille parole il perché della forza della mafia”. (Davide Enia) Tony Gentile, Postcart edizioni. L’onda delle circostanze sulle spiagge siciliane è tutta una risacca di storie che vengono dal passato, e queste storie sono fatte proprie non solo da narratori e registi quarantenni, ma anche da magistrati imprenditori ed eroi dell’antimafia che negli anni si sono trasformati in maestri dell’emergenza. Tutti raccontano il primo tempo siciliano: chi lo fa al cinema o nei romanzi lo fa perché quel primo tempo è ricco degli eventi che l’hanno segnato, appunto; gli altri perché senza non potrebbero giustificare carriere cattedre e palcoscenici. C’è un rischio: il racconto degli anni novanta fatto nei romanzi e nei film usciti di recente carica inconsapevolmente l’arma di cui hanno bisogno i maestri dell’emergenza per tenere sotto scacco l’isola, e con l’isola il paese. Quest’arma è l’emotività, i suoi proiettili sono le emozioni, e rientrano in quello che Giovanni De Luna definisce come “paradigma vittimario”, ovvero quel diffuso bisogno di risarcimento morale provocato dalle stragi. Pif, Enia e gli altri raccontano anni drammatici, in cui magistrati saltavano in aria e giornalisti venivano sparati e bambini erano sciolti nell’acido. Riempiono il campo di emozioni a cui nessuno può sottrarsi: la rabbia, l’amarezza, la paura, lo sconforto, la disperazione. Queste stesse emozioni sono usate e manipolate dai maestri dell’emergenza per farne un ricatto: chi può metterle in discussione senza apparire come un mostro di cinismo che sputa sul cadavere dei morti? È bene che lo dica subito: non c’è alcun legame diretto tra le azioni degli uni e quelle degli altri, non credo che narratori e registi abbiano delle responsabilità nella manipolazione operata dai maestri dell’emergenza. Penso a un cortocircuito casuale. Penso che La mafia uccide solo d’estate di Pif o Un giorno sarai un posto bellissimo di Corrado Fortuna raccontino onestamente non tanto gli anni delle stragi, quanto le teste di alcuni ragazzini negli anni delle stragi. Penso che Ciò che inferno non è di Alessandro D’Avenia e Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia facciano i conti con una Palermo che tra gli ottanta e i novanta aveva divorato l’intera Sicilia. Tutte e quattro le opere condividono il medesimo punto di vista: la ferocia della mafia vista dagli occhi di un ragazzino. In tutte e quattro questo ragazzino si confronta con il mondo adulto, che è terrorizzato da cosa nostra quando non colpevole di fiancheggiamento. Questo ragazzino spesso si innamora di una ragazza che lo aiuta a sciogliere il nodo di emozioni che gli spezza il fiato in gola. Queste emozioni spesso emergono dal racconto dettagliato delle morti per mafia: è qui che per me nasce il cortocircuito. Nessuno sano di mente potrebbe mettersi a concionare sull’assassinio di Piersanti Mattarella o sulla strage di Portella della Ginestra, su Falcone Borsellino Fava Impastato Puglisi Dalla Chiesa. Questo primo tempo della recente storia siciliana è una bolla emozionale potentissima. Solo che dentro questa bolla soffiano anche i maestri dell’emergenza, con il loro carico di aliti pesanti. Provo a spiegare meglio chi sono i maestri dell’emergenza. Sono gli eredi dei professionisti dell’antimafia raccontati da Leonardo Sciascia. Sono intellettuali, giornalisti, magistrati e politici che hanno diviso l’isola in due: di là il male e di qua il bene; di là la menzogna e di qua la verità; di là i criminali, i mascariati, i collusi e di qua i giusti, i coraggiosi, noi. Stare dalla parte sbagliata, la provincia e Sciascia mi hanno insegnato il valore del dubbio e riparato dal fascino e dalla paura delle loro condanne. In provincia l’assolutismo è impossibile, perché ci conosciamo tutti e può capitare, come è capitato nel mio piccolo paese in provincia di Agrigento, che una mattina ci si svegli con qualcuno che si conosce o con qualche parente dietro le sbarre. Ma conseguentemente succede anche che ci si possa fare domande del genere: cosa spinge un ragazzo che è cresciuto in una famiglia per bene a chiedere il pizzo? Se arrestano tuo padre, tuo fratello o la persona che ami significa che sei complice, lo sei stato o lo sarai se non lo condanni? Cucire dei bottoni sugli accappatoi perché quelli con la cintura di stoffa in carcere non sono ammessi fa di te un mostro? Se nel tuo paese non si è mai pronunciata la parola mafia vuol dire che sono tutti codardi? I tuoi genitori hanno avuto diritto di avere paura? Per anni mi sono chiesto: posso o non posso scrivere una lettera a X, finito in carcere con l’accusa di omicidio? Ognuno affronta queste domande come sa e può, e arriva a risposte differenti: io ho provato a scrivere quella lettera, e molte notti rotte e molti tentativi: e mi sento un cane per non esserci riuscito, specie dopo l’assoluzione di X. Ma appunto, ognuno ha mille risposte, tutte diverse tranne una, che è uguale per tutti: queste domande i cretini non se le fanno e sono pronti a condannarti per molto meno. Più che la lezione sui professionisti dell’antimafia, di Sciascia mi porto dietro un’altra intuizione, è dentro Nero su nero, fa così: Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania. Ci sono tre storie che aiutano a capire meglio quanto questa epifania abbia raggiunto il suo apice oggi, scavalcando le casacche politiche, e trovando nei maestri dell’emergenza dei rappresentanti cerimoniosi e insidiosi e pericolosi. Le prime due si incrociano e hanno per protagonisti Massimo Ciancimino e Antonio Ingroia. Massimo Ciancimino è il figlio di Vito, ex sindaco di Palermo condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Al padre si deve lo sventramento del capoluogo siciliano quando fu assessore ai lavori pubblici del comune: quattromila licenze edilizie rilasciate, 1.600 intestate a tre prestanome, tra cui un venditore di carbone e un fabbro. Al figlio i magistrati di Caltanissetta contestano di aver fornito un documento in cui risulterebbe che l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro sarebbe stato una persona avvicinabile dal padre Vito Ciancimino. Sui giornali per giorni si è anche letto che Vito Ciancimino avrebbe “indicato De Gennaro come personaggio dell’ambiente del signor Franco”. E cioè l’uomo dei servizi segreti che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cosiddetta trattativa tra lo stato e la mafia. La quale trattativa è bene riassumere: all’indomani delle condanne inflitte nel maxiprocesso ai boss mafiosi, iniziano stragi e omicidi per convincere la politica che aveva voltato le spalle a Riina a stipulare un nuovo patto di non belligeranza, il cui tramite sarebbe stato Vito Ciancimino. Il figlio è uno dei testimoni chiave del processo e per mesi ogni sua dichiarazione conquista le prime pagine dei giornali. Dà lezioni di antimafia e ispira libri come Il quarto livello di Maurizio Torrealta, con la prefazione firmata da Antonio Ingroia. Il magistrato all’epoca guidava le indagini sulla presunta trattativa, e nel libro Il labirinto degli dèi scriveva: “Dal primo incontro ho capito che Ciancimino jr era fatto di tutt’altra pasta. Tanto il padre era ombroso, tanto il figlio Massimo è gioviale (…) uomo dei media e per i media, nel bene e nel male. E per una metamorfosi mediatica, oggi il figlio di Ciancimino è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia”. L’icona dell’antimafia nel 2011 è stata arrestata mentre se ne andava a Saint-Tropez per Pasqua. A rinviarlo a giudizio è stato l’uomo che l’ha definito “quasi un’icona dell’antimafia”. Non sarebbe stata la prima capriola di Ingroia, questa, e nemmeno l’ultima. Il magistrato, dopo aver costruito l’impianto accusatorio e aver affascinato moltissime tribune con le sue tesi, ha mollato tutto per andare in Sudamerica a combattere il narcotraffico per le Nazioni Unite, ha scritto i Diari dal Guatemala per Il Fatto Quotidiano, e da Santoro ha dichiarato: “Il mio libro si chiama ‘Io so’ e il sottotitolo potrebbe essere ‘perché ho le prove’, ho ricostruito con sufficiente solidità, sulla base dei fatti emersi, una trama criminale che ha pesantemente condizionato la prima e la seconda repubblica”. In Guatemala ci è rimasto meno di due mesi, poi è tornato in Italia e ha fondato Rivoluzione civile, il movimento con cui ha cercato di conquistare la pancia emotiva degli elettori e con cui però è riuscito a raggranellare solo l’1,8 per cento al senato e il 2,2 alla camera. Fuori del parlamento ha provato a rientrare in magistratura, ha rifiutato un posto ad Aosta ed è finito ad amministrare Sicilia e-Servizi per volere del governatore Rosario Crocetta. Oggi sono entrambi indagati per decine di assunzioni che secondo l’accusa sarebbero state fatte violando la legge. La terza storia è quella di Roberto Helg. Il presidente della camera di commercio di Palermo è stato un campione della lotta contro il pizzo, prima di essere arrestato per pizzo. Il cavaliere del lavoro e commendatore è stato un protagonista della scena dei convegni antimafia e un maestro dell’emotività e dell’emergenza prima di essere arrestato per aver intascato una mazzetta da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto del locale all’aeroporto di Palermo dove vendeva i suoi prodotti. La dico facile, che si capisce subito: la guerra alla mafia la fanno gli sbirri e i magistrati. Chi scrive, pensa ed elabora idee può accompagnare questa lotta, e il modo più sensato è provare ad andare oltre l’emergenza, far capire a chi la mattina si alza per andare in banca in chiesa o in strada a raccogliere l’immondizia che c’è un secondo tempo nella vita dei siciliani e che questo secondo tempo è cominciato da un po’. Provando a spiegarlo a un amico di Roma, mi sono sentito rispondere che in lui la percezione della minaccia mafiosa negli ultimi anni era cresciuta. È anche un problema di racconto della realtà, da cui restano fuori alcuni dati fondamentali. Provo a riassumerli:

- La commissione parlamentare antimafia dice per esempio che dal 1993 al 2003 in Sicilia sono state denunciate per estorsione 6.613 persone. E negli ultimi dieci anni moltissime altre sono finite sotto indagine, i ragazzi di Addiopizzo hanno scosso Palermo e creato una rete di commercianti contro il pizzo (gli aderenti sono 960), e perfino nel feudo di Riina ci sono stati i primi arresti.

- Le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di boss e picciotti delle famiglie criminali siciliane sono state 2.055. I capi si trovano tutti in carcere e la cupola non si riunisce dagli inizi degli anni novanta. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha provato a ricostruire la sua trama, ma decine di nuovi arresti hanno ricacciato la testa del serpente nella fossa.

- Gli omicidi commessi da cosa nostra nel 1992 sono stati 152, nel 2007 sono nove.

- I beni sequestrati alla criminalità organizzata siciliana dal 1992 al 2014 ammontano a più di nove miliardi, mentre quelli confiscati a più di quattro. Per rendersi conto di quanto questo possa pesare nella mente di un mafioso basta leggere l’intercettazione al punto successivo.

- Per più di cent’anni Palermo e New York sono state collegate da una solida tratta del malaffare. Nel 2008 l’operazione Old bridge ha portato all’arresto di 90 persone tra l’Italia e gli Stati Uniti, soffocando anche il piano di rinascita della famiglia Inzerillo. In questa intercettazione è Francesco Inzerillo a parlare con i nipoti: “Qua c’è solo da andare via, andarsene dall’Europa, non dall’Italia. Se bastasse solo la Sicilia, te ne andresti al nord, appena però ti metti in contatto con una telefonata, pure con tua madre o con tua sorella, o con tuo fratello, tua nipote, già sei sempre sotto controllo, te ne devi andare proprio tu, perché ormai è tutta una catena e catinella, te ne devi andare in Sud America, Centro America, e basta. Anche se hai ottant’anni, se ti devono confiscare le cose lo fanno, cosa più brutta della confisca dei beni non c’è”. A questi dati vanno aggiunte due cose, al netto delle mille che fanno ogni giorno le persone per bene. Gli sforzi degli insegnanti che fanno l’unica cosa che serve in terre depresse come la Sicilia, e cioè insegnano, e insegnando ficcano nella testa dei ragazzi la curiosità e l’intelligenza e l’onestà; e l’aria nuova che respirano molti ragazzi che se ne vanno in giro per l’Europa e il mondo senza complessi di colpa per aver abbandonato la propria terra (è un’accusa che lanciano spesso i maestri dell’emergenza) e che tornano, quando tornano e se tornano, con sguardi nuovi che anche in maniera indiretta scrostano vecchi problemi. Il racconto di questi dati e di queste storie sembra faticare a superare lo stretto di Messina, e perciò continuiamo a “vivere nella dimensione nevrotica di un passato che non passa”, scrive lo storico Salvatore Lupo in La mafia non ha vinto, “come se le istituzioni nate in un clima di straordinarietà rifiutassero di adattarsi a una qualche ordinarietà”. In questa ordinarietà naturalmente ci sono ancora crimini e violenza, corruzione e omertà, la memoria ancora viva dei morti e le paure dei vivi, ma quando da giornalisti narratori e intellettuali parliamo della Sicilia abbiamo il dovere di raccontarne anche il secondo tempo, raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo. La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto, come recita il saggio che Lupo ha scritto insieme al giurista Giovanni Fiandaca, un libro che fa a pezzi in maniera chirurgica e disarmante anche il fantoccio dell’antimafia circense. Altrimenti daremo l’impressione che più che la mafia, ad aver vinto saranno i cretini, i maestri dell’emergenza, che come gli asini di Sciascia hanno bisogno delle bastonate per giustificare la propria esistenza: “L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: ‘Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima’”.

LA METAMORFOSI DEI FORCAIOLI: LUIGI DE MAGISTRIS.

24 settembre 2014: condannato Luigi De Magistris.

Why Not, De Magistris condannato a un anno e tre mesi, scrive “Libero Quotidiano”. Un anno e tre mesi di reclusione ciascuno, con sospensione condizionale della pena e non menzione sul casellario giudiziale: è la condanna che la decima sezione penale del tribunale di Roma ha inflitto all’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, attuale sindaco di Napoli, e al consulente informatico Gioacchino Genchi, accusati di concorso in abuso d’ufficio per aver acquisito illegittimamente, nell’ambito dell’inchiesta calabrese Why not, i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza la necessaria autorizzazione delle Camere di appartenenza. I due imputati, cui sono state concesse le attenuanti generiche e applicata l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un anno (pena accessoria che rientra nella sospensione condizionale), sono stati condannati al risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in separata sede, salvo una provvisionale di 20mila euro, nei confronti dei parlamentari Francesco Rutelli, Giancarlo Pittelli, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Sandro Gozzi e, per il solo Genchi, Domenico Minniti. Il 23 maggio scorso il pm Roberto Felici aveva concluso la requisitoria sollecitando l’assoluzione per l’ex pm di Catanzaro e la condanna a un anno e mezzo di reclusione per Genchi. L’accusa di abuso d’ufficio era stata formulata perchè  i tabulati riguardanti gli uomini politici appartenenti al  centrodestra e al centrosinistra erano stati acquisiti al fascicolo  dell’inchiesta senza aver preventivamente richiesto ai rami del  Parlamento a cui appartenevano i politici in questione l’autorizzazione ad acquisirli. Il processo conclude una lunga vicenda giudiziaria che era cominciata nel 2009. La decisione del Tribunale è stata commentata favorevolmente dagli  avvocati Nicola e Titta Madia i quali ha assistito nel procedimento  Francesco Rutelli e Clemente Mastella. "La sentenza emessa oggi dal  Tribunale di Roma -hanno sottolineato i penalisti- rende piena  giustizia agli uomini politici tra i quali Francesco Rutelli e  Clemente Mastella. La grande violazione delle prerogative dei  parlamentari in questione determinò una violentissima campagna di  stampa contro il governo all’epoca in carica". Da parte sua, De Magistris affida a Facebook la replica alla condanna, che definisce "un errore giudiziario. La mia vita è sconvolta". E annuncia ricorso in appello: "Sono profondamente addolorato per aver ricevuto una condanna per fatti insussistenti. Sono stato condannato per avere acquisito tabulati di alcuni parlamentari, pur non essendoci alcuna prova che potessi sapere che si trattasse di utenze a loro riconducibili".

"Siamo di fronte a uno Stato profondamente corrotto. Ci sono molti magistrati collusi e corrotti e per questo ho già pagato come magistrato", dice Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, attaccando la sentenza del processo Why Not in cui è stato condannato ad un anno e tre mesi per abuso d'ufficio. Il sindaco arancione, però, in Consiglio Comunale del 26 settembre, non solo ha ribadito che non ha intenzione di lasciare, ma ha aggiunto che a dimettersi dovrebbero essere “i giudici” che lo hanno condannato e ha evocato manovre per “mettere le mani sulla città”. Nel pomeriggio, De Magistris è tornato a parlare in una conferenza stampa nella quale ha stemperato solo parzialmente i toni, ma ha tenuto il punto. Non si è trattato di un “attacco” alla magistratura, ha voluto precisare, ma di “parole forti” nei confronti di una sentenza “inaccettabile e intrisa di violazioni di legge. Prima di censurare ciò che ho detto”, ha aggiunto, “o di fare una difesa corporativa – dice – l’Anm legga le mie dichiarazioni. So discernere”. Per il sindaco, “la magistratura non è un moloch di gente per bene, perché ci sono anche fior di delinquenti – sottolinea – Se l’Anm intende censurare le mie dichiarazioni ha tutto diritto di farlo, come io ho tutto diritto di fare critiche da persona che pensa di aver subito ingiustizia”. Comunque sia, ”le dimissioni non ci saranno. Io non solo resisterò, ma continueremo a difendere questa esperienza che dà fastidio a molti”. E “se dovesse malauguratamente arrivare la sospensione starò meno a Palazzo San Giacomo e più per strada. Farò il sindaco sospeso”. "Con tutti i procedimenti che mi hanno avuto come protagonista, indagato o parte offesa, potrei essere considerato il Totò Riina della magistratura". Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, in un'intervista all'emittente locale Televomero, ripercorre le tappe della sua vita da pm e i motivi che a suo avviso hanno portato alla sentenza di condanna in primo grado per l'inchiesta Why not. "Quei procedimenti sono stati tutti archiviati e i miei accusatori sono sotto processo - afferma - un unico processo è rimasto in piedi, quello di Roma, istruito da Achille Toro che ha patteggiato per la vicenda del G8". Soprattutto, sottolinea l'ex pm, "sono stato condannato dopo che lo stesso pm ha chiesto l'assoluzione". "Per gli stessi reati che mi vengono contestati - aggiunge - la Procura di Salerno, unica a procedere secondo l'articolo 11 del Codice di procedura penale, ha archiviato, dopo una lunga indagine in cui magistrati coraggiosi hanno evidenziato la macchinazione criminale messa in piedi contro di me". Per de Magistris questo è il segnale che "ci sono magistrati eroi, coraggiosi e anche corretti che non si sono conformati al potere. E non sono pochi". "Mi hanno fermato nell'indagine Why not - afferma - appena ho iniziato a indagare il livello di penetrazione della corruzione che coinvolge la massoneria deviata, alcuni pezzi di Stato e servizi segreti, oltre a una parte delle forze dell'ordine e della magistratura". Da Napolitano "ho subito una forte ingiustizia quando ero magistrato", ma "da sindaco ho superato questa sofferenza personale e ho intrapreso relazioni istituzionali con il presidente": lo dice Luigi de Magistris sottolineando che per il futuro "i rapporti con il capo dello Stato continueranno a essere istituzionali". Ma "lui presiedeva il Csm che mi ha trasferito e non ha ritenuto di accogliere i miei numerosi appelli a non lasciarmi isolato in Calabria".

Per "Giggino o’ sindaco" non ci sono dubbi. «La mafia ha deciso di infiltrarsi, di non colludere più con la politica e di prendere la forma delle istituzioni, passando dalla strategia criminale esterna alla stagione della legalità formale», è sbottato il sindaco di fronte al Consiglio comunale partenopeo, «ho pagato perchè non mi sono fatto corrompere, non mi sono girato dall'altra parte, non mi sono piegato». Un non addetto ai lavori potrebbe interpretare come eversive le parole di De Magistris. Termini condivisibili per chi, invece, ha seguito la vicenda Why Not e i misteriosi rapporti di Saladino (non il Feroce, ma Antonio, protagonista dell’inchiesta) con la massoneria. E poi, i nomi dei politici saltati fuori come quello di Clemente Mastella, protagonista della caduta del governo prodi nel 2008, che la dicono tutta sugli intrecci occulti rimasti inspiegati. Ma la casta ha già deciso di insabbiare il caso Why Not, insieme allo stesso De Magistris.

«Ci attacca come Berlusconi La smetta di gettare fango». Quando il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha capito di non aver scampo perché, a causa della condanna per abuso d’ufficio, la legge Severino gli costerà la poltrona, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”, si è presentato in consiglio comunale e ha attaccato frontalmente i giudici che l’hanno «punito». Un atteggiamento che ha indotto l’Associazione nazionale magistrati a definire «gravi, offensive e inaccettabili» le parole del loro ex collega. De Magistris, però, a fare marcia indietro non ci pensa neanche, e anzi «alza il tiro» contro «certi» magistrati. Abbiamo chiesto a Rodolfo Sabelli, presidente dell’Anm, cosa pensa di un ex pubblico ministero che si scaglia, pesantemente, contro giudici e pubblici ministeri.

Sabelli, de Magistris rincara la dose parlando di magistrati «corrotti e collusi». La vostra presa di posizione pare non averlo spaventato.

«Non ci si può esprimere in termini così generici gettando fango sull’intera categoria. Se il dottor De Magistris è a conoscenza di fatti di corruzione e collusione, li denunci. Faccia i nomi. C’è una sentenza di primo grado, quindi non definitiva, che però, essendo in vigore la legge Severino, nel caso dei sindaci prevede la sospensione. Tutti questi discorsi generici su corruzione e collusione, francamente non li capisco. De Magistris parli, se sa, altrimenti si astenga da dichiarazioni così generiche che offendono un'intera categoria».

Negli anni in cui Berlusconi ha attaccato, anche pesantemente, la magistratura, l’Anm è stata molto più dura rispetto a come reagisce oggi con de Magistris. Disparità di trattamento?

«Francamente non mi sembra che siamo stati tanto morbidi, abbiamo parlato di dichiarazioni gravemente offensive e inaccettabili. Non mi pare abbiamo avuto una reazione particolarmente compiacente».

Lei, a proposito delle accuse del Cavaliere, disse che «l’attacco scomposto alle sentenze è un oltraggio e un grave pericolo per il sistema democratico». Lo è anche quello di de Magistris?

«Noi diciamo che certe dichiarazioni sono offensive e inaccettabili perché gettano fango su un’intera categoria, cioè sull’intera magistratura e sulla giurisdizione, e questo non si può accettare nel nostro Paese. Mi pare di aver risposto».

Mi pare di no. Sta dicendo che in questo caso il pericolo per la tenuta della democrazia c’è oppure non c’è?

«Che cosa vuole che dica? Ogni reazione è coerente con l’accusa che è stata mossa. Quando si dice che i magistrati sono un cancro (come fece Berlusconi, ndr ), noi ci esprimiamo in un certo modo. Dovremmo usare un metro di paragone per dire cosa e più grave e cosa è meno grave?»

Se de Magistris dovesse continuare ad attaccare i magistrati, cosa pensa di fare l’Anm?

«C’è una competenza specifica, che è quella del prefetto. Lui dovrà valutare l’adozione dei provvedimenti conseguenti. Vedremo, comunque, che cosa farà e che cosa dirà de Magistris. Se ci saranno prese di posizioni che in qualche modo offendono e coinvolgono la magistratura, noi reagiremo».

De Magistris ha «sfruttato» le inchieste per il consenso. Non sarebbe utile mettere dei «paletti» al magistrato ch e vuol fare politica?

«Il problema del rapporto fra magistratura e politica lo abbiamo affrontato tante volte, dicendo che il via vai tra la carriera in magistratura e la politica può porre dei problemi d’immagine sul lato dell’imparzialità di un magistrato. Però de Magistris ha lasciato la magistratura».

Anche in questo caso, sarebbe ragionevole prevedere un tempo minimo, prima di consentire a un pm che ha appena lasciato la toga di candidarsi. Non le pare?

«Non dimentichiamo che facciamo riferimento a diritti costituzionalmente garantiti. La tutela dell’immagine d’imparzialità di un magistrato deve trovare un punto di equilibrio con il diritto all’elettorato passivo. Ma, ripeto, le iniziative dovrebbero riguardare i magistrati che fanno politica, e non è questo il caso, visto che de Magistris non è più un magistrato».

Il suo caso non prova che è giunta l’ora di porre limiti alle intercettazioni?

«I limiti debbono riguardare il sistema di garanzie. Attualmente, sia per quanto riguarda l’acquisizione di tabulati che le intercettazioni telefoniche, il sistema ha dato le garanzie dovute. In questo caso vi è stata un’ipotesi di reato che al momento ha portato a una sentenza di primo grado. Vedremo come finirà il processo. Ma non mi pare si possa mettere in discussione il sistema così com’è».

Neanche di fronte al famoso «archivio Genchi» che conteneva un numero abnorme di tabulati?

«Non conosco la vicenda, non me ne sono occupato».

«La madre di tutte le inchieste» Così è affondato Giggino ’o flop, scrive Luca Rocca su “Il Tempo. È stata la conduzione dell’inchiesta Why Not a portare alla condanna a un anno e tre mesi per Luigi de Magistris e probabilmente, nelle prossime settimane, anche alle sue dimissioni o sospensione dalla carica di sindaco di Napoli. «Why Not» è un’indagine sull’uso illecito di fondi europei, statali e regionali, che ha prodotto centinaia di indagati e si è conclusa con pochi imputati, un numero incredibile di proscioglimenti e la vita di molti innocenti rovinata. Ma Why Not è diventata un «feticcio» nazionale, oltre che per aver coinvolto un premier, Romano Prodi, per due motivi: da un lato l’enorme mole di acquisizione di traffici telefonici, tecnicamente messa in atto da Gioacchino Genchi, consulente informatico di de Magistris e insieme a lui condannato; dall’altro l’aver «controllato» illegalmente, senza l’autorizzazione del Parlamento, alcuni deputati (il motivo della condanna per entrambi). Le cifre sull’ormai famoso «archivio Genchi», spulciato per mesi dagli esperti del Ros dei carabinieri, sono state per molto tempo «mobili». Nel corso delle indagini viene fuori che sono state «schedate» 52 utenze del Csm, 14 della segreteria generale del Quirinale e anche l’ambasciata americana a Roma. Nelle informative del Ros si legge, inoltre, che Genchi aveva chiesto i tabulati di traffico telefonico di utenze riconducibili alla Camera dei deputati, al ministeri della Difesa, dell'Interno, della Giustizia, dell'Economia. E nei tabulati «controllati» c’erano anche i dati di 13 parlamentari. Sempre secondo i militari del Ros, nel cosiddetto archivio Genchi c’erano 13 milioni di intestatari di utenze e 351 milioni di cosiddette righe di traffico telefonico, cioè chiamate. Non solo. Nella relazione del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, sono riportati altri dati raccolti dai militari, ad esempio che nelle indagini Why Not e Poseidone, condotte da de Magistris, Genchi ha «avuto notizia» di 392mila intestatari e 1.402 tabulati. Numeri che diventano abnormi calcolando i cosiddetti "record" richiesti e non elaborati dalle compagnie telefoniche: dalla Telecom, il consulente di de Magistris aveva ottenuto una tranche di 150mila «anagrafiche», mentre 97mila provenivano dalla Tim (Genchi aveva chiesto 300mila record). Quanto alla Wind, le anagrafiche messe a disposizione erano 160mila, e 68mila quelle della H3G. Su Vodafone, Genchi accedeva attraverso il «cervellone» della società con le password di competenza della procura di Marsala. Il numero totale di «record di intestatari anagrafici» finiti, secondo il Ros, nella disponibilità di Genchi, sono circa 578mila. Come detto, ad aver causato la condanna di de Magistris e del suo consulente, è stato il «controllo» (non intercettazione) di alcuni parlamentari, ma la carriera dell’allora pm ha cominciato a prendere una brutta piega a causa delle «anomalie» sui «metodi» utilizzati per indagare, che hanno indotto il Consiglio superiore della magistratura a «condannarlo» con parole definitive. Il Csm «processa» de Magistris per 11 capi d’imputazione riguardanti le sue inchieste più famose e delicate, Why Not compresa. Per sei di essi viene condannato. A sostenere l’accusa sui «peccati giudiziari» di de Magistris è il sostituto procuratore generale della Cassazione, Vito D’Ambrosio, che per descrivere l’allora pm usa queste parole: «Reagisce ai comportamenti dei dirigenti dell’ufficio con strumenti del tutto estranei agli strumenti del processo (...). Utilizza in modo arbitrario dati assolutamente non pertinenti al tema delle indagini, violando la privacy di soggetti terzi (...). Adotta comportamenti sleali nei confronti di colleghi co-assegnatari di alcuni procedimenti (...). Trascura l’osservanza dei termini sia nelle indagini sia in tema di libertà personale (...)». Ed è lo stesso procuratore generale ad affermare che de Magistris è un magistrato che «mantiene rapporti con i mezzi d’informazione del tutto anomali, usando i suoi rapporti privilegiati per fare pubblicità a se stesso e alla sua attività professionale». Uno dei capi d’imputazione che sarà accolto dal Csm riguarda, poi, un’indagine avviata nei confronti di due indagati la cui «iscrizione» non va a finire, come la legge prevede, nel registro degli indagati, ma su un normale foglio di carta.

Travaglio: «Ci sono anche magistrati per male, ma De Magistris deve accettare la sentenza», scrive Luca Rocca su “Il tempo”.

Nessuno stupore per un de Magistris che parla di magistrati “corrotti e collusi”?

«Nessuno. Certe idee le ha sempre manifestate quando da pm indagava su magistrati, appunto, collusi, corrotti o insabbiatori. A Catanzaro, poi, gli remavano tutti contro. Gli hanno tolto le inchieste o gli hanno impedite di finirle perché il ministro Mastella e il presidente Napolitano avevano deciso di schiacciarlo. Perciò no, la sua reazione non mi meraviglia. Il problema è che, anche se lo pensa, non lo può dire, si deve mordere la lingua e attendere l’appello ed eventualmente la Cassazione. De Magistris ha ragione, ci sono magistrati “per male”, ma non può pensare che lo siano tutti quelli che si occupano del suo caso. E poi, deve per forza affidarsi alla giustizia, non può mica prendere le armi.

De Magistris come Berlusconi?

«Un paragone improponibile. Non solo perché Berlusconi era accusato di rubare e de Magistris non si è mai messo in tasca un centesimo, ma anche perché il primo attaccava i giudici da premier, avendo il controllo del ministero della Giustizia, dei servizi segreti, ecc, il secondo parla nel vuoto assoluto e nessuno di autorevole gli dà ragione. Tutti quelli che dicevano che Berlusconi, seppure condannato definitivamente, non doveva decadere perché condannato per un’attività precedente a quella di parlamentare, ora, su De Magistris, dicono solo che la legge è legge».

Lei gli ha chiesto di dimettersi ma è convinto della sua innocenza.

«Perché quel processo fa ridere. Uno può pensare quello che vuole dell’inchiesta Why Not: che era sovradimensionata, che si sarebbe dovuta limitare alle posizioni per le quali c’erano gli elementi più solidi, ma non può dire che era una bolla di sapone, viste le molte condanne e i dibattimenti ancora aperti. Ma soprattutto è ridicolo pensare che chi ha in mano un tabulato telefonico, sappia a chi appartiene quel numero. Tra l’altro, se anche lo desumi, non sai se lo sta usando il proprietario o un amico, e se pure è riferibile alla Camera, può darsi sia di un funzionario o un portaborse. E poi, se anche avesse acquisito un tabulato di un parlamentare senza autorizzazione, non sarebbe così infamante».

Il fatto che lui, da pm, non si fidasse dei suoi capi, può averlo indotto a violare le regole?

«Una volta ha iscritto nel registro degli indagati alcuni amici del suo capo, nascondendoglielo, ma questo è lecito se hai buoni motivi per farlo. Quanto ai deputati il cui numero di telefono è finito nei tabulati in mano a de Magistris e Genchi, è accaduto perché quei politici erano in contatto con Saladino, principale imputato di Why Not. Se avessero selezionato meglio le loro frequentazioni, non sarebbe successo nulla. Tra l’altro la notizia su Prodi indagato fu fatta filtrare da qualcuno della procura per andare in c… a De Magistris. Io da lui, infatti, non ho mai avuto una sola soffiata».

Certo de Magistris non deve aver preso bene l’abbandono di molti “amici”.

«Faccio il giornalista, non mi occupo di amici o nemici. La legge Severino prevede la sospensione per i sindaci in caso di condanna in primo grado. È impossibile avere un’altra posizione. Che poi sia una legge schifosa, non ci sono dubbi. Non solo perché fatta per salvare Berlusconi e Penati, ma anche perché blanda. I parlamentari, infatti, dovrebbero decadere in caso di condanna anche inferiore a due anni e in primo grado, così com’è previsto per gli amministratori locali. E invece loro si levano dalle palle solo se la condanna è definitiva e superiore ai due anni».

Pensa che alla fine De Magistris si dimetterà?

«Non lo so, ma sarebbe stata una grande prova di forza se si fosse dimesso immediatamente spiegando all’opinione pubblica l’assurdità del suo processo, che si rivelerà per quello che è, ridicolo. Ora invece verrà ricordato come colui che strillava per conservare la poltrona. So che non lo fa per questo, ma per affermare che è una persona perbene, ma quello che comunichi, e soprattutto quello che, non essendo Berlusconi o Renzi, gli fanno comunicare i mass media, è molto diverso. E non è una bella immagine».

Santoro, Di Pietro, Travaglio, De Magistris: che fine ha fatto la brigata anti-Cav, scrive “Libero Quotidiano”. E' in rotta totale la banda anti-Cav. A testimonianza del fatto che Silvio Berlusconi, coi suoi pregi e le sue magagne, ha di fatto tenuto in vita  per anni (mediaticamente e politicamente) personaggi che oggi, con lui in posizione defilata e ormai quasi fuori dai guai giudiziari, hanno assai poca ragione di esistere. Il primo a finire ai margini è stato Antonio Di Pietro, "dio" con la toga di Manipulite poi riciclatosi in politica come leader dell'Italia dei valori. Oggi, Tonino fa l'agricoltore a Montenero Di Bisaccia, suo paese naatale in Molise. E ieri è tornato a parlare in pubblico dopo lungo tempo. Dove? Ospite di un convegno sul "piano di sviluppo rurale 2014-2020. Quale futuro per l'agricoltura molisana?". Ad Antonio Ingroia, pure lui fu magistrato riciclato in politica, è andata anche peggio: la sua Azione civile ha fallito in tutti gli appuntamenti elettorali cui si è presentata, le politiche 2013 e le europee 2014. Nessun eletto in entrambe le occasioni. Per consolarsi, Ingroia ha ottenuto due incarichi pubblici nella natia Sicilia dall'amico Rosario Crocetta: commissario di "Sicilia e servizi" e commissario della Provincia di Trapani (incarico, quest'ultimo, scaduto lo scorso 30 giugno). Alla politica sono invece riusciti ad approdare dal mondo dei media due ex "intellettuali giustizialisti" come Barbara Spinelli e Curzio Maltese. La prima aveva dichiarato in campagna elettorale di voler rinunciare all'eventuale seggio in favore del primo dei non eletti, ma ha poi preferito tenersi stretto il posto a Strasburgo. Il secondo, invece, sta facendo il diavolo a quattro per tenersi lo stipendio che riceve a Repubblica accanto al ricco compenso di parlamentare europeo. Dei tanto celebrati (un tempo) "Popolo viola" e "Girotondi" non si hanno notizie ormai da anni. E forse, chissà, tra un anno si perderanno le tracce (almeno televisive) anche di Michele Santoro, il cui intento di mollare "Servizio pubblico" alla fine della stagione appena iniziata non potrà che uscire rinforzato dai risultati di share della prima puntata, con un misero 5,7% e un milione di telespettatori persi per strada rispetto all'esordio della stagione scorsa. Marco Travaglio, da quando non può più prendersela col Cav, disserta di antimafia e Napolitano con infiniti sermoni sul Fatto. E il flop di Santoro su La7 è anche il suo e del vignettista Vauro. Come lo è di Sabina Guzzanti, idola delle (ex) folle antiberlusconiane e che, lei pure come Travaglio, ha preferito virare la sua verve polemica sul tema della mafia. Poi c'è il tragicomico caso di Luigi De Magistris, pure lui ex pm buttatosi in politica (ma forse la faceva anche con la toga addosso). Tragico perchè una città con mille problemi come Napoli si trova pure col problema di un sindaco condannato che, verosimilmente, dovrà lasciare l'incarico con l'applicazione della legge Severino. Comico perchè la prima cosa che Giggino ha fatto dopo aver saputo della pena di un anno e tre mesi inflittagli per abuso d'ufficio è stata partire testa bassa all'attacco dei giudici. Ma quello che faceva così non era Berlusconi?

Luigi De Magistris, il Masaniello che ha tradito Napoli, scrive “Libero Quotidiano”. Era il nostro Masaniello, quello che con la bandana arancione e le gocce di sudore sulla fronte di chi si dà molto da fare, aveva promesso che avrebbe “scassato” Napoli e l’avrebbe ricostruita. Dopo che il rinascimento bassoliniano aveva mostrato la sua faccia più putrida (tonnellate di monnezza che rimbalzavano nelle tv di tutto il mondo), dopo il mesto regno di Rosa Russo Jervolino e della sua giunta di “sfrantummati”, era arrivato lui. Giovane, bello, magistrato, fuori dal Pd, fuori da Forza Italia. Lontano dalla farsa delle primarie del Pd in cui erano stati chiamati a votare compatti battaglioni di cinesi, così diverso dal compassato e troppo discusso  Gianni Lettieri, candidato di Forza Italia. Per i napoletani era la faccia della legalità, la voce della giustizia. Serviva la rivoluzione, lui diceva di volerne fare una di colore arancione e i napoletani ci hanno creduto. Perché siamo alla ricerca di Masaniello, di capipopolo che indicano la strada e arringano la folla. E così gente esultava quando lui, appena diventato sindaco con la camicia bianca aperta sul petto e le maniche svoltate sul gomito, galvanizzato dal quel 65% di sì, urlava e si dimenava: “Abbiamo liberato Napoli”. Napoli aveva (ri) trovato il suo Masaniello. Ma i napoletani non avevano capito di essere stati fregati. Se ne sono accorti giorno dopo giorno, quando alla parole non sono seguiti i fatti, quando per strada la spazzatura continuava ad ammucchiarsi, quando restavano imbottigliati nel traffico mentre il loro sindaco girava in bicicletta con il suo sorriso bianco buono per i flash delle foto. Era troppo tardi. Adesso proprio lui, il pm, ‘o giudice -  come lo chiamano a Napoli - si rivolta contro i suoi ex colleghi. Non vuole dimettersi, nonostante la legge Severino glielo imponga. Dice il contrario di quello che sosteneva quando indossava la toga e credeva di poter cambiare l'Italia a colpi di sentenze. Ma siccome siamo a Napoli, nel paradosso c’è un altro paradosso. Il vice di De Magistris dovrà prendere il suo posto: ma Tommaso Sodano è stato condannato in primo grado per lesioni contro una vigilessa, eppure potrà governare. A lui la legge Severino non si applica perché non è stato eletto. De Magistris è stato spodestato proprio da quella giustizia che era stato il grimaldello per entrare nei cuori dei napoletani. Napoli si ritrova con un sindaco, ex pm, condannato per abuso di ufficio che, violando la legge, vuole restare al suo posto. E i napoletani si sentono come quelli che vanno al mercato, comprano un computer, e poi quando arrivano a casa trovano un mattone nella scatola. Si sentono come chi ha preso un pacco. Ma intanto aspettano un altro Masaniello da acclamare, da adulare e (magari) da mandare a Palazzo San Giacomo.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: disastro De Magistris, peggio da sindaco che in toga. Ha distrutto se stesso e Napoli. Il 30 maggio 2011 Luigi De Magistris diventa sindaco di Napoli, lasciamo perdere come e perché. Il suo motto è subito questo: rivoluzione. Si tratta di capire che cosa succedesse nei successivi due anni e mezzo: bastano quelli e si capisce tutto. Parliamo di un sindaco pluricommissariato, privo di una maggioranza stabile, privo di un partito, privo di un movimento, privo di consenso, condannato alla galera (con la condizionale) in compagnia di un sindaco condannato oppure lui. Ripartiamo da quel giorno, dalla vittoria. Disse subito: «Spero che il vicesindaco sia una giovane donna». Sarà un uomo, un vecchio ex senatore comunista, Tommaso Sodano, già condannato dalla procura di Nola per aver strattonato una vigilessa durante un’occupazione; due anni dopo, nel 2013, finirà invece sott’inchiesta per abuso d’ufficio in relazione a una consulenza da 40mila euro affidata a una docente bergamasca. Ma vediamo altri campioni della squadra. Il Welfare è affidato a Sergio D’Angelo, presidente del Consorzio che raggruppa le cooperative che lavorano con il Comune di Napoli e che vanta 60 milioni di euro di crediti dall’Amministrazione, ma questo palese conflitto d’interessi non indigna nessuno. C’è una rivoluzione in corso. D’Angelo purtroppo sarà condannato in primo grado a quattro mesi di carcere (pena sospesa e commutata) per induzione a manifestazioni violente. La rivoluzione, già: «Ho un sogno che potrebbe concretizzarsi: portare il presidente degli Stati Uniti d’America per Natale in città. Negli States sono molto attenti a questo fenomeno napoletano del movimento civico che mi sostiene, i contatti sono frequenti». Obama sorveglia Napoli. Forse coi satelliti: perché non verrà mai. E neanche Al Pacino verrà mai: ma su youtube c’è ancora il leggendario video in cui De Magistris invita l’attore in città: «Ellò, Al. Aimm Luigi De Magistris, de megior ov Neipols». Non andrà meglio con Bruce Springsteen, che a fine maggio 2013 terrà un concerto ma scapperà via subito. Ma parliamo di spazzatura, che è il caso. A metà giugno 2011, mentre 10mila tonnellate di pattume marciscono per strada, De Magistris annuncia che risolverà il problema in «quattro o cinque giorni» (la frase è anche diventata un rap musicale) e parla di eventuale piano B e pure C. E annuncia che a capo della partecipata ambientale della città andrà Raphael Rossi, il manager diventato famoso per aver denunciato due imprenditori che gli avevano proposto una mazzetta. Ma il matrimonio durerà poco e finirà male. Dopo cinque giorni ovviamente non succede niente. De Magistris accusa trame oscure: «Napoli sarà liberata dai rifiuti nonostante il tentativo di sabotaggio messo in atto in queste ore da certi ambienti refrattari ad accettare la svolta politica che stiamo attuando». Ma il 23 giugno deve ammettere che la situazione è grave. Nel pieno dell’emergenza, non si perde il Gay Pride: è in testa al corteo con un ombrellino verde a fiori. Due anni dopo metterà due orecchini rossi. Il 12 luglio però la situazione è gravissima. Un gruppo di napoletani scaraventa dei sacchettoni di monnezza contro il municipio. Rivoluzione arancione, sacchi neri e incazzati pure. Inutile farla lunga: si parlerà tutti i giorni di spazzatura almeno sino a Natale. In quei giorni De Magistris si mette a querelare «coloro che, in questi giorni, a ogni livello, hanno gravemente compromesso l’immagine della città», cioè i giornalisti e i fotografi. Scarafaggi: non i giornalisti, ma le “Periplaneta americana” che intanto stanno invadendo Napoli, blatte rosse. La cosa fa il giro del mondo. Le Point titola: «Uno scarafaggio nella pizza». Le cose miglioreranno lentamente: ma solo perché apriranno delle discariche (Chiaiano, per esempio) o solo grazie all’aiuto finanziario della Provincia retta dal nemico politico Luigi Cesaro. Poi spuntano le navi olandesi che trasporteranno il pattume nel Mare del Nord, un’assurdità costosissima. In breve: la promessa della campagna elettorale, quella di raggiungere il 70 per cento di raccolta differenziata entro il 2011, non sarà minimamente rispettata. Il tasso rimarrà al 25 per cento, come ai tempi della miglior Iervolino. Intanto spuntano piccoli o grandi nepotismi. Dagospia rivela che la giovane Lucia Russo, collaboratrice dell’assessore allo Sport, è la cugina di De Magistris. Tra l’altro, durante la campagna elettorale, era stata intervistata come "disoccupata". Poi, nella stanza a fianco a quella del sindaco, spunta anche Claudio De Magistris: è il fratello, un impresario musicale che diventa capo della segreteria politica: a pagarlo è l’Italia dei Valori. Ma neanche il fratello durerà molto. Nel novembre 2012, peraltro, si scoprirà che l’avevano mandato in Grecia al “World Music Expo” perché la cosa era «di assoluta importanza strategica per l’Amministrazione». II 2012, per De Magistris, sarà un anno orrendo. Licenziamenti, dimissioni, allontanamenti, litigi. L’aria si fa pesante. Raphael Rossi, l’esperto di rifiuti già glorificato su Report, viene silurato. Motivo: l’assunzione di 23 persone contro il suo parere. «Erano inutili e fuori dal diritto», dice. De Magistris perde anche la presenza di Roberto Vecchioni alla guida del Forum delle Culture, a tre mesi dalla nomina. Gli subentra l’ambasciatore Francesco Caruso che lascia anche lui, subito. Presto si dimetterà tutto il comitato tecnico-scientifico del Forum. Ma è la perdita di Giuseppe Narducci quella che fa male: è l’ex magistrato di Calciopoli e neo assessore a trasparenza e legalità. Dimesso. O silurato, chissà: la trasparenza è poca. «L’impressione che io ne ricavo - dirà - è quella di un clima ostile alla manifestazione delle idee e delle opinioni...». Ah beh. Poi se ne va l’assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, economista: silurato nonostante fosse stato tra i primi nomi indicati. Dirà: «È rimasto inascoltato il mio invito a rafforzare la lotta all’evasione». Il sindaco in quei giorni pensa ad altro, e scalda i cuori con le barche della World Series 2012-2013 che navigano nel Golfo: una vittoria, anche se, di fronte alle inchieste e alle difficoltà, farà un classico passetto indietro: «La Coppa America non l’ho voluta solo io, potrei anche rinunciarvi». La Coppa, comunque, è costata 16 milioni di fondi pubblici. Venezia, per lo stesso evento, di fondi pubblici non ha stanziato nemmeno un euro. La sagra delle promesse mancate, di qui in poi, è una comica. Aveva detto: i miei assessori non useranno le auto blu ma andranno in bici. Ma le bici rimarranno in garage, e De Magistris l’auto blu continuierà ad usarla. Aveva detto: Napoli avrà la sua moschea entro il 2011. Non c’è. Aveva detto: «Progetto per il nuovo stadio entro il 2011». Non c’è. Ci fu, in compenso, la cittadinanza onoraria al leader palestinese Abu Mazen, e dal porto di Napoli partì una nave di un’organizzazione filopalestinese. Tutte cose che i napoletani attendevano frementi. Di qui in poi dobbiamo correre. De Magistris annuncia un intervento immediato per smantellare la favela di Sant’Erasmo, una bomba sanitaria: è ancora lì, e ci sarà anche un’inchiesta con De Magistris e l’assessore Anna Donati indagati per omissione d’atti d’ufficio e attentato alla sicurezza stradale. Cominciano a mollarlo tutti, in quel periodo, anche perché Napoli è un caso unico in Europa. Per proteggerlo dall’ira dei disoccupati, devono chiamare la Polizia: quasi gli sfasciano l’auto a calci e pugni, con lui dentro. Il segretario Uil Luigi Angeletti: «Alla fine del suo mandato i disoccupati saranno aumentati». La Cisl regionale: «De Magistris confessi le sue gravi responsabilità». Cioè? «Gare negoziate per gli amici degli amici, spazi pubblici assegnati senza delibere». Il sindaco viene pubblicamente mollato pure da Saviano. L’Espresso lo fa a pezzi con tanto di copertina. De Magistris è crollato dal primo al 17esimo posto nel gradimento degli italiani sui sindaci - rileva il Sole 24ore. E non sono passati neanche due anni. Gian Marco Chiocci e Simone di Meo scrivono per Rubbettino il libro definitivo su De Magistris: “Il pubblico mistero”, documentatissima summa delle ragioni per cui tanti elettori napoletani finiranno in purgatorio. Il fallimento, nel 2013, si riversa nelle elezioni politiche: “Rivoluzione civile”, in cui sono confluiti gli arancioni napoletani, si ferma al 2,25 per cento alla Camera e all’1,79 al Senato, e nella Napoli rivoluzionaria becca solo il 3,07 per cento. De Magistris incolpa, e scarica, Di Pietro e Ingroia. Non senza charme: «Io non ero candidato: quando in passato ho chiesto i voti, a Bruxelles come a Napoli, sono sempre arrivato primo. È stato Ingroia, a questo giro, a metterci la faccia». De Magistris, oggi, non ne ha più una.

Luigi de Magistris condannato, il prefetto prende tempo sulla sospensione. Si attende la fine del vertice europeo a Napoli del 2 ottobre, scrive Claudia Fusani su “L'Huffington Post”. A Napoli si sta verificando l'ennesimo mistero. O miracolo. O anche pasticcio. A sei giorni dalla sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris a un anno e tre mesi per abuso di ufficio, nulla accade. A quest'ora il sindaco, in base alla legge Severino che impone l'abbandono della carica da parte di amministratori pubblici condannati anche solo in primo grado. Avrebbe già dovuto essere dimissionario. Oppure sospeso su ordine del prefetto Musolino. Prefetto che forse sta aspettando la fine del vertice europeo previsto per il 2 ottobre Napoli a cui saranno presenti anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Bce Mario Draghi. Ma c'è di più. Ci sarebbe ancora qualche dubbio sull'interpretazione sulla legge Severino, soprattutto per quanto riguarda il caso de Magistris,con la prescrizione prevista per il dicembre 2014. Intanto siamo alle cronache marziane. In più atti.

Primo atto. A sei giorni dalla sentenza, infatti, il prefetto Musolino dice: "Il caso de Magistris? Attendiamo gli atti poi ne parliamo''. Ciò significa, se prendiamo in parola la dichiarazione del prefetto, che in sei giorni non è stato ancora possibile trasmettere da Roma a Napoli, dal tribunale alla prefettura, quella dozzina di fogli con su scritta la condanna del sindaco, all'epoca dei fatti magistrato a Catanzaro, e del suo investigatore Gioacchino Genchi. Ora, per quanto gli uffici giudiziari, e anche le prefettura, possano soffrire di tagli e ristrettezze, siamo sicuri che un fax, non di quelli con lo scanner ma vecchio tipo, è sicuramente in funzione. E sei giorni, comunque, erano sufficienti anche per la posta ordinaria.

Secondo atto. Il condannato, il sindaco, non molla: convinto di essere vittima, pure lui, dei "poteri forti e anche un po' deviati che vogliono abbattere un sindaco per bene", annuncia e ripete da giorni che "farà il sindaco sospeso". La città, Napoli, che ha inventato la buona abitudine del caffè sospeso, quello lasciato pagato al bar per il prossimo avventore spesso sconosciuto, adesso si potrà cimentare con la novità del sindaco sospeso. "Napoli è la città della creatività,troveremo il modo di stare ancor più per strada" ripete de Magistris da giorni. Motiva la sua scelta, contro tutti e tutto, con il fatto che "la sospensione è a termine" (in base alla legge Severino non può durare più di 18 mesi) e che lui "non si dimette". "Se qualcuno ritiene che la legge Severino debba essere applicata al mio caso, faccia pure: io continuo a fare il sindaco "sospeso", farò i miei ricorsi e produrrò i miei motivi". Stato civile attuale: "Innocente che critica una sentenza" visto che i magistrati "non sono il Moloch dell'etica pubblica".

Il terzo atto è la città Napoli, dove nei primi tre anni di mandato de Magistris (scadenza naturale maggio 2016) è riuscito a fare molto poco. Quasi nulla. Dove il vicesindaco, Tommaso Sodano sa tutto di rifiuti ma l'8 ottobre potrebbe essere rinviato a giudizio per abuso d'ufficio (avrebbe assunto in comune una persona legata a lui). E dove è anche difficile individuare una persona in grado di guidare la città. Con il sindaco sospeso in giro, poi, è praticamente impossibile. Ma andare al voto anticipato serve tempo. Almeno primavera.

Lasciando le cronache marziane agli appassionati, e cercando di portare i piedi in terra, è probabile che i tempi di un passaggio inevitabile (de Magistris deve lasciare l'incarico) siano volutamente più lunghi perché il 2 ottobre Napoli ospita un importante vertice europeo a cui saranno presenti anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Bce Mario Draghi. Se è vero, come è vero, che de Magistris non molla, è probabile che il prefetto Musolino preferisca congelare la situazione fino a dopo il vertice e lasciare così la città con una guida ancora effettiva e non esautorata. Ma le parole del prefetto ("leggeremo gli atti, poi ne parliamo") non sembrano solo voler prendere tempo in attesa di far calmare la situazione e sperare di evitare provvedimenti drammatici anche nei confronti di de Magistris. Autorizzano anche altre ipotesi. Non ultimo il fatto che il reato per cui de Magistris è stato condannato prescrive a dicembre 2014. I giudici del Tribunale di Roma, poi, hanno deciso la non menzione della pena per de Magistris. Segno che non ritengono i fatti reato tali da condizionare la sua vita anche di pubblico ufficiale. Due variabili non previste dagli articoli 10 e 11 delle decreto legislativo che ha declinato i modi e i tempi della incandidabilità e della decadenza da incarico pubblico stabiliti dalla legge Severino (la condanna, anche sotto i i due anni e anche in primo grado, di reati contro la pubblica amministrazione come l'abuso di ufficio).

De Magistris, “Non mi dimetto”. Grasso: “Applicare legge Severino”. Qualcuno dice che io mi dovrei dimettere perché una sentenza di questo tipo mi ha condannato. Io credo che guardandosi allo specchio e provando vergogna quei giudici di quel tribunale si dovrebbero dimettere, non certo io che ho fatto sempre il mio dovere”. Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, è intervenuto in Consiglio comunale in merito alla condanna per abuso d’ufficio nel processo “Why not”, scrive “Il Garantista”. Perché si tratta di “una sentenza che giuridicamente fa acqua da tutte le parti”. “Le sentenze devono essere rispettate, ma le sentenze vanno anche raccontate”, ha aggiunto. Dura la replica dell’Associazione nazionale magistrati, che giudica ”gravi e offensive le dichiarazioni rese dal sindaco di Napoli nei confronti dei giudici del Tribunale di Roma in relazione alla sentenza emessa nei suoi confronti”. L’Anm, prosegue la nota, ”pur non entrando nel merito della vicenda giudiziaria, osserva che le espressioni usate vanno ben oltre i limiti di una legittima critica a una sentenza perché esprimono disprezzo verso la giurisdizione”. ”Si tratta di parole tanto più inaccettabili poiché provenienti da un uomo delle istituzioni che ha per anni anche svolto la funzione giudiziaria”, aggiunge l’Anm. L’ex pm però si difende. “Non ho fatto dichiarazioni nei confronti della Magistratura ma nei confronti della sentenza che ho diritto di giudicare inaccettabile, grave, intrisa di violazioni di legge e vergognosa”. “Se l’Anm intende censurare le mie dichiarazioni ha tutto il diritto di farlo – aggiunge de Magistris – così come io ho tutto il diritto di fare critiche da persona che pensa di aver subito un’ingiustizia. Ai magistrati, tantissimi, che ogni giorno con la schiena dritta combattono la corruzione e il crimine va tutto il mio plauso e il mio appoggio. Ma la Magistratura non è un “moloch” di persone per bene, ci sono anche fior di delinquenti che non applicano la legge nel rispetto della Costituzione”, conclude de Magistris. Il sindaco di Napoli si dice “assolutamente fiducioso che questa esperienza arriverà fino alla fine”. E rilancia. “Se dovesse malauguratamente arrivare la sospensione starò meno a Palazzo San Giacomo e più per strada. Farò il sindaco sospeso”. “Sarebbe un’ulteriore ingiustizia – ha detto de Magistris – ma di fatto continuerò a fare il sindaco. Il vicesindaco firmerà gli atti e io farò il “sindaco sospeso” in strada, parlando con i cittadini per far capire loro che questo Paese è corrotto nelle fondamenta”. “Da domani inizieremo a pubblicare tutti gli atti relativi alle mie vicende giudiziarie affinché non siano solo i magistrati a valutare ma anche i cittadini”. “Sono stato condannato per aver disposto con un decreto l’acquisizione di alcune utenze di parlamentari che un consulente aveva chiesto di acquisire, e accanto all’utenza non c’era il nome del parlamentare – ha aggiunto – quando si è scoperto ho attivato le procedure per le autorizzazioni. In un paese democratico ci si preoccupa casomai di come mai determinati parlamentari avessero determinati rapporti, e sembra paradossale che gli accusati diventino accusatori”. “Ancora una volta – ha aggiunto – non solo avverto intatta la mia forza ma se è possibile avverto un’energia ulteriore rispetto a quella che avevo prima, perché avverto ancora di più il senso di responsabilità. Quando si alza il tiro e quando non ci si piega, l’artiglieria pesante che viene messa in campo dall’altra parte diventa sempre più pericolosa. Noi non abbiamo artiglieria pesante, ma sappiamo resistere e resisteremo”. “Siamo di fronte a uno Stato profondamente corrotto”, ha detto ancora l’ex pm aggiungendo: “Io sono un uomo delle istituzioni, non mi farò trascinare a non avere più fiducia nello Stato e nelle istituzioni perché so che all’interno delle istituzioni ci sono donne e uomini che sapranno riparare a queste violazioni di legge”. In mattinata, il presidente del Senato Pietro Grasso, rispondendo a una domanda sulla possibile sospensione del sindaco, aveva sottolineato: “”La legge Severino è una legge che va applicata. E’ stata già applicata ad altri sindaci”. “Penso sia inevitabile che sia applicata – ha aggiunto la seconda carica dello Stato a Napoli per l’inaugurazione della Fondazione Quartieri Spagnoli, – poi ci sarà naturalmente il seguito dell’appello che potrà eventualmente dare un contorno definitivo alla vicenda”. Quanto a de Magistris “valuterà al meglio la situazione e sa benissimo che, se non lo dovesse fare, ci sarebbe comunque un provvedimento da parte del prefetto non appena si renderà esecutiva la sentenza oppure si depositerà la motivazione”, ha detto ancora Grasso riguardo la necessità o meno di dimissioni da parte dell’ex pm. “Grasso è il presidente del Senato e ha tutta la legittimità ad affermare quello che dice – commenta de Magistris -. Ma chiariamo che una cosa è la sospensione e un’altra sono le dimissioni”. “La sospensione è un atto tutto da vedere. Vedremo se ci saranno gli estremi e, se qualcuno si assumerà la responsabilità di una sospensione, si potrà impugnare”. Le dimissioni, ribadisce il sindaco, “sono un’altra cosa. Non ci saranno perché io non solo resterò, ma continuerò a difendere questa esperienza che dà fastidio a molti. A Napoli abbiamo buttato fuori dai palazzi della politica affaristi che vogliono rimettere le mani sulla città”. “Stiamo aspettando gli atti”, ha detto il prefetto di Napoli, Francesco Antonio Musolino, il quale non ha spiegato se, alla trasmissione della sentenza, sarà automatica o meno la sospensione del primo cittadino dalla carica. Dal mondo politico però, in tanti chiedono le dimissioni di de Magistris. ”Napoli è una città ostaggio del delirio di un uomo che ha fatto il sindaco peggio di come ha fatto il pm, De Magistris deve dimettersi subito e non per la vicenda giudiziaria, ma perché ha fallito come amministratore e la sua inadeguatezza è pari solo alla sua arroganza” dice la portavoce del gruppo Fi alla Camera, Mara Carfagna. “Seguendo i suoi criteri, De Magistris si dovrebbe dimettere non una, ma dieci volte – afferma il deputato Ncd, Fabrizio Cicchitto-. Comunque è incredibile il meccanismo protettivo in atto. Se fosse capitato non ad un ex magistrato, ma ad un qualunque uomo politico le richieste di dimissioni ora fioccherebbero, anche perché i reati di cui si sono resi responsabili De Magistris e Genchi sono gravissimi. I guasti che questi due signori hanno combinato sono stati incredibili e adesso uno di questi continua a fare il sindaco di Napoli”. Anche la Lega va all’attacco. “‘Giggino’ De Magistris, sindaco di Napoli, dopo la condanna per abuso d’ufficio, dice che non si dimette, che resisterà ‘perché la sua esperienza dà fastidio a molti'”. Visto come è conciata Napoli, penso che dia fastidio soprattutto ai suoi cittadini! Dimissioni” afferma Matteo Salvini. “Niente trucchi o giochi di palazzo a Napoli: De Magistris si dimetta per consentire ai cittadini di tornare a votare in primavera, quando la Campania sarà chiamata a eleggere il presidente della regione” commenta infine la presidente di Fdi-An Giorgia Meloni. Luigi de Magistris: “Renderò pubblici i verbali sui poteri forti che vogliono la mia fine”.

Il sindaco di Napoli attacca tutti e tutto. A cominciare dal presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi parla del futuro: «Mi sono dimesso da magistrato, se sarò sospeso sarò un disoccupato», scrive Duccio Giordano su “L’Espresso. Dopo la condanna a un anno e tre mesi per abuso d'ufficio, che potrebbe comportare la sospensione dalla carica di sindaco di Napoli, Luigi de Magistris si sfoga in una intervista esclusiva con  l’Espresso. L'ex magistrato attacca tutto e tutti. Iniziando dal Presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi promette di rivelare quali sono i poteri forti che vogliono la sua fine politica dichiarando che pubblicherà i verbali che ha reso di fronte all’autorità giudiziaria e dai quali si evinceranno alcuni nomi illustri che ancora oggi rivestono incarichi importanti nel nostro paese. Infine, parlando del suo futuro: «Non mi dimetto, la mia battaglia è giusta. Fossi sospeso dovrei inventarmi un lavoro». Il Sindaco di Napoli, dopo la condanna a 1 anno e tre mesi per abuso di ufficio che potrebbe portare presto alla sua sospensione dalla carica, si sfoga con L’Espresso. E attacca tutto e tutti. Iniziando dal Presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi promette di rivelare quali sono i poteri forti che vogliono la sua fine politica dichiarando che pubblicherà i verbali che ha reso di fronte all’autorità giudiziaria e dai quali si evinceranno alcuni nomi illustri che ancora oggi rivestono incarichi importanti nel nostro paese. In fine parlando del suo futuro: «Non mi dimetto, la mia battaglia è giusta fossi sospeso dovrei inventarmi un lavoro».

Sindaco come sta?

“Sono sereno, arrabbiato, indignato, offeso, ma sereno perché ho fatto il mio dovere e rifarei tutto quello che ho fatto e quindi ho la coscienza pulita e posso guardare negli occhi le persone che incontro ogni giorno sulla mia strada”.

Bassolino: «De Magistris è finito». Vendola: «Mi ha deluso». Non ha avuto solidarietà quasi da nessuno le dispiace?

“Solidarietà dal mondo politico tranne rare occasioni non ce n'è stata. Sono intervenuti tutti in modo approssimativo e superficiale. Bassolino è un politico che ci ha lasciati pieni di spazzatura, senza un turista e con un milione e mezzo di debiti; se c'è una persona che politicamente è finita, questa si chiama Antonio Bassolino”.

Di lei Marco Travaglio ha detto: «E’ innocente ma deve dimettersi».

“Marco ritiene che sempre e comunque il principio della legalità formale debba prevalere. Io penso che la giustizia sia più forte della legalità formale e che anche la magistratura può sbagliare. Lo ringrazio perché lui è uno di quelli che ha guardato in profondità e sa che sono innocente. Ma io non mi dimetto”.

E Gioacchino Genchi, poliziotto e suo consulente informatico nel 2007, anche lui innocente?

“I rapporti con Gioacchino Genchi si sono deteriorati, c'è stata una frattura quindi non c'è più quel rapporto di lealtà e di collaborazione forte che c'è stato durante le indagini preliminari. Durante le indagini non ho mai avuto dubbi su Gioacchino Genchi, dopo non ho apprezzato le sue dichiarazioni  e alcune sue condotte. Io durante le indagini non ho avuto nessun motivo che mi potesse far immaginare che lui sapesse che quelle utenze potessero essere riconducibili a parlamentari. L'accusa e la condanna nei miei confronti sono davvero una barzelletta. Io vengo condannato per aver disposto con decreto ad un consulente tecnico l'acquisizione di determinate utenze individuate, ovviamente, dal consulente tecnico. Lui mi da i numeri e secondo i giudici io attraverso quei numeri, dove non c'era indicato del parlamentare Tizio o Caio, dovevo sapere che erano di parlamentari? Una follia. Poi, nel momento in cui il consulente mi ha detto che si trattava di numeri di parlamentari, mi sono fermato e ho attivato le procedure per ricevere le autorizzazioni dal Parlamento. Inoltre, le intercettazioni non sono state neanche usate quindi non c'è danno, non c'è reato, non c'è nulla. Ecco perché oggi sto usando toni che alcuni dicono essere duri”.

I poteri massonici che ha cercato di fermare si stanno vendicando?

“I poteri massonici si sono già vendicati. Ci sono intercettazioni telefoniche di Chiaravalloti che dicono: 'Lo costringeremo per tutta la vita a difendersi'. Io ho toccato fili ad altissima tensione. Non sono frasi fatte o generiche, ci sono verbali che io ho rilasciato all'autorità giudiziaria, alcuni sono pubblici, sono stati resi noti, altri no; il mio impegno nelle prossime ore e di svelarli tutti. Io credo di aver messo le mani in qualcosa di molto grande, non solo molto più grande di me. Non mi sono reso conto di quanto fossero grandi e di come molte delle persone implicate siano ancora oggi in posizioni apicali nelle istituzioni della Repubblica Italiana”.

«Lo stato putrido e corrotto» e «I soliti poteri forti», sono parole sue. Non le sembrano affermazioni eccessive, pericolose soprattutto se provenienti da un uomo dello Stato?

“Ci sono servitori dello Stato straordinari, coraggiosi. Donne e uomini eroici. Ma pezzi di Stato significativi sono putrefatti; sono intrisi di corruzione. Questi usano la legalità formale che ha un’efficacia di violenza morale che, per certi versi, può essere più pericolosa della violenza fisica. La violenza fisica erge l’attenzione dell’opinione pubblica qua invece si insinua il dubbio, la calunnia, la delegittimazione”.

Quindi lei conferma le frasi che ha detto?

“Uno che da anni sta subendo ingiustizie di questa portata, cose che hanno sconvolto la mia vita familiare e il mio lavoro. Io mi sono dimesso da magistrato. Attualmente non ho lavoro, se vengo sospeso sarò un disoccupato, sarò uno che si inventerà di come vivere. Quindi per me sono toni giusti, necessari in certi  momenti”.

Se dovessero sospenderla o se si dovesse dimettere, avrebbero vinto loro: è così che la vede?

“Ma io non mi dimetto. E la sospensione mi porterà a fare il sindaco di strada che è anche molto affascinante. Farò il sindaco in mezzo alla gente, metterò aiuole, riempirò buche”.

Non crede di essersi isolato troppo durante questi primi anni del suo mandato?

“Io in questi tre anni sono stato un uomo che ha fatto comunque anche una rete di contatti tra le istituzioni, ho dialogato con il governo, ho dialogato con la regione. Ho dialogato con Napolitano che quando io ero magistrato è stato anche uno dei protagonisti di ingiustizie profonde nei miei confronti. Ho anteposto gli interessi di una città a un dolore profondissimo che avevo nel mio cuore perché mi hanno infranto il sogno più grande cioè quello di fare il magistrato per sempre”.

Che futuro immagina per la città di Napoli senza di lei?

“Napoli fino al 2016 sarà una cosa sola con il suo sindaco e io sarò pancia a terra tutto il tempo per la città e per i napoletani”.

Luigi de Magistris, il sindaco è stato scassato. La fine berlusconiana dell'ex pm condannato. Il primo cittadino di Napoli rischia di decadere dal suo incarico dopo la condanna in primo grado. E mentre annuncia di non volersi dimettere e attacca la magistratura, ricordando per toni e parole Silvio Berlusconi, la sua avventura politica appare ormai al tramonto, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Luigi de Magistris Dice che non si vuol dimettere, che è vittima di “un’ingiustizia”, che contro di lui è stata emessa una sentenza politica dietro la quale si nascondono “poteri forti” o meglio “sistemi criminali”, parla del “prezzo della libertà” (la sua), ricorda di aver subito “novanta processi”, protesta che il “tribunale competente era un altro” e non quello che lo ha giudicato, dice che le sentenze “vanno spiegate”, che la sua “fa acqua da tutte le parti” e che “sono i giudici a doversi dimettere”. Contesta, addirittura, che la legge Severino possa essere applicata al suo caso. Insomma non c’è nulla, nella sua autodifesa, che non somigli a quella – mettiamo – di un altro imputato (e condannato) eccellente come Silvio Berlusconi. Ed è una vertigine dai troppi aggettivi possibili che a parlare sia invece Luigi De Magistris, 47 anni, sindaco di Napoli, ex magistrato, condannato a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio, un anno di interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria (con la sospensione della condanna), per aver acquisito senza le necessarie autorizzazioni i tabulati di alcuni politici ai tempi dell’inchiesta Why not (che nel 2007 contribuì non poco alla frantumazione del governo Prodi). "Non abbiamo l'artiglieria pesante ma sappiamo resistere. Andrò avanti fino a metà giugno 2016 contro un sistema putrido che cerca di fregarti alle spalle. I criminali hanno più coraggio, almeno te lo dicono in faccia che vogliono abbatterti". Queste le parole pronunciate da Luigi De Magistris in consiglio comunale in seguito alla sentenza di condanna a un anno e tre mesi. Non è la vis retorica a lasciare a bocca aperta, ma la torsione sostanziale. Il sindaco di Napoli è infatti avvezzo da sempre all’iperbole, per così dire. “E’ ora di scassare l’ordine costituito neoliberista e realizzare una società fondata sulla giustizia. W la rivoluzione” , scrisse su twitter nel 2012. “La mia decisione è rivoluzionaria”, scrisse nel 2011 quando si candidò a sindaco, raccontando di aver raccolto negli incontri con la gente “una voce che ha cominciato ad essere assordante nelle mie orecchie: tocca a te, tocca a te, rappresenti l’uscita d’emergenza”. Insomma l’uomo è fatto così, e anche su questo ha costruito la propria fortuna: promettendo, ad esempio, di risolvere l’emergenza rifiuti entro cinque giorni dal suo insediamento. Ma oggi la sua determinazione a “resistere” perché “non si può cancellare un sindaco a colpi di formalismi giudiziari” (il formalismo sarebbe la legge Severino), quel contrapporre da ex magistrato la sua convinzione personale (l’innocenza, come qualsiasi imputato) agli atti dei giudici e alle leggi stesse, mentre voci di certo non imputabili di ostilità preconcetta come quella di Marco Travaglio lo invitano alle dimissioni, racconta lo schianto di un’epoca. Che era partita per “scassare”, e a quanto pare è finita scassata. C’era un tempo, in verità vicinissimo, nel quale la tendenza De Magistris pareva infatti il futuro vitale della sinistra, o almeno di una certa sinistra. Alternativa a quella affaticata del Pd, più solida della troppo divisa sinistra radicale, in qualche modo pre-grillina. Nell’Italia dei Valori di Di Pietro, dove De Magistris si candidò nel 2009 arrivando secondo quanto a numero di voti a Silvio Berlusconi, il sindaco di Napoli rappresentava la voce alternativa, la scocciante promessa che non arrivava mai al parricidio, ma l’adombrava. Nel 2011, quando si candidò per Napoli litigando per ciò con Grillo (che l’aveva sostenuto nella corsa europea) De Magistris fu la rappresentazione plastica, in tandem con il caso, pur diverso, di Giuliano Pisapia a Milano, di come il partito democratico faticasse a intercettare il cambiamento. Lui, invece, sì. “Realizzeremo una scossa morale e di etica pubblica”, prometteva. Era il movimento arancione, l’idea del partito dei sindaci che faceva capolino, di nuovo, a braccetto con la figura dell’ex magistrato che scendeva in politica per riportarla in alto. Nel 2012, per dire, quello di Napoli era il sindaco più amato d’Italia, secondo la classifica del Sole 24 ore. S’immaginava di passare dalla lista “Napoli tua” a quella “Italia tua”. Un mondo schiantato giù in un giro di valzer. Appena il tempo di mettere in piedi – con Antonio Ingroia e Antonio di Pietro - la Rivoluzione civile per le elezioni politiche del 2013, e perdere persino l’occasione di entrarci, in Parlamento. Di quella promessa mancata – in parte passata di mano al movimento grillino - restava in piedi forse solo lui, De Magistris. Che, nonostante la criticatissima gestione della sua città, solo tre mesi fa dava per certa la propria ricandidatura, lasciando in dubbio esclusivamente l’alleanza col Pd. Adesso, in un ennesimo tandem sgangherato tra azioni della magistratura e azioni della politica, par di capire che – dimissioni o no - la casella “sindaco di Napoli” tornerà ad essere vuota. Lasciando al nuovo che nel frattempo è avanzato fino al governo, maggior agio per farla rientrare nel gran valzer delle poltrone. Tra rimpasto ministeriale e regionali prossime venture.

Finisce l’epoca dello strapotere dei giudici, scrive Valerio Spigarelli su “Il Garantista”. Sul caso De Magistris sono piovute decine di prese di posizione, che però non hanno colto il punto vero della vicenda. C’è stato chi ha commentato l’ovvio, cioè il paradosso di un alfiere del primato morale del potere giudiziario che si trasforma nel più feroce ed interessato dei critici quando sperimenta sulla sua carne che cosa significa la gogna di fronte all’esito, sia pure non definitivo, di una vicenda processuale. Un critico che non disdegna l’allusione alla corruzione morale dei giudici e, con evidente sopravvalutazione di se stesso, arriva ad immaginare che la legge Severino sia stata concepita dalla sua autrice, sua controparte in un processo, per danneggiarlo. Un’esagerazione, che si poteva liquidare con una battuta “Ma chi ti credi di essere, Berlusconi?”. Questa prima linea di pensiero ha compreso anche coloro che hanno rimarcato, sia pure con parole alate, che, in fondo, al Pm di Why not questo contrappasso giudiziario “gli sta bene”, visto che ha costruito le sue fortune sulla stessa logica, e senza neppure vincere i processi. Tra i cultori dell’ovvio, a ben vedere, rientra anche l’ANM, la quale ha stigmatizzato le parole di De Magistris come un attacco scomposto alla giurisdizione ben lontane da una critica, sia pure violenta, ad una singola sentenza. Senza farsi sfiorare dal dubbio, doveroso per un sindacato di magistrati, che l’esito della parabola politico giudiziaria del sindaco arancione stava scritto negli eccessi dei pm che quel sindacato ha coperto per anni. Insomma, sul tiro a “Giggino a manetta” si sono esercitati in tanti, e non era un esercizio difficile diciamolo chiaramente, perché il sindaco di Napoli l’ha detta veramente grossa; talmente grossa, però, da non costituire un problema, anzi da muovere quasi a simpatia umana. Una seconda linea di pensiero ha fatto emergere la schiera bipartisan dei garantisti a dondolo, cui appartengono in massima parte quegli esponenti politici che fanno le facce schifate sulle leggi ingiuste solo fino a quando non colpisco un avversario; allora scoprono le virtù progressive dell’antico, ipocrita, motto, secondo cui la “legge è legge e va applicata”. Anche se, quando l’avevano licenziata, quella legge, gli stessi la bollavano come incostituzionale. Campione della categoria è risultato Brunetta, che pure si dichiara erede di idee liberali. A questo gruppo, peraltro, appartiene, in maniera speculare ma in fondo identica, il Fatto Quotidiano, che si scopre garantista di giornata quando ciò che augura quotidianamente a qualsiasi esponente della classe dirigente, cioè un bel check up morale di stampo giudiziario, capita ad un campione dei giustizialisti. Allora le formidabili virtù democratiche della scelta popolare prevalgono su quelle incerte e caduche della democrazia giudiziaria; ragionamento ad personam, verrebbe da dire. Infine c’è stato chi, i penalisti, ha rammentato i dubbi a suo tempo espressi nei confronti della legge Severino. Una legge che resta assai discutibile dal punto di vista costituzionale, anche se applicata a chi è uno dei prodotti del distorto impasto tra politica e Giustizia che in Italia regna da decenni. Un impasto di stampo schiettamente autoritario, come sono autoritarie le idee sulla Giustizia dei Di Pietro, degli Ingroia, e di nuovo dei De Magistris; non a caso tutti pm che hanno fondato partitini personalistici transitando, senza soluzione di continuità, dall’agone giudiziario a quello elettorale. E qui sta il punto vero della questione, anche se pochi lo hanno sottolineato. La ribellione del paladino della democrazia giudiziaria non è solo un gesto di incoerenza personale ma il sintomo di una stagione che si sta chiudendo. De Magistris non parlerebbe come un Berlusconi qualsiasi se non percepisse, al di là della polifonia che abbiamo visto, che l’idea della via giudiziaria a… qualsiasi cosa è entrata in crisi e con essa la pretesa della supremazia morale del Potere Giudiziario. In questa fase, dai boatos di Renzi nei confronti dell’ Anm, alle riflessioni di giuristi di sinistra come Fiandaca, alla insofferenza diffusa per la difesa da parte della magistratura di privilegi in tema di ferie – veri o presunti importa poco – cresce, anche a sinistra, la consapevolezza che il Potere Giudiziario non ha bisogno di indossare toghe rosse o nere per esercitare un condizionamento eccessivo sulla dinamiche democratiche: gli basta la ricerca del consenso di piazza assicurato anche da un circuito mediatico giudiziario ormai sperimentato. Ed allora, ben più che sulla collera del sindaco, i campioni della politica in questi giorni dovrebbero impegnarsi a riflettere sulla infinita vicenda della riforma/non riforma costituzionale della Giustizia, oppure sul cortocircuito giudiziario del processo/non processo “trattativa”. Un processo alla storia, alla classe dirigente, alla Prima Repubblica, alle prerogative costituzionali del Capo dello Stato, tutto meno che la rigorosa verifica di una plausibile accusa. Invece di imboccare la via facile, ma corta, delle contraddizioni dei giustizialisti arancioni o stellati, oppure il refrain anti(ultra)casta nei confronti della magistratura, si dovrebbe discutere del modello costituzionale di Giustizia. Ci si dovrebbe interrogare su di una concezione del diritto adagiata sulla pretesa punitiva, e quindi sull’opera catartica delle Procure, che ha tenuto banco da tangentopoli in poi; quella che, per solleticare gli istinti della pubblica opinione, da ultimo – attraverso una legge non meno discutibile della Severino – ha prodotto l’istituzione dello Zar anticorruzione, e sta per licenziare norme, come il depistaggio ovvero il pacchetto anticorruzione del governo, che sono ispirate alla stessa logica. Si dovrebbe guardare la luna del pensiero facile in tema di Giustizia, insomma, non il dito di un condannato incazzato.

Quanti De Magistris nei nostri Tribunali?, si chiede Giovanni Terzi su “Il Giornale”. La notizia di queste ultime ore riguarda la condanna dell’ex magistrato, oggi Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris ad un anno e tre mesi per aver abusato dei propri poteri nel condurre le indagini nel caso Why Not. Sinceramente non mi appassiona la polemica tre De Magistris, il Presidente del Senato e l’Associazione Italiana Magistrati sulle eventuali o dovute dimissioni da Sindaco. Al contrario mi voglio soffermare sul significato di quella sentenza che getta ancora un’ombra su come a volte vengono condotte delle indagini che hanno poi il potere di rovinare per sempre la vita di alcune persone. De Magistris, stante la sentenza di primo grado, avrebbe utilizzato i tabulati telefonici di alcuni uomini politici da Romano Prodi a Francesco Rutelli, da Clemente Mastella a Sandro Gozzi in violazione dei propri doveri d’ufficio di magistrato. Un atto gravissimo che ha leso non soltanto la dignità di chi ha subito le indagini ma getta un’ombra su come, nel nostro paese, vengono a volte condotte le indagini. Clemente Mastella dopo la sentenza che ha condannato De Magistris ha dichiarato che “quell’indagine condotta in maniera illegale è stata all’origine di tutte le mie difficoltà, sul piano umano e politico”. Ma il caso De Magistris è isolato? Ogni anno in Italia sono circa 2000 le persone che vengono risarcite per ingiusta detenzione e per le indagini condotte male e lo Stato Italiano paga circa ogni anni 40000 di euro per gli errori giudiziari. Duemila famiglie ogni anno distrutte e fatte a pezzi. A questo possiamo aggiungere le 257 condanne in 50 anni della Corte di Giustizia Europea che rendono il nostro paese campione Europeo di malagiustizia. E’ di questo che dobbiamo parlare non delle dimissioni di un Sindaco a fronte di una sentenza di primo grado. Perché caduto un Sindaco se ne fa un’altro; ma rovinato un uomo per una indagine sbagliata, quell’uomo non si rifarà mai più.

Se il Fatto diventa garantista, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Da ieri è un po’ cambiato il panorama dell’editoria italiana. Il Fatto Quotidiano ha cambiato radicalmente la sua linea politica abbandonando il sostegno alla magistratura e schierandosi in modo aperto e coraggioso a difesa dalla classe politica colpita dai soprusi dei giudici. Il casus belli che ha determinato la svolta (non si sa ancora se condivisa da Travaglio o se realizzata in rivolta contro Travaglio…) è stato la condanna per abuso d’ufficio di Luigi De Magistris, ex pm supermoralizzatore e attuale sindaco di Napoli. La condanna è stata decisa ieri l’altro dal tribunale che ha respinto la richiesta di assoluzione avanzata dal Pm. Il reato per il quale sono stati inflitti a De Magistris un anno e tre mesi di prigione è lo stesso per il quale qualche tempo fa fu condannato il presidente della Regione Calabria Beppe Scopelliti. Ai tempi della condanna di Scopelliti però il Fatto quotidiano era ancora sulla vecchia linea legalitaria e travagliesca, e allora chiese, indignato, le dimissioni immediate. E chiese anche l’applicazione della legge Severino, la quale giudica ininfluente il fatto che la Costituzione consideri innocente chiunque non abbia ricevuto una condanna definitiva. De Magistris è stato condannato per aver ordinato decine di intercettazioni telefoniche illegali, e di screening sui tabulati di cellulari vari, tra i quali molti di deputati e persino quello del presidente del Consiglio, Prodi. De Magistris inquisì centinaia di persone, tra le quali il ministro della Giustizia, provocando la crisi di governo e la fine di Prodi (e aprendo la strada al ritorno di Berlusconi). Ieri, nell’articolo nel quale, sul Garantista davamo conto della clamorosa condanna di De Magistris, erroneamente ci dicevamo certi che Il Fatto non lo avrebbe perdonato e avrebbe preteso le sue dimissioni immediate e il suo ritiro dall’attività politica. Come aveva fatto fino a poche ore prima per cose molto meno gravi: gli avvisi di garanzia per “spese pazze” (poi rientrato) per un paio di candidati alle primarie emiliane del Pd. E invece, colpo di scena, Il Fatto ci ha scavalcato a sinistra e si è mostrato ancor più garantista di noi. Giù le mani da De Magistris. Forse – osiamo dire – un po’ troppo garantista. Perché si è spinto fino all’eccesso di nascondere la notizia, non pubblicandola in prima pagina (sebbene fosse chiaramente la principale notizia della giornata politica) ma relegandola a pagina 9, in un articolo nel quale si parlava con molta dolcezza di De Magistris (e questo secondo noi è giusto, perché un imputato, il più delle volte, non è colpevole ma è vittima) e soprattutto si scatenava la furia contro i cittadini che furono indagati inutilmente da De Magistris con l’uso illegale delle intercettazioni e furono poi del tutto scagionati e assolti. Per Il Fatto, De Magistris (condannato) resta innocente fino a prova contraria, e i suoi ex imputati (assolti dopo che la loro vita e le loro carriere erano state rovinate) restano colpevoli comunque. Ecco, diciamo che l’articolo non era proprio “garantista” ma non si può pretendere troppo a poche ore da una svolta di linea politica così drastica…Beh, non c’è molto da aggiungere. È solo la prova che la libertà di stampa è ancora una merce molto molto rara, in Italia. Detto ciò, noi restiamo convinti delle nostre idee e speriamo che nessuno chieda le dimissioni di De Magistris, che è stato eletto coi voti degli elettori, e ne ha raccolti tantissimi. La Costituzione dovrebbe davvero valere per tutti, anche per chi magari la disprezza, e la legge Severino speriamo che sia cancellata al più presto, perché è un po’ un insulto alla stato di diritto.

Il “doppismo” della sinistra, tra miserie e ipocrisia, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Per la sinistra la doppia morale non è una patologia, né un capriccio snob da vanitosi salottieri. È qualcosa di più: è una caratteristica congenita, un pezzo del suo Dna; è come il microchip sottopelle che i grillini credono che ci stiano impiantando a tutti (tranne a loro). Senza doppia morale la sinistra non saprebbe come muoversi nella giungla della storia, più o meno come Tarzan senza liana. La doppia morale è un riflesso condizionato da inseguire ad ogni costo mettendoci tutto l’ingegno possibile, un po’ come fa Vil Coyote con lo struzzo. Quelli di sinistra indossano la doppia morale con una naturalezza aggraziata anche quando non eccellono in bellezza; più sono incazzati col mondo, duri e puri con i principi di moralità degli altri e più te li trovi a scivolare sulla buccia di banana delle loro contraddizioni e delle loro ipocrisie. Dietro gli occhialini appannati da intellettuali ottocenteschi o gli sguardi arcigni e inquisitori nascondono il senso di sofferenza per un mondo che non è come vorrebbero; tranne poi scoprire che nemmeno loro sono come si vorrebbero ma su questo passano sopra con nonchalance. Gli ultimi casi saliti agli onori della cronaca sono francamente piccole cose rispetto al passato; interessano poco la storia e più le miserie umane. Da Curzio Maltese a Barbara Spinelli, passando per l’ultimo straordinario campione di “doppismo morale”, il sindaco di Napoli De Magistris l’ex magistrato che deve la sua fortuna politica al ruolo inquisitorio e giustizialista e che ora, dopo che è stato condannato in primo grado, si è avvinto come l’edera alla sua poltrona neanche fosse Nilla Pizzi. Eppure la questione della doppia morale a sinistra parte da lontano, dai tempi in cui Guareschi disegnava i comunisti con tre narici. È da lì che nacque quel superiore senso d’impunità che ha giustificato l’ipocrisia del “doppismo” come fosse un diritto naturale. Quando nel 1981 Berlinguer rilasciò la famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla “questione morale”, la sinistra già navigava nella sua “doppia morale”. E così mentre il leader comunista denunciava “l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi”, il suo partito aveva iniziato da tempo ad occupare quello stesso Stato (enti locali, enti di previdenza, banche, aziende pubbliche, istituti culturali, ospedali, università, televisioni, giornali). Mentre il Pci denunciava le ingerenze americane nella nostra sovranità, le sue casse venivano inondate da fiumi di soldi dell’Unione Sovietica che per decenni hanno finanziato generazioni di burocrati di partito, intellettuali organici e salsicciari della Festa dell’Unità; soldi per il quale nessun zelante “magistrato democratico” ha mai indagato (perlomeno per evasione fiscale e falso in bilancio visto che arrivavano in nero). E mentre si condannava l’ipocrisia borghese alcuni dei suoi intellettuali coltivavano “blande frequentazioni” con i servizi segreti stranieri prima di fare fulgide carriere televisive o firmavano appelli contro innocenti servitori dello Stato che poi venivano ammazzati dai soliti “compagni che sbagliano”. Nel tempo, questa impunità ha fatto nascere l’idea che se sei di sinistra puoi stare sopra le regole della storia tanto nessuno rinfaccerà le tue contraddizioni. E così la guerra di Bush era criminale, quella di Obama è umanitaria. Il precariato in un’azienda è sfruttamento, il lavoro nero al sindacato è “occupazione sociale”.
Se togliamo le miserie e le ipocrisie che rimpiccoliscono le gigantografie che i moralizzatori danno sempre di se stessi, potremmo anche dire che il “doppismo” della sinistra è un eccesso di altruismo: sono così preoccupati dagli altri che non hanno il tempo di guardare se stessi. Lo aveva capito  Margaret Thatcher quando, a proposito dei governi che tassano, diceva: “Hanno la malattia tipica dei socialisti: hanno esaurito i soldi. Degli altri”.

DAVIDE BIFOLCO. MORIRE A 16 ANNI. “LA CAMORRA TI PROTEGGE. LO STATO TI UCCIDE”?

Venerdì 5 settembre 2014. Com’è morto Davide Bifolco? La storia della sparatoria di giovedì notte a Napoli, di quel poco che è certo – un carabiniere ha ucciso un diciassettenne disarmato – e delle molte cose che non sappiamo. Lo scorso giovedì Davide Bifolco, un ragazzo di 16 anni (17 il prossimo 29 settembre), è stato ucciso a Napoli con un colpo sparato da un carabiniere: era su un motorino con altre due persone e non si erano fer­mati all’alt, scrive “Il Post”. La storia è oggetto di molte attenzioni, discussioni e polemiche da giorni: lunedì 8 settembre sono iniziati gli accertamenti sul cadavere del ragazzo (radiografie e Tac), oggi sarà eseguita la risonanza magnetica, domani l’autopsia e l’esame balistico alla presenza dei periti di parte della famiglia. I risultati degli accertamenti dovrebbero aiutare a chiarire la dinamica dei fatti, visto che ci sono due versioni contrastanti: quella del carabiniere che ha sparato, e che è stato accusato di omicidio colposo, e quella dell’avvocato della famiglia Bifolco raccolta attraverso diverse testimonianze. Ecco che cosa si fa fino a qui.

Cosa si sa. Nella notte tra giovedì 4 settembre 2014 e venerdì 5, intorno alle ore 2.30, c’è stato un inseguimento in via Cinthia, nel quartiere Traiano di Napoli, tra un motorino Honda SH su cui si trovavano tre persone e un’auto con due carabinieri del Nucleo Radiomobile di Napoli. Certamente sul motorino si trovavano Davide Bifolco e Salvatore Triunfo (un ragazzo di 18 anni con precedenti penali). I carabinieri hanno chiesto alle persone sul motorino di fermarsi ma queste non hanno obbedito. Già a questo punto (e anche sull’identità della terza persona sul motorino) ci sono due differenti versioni. Quello che è certo è che alla fine è stato sparato un proiettile dall’arma di uno dei carabinieri e che il proiettile ha colpito Davide Bifolco. Il ragazzo è stato portato all’ospedale San Paolo ma è morto poco dopo il ricovero. Salvatore Triunfo è stato ammanettato e il terzo uomo è invece riuscito scappare. Subito dopo la diffusione della notizia – quella generica che un carabiniere aveva sparato a un ragazzo di 17 anni – ci sono state manifestazioni per le strade di Napoli, durante le quali alcune auto della polizia sono state danneggiate. I cortei, più pacifici, si sono svolti anche nei giorni successivi.

La versione dei carabinieri. Secondo la versione fornita dal carabiniere che ha sparato, intorno alle 2.30 della notte tra giovedì e venerdì lui e il suo collega hanno riconosciuto Arturo Equabile, un ricercato che era scappato dagli arresti domiciliari, su uno scoo­ter Honda SH, seduto in mezzo ad altre due persone: quella stessa notte uno dei comandanti di squadra del Nucleo Radiomobile aveva segnalato alla pattuglia di turno in quel quartiere che il ricercato si trovava per strada su uno scooter di quel tipo. I carabinieri hanno dunque ordinato ai tre ragazzi di fermarsi, ma senza successo. A quel punto c’è stato un inseguimento durante il quale i tre ragazzi hanno urtato un’aiuola e sono caduti. Uno dei carabinieri ha inseguito il presunto latitante, che è però riuscito a scappare e che tuttora non è stato rintracciato. Il secondo carabiniere, con l’arma di ordinanza senza sicura nella mano destra, è invece sceso dall’auto per bloccare gli altri due ragazzi. Nel tentativo di fermare Triunfo con la mano sinistra, il carabiniere è inciampato: a quel punto è partito in modo accidentale il proiettile che ha colpito al torace Bifolco, che stava in quel momento cercando di rialzarsi da terra. In base a questa versione la traiettoria del proiettile dovrebbe essere diagonale dall’alto verso il basso. Il fatto che il carabiniere impugnasse la pistola col colpo in canna e senza sicura sarebbe – secondo l’avvocato difensore – previsto dal regolamento dell’Arma per interventi di quel tipo. Oggi, in un’intervista a Repubblica, il carabiniere che ha sparato ha dichiarato: «Se avevo il colpo in canna, quella notte, è perché io e il mio collega inseguivamo un latitante. Non sono mai stato un Rambo, non ho mai neanche immaginato di puntare una pistola. Sono inciampato, quella notte, mentre bloccavo l’altro giovane che si divincolava. Se si fa una perizia si vedrà che c’è il gradino».

La versione della famiglia Bifolco. Fabio Anselmo, già legale della famiglia Cucchi e ora avvocato dei familiari di Davide Bifolco, ha presentato una versione contrastante rispetto a quella del carabiniere. L’avvocato ha svolto indagini per conto proprio raccogliendo almeno sei testimonianze in base alle quali risulta che i carabinieri avrebbero speronato lo scooter e sparato volontariamente ad altezza d’uomo, colpendo al cuore Davide Bifolco. La famiglia di Davide ha anche diffuso su Facebook delle foto del cadavere del ragazzo come prova di questa tesi. La terza persona sul motorino non sarebbe stata Arturo Equabile ma Enzo Ambrosino, un ragazzo che, intervistato dai giornalisti, ha dichiarato spontaneamente di trovarsi sul motorino inseguito dai carabinieri. Ambrosino, però, non si sarebbe ancora presentato agli inquirenti per mettere a verbale questa versione. I tre ragazzi non si sarebbero fermati perché non avevano il patentino e perché il motorino non era assicurato. Tra i documenti raccolti dall’avvocato Anselmo ci sono anche le riprese delle telecamere collocate all’esterno e all’interno di una sala giochi che si trova a una decina di metri dal luogo dove è avvenuto l’inseguimento. Le immagini mostrano un carabiniere che entra nel locale e che, tenendo in mano una pistola, ordina alle persone presenti di rimanere ferme con le mani in alto. Secondo l’avvocato Fabio Anselmo, le immagini «dimostrano in maniera eloquente lo stato psicologico in cui si trovava quel carabiniere in quel momento». I carabinieri sostengono invece che quel militare non sia quello che ha sparato a Bifolco, ma il suo compagno che inseguendo Equabile lo avrebbe cercato nella sala giochi. Questa versione è stata confermata da Salvatore Triunfo, uno dei ragazzi che era sul motorino, già sentito dal pubblico ministero la sera stessa della uccisione di Bifolco: «È cominciato un inseguimento ad alta velocità. Siamo stati stretti a bassa velocità (30/40 km/h) nei pressi del marciapiedi che costeggia viale Traiano. A questo punto l’auto dei carabinieri che aveva anch’essa superato il cordolo delle carreggiate per venirci dietro, ha impattato il nostro motorino dietro e ci ha fatto cadere. Il ragazzo che guidava il motorino è scappato subito mentre io stavo per rialzarmi e Davide era già riuscito ad alzarsi. Ho visto un carabiniere che puntava la pistola verso Davide. Ho sentito il colpo e non ho visto la precisa direzione, perché mi sono girato. Poi Davide ha cominciato a tremare, mentre era a terra dopo pochi minuti non si muoveva più».

Le indagini. Le indagini su quanto è successo sono state affidate agli stessi carabinieri. In un’intervista sul Manifesto di oggi, l’avvocato Fabio Anselmo ha contestato questa scelta.

Non è strano che i carabinieri indaghino su un carabiniere?

«Purtroppo in Italia è una prassi ricorrente e questo non va bene. È successo lo stesso ad esempio nel caso di Riccardo Magherini (l’ex calciatore della primavera della Fiorentina morto a Firenze lo scorso marzo: un video mostra Riccardo schiacciato a terra da quattro carabinieri, ndr). Il codice europeo e la corte di Strasburgo indicano che un procedimento per essere efficace deve essere condotto da un corpo differente da quello coinvolto. Naturalmente questo non significa che non abbia piena fiducia nella procura di Napoli».

Omicidio Bifolco: video esclusivo dell'Espresso. Così potrebbe emergere un'altra verità. Nelle immagini, riprese con un cellulare sul luogo del delitto, si vede un segno bianco sul paraurti dell'auto dei carabinieri. Secondo la difesa potrebbe indicare che è stata la gazzella a urtare il motorino e non viceversa, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. (Ha collaborato Duccio Giordano). Un video ripreso con un cellulare, che “l'Espresso” pubblica in esclusiva, mostra gli attimi concitati successivi all'omicidio di Davide Bifolco, il ragazzo ucciso da un carabiniere dopo un inseguimento nel rione Traiano a Napoli. Il documento è tra gli indizi recuperati dall'avvocato di Bifolco, Fabio Anselmo, legale conosciuto per i casi Cucchi e Aldrovandi. Nelle immagini si vede la gazzella dei carabinieri con un segno all'altezza della targa anteriore, compatibile con lo scooter sul quale viaggiavano i tre ragazzi. Secondo tale ricostruzione sarebbe stata quindi l'auto dei militari ad urtare il motorino e non viceversa. Nel filmato, pubblicato in esclusiva dall'Espresso, si vede l'urto nella parte anteriore dell'auto all'altezza della targa. Un segno bianco lungo il paraurti. Secondo la difesa di Bifolco è la prova che è stata la gazzella a urtate il motorino e non viceversa. La registrazione amatoriale, secondo la difesa, smentirebbe dunque la ricostruzione fatta dall'Arma, che sostiene una dinamica diversa. Secondo il rapporto dei carabinieri sarebbe stato infatti lo scooter, con a bordo Davide e altri due ragazzi senza casco, a urtare l'auto di servizio. “L'Espresso” è in grado di mostrare quel video che racconta i minuti successivi alla morte del giovane. Momenti di caos e di rabbia. Nelle immagini, pur rapide e confuse,  si nota abbastanza chiaramente un segno orizzontale all'altezza del paraurti. La difesa chiederà una perizia per verificare se tale segno sia stato lasciato dallo scooter. «Davide è stato ucciso da un colpo al torace». Questo è l'unico elemento certo emerso dall'autopsia. Non era quindi di spalle, come qualche testimone aveva raccontato. «L'esame ha evidenziato un foro d'entrata del proiettile nel petto e un foro d'uscita alla schiena. Questo elemento e il risultato della Tac di ieri sono punti di partenza molto solidi per le successive indagini». Sono le parole dell'avvocato Fabio Anselmo. «Ritengo assolutamente prematuro e completamente sbagliato trarre conclusioni a conferma o a smentita delle varie tesi», ha aggiunto. Inoltre, il legale chiede con forza che il latitante (che secondo i testimoni non si trovava sul motorino, al contrario di quanto sostiene l'Arma) si consegni. Altro punto su cui l'avvocato Anselmo insiste è la traiettoria del proiettile, ricostruita dal consulente di parte Vittorio Fineschi, capo della scuola di Medicina legale della Sapienza di Roma e già perito nei casi Aldrovandi e Cucchi. Il medico ha prodotto una simulazione, partendo dal risultato della Tac fatta durante l'autopsia, sfruttando un software particolare che hanno in dotazione nei laboratori della facoltà. Le immagini pubblicate da “l'Espresso”  mostrano la ricostruzione della dinamica dello sparo. La prima immagine è denominata “vista frontale”: il carabiniere è visto di spalle. Di fronte a lui c'è la vittima. I corpi sono uniti da una linea rossa che rappresenta la traiettoria del proiettile. C'è anche un frame posteriore, dal punto di vista del ragazzo quindi, e in questo caso il militare è di fronte. Infine ci sono i dettagli dei fori di entrata e di uscita. Tutti elementi raccolti dalla difesa. Indizi parziali, e di parte, che la procura dovrà valutare insieme agli altri indizi raccolti sulla scena del delitto.

Roberto Saviano: "Davide è morto a Napoli, zona di guerra". "Anche l'Italia ha la sua Ferguson. Davide Bifolco, 17 anni, colpito da un Carabiniere, morto a Napoli, zona di guerra". Lo scrive Roberto Saviano su Twitter e Facebook. "Colpito al cuore da un Carabiniere che dice di aver sparato per sbaglio. Si farà chiarezza sulle dinamiche ma nessuno dirà che Davide è morto perchè viveva in un territorio in guerra. E in guerra non ci sono seconde possibilità, ti va sempre male, da qualunque parte tu stia. Tutti buoni, tutti cattivi e tutti morti", conclude Saviano.

La Ferguson di casa nostra, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Adesso anche l'Italia ha la sua Ferguson. Un inseguimento che parte da Rione Traiano, periferia sud-est di Napoli, e si ferma presto, a Fuorigrotta. Un inseguimento che finisce in tragedia. Non esistono più né guardie, né ladri. Né bene né male. Tutto è assai complesso, difficile non solo da comprendere ma anche e soprattutto da raccontare. Quando accadono tragedie come questa, si tende a focalizzarsi sulla dinamica. Anche il sindaco De Magistris, nel primo messaggio di cordoglio per la morte di Davide Bifolco, ha assicurato che in breve tempo si sarebbe fatta chiarezza. Ecco, questa è Napoli (e questa è l'Italia), un luogo in cui l'etichetta è rispettata, in cui tutto verrà fatto (almeno così assicurano) secondo le procedure, ma poi nulla viene realmente chiarito. Tre persone su uno scooter, (a Napoli è la prassi) di cui una latitante e una con precedenti (questo ovviamente è stato appurato poi), che non si fermano all'alt della pattuglia dei carabinieri. C'è chi giurerà che non potevano le forze dell'ordine lasciar correre quell'infrazione. Che bisogno c'era però di sparare? Nessuno, e infatti il carabiniere ha dichiarato che il colpo gli è partito per sbaglio. Per sbaglio? È dagli anni '70 che si usa l'espressione "colpo accidentale", comunicazione che non fa altro che generare diffidenza verso chi la pronuncia. Non bisogna aver maneggiato la Beretta Mod 92 semiautomatica e conoscerne il peso di quasi un chilo con proiettili 9 millimetri, per capire che un colpo accidentale può partire (cosa che accade raramente) se l'arma cade o se impugnandola senza sicura e con il colpo in canna il dito nello sforzo della corsa fa scattare il grilletto: ma in quel caso è difficile che il proiettile vada a segno. Nulla di tutto questo, a quanto sembra. E quindi bisognerebbe smettere di usare l'espressione accidentale e iniziare a chiedere solo silenzio e attesa delle indagini. Ma questi discorsi, che occupano pagine e pagine di carta e del web e che coinvolgeranno molti italiani indignati per l'ennesimo morto bambino, questi discorsi "belli, tondi e ragionevoli", non restituiscono affatto la realtà di Napoli. Questi discorsi restano in superficie. E nascondono un tema molto più importante, un tema che non è più possibile ignorare eppure viene costantemente, quotidianamente ignorato: Napoli è una città in guerra. Ad agosto del 2013 il conducente di una Smart inseguì e investì, uccidendoli, due presunti rapinatori (presunti perché non c'è alcuna evidenza che la rapina sia realmente avvenuta), oggi è una pattuglia dei carabinieri a ingaggiare un inseguimento per bloccare uno scooter "sospetto", come è stato definito il motorino che guidava Davide. Potremo scoprire (forse) le dinamiche di questa ennesima tragedia annunciata, ma i cittadini continueranno ad avere paura, le forze dell'ordine a essere tesissime e il territorio a essere attraversato da un'assenza totale di regole. Qualcuno dovrebbe domandarsi: cosa significa essere un cittadino al Rione Traiano? Cosa significa essere un carabiniere al Rione Traiano? Chiedetelo pure a loro. Rione Traiano, anello fondamentale per il traffico di coca. Rione dove manca quasi completamente ogni genere di servizi, dove la fermata della Cumana fa paura anche a mezzogiorno. Era il regno di Nunzio Perrella, capo di una delle famiglie di narcotrafficanti più note, il clan Puccinelli. Ora è entrato in crisi, lasciando però a comandare sul territorio i propri eredi, ma il territorio è un budello conteso tra le famiglie di Soccavo, i Grimaldi, e quelle di Miano ossia i mille rivoli dei Lo Russo e i dissidenti dei Zaza di Fuorigrotta e tutti i gruppi che sanno che basta una partita di coca da appena 1 chilo (guadagno circa 210milaeuro) per assicurarsi decine e decine di stipendi di disperati e ambiziosi ragazzini da affiliare. Un coacervo incredibile di interessi che ha reso questo quartiere sempre difficilissimo da vivere. Rione Traiano è terra di faide da sempre: nel 2012 fu gambizzata Maria Ivone, figlia di un boss e fu ferita anche una donna incensurata. Nel luglio scorso, in pieno pomeriggio, due ragazzini di 17 e 18 anni sono stati feriti alla mano e alla spalla. Stiamo parlando di un luogo che aveva creato un polo criminale rivale all'Alleanza di Secondigliano, la cosiddetta "Nuova Mafia Flegrea" che si è dissolta in faide interne e arresti, generando guerre su guerre: ce n'è stata persino una tra i Rioni Traiano "di sopra" e "di sotto". Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un'amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all'alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c'è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide. Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. "Je sò nato e sò cresciuto ind'a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera" (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni '90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c'è guerra. Quando viene esploso un proiettile, che sia esecuzione, che sia errore o che sia necessità militare (e in questo caso non ve n'era alcuna), è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere. Adesso anche l'Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c'era stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla 'ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. Ma di quale rinascita parliamo se l'economia più significativa nel nostro Paese è quella criminale e gli imprenditori che non si piegano sono abbandonati? Sta affondando l'Italia, a stento respira. E affonda come sempre da Sud. Il pianto della famiglia di Davide ci parla di un male antico, di un male terribile. Non solo il dolore, quello reale, per la perdita di un figlio, di un fratello, di un amico, ma la necessità di doverlo mettere in scena come unico strumento rimasto per attirare attenzione e quindi per chiedere giustizia. Le sedie in strada, tutta la famiglia che fa dichiarazioni: il dolore nella mia terra non è mai privato. È pubblico e rumoroso, vuole invadere, celebrarsi, teme di essere sottovalutato, ignorato, isolato. È un dolore costretto alla teatralità per provare ad essere accolto. E senta il governo intero, il peso delle parole di una ragazzina: "La camorra non avrebbe mai ucciso un ragazzo di 16 anni lo Stato sì". Frase ingenua, falsa, ma difficile da sopportare. Questo dice la cugina stravolta di Davide. Lei non sa che la camorra ha ucciso e uccide non solo sedicenni, ma ragazzi e bambini ancora più piccoli. Questa sua ingenuità mostra la necessità di parlare della camorra e che anzi è proprio il silenzio che porta a fraintendimenti di questo genere. I clan ne sono felici. "La camorra ci protegge lo Stato no" ripetono a Rione Traiano. "Le mafie fanno il loro lavoro, mentre voi istituzioni, voi pubbliche persone mentite, rubate, oltraggiate. Voi, i veri criminali, camorra, mafia, 'ndrangheta, infondo, sono palesi nel loro essere fuori legge, sono oneste in questo". Ecco cosa drammaticamente leggo in decine di blog, in migliaia di commenti. La tragedia è accorgersene solo quando muore un ragazzino ucciso da un carabiniere. È sempre stato così: c'è bisogno di sangue per ricordare che dall'inferno a Napoli non si è mai usciti.

La morte di Davide Bifolco, da inseguimento a sparo: ecco la versione del carabiniere riportata da “Il Mattino”. Fu uno dei comandanti di squadra del Nucleo radiomobile a segnalare ai colleghi che il latitante Arturo Equabile scorrazzava per le strade del quartiere in sella a uno scooter Honda SH, in mezzo ad altri due giovani: lo ha spiegato al proprio difensore, avvocato Salvatore Pane, l'appuntato dei carabinieri che venerdì scorso, durante un inseguimento, ha esploso il colpo di pistola che ha ucciso Davide Bifolco. Secondo il militare, non ci sono dubbi che in compagnia di Bifolco e di Salvatore Triunfo ci fosse proprio il latitante e non l'altro ragazzo di nome Enzo che, intervistato dai media e successivamente dal legale della famiglia Bifolco, ha affermato di trovarsi sullo scooter. Enzo, a quanto si è appreso da fonti giudiziarie, non si sarebbe a tutt'oggi presentato agli inquirenti per mettere a verbale la propria versione. Il colpo di pistola, precisa l'avvocato Pane, è stato esploso dal carabiniere con la mano destra mentre con la sinistra il militare tentava di bloccare Salvatore Triunfo, che si divincolava. L'appuntato sarebbe inciampato sul cordolo dell'aiuola colpendo al petto Davide, che si stava rialzando: la traiettoria del proiettile, infatti, sarebbe in diagonale, dall'altro verso il basso. Il fatto che l'appuntato impugnasse la pistola col colpo in canna e senza sicura, sottolinea ancora il legale, è previsto dal regolamento dell'Arma per interventi come quello di venerdì scorso.

“Non ho mai puntato la pistola”. Parla il carabiniere che ha ucciso Davide Bifolco, il giovane di 17 anni che non si è fermato al posto di blocco a Napoli. A riportare le dichiarazioni dell’agente su Repubblica è l’avvocato Salvatore Pane. ”Se avevo il colpo in canna”, ha detto, “quella notte, è perché io e il mio collega inseguivamo un latitante. Non sono mai stato un Rambo, non ho mai neanche immaginato di puntare la pistola. Sono inciampato, quella notte, mentre bloccavo l’altro giovane che si divincolava. Se si fa una perizia si vedrà che c’è il gradino”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. E per questo chiede perdono: “Con pudore voglio dire alla famiglia di Davide che chiedo perdono per questa perdita, consapevole che niente e nessuna parola potrà attutire il dolore che segnerà per sempre anche la mia vita. Sono addolorato”. L’agente ricostruisce poi le dinamiche della sera in cui è avvenuto l’inseguimento: “Io so che questa tragedia è stata la conseguenza impensabile, umanamente inaccettabile, di un incidente. Non ho mai puntato la pistola, ho alle spalle oltre dieci anni di lavoro, anche a Verona”. Intanto proseguono le indagini per fare luce sulla vicenda. Gli incarichi ai periti sono stati conferiti ieri 8 settembre dal pm titolare dell’inchiesta, Manuela Persico, e dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso. Gli accertamenti, sollecitati dall’avvocato Fabio Anselmo che assiste la famiglia Bifolco, dureranno tre giorni, ma per i risultati bisognerà probabilmente attendere alcune settimane. I funerali del ragazzo dovrebbero svolgersi mercoledì 10 settembre, dopo l’autopsia, o giovedì mattina. Intanto il militare che ha sparato, e che è indagato per omicidio colposo, per mettere a punto la strategia difensiva ha ricostruito con il suo difensore, avvocato Salvatore Pane, la dinamica dell’accaduto. L’appuntato, che ha un’esperienza di dieci anni nel Nucleo radiomobile di Verona e dunque è abituato ad affrontare le emergenze del lavoro in strada, sostiene che il colpo è partito dalla pistola impugnata con la mano destra mentre con la sinistra cercava di bloccare Salvatore Triunfo, uno dei giovani che erano sullo scooter assieme a Davide Bifolco e al latitante Arturo Equabile, riuscito a fuggire. Poiché Triunfo si divincolava, l’appuntato ha perso l’equilibrio e ha premuto il grilletto. Intervenire con il colpo in canna e senza sicura, sottolinea Pane, è la procedura cui i carabinieri devono attenersi, in base ai protocolli, in circostanze del genere. Intanto non accenna a placarsi la rabbia e la voglia di giustizia tra gli abitanti del Rione Traiano di Napoli. Un gruppo, composto perlopiù da ragazzi e bambini, è arrivato alla stazione di Montesanto della ferrovia Cumana per manifestare, lungo le vie del centro città, in ricordo di Davide. Ad aprire il corteo una foto del ragazzo uno striscione sul quale si legge “Lo Stato dovrebbe tutelarci invece ci ammazza. Giustizia”. Le persone presenti in piazza hanno accolto con un applauso l’arrivo dei manifestanti. Nel corteo anche un cane al quale è stata messa addosso una t-shirt bianca con la scritta: “Davide vive“, e “Bifolco sta qua”, seguito da un cuore disegnato con il pennarello rosso. “Siamo qui per la pace di Davide, non per la guerra”, urla con il megafono uno dei ragazzi. “Davide sempre con noi” e “Giustizia. Davide Vive” , sono gli slogan che stanno intonando i manifestanti. Il corteo è arrivato davanti la caserma Pastrengo, sede del comando provinciale dei carabinieri del capoluogo campano. Prima che fosse osservato un minuto di silenzio in ricordo di Davide, una donna si è avvicinata al colonnello dei Carabinieri Marco Minicucci per chiedergli di togliersi il cappello “in segno di rispetto”. Il comandante provinciale ha subito accolto l’invito, si è tolto il cappello e poi, insieme ai ragazzi, ha osservato il minuto di silenzio. ”Non muro contro muro, dobbiamo stare insieme per cambiare questa città”. Queste le parole del colonnello Minicucci, con cui si è rivolto ai giovani in corteo. “Questa città – ha detto ancora il colonnello Minicucci – va cambiata nel bene e nella legalità”.

Napoli, il carabiniere che ha ucciso Davide "Chiedo perdono non sono un Rambo". Il militare 32 anni, originario della Campania si rivolge alla famiglia del 17enne attraverso il suo avvocato. "Sono inciampato, se si fa una perizia si vedrà che c'è il gradino". L'avvocato Anselmo:"Abbiamo raccolto sei testimonianze che smontano la ricostruzione dell'Arma", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Sono addolorato. Con pudore voglio dire alla famiglia di Davide che chiedo perdono per questa perdita, consapevole che niente e nessuna parola potrà attutire il dolore, che segnerà per sempre anche la mia vita". Poche parole. Il carabiniere che ha ucciso il diciassettenne Davide Bifolco parla a testa bassa, appare provato e affida questa riflessione a Repubblica, attraverso il suo avvocato, Salvatore Pane. Lo chiameremo Marcello, 32 anni, single. È la prima volta che Marcello parla con un penalista che non sia il difensore di uno degli arrestati, perfino quella notte non si è rivolto a un legale di fiducia, ma a un avvocato d'ufficio. Questo è il messaggio a cui ha pensato per giorni, e che non sa se varcherà mai il cuore di una casa avvolta dal lutto, né di quel rione che ancora è acceso dall'odio, dalla rabbia, dalla disperazione. "Io so  -  continua il militare, 32 anni, cresciuto in un paese contadino della provincia campana  -  che però questa tragedia è stata la conseguenza impensabile, umanamente inaccettabile, di un incidente. Solo un terribile incidente. Non ho mai puntato la pistola, ho alle spalle oltre dieci anni di lavoro, anche a Verona ". Ma mentre lui si apre, nelle stesse ore, un corteo di giovani e amici di Davide attraversa tutta la periferia e arriva fin nella Napoli bene, alla caserma del Nucleo Radiomobile del corso Vittorio Emanuele dove Marcello prestava servizio fino a giovedì. Continua Marcello: "Se avevo il colpo in canna, quella notte, è perché io e il mio collega inseguivamo un latitante. Non sono mai stato un Rambo, non ho mai neanche immaginato di puntare la pistola. Sono inciampato, quella notte, mentre bloccavo l'altro giovane che si divincolava. Se si fa una perizia si vedrà che c'è il gradino". Strategie diverse e contrarie, ovviamente, continuano a tenere banco. Mentre Marcello attende gli esiti dei primi accertamenti tecnici, la famiglia di Davide attraverso il suo avvocato Fabio Anselmo, legittimamente, mette in agenda una serie di analisi ulteriori. Risultato: i funerali slittano, i test su quei poveri resti dureranno fino a domani, quando è prevista l'autopsia, il caso diventa politico e non solo giudiziario. L'avvocato Anselmo annuncia: "Abbiamo raccolto ormai sei testimonianze. Consegneremo questo materiale alla Commissione dei diritti umani del Senato". Gli fa eco il senatore del Pd Luigi Manconi: "Non si facciano errori, non si commettano omissioni e non si tralasci alcunché nella primissima fase di un'indagine così delicata". Intanto spuntano gli altri verbali. Colpiscono le dichiarazioni rese dal 18enne Salvatore Triunfo, subito dopo la tragedia, al pm Manuela Persico, le cui indagini sono coordinate dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso.  "È cominciato un inseguimento ad alta velocità  -  dice Triunfo  -  Siamo stati stretti, a bassa velocità (30-40 km/h) nei pressi del marciapiedi che costeggia viale Traiano. A questo punto l'auto dei carabinieri che aveva anch'essa superato il cordolo delle carreggiate per venirci dietro, ha impattato il nostro motorino dietro e ci ha fatto cadere. Il ragazzo che guidava il motorino è scappato subito mentre io stavo per rialzarmi e Davide era già riuscito ad alzarsi. Ho visto un carabiniere che puntava la pistola verso Davide. Ho sentito il colpo e non ho visto la precisa direzione, perché mi sono girato. Poi Davide ha cominciato a tremare, mentre era a terra e dopo pochi minuti non si muoveva più".

“Sullo scooter con Davide non c’era nessun latitante. C’ero io”. Vincenzo Ambrosio, 23 anni incensurato, lo dice davanti alle telecamere: sullo scooter dove la scorsa notte viaggiava anche Davide Bifolco, il 17enne colpito da un proiettile esploso da un carabiniere al Rione Traiano, a Napoli, non c’era Arturo Equabile, come da ricostruzione dei Carabinieri, ma lui. “Eravamo io, Davide e Salvatore (Triunfo, ndr). Il motorino lo guidavo io, ho visto la volante e sono scappato perché non avevamo l’assicurazione”, dice. “La volante ci ha rincorso – continua- ci ha buttati per l’aria. Io per la paura sono scappato. Il latitante non c’è, sono io che sono scappato. Io lo sto dicendo, ma a chi lo devo denunciare, ai Carabinieri?”

"Mi costituirò per raccontare la verità sull'omicidio. Su quel motorino non c'ero io". Arturo Equabile, 22 anni, padre di una bambina, il latitante che i carabinieri cercavano la notte dell'omicidio di Davide Bifolco, ha rotto il silenzio. Intervistato dal Fatto Quotidiano del 10 settembre 2014 racconta:  “Quella sera non ero sul motorino con Davide Bifolco. Non c’ero, lo volete capire o no?”. Parla Arturo Equabile, il latitante che i carabinieri cercavano nelle strade di viale Traiano tra venerdì e sabato, la malanotte degli inseguimenti e della sparatoria, di quel colpo “accidentale” che ha stroncato la vita di Davide Bifolco, 17 anni. “Un’ora prima del fatto sono venuti i carabinieri nella casa dove stavo. Erano con le pistole in pugno e gridavano apri, bastardo. Ho avuto paura e sono scappato in un’altra casa. Dopo tre quarti d’ora ho saputo che in un’altra parte del quartiere c’era stata la sparatoria“. Arturo Equabile ha 22 anni e una figlia, la sua è una delle tante vite sbagliate cresciute nel ventre di Malanapoli. Perché era latitante? “Sono latitante per un furto che non ho commesso…ho spezzato i domiciliari e i carabinieri sono incazzati con me perché non riescono a prendermi”. Quali reati ha commesso? “Nessuno, sono imputato perché delle persone avevano delle microspie in auto e parlavano di un furto e di un certo Arturo, ma quello non ero io”. Storie di una Napoli difficile, sempre in bilico tra legge e malavita. Perché Arturo Equabile afferma che i carabinieri ce l’hanno con lui? “Perché scappavo. Venivano per prendermi e io scappavo, e loro si incazzavano. Qualcuno diceva che se mi prendevano i carabinieri mi ammazzavano. E io mi chiedo perché hanno ammazzato Davide? Al posto suo potevo esserci io. Ma i carabinieri o la polizia hanno tutto il diritto di arrestarmi se mi trovano, non quello di uccidermi. Hanno minacciato mia zia, apri se no spariamo, dicevano. Hanno pure fermato un ragazzo di Fuorigrotta perché mi somigliava tanto”. Ha mai avuto problemi con la giustizia? “Da minorenne sì, piccole cose, però”. Perché non si costituisce, signor Equabile? “Fino ad oggi non l’ho fatto perché mi ritengo innocente e non voglio pagare per una furto che non ho fatto”. L’avvocato della famiglia Bifolco le ha chiesto nei giorni scorsi di consegnarsi alla giustizia per rispetto di Davide e dei suoi genitori. “E io giuro che lo farò, aspetto solo che il mio avvocato mi porti il fascicolo. Mi costituirò per dire la verità sulla morte di Davide, ma i carabinieri devono arrestarmi non spararmi. Ho paura, voglio che nessuno mi faccia del male, non voglio fare la fine di Cucchi…”. Arturo Equabile ci lascia così, presto (ore o giorni) si consegnerà all’autorità giudiziaria, davanti a un magistrato potrà dire dov’era la sera della morte di Davide Bifolco, potrà smentire o confermare la versione data da uno dei tre ragazzi a bordo del motorino che escludeva la sua presenza. E’ un tassello importante di una inchiesta difficile, avvolta da troppe ombre e da troppi tentativi di deviare l’attenzione dai fatti al contesto sociale, Napoli e le sue periferie, nel quale vivevano Davide e i suoi amici. Ci sono testimonianze contraddittorie, fotografie scattate a caldo, filmati delle telecamere di videosorveglianza, gente che ha visto. Il carabiniere che quella notte inseguiva Davide ha affermato che il colpo che ha ucciso il ragazzo è partito accidentalmente dalla sua arma. “Se avevo il colpo in canna - ha spiegato – è perché io e il mio collega inseguivamo un latitante. Non sono mai stato un Rambo, non ho neanche immaginato di puntare la pistola. Sono inciampato quella notte, mentre bloccavo l’altro giovane che si divincolava. Se si fa una perizia si vedrà che c’è il gradino“. Ma ieri un altro testimone oculare ha raccontato una storia diversa. “Stavo sul balcone a fumare una sigaretta quella sera, con me c’era un mio amico. Era da poco passata la mezzanotte e sentivo le sirene delle volanti, ne ho vista passare una sgommando. Passano un paio di ore e vedo un motorino scappare. C’era una macchina che lo inseguiva da dietro e una che era di fronte. Hanno tamponato il motorino e 3-4 carabinieri si sono lanciati in un inseguimento. Davide era a terra, si agitava. Il carabiniere ha puntato la pistola e ha sparato ad un metro, un metro e mezzo di distanza e ha sparato ad altezza d’uomo. Un suo collega, uno senza capelli, ha preso Davide che era caduto a terra per la testa. Gli diceva ‘alzati, alzati’. Dopo pochi minuti è arrivata anche la mamma del ragazzo, non sapeva cosa fosse successo, ha visto il figlio morto e ha abbracciato un carabiniere. Poi uno dei ragazzi ammanettati ha detto sono stati loro ed è scoppiato l’inferno. La gente si è ribellata e ha aggredito i carabinieri, ma solo verbalmente”. "Un'ora prima del fatto sono venuti i carabinieri nella caso dove stavo. Erano con le pistole in pugno e gridavano 'apri bastardo'. Ho avuto paura e sono scappato in un'altra casa. Dopo tre quarti d'ora ho saputo che in un'altra parte del quartiere c'era stata la sparatoria". "Quella sera non ero sul motorino con Davide Bifolco. Non c'ero lo volete capire o no", dice a Enrico Fierro spiegando che è latitante "per un furto che non ho commesso". Equabile sostiene che non ha commesso alcun reato, che è "imputato perché delle persone avevano delle microspie in auto e parlavano di un furto e di un certo Arturo, ma quello non ero io". "I carabinieri ce l'hanno con me", si sfoga, "perché scappavo. Venivano a prendermi e io scappavo e loro si incazzavano. Qualcuna diceva che si mi prendevano mi ammazzavano. E io mi chiedo perchè hanno ammazzato Davide? Al posto suo potevo esserci io". "E ancora: "I carabinieri o la polizia hanno tutto il diritto di arrestarmi se mi trovano, non quello di uccidermi". Arturo Equabile non si è mai costituito perché, si giustifica, "mi ritengo innocente e non voglio pagare per un furto che non ho fatto". Ma adesso che Davide, 17 anni ancora non compiuti è morto, lo farà: "Lo giuro. Aspetto solo che il mio avvocato mi porti il fascicolo. Mi costituirò per dire la verità sulla morte di Davide, ma i carabinieri devono arrestarmi, non spararmi. Ho paura, voglio che nessuno mi faccia del male, non voglio fare la fine di Cucchi". Intanto spunta un altro testimone che smentisce la ricostruzione fatta dal carabiniere che ha ucciso Davide. "Stavo sul balcone a fumare una sigaretta quella sera", racconta l'uomo che è già stato sentito dagli inquirenti al Fatto. "Era da poco passata la mezzanotte e sentivo le sirene delle volanti, ne ho vista passare una sgommando. Passano un paio di ore e vedo un motorino scappare. C'era una macchina che lo inseguiva da dietro e una che era di fronte. Hanno tamponato il motorino e tre o quattro carabinieri si sono lanciati in un inseguimento. Davide era a terra, si agitava. Il carabiniere ha puntato la pistola a un metro, un metro e mezzo di distanza e ha sparato ad altezza uomo. Un suo collega, uno senza capelli, ha preso Davide che era caduto a terra per la testa. Gli diceva alzati, alzati. Dopo pochi minuti è arrivata la mamma del ragazzo, non sapeva cosa fosse successo, ha visto il figlio morto e ha abbracciato il carabiniere. Poi uno dei ragazzi ammanettati ha detto "sono stati loro" ed è scoppiato l'inferno".

«Assassini con la divisa», «lo Stato non ci tutela», «carabiniere in carcere», scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. Erano migliaio a urlare contro le forze dell’ordine, a chiudere «giustizia» per la morte di Davide Bifolco, il sedicenne morto due notti fa nel rione Traiano a Napoli raggiunto da un colpo di pistola partito dalla pistola di un carabiniere. Slogan e striscioni sono stati esposti dai manifestanti durante il corteo che è stato organizzato ieri pomeriggio nel luogo dove è morto il minorenne, che è poi andato avanti fino a piazza Giovanni XXIII, davanti alla caserma dei carabinieri, protetta con i blindati della polizia con lampeggianti accesi, colpiti da oggetti lanciati dai manifestanti. Un corteo che ha paralizzato il traffico di quella zona della città e che ha riunito amici e parenti del ragazzo che era in sella a un motorino insieme con altre due persone che non si sono fermati all’alt dei carabinieri. Proprio sull’identità di uno dei due giovani che erano con la vittima ci sono versioni discordanti e indagini da parte dell’Arma. Il motivo? I militari fin dal primo momento hanno sostenuto che sul motorino c’era anche un latitante, Arturo Equabile, evaso dai domiciliari lo scorso febbraio e ancora non rintracciato. Dall’altra parte, invece, c’è la testimonianza di un ragazzo, Vincenzo Ambrosio, amico di Davide, che ha affermato di essere lui il terzo in sella allo scooter insieme anche a Salvatore Triunfo, fermato subito dopo il colpo mortale e che «adesso dovrà difendersi dall’accusa di favoreggiamento personale e resistenza a pubblico ufficiale. Chi era dunque il ragazzo sul motorino al momento dell’inseguimento da parte dei carabinieri insieme a Davide e a Salvatore? L’Arma, per dare conferma alla sua versione e portare ulteriori prove al pm Manuela Persico hanno chiesto alle emittenti private e al servizio pubblico di fargli acquisire i video e gli audio raccolti sul luogo del ferimento mortale dai testimoni. Non solo. Agli atti dell’inchiesta che vede indagato per omicidio colposo l’appuntato dei carabiniere di 32 anni finiranno anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza che si trovano intorno al posto dove è caduto in terra senza vita Davide Bifolco. «Non c’è nessun latitante, ero io il terzo sul motorino», ha dichiarato ieri Vincenzo Ambrosio. E ancora: «Stavamo sul motorino e all’improvviso una volante ci ha rincorso, siamo scappati e alla fine ci hanno buttato a terra. Io sono scappato, il mio amico voleva scappare con me ma non glielo hanno fatto fare». A chi gli chiedeva perché non si fossero fermati all’alt dei militari ha dichiarato che «non avevamo nè l’assicurazione nè la patente». E ora sarà sentito dai pm. «Deve marcire in carcere, non deve avere un’ombra di pace per tutta la vita - ha urlato con la voce spezzata dal pianto, Flora, la mamma di Davide - nostro figlio deve essere ancora seppellito, nessuno, e dico nessuno, deve sentirsi autorizzato a compiere atti di violenza anche verbale in suo nome. Chi vuole bene a Davide deve rispettarlo». La donna era in corteo insieme con l’altro figlio, Tommaso. «I delinquenti sono loro, dovrebbero tutelarci. Quel carabiniere deve pagare». Ci sono stati dunque alcuni momenti di tensione tra i manifestanti che hanno partecipato al corteo e le forze dell’ordine: lanciati dalla polizia alcuni lacrimogeni, mentre i manifestanti hanno lanciato oggetti contro i blindati.

Omicidio Bifolco, dall’ospedale nuove sconcertanti rivelazioni, scrive Emiliano Stella su “L’Ultima Ribattuta”. Il Rione Traiano come la banlieue parigina immortalata 20 anni fa da Mathieu Kassovitz nel film “L’odio”. Degrado, una gioventù sbandata, Forze dell’Ordine dal grilletto facile. Uno scenario desolato, in cui domina una calma apparente il giorno dopo l’imponente manifestazione di centinaia di persone tra residenti del quartiere, parenti ed amici di Davide Bifolco, il 17enne freddato nella notte tra giovedì e venerdì da un colpo partito accidentalmente (questa è la versione fornita dall’Arma) dalla pistola di un carabiniere. Fanno scalpore le indiscrezioni trapelate da fonti ospedaliere, secondo le quali sul corpo del ragazzo (la cui foto in obitorio è stata postata dalla sorella su Facebook) si vedrebbe nitidamente sul petto il foro d’entrata dal proiettile e sulla schiena, sotto le costole, quello di uscita. I segni di un colpo esploso dall’alto verso il basso, quindi, che farebbero pensare ad una vera e propria esecuzione, attuata quando il ragazzo era a terra. Se la notizia fosse confermata non farebbe altro che riaccendere il fuoco della protesta, già divampata violentemente la notte in cui è avvenuto il fatto, con diversi mezzi delle Forze dell’Ordine dati alle fiamme. Il quotidiano napoletano “Il Mattino” ha anche pubblicato nella sua versione on-line le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza di una sala giochi, in cui si vedono distintamente gli avventori prima uscire dal locale (forse richiamati dallo sparo) per poi rientrarvi con le braccia alzate, inseguiti da un carabiniere con l’arma in pugno. Il militare non sarebbe lo stesso che ha esploso il colpo, bensì il secondo componente della pattuglia, presumibilmente all’inseguimento del latitante a bordo del motorino in fuga. La Magistratura è al lavoro per accertare i fatti, e si avvarrà anche della consulenza balistica di Marzo Zonaro, ingegnere che ha già lavorato quindici anni fa sul caso di Marta Russo. La famiglia di Davide Bifolco ha invece nominato come legale Fabio Anselmo, l’avvocato già impegnato nei casi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Un altro caso oscuro, su cui si spera si faccia presto luce e si accertino le eventuali responsabilità. La famiglia di Davide Bifolco ha diffuso alcune foto del cadavere del 17enne, scrive “Affari Italiani”. In una di esse, postata sul profilo Facebook della sorella, si vede un foro nella parte alta e sinistra del torace. Si tratta - secondo i familiari del ragazzo - del foro di entrata del proiettile esploso dal carabiniere che ha colpito mortalmente Davide. Oggi si svolgerà l'autopsia sul cadavere disposta dalla Procura di Napoli alla presenza del perito di parte. L'avvocato che rappresenta la famiglia di Davide Bifolco ha diffuso alcune immagini delle telecamere di sorveglianza di una sala giochi che si trova nei pressi del luogo della tragedia e che documenterebbero una ricostruzione dei fatti discordante con quella delle forze dell'ordine. Fonti al vertice dell'Arma commentano: "Non vi è nulla di minimamente strano o inspiegabile nelle immagini di alcuni video diffusi, e non ancora in possesso dell'autorità giudiziaria. In uno, infatti si vede un carabiniere che entra nella sala da biliardo del Rione Traiano con l'arma in pugno: ebbene, si tratta proprio dell'autista dell'autoradio - e quindi non dell'altro collega che ha sparato accidentalmente contro il diciassettenne - che, come risulta, si è diretto all'inseguimento del latitante Equabile Arturo. C'è da chiedersi: quando un carabiniere insegue un fuggiasco, lo fa con i fiori? D'altro canto è bene sottolineare che questo segmento finale dell'azione di quella notte è stato ampiamente segnalato dallo stesso autista dell'autoradio di fronte al pubblico ministero, in sede di testimonianza, come risulta dai verbali a disposizione dell'autorità giudiziaria". Sono versioni "coerenti tra loro e totalmente discordanti con quella del carabiniere" quelle fornite da tre testimoni già ascoltati da Fabio Anselmo, il legale individuato dalla famiglia di Davide Bifolco, il 17enne ucciso a Napoli da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. L'avvocato consegnerà "al più presto" i verbali alla procura di Napoli, insieme con alcune immagini riprese dalle telecamere posizionate all'interno e all'esterno di una sala giochi a pochi metri dal luogo in cui è stato morto il ragazzo circa mezz'ora prima della sua uccisione. Tutto il materiale, spiega, sarà "messo già oggi a disposizione della Commissione diritti umani". Tra i testimoni ascoltati da Anselmo, che è il legale delle famiglie di altri casi scottanti quali quello Cucchi, c'è Salvatore Triunfo, il 18enne che sarebbe stato alla guida dello scooter sul quale viaggiava Davide e bloccato dal carabiniere indagato per omicidio colposo; denunciato per favoreggiamento e già sentito nelle prime fasi dell'indagine, Triunfo, che ha precedenti di polizia, ai militari dell'Arma ha detto molti non ricordo, alle telecamere delle emittenti private ampie dichiarazioni. Ed anche Enzo Ambrosino, che ha ribadito all'avvocato di essere il terzo passeggero dello scooter, escludendo quindi la presenza a bordo del pregiudicato Arturo Equabile, latitante da febbraio scorso e individuato a bordo dello scooter Honda Sh secondo i carabinieri. Il ragazzo non è ancora stato sentito dai pm. Senza scendere nei particolari, Anselmo sottolinea che le dichiarazioni dei due e di un terzo testimone oculare smentirebbero la tesi dell'accidentalità del colpo. Nei video di cui ha consegnato copia ai giornalisti, c'è un militare dell'Arma mentre entra nella sala giochi. "Continuiamo a raccogliere elementi utili all'indagine - aggiunge - e chiediamo con forza che venga eseguita una Tac sul cadavere di Davide prima dell'autopsia", che si svolgerà domani e alla quale prenderà parte Vittorio Fineschi come perito di parte, mentre l'ingegnere Marco Zonaro è stato individuato come consulente per l'esame balistico". L'orario indicato dal video è quello delle 2:15 della mattina di venerdì scorso, quando i carabinieri di pattuglia che hanno inseguito lo scooter con tre persone a bordo si sono appena divisi, e un militare sta cercando di raggiungere Arturo Equabile, che fugge a piedi, mentre l'altro, il 32enne ora indagato per omicidio colposo, sta cercando di bloccare Salvatore Triunfo e Davide Bifolco. Le riprese delle videocamere della sala giochi, all'interno e all'esterno del locale, 8 telecamere in tutto, mostrano la zona intorno la struttura priva di gente, e una dozzina di avventori all'interno; entra il carabiniere, non quello indagato ma il militare che insegue la persona che ritiene Equabile; ha la pistola in mano, ma è puntata verso terra. Gli avventori, probabilmente seguendo le istruzioni del carabiniere, lasciano il gioco per alcuni momenti, ma appena il militare si allontana, perchè evidentemente non ha trovato Equabile tra di loro tornano davanti alle loro postazioni oppure escono in strada per vedere cosa sta accadendo. I legali del militare sostengono che il carabiniere sia inciampato, chiarendo così quale sarà la linea difensiva.

La tensione è ancora alta al Rione Traiano di Napoli. Alla manifestazione di solidarietà verso la famiglia di Davide Bifolco, il ragazzo ucciso nella notte di venerdì da un carabiniere, hanno partecipato rappresentanze di moltissimi quartieri della città. L’Espresso ha voluto raccogliere le testimonianze di chi adesso vuole giustizia: «Lo stato non ci tutela ecco perché stiamo meglio con la camorra», dice la zia di Davide. «Se non sono in grado di farla loro ci consegnassero il carabiniere, faremo giustizia con le nostre mani», urlano altri manifestanti con voce di rabbia. Alla manifestazione hanno partecipato gruppi organizzati provenienti da quartieri come Scampia, Secondigliano e Ponticelli. Secondo alcune indiscrezioni più di 200 molotov erano già pronte ad essere utilizzate contro le forze dell’ordine. Dopo un confronto con alcuni rappresentanti del Rione Traiano prevale la linea della manifestazione pacifica. «Non infanghiamo il nome di Davide, pace, pace, pace».

C’è una rabbia comprensibile e umana al rione Traiano ma l’assurda tragedia di Davide Bifolco, il 17enne ucciso “accidentalmente” da un carabiniere non deve assolutamente trasformarsi in una occasione per consentire a un pezzo degradato e abbandonato di Napoli di sottrarsi alle leggi dello Stato e consumare in ordine sparso vendette postume contro le forze dell’ordine, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Davide era disarmato e incensurato, quel militare dell’Arma poco più grande della vittima aveva la mano sul grilletto e il colpo in canna. Era agitato. Doveva badare nel cuore della notte a due giovani scappati a un posto di blocco mentre un suo collega rincorreva un terzo. Ha fatto fuoco. Quel proiettile oltre a spezzare la vita di Davide ha anche distrutto un’altra vita. La giustizia – non dimentichiamolo mai – farà il suo corso. Quel carabiniere sarà probabilmente condannato. Occorre però non dimenticare che la divisa indossata da quel militare è la stessa che indossava un giovanissimo napoletano: Salvo D’Acquisto che sacrificò la propria vita per salvare dei civili dalla furia nazista. Non bisogna mai perdere il rispetto per quella divisa che rappresenta il nostro Stato e il sacrificio di tante donne e uomini. Ripeto la giustizia farà il suo corso come giusto che sia. Nessuno, però, nell’ammuina può permettersi di usare strumentalmente questa tragedia per non obbedire alle leggi oppure per versare lacrime di coccodrillo. Mi riferisco anche ai rappresentanti istituzionali troppo assenti e distratti. “Carabinieri infami assassini”, “Carabinieri Acab”, “+ Raciti – Spaccarotella”, “Digos merde” sono le scritte offensive comparse sui muri delle strade del rione Traiano contro le forze dell’ordine. Proprio – in queste ore – si registrano frequenti danneggiamenti delle auto di servizio di polizia e carabinieri. Sono iniziative eversive che destano allarme. Ma non solo. Ieri nel corso di un presidio non sono mancati momenti di tensione contro le divise: i nemici di sempre. Ciò che fa davvero incazzare è il coro dei manifestanti: “La camorra ti protegge, lo Stato ti uccide” come hanno riportato le cronache. E’ un’aberrazione. Una bestemmia. Un tunnel sempre più buio. Fa male ma è una constatazione. Se a sparare è un carabiniere la lingua si scioglie. L’omertà? Spazzata via. Ci sono i testimoni, c’è chi denuncia, chi collabora, chi si fa intervistare e fornisce addirittura il proprio nome e cognome mettendoci la faccia. Se, invece, nelle stesse strade i killer lasciano sul selciato un cadavere crivellato di colpi stranamente nessuno vede niente, nessuno conosce nessuno, tutti abitanti di Marte. Anzi provate a chiedere a chi vive al rione Traiano chi sono le famiglie Puccinelli e Perrella. Restano tutti muti, in silenzio. Non è un grande scoop. Sono i clan storici che insieme a vari satelliti gestiscono, da sempre, una della più grande centrale di spaccio di droga di Napoli e forse d’Europa, altro che Scampia e Caivano. Il rione Traiano non c’entra nulla con Ferguson. Qui non si tratta di razzismo. Il rione Traiano purtroppo è simile a tanti altri quartieri dimenticati di Napoli dove lo Stato non conta niente perché è da sempre un assente ingiustificato. La morte di Davide era una morte annunciata. Da un rione così cosa si poteva aspettare? Ci sono pezzi di città dove la disperazione, l’insofferenza, il superare il confine, il mischiarsi e il confondersi è “normalità”. La città – insomma – al di là delle latitudini e longitudini ha come interiorizzato per sopravvivenza e furbizia i codici della malavita. Un marchio a fuoco nella coscienza collettiva. Si vive la propria vita ma in parallelo se ne vivono tante altre. Rubano l’auto o la moto? Da un lato presento la denuncia allo Stato dall’altra intavolo subito una trattativa con l’Antistato. Non c’è lavoro? Allora qualche dose la posso vendere oppure mi butto nel contrabbando o fiancheggio. Da queste parti si gioca su due, tre tavoli e alla fine le carte sono sempre truccate. Dal male nasce solo il male. Lo ribadisco: il “governo delle meraviglie” deve inserire in agenda l’emergenza Mezzogiorno. E’ un’urgenza, una priorità vera, una questione nazionale. Bene stamane ha detto il parroco don Lorenzo rivolto alla folla dei fedeli : “Non dev’essere né l’odio, né la vendetta a guidarvi ma il perdono”. E dopo una fiammata di odio della famiglia di Davide contro il carabiniere gli stessi genitori del 17enne hanno lanciato l’appello: “Chi vuole bene a Davide deve rispettarlo. Noi chiediamo soltanto giustizia”. 

In questa vicenda non mancano le note stonate di stampo razzista. "La morte, soprattutto se di un giovane, è sempre una tragedia. Ma fermarsi all'Alt dei Carabinieri è un obbligo". Lo scrive su Twitter il segretario della Lega nord Matteo Salvini in riferimento al tragico episodio che ha portato alla tragica morte del giovane Davide Bifolco a Napoli. Lo scooter su cui viaggiava il giovane, insieme ad altri due amici, non si è fermato all'alt dei carabinieri. E

ra un po' che non lo si sentiva, complici anche le vacanze estive, scrive “Libero Quotidiano”. Ma oggi, l'europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio ha fatto letteralmente irruzione nel dibattito sull'uccisione del 17enne Davide Bifolco a Napoli. Ai microfoni della "Zanzara", la trasmissione condotta da Giuseppe Cruciani su Ragio24, Borghezio è stato protagonista di un autentico delirio radiofonico: "Davide? Questi teppisti erano e teppisti rimangono anche se morto. Così si chiama uno che gira senza casco e non si ferma all’alt dei carabinieri. Non mi unisco al buonismo nazionale, le manifestazioni in quel rione sono una vergogna nazionale” ha detto, facendo riferimento ai cortei in corso in questi giorni nel quartiere Traiano, dove Davide è stato ammazzato. E ancora: “Davide è morto per colpa di Napoli. E sono indecorose quelle mamme urlanti del rione Traiano che pretendono di fare quel cazzo che vogliono. Questa è l’Italia di merda, come dice la figlia di uno dei marò. Per Napoli  ci vuole uno come il generale Mori ai tempi del fascismo. Ci vogliono dei rastrellamenti nei rioni di camorra”.

Polemica al fulmicotone durante il talk show di approfondimento “Matrix”, su Canale5, scrive Gisella Ruccia su “Il Fatto Quotidiano”. Casus belli: l’omicidio di Davide Bifolco, il diciassettenne napoletano ucciso da un carabiniere durante un inseguimento nel rione Traiano. La gazzarra ha il via quando Vittorio Feltri, difendendo con fervore le forze dell’ordine, afferma che la tragedia era inevitabile: “In nessun posto al mondo è possibile forzare un posto di blocco senza correre il rischio di beccarsi una pallottola”. E aggiunge che sullo scooter speronato c’era un latitante. Ribatte Enrico Fierro, firma de Il Fatto Quotidiano: “Quella sera non c’era nessun posto di blocco, basta leggersi le cronache dei giornali. Si pensava che su quel motorino ci fosse un latitante, cosa smentita dal latitante medesimo”. Il giornalista sintetizza la vicenda e osserva: “Se vogliamo alimentare l’odio sociale nei confronti delle periferie del nord e del sud, ma soprattutto del sud, allora chiudiamo la discussione e facciamo il processo al morto. Un ragazzo che ha avuto una vita difficilissima per colpa dello Stato, che non costruisce scuole e non le fa funzionare”. Non ci sta il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini che si professa ‘non razzista’ e contesta la tesi sulle responsabilità dello Stato. Fierro ricorda all’europarlamentare del Carroccio l’imbarazzante clip che lo immortala mentre canta, con una birra in mano, slogan razzisti contro i napoletani. “Lei taccia” – insorge Salvini – “portategli un’aspirina o una camomilla. Chiamate un carabiniere che gli dica ‘alt’. L’educazione la mamma non gliel’ha insegnata. Il signore è agitato e ha rotto le palle. Io mi alzo e me ne vado. Se devo sentire da un tizio, che va ad intervistare un latitante… lei si dovrebbe vergognare”. Il leghista quindi attacca l’intervista di Fierro ad Arturo Equabile, il latitante che i carabinieri cercavano nelle strade di viale Traiano. “Non ho interesse a parlare con il tizio in questione, con quel maleducato in studio” – continua Salvini, riferendosi al giornalista – “ma questo da dove l’avete tirato fuori?”. “Da dove è venuto lei quando cantava le canzoni razziste contro Napoli”, replica Fierro, il quale poi osserva: “I dati su Napoli elencati da Salvini sono anche veri. Ma il suo intervento e quello di Feltri mi danno la certezza del motivo per cui questo Paese è in crisi. Una volta i grandi direttori di giornale, che sono degli intellettuali, avrebbero fatto discorsi meno banali e da ‘bar dello Sport’”. Feltri si spazientisce e ribatte, scimmiottando la cadenza napoletana: “Le banalizzazioni le fai tu col tuo discorso piagnucoloso e con la tua teoria del pianto. Fai veramente pena. Mi rifiuto di parlare con una persona modesta e intellettualmente rasoterra come te”.

Davide Bifolco non era un eroe, forse non era neanche un “ragazzo d’oro” come lo dipingono la mamma e gli amici, scrive Marco Ventura su “Panorama”.  Davide era un diciassettenne del Rione Traiano, uno dei più degradati di Napoli, ed è morto ammazzato per l’errore di un carabiniere ventiduenne (ma è così importante precisare l’età dei protagonisti di questa brutta storia? Che cosa cambia avere 17 o 22 anni non a Bolzano ma a Napoli?). Il carabiniere dice di avere sparato senza volere e io gli credo, fino a prova contraria. In tre su uno scooter (per la cronaca: senza casco, senza patentino e senza assicurazione) avevano forzato l’alt dei militari che avevano creduto di riconoscere in uno dei tre un latitante sfuggito agli arresti domiciliari. Partita all’inseguimento, la gazzella dei carabinieri ha tagliato la strada allo scooter. I tre sono caduti, continuando a scappare. Nella concitazione della cattura è partito il colpo. 

Luigi Bobbio critica Davide Bifolco, polemica su Facebook. «L’identikit del bravo ragazzo una volta era ben diverso da quella che oggi qualche sprovveduto vorrebbe appiccicare al morto dell’altra notte». Luigi Bobbio, per anni pm anticamorra a Napoli, poi senatore e sindaco di Castellammare di Stabia (Napoli) e oggi giudice al Tribunale civile di Nocera Inferiore (Salerno) commenta così la morte del giovane di Traiano Davide Bifolco, scrive “Giornalettismo. Il giudice posta su Facebook un link ad un pezzo on line accompagnando il commento: Credo che Ciaccio abbia iniziato a cogliere la vera essenza della vicenda. Contro ogni ipocrisia e luogo comune. Il problema non è nella vicenda in sé ma piuttosto nella ignobile gazzarra che sta percorrendo le strade del rione Traiano. È quella gente, la sua insofferenza alle regole, la sua cultura del disordine la causa e l’origine di episodi come quello in questione! Una volta l’identikit del bravo ragazzo era ben diversa da quella che oggi qualche sprovveduto vorrebbe appiccicare al morto dell’altra notte! Sotto c’è chi non condivide l’opinione. «Sig. BOBBIO – commenta Daniele – è la prima volta che mi trovo contrario a qualcosa che pubblicate sul vostro profilo, è vero, probabilmente questo ragazzo non era un santo, ha sbagliato sicuramente, fermarsi all’ALT è un obbligo, ma non un obbligo che comporta la morte.. ENNESIMO OMICIDIO DI STATO!», e ancora «Volevo vedere se era vostro figlio, ma almeno un po’ di rispetto». Un ragazzo che muore così è una tragedia. Ma blocchi stradali e presidi, insulti e minacce ai carabinieri sono il modo peggiore per ricordarlo. Diciamo la verità. Il paragone di Roberto Saviano su Repubblica (“Adesso anche l’Italia ha la sua Ferguson”) è falso, facile e fuorviante. Ferguson è il nome del sobborgo di St. Louis, Missouri, dove un poliziotto bianco ha ucciso Michael, ragazzo nero. Ma che cosa c’entra Ferguson e il razzismo con Napoli e l’uccisione di Davide? Scrive Saviano che a Napoli, “città in guerra”, non esistono più “né guardie, né ladri. Né bene né male”. Eh no, questo non lo accetto. Esistono eccome guardie e ladri, così come esiste il bene e il male. Specie a Napoli. Specie nel rione Traiano, dove c’è un’evidente preponderanza del secondo. Flora, la mamma di Davide, auspica che il carabiniere che gli ha ucciso il figlio “marcisca in galera, non deve avere un momento di pace per tutta la vita”. E il fratello, Tommaso, più esplicito: “Quel carabiniere deve pagare. Lasciatelo a noi per dieci minuti”. Ecco, temo che l’odio e le minacce nascano da un retroterra che non è quello del dolore per la morte di un figlio e un fratello. È anche altro. La verità è che Davide Bifolco non è, non può essere, un modello. Il modo meno giusto di commemorarlo sarebbe quello di trasformarlo in paladino del rione contro la violenza dei carabinieri, perché proprio di quella cultura Davide è vittima: delle proprie radici, del proprio rione. Della città in cui lo Stato è assente se non per il presidio, che vorrei più capillare, delle forze dell’ordine. Trovo indecenti i resoconti di certi giornali che quasi avallano il linciaggio morale (non essendo riuscito quello fisico) del carabiniere che ha confessato di avere sparato per sbaglio. A Roma qualcuno ha scritto sui muri: “Sbirri assassini, pagherete anche Napoli”. A Napoli, altre scritte e ingiurie: “Carabinieri infami”. Io sospetto che il problema di Davide fosse un altro. “Mio figlio non andava a scuola e non aveva un lavoro”, dice la madre che accusa l’uccisore del figlio di non essersi fermato neppure di fronte alla faccia di un bambino, ora deve venire a uccidere anche me visto che ha avuto il coraggio di uccidere un bambino”. Non so che faccia avesse il carabiniere che ha sparato, e che anche quella sera rischiava la pelle tanto quanto Davide. Non so che faccia avesse Davide (le foto non bastano e a quanto pare neppure i suoi insegnanti, purtroppo per lui, lo sapevano). Ma non considero “d’oro” una madre che tollera che il figlio non vada a scuola e si accompagni a gente che forza i blocchi della polizia a notte fonda, o un rione nel quale invece di fare presidi contro la camorra si fanno contro i carabinieri e quando uno del rione viene ucciso per errore da un carabiniere i testimoni sgomitano per farsi ascoltare mentre quando c’è un morto ammazzato dalla camorra nessuno sa, nessuno parla, nessuno si fa avanti (e nessuno dice: “Lasciateli a noi per dieci minuti”). 

Davanti alla sede del comando provinciale dei carabinieri di Napoli, prima che fosse osservato un minuto di silenzio in ricordo di Davide Bifolco - il 17enne del Rione Traiano di Napoli ucciso la notte tra venerdì e sabato - una donna si è avvicinata al colonnello dei carabinieri Marco Minicucci per chiedergli di togliersi il cappello "in segno di rispetto". Il comandante provinciale ha subito accolto l'invito e poi ha osservato il minuto di silenzio. “Un minuto di silenzio per Davide se possibile togliendosi i cappelli!, urla una donna al megafono. “Noi lo facciamo per Davide, ma il cappello non è un’offesa”, dice pacato il comandante provinciale dell’Arma. “Per noi sì’”, la secca risposta della donna. “Allora me lo tolgo”, riprende conciliante il colonnello Minicucci. L'incontro tra gli abitanti del Rione e il carabiniere è durato una quindicina di minuti. "Vogliamo giustizia, verità - ha detto Gianni, cugino di Davide Bifolco - altrimenti lasciateci per un'ora chi ha sparato". "L'autorità giudiziaria sta facendo gli accertamenti, su questo bisogna stare tranquilli - ha risposto Minicucci - voi siete qui per avere giustizia e chiedere di lasciarvelo un'ora non è il modo giusto per farlo. Ad accertare la verità ci penseranno i magistrati - ha proseguito il colonnello - chiedi giustizia, ma non "Dateci un'ora il carabiniere", perché questo non è chiedere giustizia". "Siamo qui in pace per parlare", ha ribadito il colonnello che poi ha subito aggiunto: "Anche chi ha sparato non sta bene, non crediate che stia bene". "Stiamo qua, siamo vicini alla famiglia, soffriamo come loro - ha concluso Minicucci - non ci stiamo nascondendo, né abbiamo chiuso la caserma. Voi state chiedendo giustizia, è giusto farlo. Tutti siamo addolorati dalla perdita di un ragazzo di 17 anni".

Nessuno avrebbe voluto, molto probabilmente, trovarsi nei panni o per meglio dire, nell’uniforme del Comandante Provinciale dei Carabinieri di Napoli che sollecitato dalla folla urlante ha, alla fine, deciso di togliersi il cappello in segno di sommesso omaggio al giovane ucciso da un carabiniere nel corso di un tragico inseguimento, scrive L’Infiltrato speciale su “Panorama”. Nessuno dicevamo perché non deve essere stata una decisione facile quella dell’alto ufficiale di fronte alle possibili conseguenze del suo gesto, in tutti i sensi. Mesi fa alcuni agenti, a Torino, avevano fatto lo stesso di fronte ai “forconi” violenti ed alle loro istanze levandosi il casco. Tutto in segno di distensione, di pacificazione si dirà poi. Da un lato c’è chi applaudirà e, tra questi, a quanto pare gli esponenti di quella “buona società” radunatasi in nome di un figlio del quartiere ucciso dalla protervia di un rappresentante dello Stato. Dall’altro chi non ritiene, e noi tra questi, che lo Stato e chi lo rappresenta debba mai chinare il capo di fronte alle ragioni dell’arroganza, della violenza e della prepotenza. Perché in quella richiesta della folla non c’era nulla di simile a un senso di pietà che tutti pur dobbiamo provare di fronte alla morte di un ragazzo di 16 anni da chiunque e comunque causata. C’era, invece, la pretesa di una sorta di “sottomissione” dello Stato alle stesse logiche che sono alla base di tragedie come questa. La logica del “territorio” dove nulla dovrà mai muoversi senza che i reggenti di turno vogliano. La logica di una “solidarietà” meschina, da cui nascono 10, 100, 1000 voci pronte a testimoniare tutto e il contrario di tutto a richiesta del comune sentimento di contrapposizione allo Stato e alle sue leggi. La logica che suggerirà a tanti tutori dell’ordine di girarsi dall’altra parte quando si troveranno in situazioni analoghe. La logica dell’esclusione sociale e dell’inclusione nell’unico circuito che a Napoli e non solo, sembra offrire opportunità a un giovane qualunque, quello del crimine. Con il colonnello, in fondo, vorremmo essere solidali. Avrebbe sbagliato comunque, qualunque decisione avesse preso. Noi però, di fronte a quelle urla, il cappello non ci sentiamo di levarlo.

Emblema assoluto della sinistra radical-chic, stella della ben-pensiero "progressista", penna rossa avvelenatissima con i brutti e puzzoni conservatori e di destra, Michele Serra, vicedirettore de La Repubblica, scopre di pensarla come Libero. Il suo pensiero viaggia ne L'Amaca, la sua rubrica quotidiana, dove parla della "tragedia napoletana che ha visto morire un ragazzo per mano di un carabiniere", che è "una specie di memento della catastrofe sociale italiana". Dopo una lunga digressione, Serrra scrive: "L'illegalità implacabile che regola la vita di quei quartieri è l'evidente causa di questa e altre morti, fermarsi a un posto di blocco o mettere il casco o avere documenti in regola non fa parte elle premure messe a tutela degli altri e di se stessi". Insomma, "prima dei Carabinieri lo ha ucciso Napoli" (ma quest'ultimo virgolettato era il titolo di apertura di Libero di sabato 6 settembre 2014).

Cappello o berretto? Si chiede Luca Cirimbilla su “L’Ultima ribattuta” I giornali inciampano sull’esatto termine del copricapo militare protagonista dell’episodio avvenuto nel corso del sit-in per ricordare Davide Bifolco davanti alla caserma. Ha fatto molto discutere il corteo per ricordare il ragazzo ucciso a Napoli da un carabiniere. Nella narrazione della manifestazione ampio risalto è stato dato al gesto, rispettabile, del comandante Marco Minicucci che alla richiesta dei parenti e degli amici si è tolto il berretto. Ecco, ad eccezione dell’agenzia Ansa e di pochi altri, quasi tutte le testate hanno definito “cappello” il copricapo protagonista del sopracitato gesto. L’azione è stata apprezzata, anche se non era dovuta, dal momento che l’ufficiale era in uniforme. Il gesto, però, ha contribuito in maniera decisiva a tranquillizzare gli animi già molto scossi dei partecipanti al ricordo del ragazzo ucciso. Tra i titoli principali spiccano quello de Il Fatto Quotidiano, “Prove di pace a Napoli, il comandante si toglie il cappello”; quello del Corriere della Sera “In corteo per il ragazzo morto. Il colonnello si toglie il cappello”; la Repubblica scrive “Corteo per Davide e il carabiniere si toglie il cappello”, mentre Il Messaggero, con la didascalia illustra la foto in cui “Il comandante Minicucci si toglie il cappello”. Una disattenzione in cui sono incappate le più importanti testate nazionali che hanno affibbiato a un capo puramente militare come il berretto, un nome tipicamente civile, come cappello. L’Ansa non ci è cascata. Alla principale agenzia stampa italiana, dunque, tanto di… berretto.

Davide, funerali da stadio nella terra di nessuno. La cerimonia nella chiesa della Medaglia miracolosa a Rione Traiano. In migliaia lungo tutto il rione senza servizio d'ordine. Il Comune di Napoli ha inviato una corona di fiori , scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tifo funebre. Che vuole gridare, non riconosce simboli di Stato, e come insegne accetta solo i labari delle congreghe: meglio, se di una Chiesa che non interroga e non dà fastidio. Per Davide esplode un dolore che non scuote, non urta, non trasforma. Ma lascia tutto com'è: ai margini. Il lutto di Rione Traiano è come la sua vita: un mondo a parte. Con cui nessuno si sporca, tantomeno nelle ore della ferita aperta. Anche il sindaco Luigi de Magistris manda un assessore, Sandro Fucito, che si tiene comprensibilmente a distanza, e invia anche una solenne corona di fiori bianchi. Spunta tra i banchi solo un altro politico, la senatrice Anna Maria Carloni, moglie dell'ex governatore Bassolino. "Sono figlia di un carabiniere - dice - e la magistratura dirà la verità su quanto accaduto, ma io sono venuta solo per stare vicino a questi cittadini". Il resto è rumore di cori ritmati, di passi e di applausi, una partecipazione di massa lasciata sfogarsi per caseggiati strade e vialetti anche con blocchi improvvisati, con le foto e gli striscioni issati sotto il sole tra svenimenti e malori, con il solito corredo di lacrime palloncini e purezza a buon mercato. È tutto questo a riempire il vuoto di discorso pubblico e maturo, nella lunghissima mattinata dei funerali di Davide Bifolco, ucciso a diciassette anni - ormai otto giorni fa - a Napoli da un carabiniere durante un inseguimento, alla periferia occidentale di Napoli. Rotola una pesante pietra sulla sepoltura di un ragazzino senza futuro, ucciso mentre in compagnia di altri due sfuggiva all'inseguimento deo carabinieri. Ora inneggiano a lui migliaia di persone: è un cordoglio da "stadio", quasi un tifo, come intere generazioni di ragazzi cresciuti nelle periferie metropolitane (non solo geografiche, non solo di Napoli) sono abituati ad esprimere. Un'angoscia che resta inizialmente compressa, durante la composta celebrazione liturgica che si svolge dalle 10 nella chiesa dell'Immacolata della Medaglia Miracolosa. È la parrocchia presidiata fin dal mattino da centinaia di adolescenti, femmine e maschi, tutti vestiti uguali, con la t-shirt bianca con scritte rosse: "Resterai nei cuori di chi non dimentica" o "Davide vive". Di fronte a loro, un giovanissimo parroco, don Lorenzo, circondato da altri più anziani sacerdoti durante la liturgia, ricorda che Davide come Gesù "risorgerà" , sceglie di incarnare il dio della speranza e dell'accoglienza, si limita a  impartire conforto e benedizioni senza mai mettere il dito nella piaga del quartiere e parlare agli altri, troppi "Davide" che danzano sull'orlo di destini tristi, pur se non così tragici. Un prete che non sfiora le parole "educazione", "legalità", "rischio" o "camorra"; che non tocca quel groviglio di bene e male che tiene per il collo tanti di quei ragazzi che ora appaiono scossi da lacrime sincere e chiedono abbracci, ma prima e dopo tornano ad abbandonarsi alle parole "vendetta", "odio", anche "suicidio", come quello che auspicano per il militare indagato. Due testimonianze vengono lette dallo stesso altare, poco prima della benedizione finale. Nella prima, "un amico di famiglia", a nome dei genitori di Davide, Gianni e Flora, promette: "Abbiate fede, avremo giustizia", poi denuncia "tutti i tentativi di infangarci, di chiamarci camorristi. Ma ora Davide ci vuole dare un messaggio: pace, pace, pace". Nella seconda è la sorella, Annachiara, poco più che ventenne e già madre, a parlare. Dice : "Non so se quel carabiniere è degno di essere chiamato tale", racconta piangendo del legame profondo che teneva quel ragazzino accanto a sua madre "era la tua regina e ora me ne dovrò occupare io", annuncia "non mi arrenderò mai, voglio giustizia per te". Poi, quando la bara bianca esce dal sagrato, trova una folla enorme ad accoglierlo. Volano palloncini bianchi e azzurri, si levano le prime grida che risuoneranno per tutto il lungo corteo pedonale: un'ora e quaranta di percorso da via Marco Aurelio, via Coclite, viale Traiano, via Cinthia fino a ridosso dello stadio San Paolo, con tappe sotto vari domicilii - anche a casa di una parente, dove la bara addirittura sembra  "affacciarsi" dal balcone - e sotto i portoni di alcuni amici "che non possono uscire di casa". E ancora verso altri luoghi amati da Davide, attraverso incroci o stradoni che vengono chiuso o aperti al traffico da una scorta di scooter: unico servizio d'ordine pubblico ufficiale. Lungo tutto il perimetro, com'era noto, non si vede una gazzella dei carabinieri che sono "wanted" da queste parti da otto giorni, non c'è una volante, anche se l'intelligence della polizia è presente con funzionari e uomini in borghese sguinzagliati in mezzo alla folla. Ma non c'è un'auto della polizia municipale. Così come non c'è la politica dei territori. Non c'è la scuola come istituzione, se non nel capo chino di un preside, quello dell'Istituto "Fermi" che piange e non vuole parlare. Non c'è società civile. Sono ormai quasi le 13 quando il corteo si avvicina al cimitero, sempre a piedi. In molti - a cominciare dai negozi che hanno ricevuto l'invito ad abbassare la saracinesca - tirano un sospiro di sollievo. Ora che la folla si dirada, finalmente si vedono dei vigili urbani all'orizzonte. Ora che Davide è nella tomba, davvero sepolto sotto i soliti gesti del cordoglio da stadio, Rione Traiano e la città lontana possono riprendere i rispettivi destini.

Ragazzino ucciso, Don Patrciello: "Gli assetati di giustizia saranno schierati dalla parte della verità". "Gli “assetati di giustizia” saranno sempre schierati dalla parte del verità. Purtroppo accade che verità e menzogna, giusto e ingiusto, legale e illegale a volte hanno i confini incerti". Apre così su “Napoli Today”, Don Maurizio Patriciello, un articolo apparso su "Avvenire" in cui analizza la triste vicenda del giovane di 17 anni, Davide Bifolco, ucciso al Rione Traiano da un carabiniere. Aveva solo 17 anni, Davide, qualcuno in più colui che ha impugnato la pistola. Davide era minorenne, il difensore dello Stato poco più che maggiorenne. Due famiglie in questi giorni sono nell’ angoscia: quella del ragazzo morto e quella del giovane con la divisa. L’ opinione pubblica, come è naturale, è divisa. Davide, in piena notte, a bordo di un motorino senza casco e con tre persone a bordo non si è fermato allo stop che gli ha intimato il carabiniere. Perché? Hanno qualcosa da nascondere quei tre? E se si, che cosa? Uno dei tre, dicono i carabinieri, aveva il volto di un ricercato latitante da mesi. Occorre decidere in fretta: meglio lasciarli andare e rinunciare al proprio dovere, oppure rincorrerli e farli desistere dal loro piano? Le forze dell’ ordine optano per la seconda ipotesi. L’ esito sarà fatale. Davide muore. Il colpo, si dirà, è partito inavvertitamente. A Cardito, pochi giorni prima, un altro rapinatore era stato ucciso dalle forze dell’ ordine. Anche questa volta il colpo, si disse, era partito involontariamente. Il parroco di Caivano, noto ormai per le sue battaglie ambientali al fianco dei movimenti, racconta poi di un quartiere difficile (come ce ne sono altri), di una "micro-illegalità" diffusa e di una logica distorta che diventa quasi "normalità" soprattutto perché le autorità non intervengono mai a cambiare il corso delle cose.

Adesso, secondo Don Maurizio, è necessario che chi ci governa affronti una serie di problemi alle radici, affinché fatti del genere non si ripetano più.

Da queste situazioni angoscianti e complesse non ne verremo fuori se non aggredendo il problema alle radici. Occorre una volta per tutte chiedersi lucidamente, onestamente, cristianamente come fanno a sopravvivere migliaia di famiglie composte da disoccupati e a reddito zero. Se tanta gente non muore di fame, vuol dire che da qualche parte il pane arriva. Lo sanno tutti: Governo e Parlamento; Regione e Comuni. Allora? Allora non si possono dare risposte blande a problemi seri. A chi chiede insistentemente l’acqua non si può continuare a offrire aceto. In certe zone è sconsigliabile mandare una sola volante. Può essere terribilmente pericoloso. Davide è morto. Un suo quasi coetaneo lo ha ucciso. Sono certo che, quella notte, il suo ultimo pensiero era quello di ammazzare. Ma c’è ancora qualcosa su cui fermare l'attenzione. Un amico del povero Davide ha affermato: “La camorra protegge, lo Stato uccide”. Parole che fanno più male di un pugno in faccia.

Lo Stato, scrive ancora Patriciello, è sempre troppo lontano, poco attento e interessato.

Quando lo Stato è presente, attento e interessato, la camorra perde presa. Purtroppo – e da queste parti accade ancora molto spesso – quando lo Stato è un signore distinto ma lontano e senza volto, la camorra la fa da padrone». Davide è morto. Avrà 17 anni per sempre. Un giovane carabiniere lo ha ucciso. Li portiamo entrambi nel cuore.

Ragazzo ucciso a Napoli, allarme di don Aniello: “In piazza contro lo Stato, mai contro la Camorra”. Una città costretta a sopravvivere. E le opinioni si dividono, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Una città spaccata in due. Fisicamente. Per una protesta per il lavoro. Via Marina da una parte, via Chiatamone dall’altra. E poi transenne, Palazzo Reale avvolto da tubi innocenti. Crolli, buche, cornicioni a terra. E don Aniello Manganiello, prete di frontiera, che si scaglia contro la città: «Perché nessuno è sceso in piazza a danneggiare le macchine dei camorristi che ammazzano napoletani innocenti?». Napoli noir. Un senso di morte. Morte civile e vite spezzate. Paura forse? «Probabilmente - risponde don Aniello - non ci sono cittadini che collaborano per individuare i sicari di omicidi mirati ma alle tre di notte spuntano a rione Traiano diversi testimoni. Attenzione a non insabbiare le prove, a inquinare l’accertamento dei fatti. Napoli sta perdendo inesorabilmente la percezione della legalità». Napoli che protesta, che chiede giustizia e verità sulla morte di Davide. Che bella immagine ieri pomeriggio. Scende in piazza il comandante provinciale dei Carabinieri, Marco Minicucci, che, in divisa, si toglie il cappello esprimendo dolore e vicinanza per la morte del ragazzo ai giovani che sono arrivati in corteo a piazza Salvo D’Acquisto. Chissà che questo gesto serva a siglare un armistizio. E poi armistizio tra chi? «Un conto è pretendere dalle forze di polizia che hanno il monopolio della violenza legittima un assoluto autocontrollo, e dunque è giusto criticare lo Stato quando viene perso l’autocontrollo. Un altro è assumere come bersaglio lo Stato e le sue articolazioni. Sento uno smottamento, uno scivolamento verso un crinale eversivo». Il filosofo Roberto Esposito, coscienza critica di questa città alla deriva, non risparmia immagini forti, commentando quello che sta accadendo a rione Traiano e più in generale in città, dopo la morte del giovane Davide Bifolco: «Questa protesta che monta e sulla quale soffia un certo garantismo - insiste - rischia di essere strumentalizzata dai fiancheggiatori dei poteri criminali. La spirale che si è innestata è senza via d’uscita. Napoli non può più tollerare la contaminazione della violenza». C’è chi parla di «guerra» in atto, come Paolo Siani, il fratello del giornalista Giancarlo, ucciso dalla camorra nella metà degli anni ’80. «A Napoli ci sono almeno cento famiglie che piangono i loro cari vittime innocenti degli errori sanguinari della camorra». Una camorra che ha cambiato pelle, in questi anni. I boss in carcere, i pentiti e i morti ammazzati hanno impresso un formidabile turn over, uno svecchiamento generazionale, culturale. «Non parlerei di città in guerra - dice Filippo Beatrice, procuratore aggiunto del pool dell’antimafia che ha competenza su Napoli - ma quello che fa la differenza tra Napoli e le altre città è l’alto tasso di violenza. Sì, Napoli è una città violenta. Le famiglie esistono ancora. Le redini dei clan le hanno ormai saldamente in mano le ultime generazioni, i giovani ventenni violenti». In una sintesi felice, la cantante Pietra Montecorvino paragona Napoli a una «città eccessiva». Dichiara in premessa la sua indulgenza per Napoli, lo scrittore Raffaele La Capria: «Sono molto indulgente perché gli altri sono molto severi». Il suo è un atto d’amore per la sua città: «Napoli dovrebbe ricevere il Premio Nobel per la sopravvivenza. Si arrangia con grande intelligenza e umanità. È una città vivace, cordiale, amabile, gentile. Quello che è accaduto a rione Traiano è una reazione impropria che non sorprende. È l’antica legge che vuole lo Stato oppressore e il camorrista difensore. Le reazioni alla morte del ragazzo hanno spiegazioni lontane e complicate. Napoli è un po’ abbandonata a se stessa, alle proprie pulsioni. Città esclusa che si sente abbandonata. È sconfortante anche azzupparci il pane per aumentare la desolazione di Napoli». Sparatorie, agguati. La camorra di oggi ha venature di nuovo gangsterismo metropolitano, ben diverso dalle band metropolitane etniche americane. «Qui la cultura mafiosa è talmente radicata - dice il procuratore aggiunto Beatrice - che non è più sufficiente l’azione di contrasto. C’è bisogno di una formazione della città partendo dalle fondamenta, dalla scuola». Napoli è un po’ un serpente che si morde la coda. C’è sempre un sussulto delle coscienze. Buoni sentimenti, grande umanità, voglia di riscatto. Ma poi si torna al punto di partenza. Perché Napoli non si ribella alla violenza della camorra?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

Magistratura senza vergogna: "Sbagliato chiedere scusa oggi per il caso Tortora", scrive Gabriele Tebaldi su “Elzeviro”. A distanza di trent'anni dal caso di malagiustizia che Giorgio Bocca definì come "il più grande esempio di macelleria giudiziaria", i magistrati e giudici coinvolti continuano a darci un triste spettacolo. All'incirca una settimana fa infatti il pm Diego Marmo, il protagonista dell'accusa contro Enzo Tortora, ha rilasciato delle dichiarazioni grottesche a "Il Garantista" (un nome-invito per i magistrati?): "Adesso dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia Tortora per quello che ho fatto",  così si pente il pm e ancora aggiunge "Mi feci prendere dalla foga". Una foga testimoniata dall'arringa tragicamente famosa che inchioda l'innocente Tortora con parole infamanti quali "cinico mercante di morte", pronunciate con una tale veemenza da fargli scendere una "famelica" e ben visibile bava alla bocca. Diego Marmo, auto definitosi come "assassino morale di Tortora" non ha scontato la benché minima pena per quest'errore non degno di un paese civile. Divenuto Procuratore capo di Torre Annunziata, dopo essere andato in una tranquilla e serena pensione è stato addirittura nominato Assessore alla legalità a Pompei. In questi trent'anni di idilliaca carriera non una parola di scuse nei confronti della famiglia Tortora, non un passo indietro. E le scuse di ora sembrano così un modo tardivo per pulirsi egoisticamente la coscienza. Ancora più gravi però sono le dichiarazioni di Felice di Persia, uno dei due sostituti procuratori di Napoli che diede avvio all'"impresa" giudiziaria. Non un controllo bancario, non un pedinamento, nemmeno un'intercettazione telefonica. Tutto si basò su delle testimonianze di personaggi già screditati in passato e su un nome scritto su un'agenda (che il test grafico rivelerà come "Tortona" e non "Tortora"). Questo luminare della magistratura, che divenne inspiegabilmente uno "spettabile" membro del Csm, oggi si indigna per le parole di Marmo e dice "Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale", e ancora "Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa. A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana". Ci sembra inutile aggiungere qualcosa per commentare queste parole vergognose, pronunciate dal personaggio che ha la responsabilità diretta dell'avvio delle indagini su Tortora. Un uomo che è riuscito mettere da parte una coscienza più che sporca godendosi una gran carriera, anche lui senza una parola di scuse alla famiglia vittima di questo sopruso. Una pagina di indelebile vergogna per il mondo della magistratura, la cui responsabilità civile non è ancora regolata da legge. 

La lezione choc del giudice: una toga d'onore non si pente, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Errare, si sa, è umano. Ma perseverare, i latini insegnano, è diabolico. Perché un conto è sostenere la propria tesi. Altro però è negare l'evidenza di due sentenze, quelle che in Appello e in Cassazione hanno sancito che Enzo Tortora era innocente. Eppure Felice Di Persia, il pm che istruì con Lucio Di Pietro quel processo diventato a posteriori l'emblema della giustizia ingiusta in Italia, di questo non si cura. Anzi, con pervicace ostinazione, a trent'anni di distanza, difende (...) (...) la bontà (sic!) di quella tesi accusatoria poi franata. E non solo. L'ex pm, ormai in pensione dopo una luminosa carriera percorsa sino a Palazzo de' Marescialli, se la prende anche col pm d'udienza Diego Marmo, che con trent'anni di ritardo qualche giorno fa ha chiesto scusa alla famiglia per lo scempio della vita di Tortora. È la giustizia italiana, bellezza. La giustizia malata, oggi come allora, che può distruggere la vita di un innocente, mentre chi in toga l'ha distrutta fa carriera e non paga. Facile scusarsi adesso, come ha fatto Marmo ora che è nell'occhio del ciclone perché la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei ha scatenato, visti i suoi trascorsi, le ire della famiglia Tortora. Ma facile anche non scusarsi affatto, come fa Di Persia che in un'intervista al Velino non si muove di una virgola da quella che fu la sua posizione all'epoca, quando lui, membro del Csm, fu costretto a difendersi a Palazzo de' Marescialli perché gli avvocati dell'ormai defunto Tortora chiedevano un risarcimento da 100 miliardi. Del resto, risultati alla mano, perché scusarsi? Quell'inchiesta disciplinare finì, ça va sans dire, a tarallucci e vino, con il proscioglimento di tutti e tre i magistrati finiti nell'occhio del ciclone: lo stesso Di Persia; l'altro pm istruttore, Lucio Di Pietro; e il giudice istruttore Giorgio Fontana, che però indispettito lasciò la toga per diventare avvocato. E sicuramente, per il caso Tortora, né Di Persia né i suoi colleghi hanno subito alcuna conseguenza, meno che mai stop in carriera. Anzi. Lui, Di Persia, è salito su fino in cima diventando, nel 1986, membro dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm. L'altro pm che aveva istruito il processo di primo grado a Tortora, Lucio Di Pietro, è subentrato alla guida della Direzione nazionale antimafia nell'interregno tra la morte di Pier Luigi Vigna e l'arrivo di Pietro Grasso, e adesso è procuratore generale di Salerno. Per non parlare poi di Marmo, il pm che ha chiuso la carriera in toga da procuratore capo di Torre Annunziata e ora si è beccato anche il premio di consolazione, l'assessorato alla Legalità a Pompei. Il bilancio del caso Tortora, dal punto di vista delle toghe che in primo grado hanno ottenuto la condanna del presentatore, è più che positivo: nessun danno subìto, risarcimento zero ai familiari del defunto, e anzi un po' di querele vinte qua e là, contro giornalisti «rei» di avere raccontato quel processo monstre, come è accaduto nel 2011 a Lino Jannuzzi. Perché scusarsi, dunque? E infatti Di Persia, al contrario di Marmo, non si scusa affatto. Anzi, se la prende proprio con Marmo che sia pure a scoppio ritardato ha fatto mea culpa per quel «mercante di morte» attribuito a un innocente. «Non ho letto - dichiara Di Persia al Velino - quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale». E ancora: «Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa». Infine: «A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana». Dulcis in fundo, la sentenza: «Non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura». Errare è umano, perseverare è diabolico. Marmo almeno ha sentito il bisogno di scusarsi. Di Persia invece no. Per lui il tempo si è fermato al 1988, quando Il Mattino di Napoli pubblicò le 40 cartelle dattiloscritte di cui si componeva la memoria difensiva da lui inviata all'allora ministro di Giustizia, Giuliano Vassalli. «Ministro, io sono innocente», diceva allora. E lo stesso fa oggi. E in fondo, dal suo punto di vista, ha ragione. Perché sbagliata, davvero, è una giustizia che non paga gli errori che commette.

Caso Tortora trent'anni dopo, Di Persia: “Nessun errore giudiziario”. "Se Marmo è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale", scrive “Il Velino”. “Vuole sapere cosa penso del caso Tortora? Si legga Il Mattino di mercoledì 8 giugno 1988 quando fui costretto a difendermi in sede disciplinare e dissi Ministro anch’io sono innocente”. A primo impatto risponde così in esclusiva al VELINO Felice Di Persia il magistrato che con Lucio Di Pietro fu titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, il popolare conduttore televisivo. Un caso giudiziario che ancora scotta e fa discutere soprattutto alla luce delle dichiarazioni di questi giorni rilasciate al Garantista da colui che sostenne l’accusa in aula contro Tortora, Diego Marmo, oggi nominato tra le polemiche assessore alla Legalità del Comune di Pompei. Ha fatto le sue scusa per aver chiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Da anni di Pietro e Di Persia non parlano di quel capitolo della loro storia professionale. Di Persia, contattato dal VELINO ribadisce: “Ci vogliono ore per affrontare il caso Tortora”. Dopo lunghe insistenze Di Persia commenta però le recenti dichiarazioni di Marmo. “Non ho letto quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti (compagna di Tortora, ndr) a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale. Tra l’altro avrebbe dovuto chiedere scusa anche ai circa 130 imputati del cosiddetto troncone Tortora, assolti con il presentatore". "Di quei 130 liberati, a differenza di Tortora morto in condizioni così tragiche, un numero imponente venne successivamente ammazzato in conflitti a fuoco tra clan di camorra, altri addirittura si pentirono tutti offrendo la prova ulteriore della correttezza della nostra indagine istruttoria che portò alla condanna di ben 480 imputati. Tortora fu assolto - continua Di Persia - e rispetto il dispositivo di quella sentenza perché nella dialettica processuale non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Di Persia aggiunge: “Nel processo Tortora, Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. L’ex titolare dell’inchiesta non vuole dilungarsi e conclude: “A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto”.

Di Persia, un’occasione persa per tacere, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Anche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata al Velino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo. «Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Lucio Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico. È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti». Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

«Taci Di Persia, sei solo una soubrette», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. «Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi.

L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta. Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?

«Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio».

Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?

«Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo. Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione».

Che cosa intende di preciso?

«Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare. Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato. Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento. È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso. Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”. Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro. Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra. Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia».

Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?

«Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto».

Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?

«Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero. Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia. La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.»

STATO INFAME, GIUSTIZIA SPREGEVOLE. TORTORA E GLI ALTRI.

Quando si parla di pedissequa applicazione della Giustizia pensi che i colpevoli possano essere messi in galera e gli innocenti debbano essere lasciati liberi. A Napoli non è così.

Il padre del ragazzo rapinato: "Città allo sbando, Stato assente". Ciro Gentile: "Giacomo voleva soltanto farsi una pizza con gli amici e la fidanzata. Soccorso da un parcheggiatore abusivo", scrive Antonio Di Costanzo su “La Repubblica”.

"Se non ci fossero stati un parcheggiatore abusivo e un metronotte mio figlio rischiava di morire dissanguato in strada". Ciro Gentile è il papà di Giacomo 27 anni, il ragazzo di Marigliano gravemente ferito da un rapinatore che gli voleva portare via la moto. Ciro Gentile, dipendente dell'Eav, vuole parlare. Vuole denunciare quello che è accaduto "perché non è possibile che avvengano queste cose e tutti devono sapere che c'è un ragazzo che rischia di morire per essere uscito a mangiare una pizza con gli amici e la fidanzata".

Come sta suo figlio?

«Giacomo è forte, i valori si sono stabilizzati. Gli hanno asportato la milza, ora deve passare un po' di tempo. Il problema è il polmone traumatizzato. Deve riprendere a funzionare regolarmente. Il proiettile l'ha sfiorato. La pallottola è entrata nel fianco poi, per fortuna, ha deviato la traiettoria, altrimenti non avrei più un figlio».

Chi ha lanciato l'allarme?

"Io l'ho saputo dalla mamma della sua fidanzata. La ragazza si chiama Sara, è sotto choc, ha dormito in auto per non allontanarsi. Era in moto con Giacomo. L'aggressione è avvenuta proprio qui davanti all'ospedale, eppure dal Loreto Mare i lavoratori della sanità non sono potuti intervenire perché c'è una legge che lo vieta. Per fortuna un parcheggiatore abusivo e un metronotte hanno preso una barella dell'ospedale e sono andati a prelevare mio figlio».

Perché è stato ferito?

«Gli volevano rubare la moto. Quella moto che ha comprato appena 15 giorni fa. Con il suo stipendio. Io ero contrario, l'ho fermato per 27 anni, ma meno di due settimane fa è arrivato a casa con la moto. Come poteva immaginare che si sarebbe imbattuto in un vigliacco pronto a uccidere per quell'oggetto? Mio figlio ha avuto la forza di gridargli in faccia: "Bastardo, ma che hai fatto? Mi hai sparato?". Questa città è allo sbando. Una parte del popolo napoletano andrebbe "sciolto", cancellato. C'è una minoranza che infierisce senza pietà sulla maggioranza di persone per bene. Non dovrebbe esistere un essere che impugna una pistola e decide se prendersi la vita di una persona. Come si può andare avanti, così, in una città come questa?».

Cosa chiede alle istituzioni?

«Devono prendere subito il responsabile e deve essere fatta giustizia. Ma vera giustizia, non vorrei che poi i colpevoli di questo atto vengano liberati subito. Purtroppo i cittadini si sentono indifesi. Abbandonati dallo Stato. Noi invochiamo sicurezza, ma ormai in questo Paese si tagliano le risorse alle forze dell'ordine e la polizia non può neanche mettere la benzina alle volanti».

Napoli come può reagire a questa violenza?

«Non lo so, non ho molte speranze. Chiedo al sindaco Luigi de Magistris di venire qui in ospedale da noi. Lo ritengo una persona per bene e sensibile. Sono certo che non mi deluderà: questa cosa è avvenuta nella sua città e vorrei che ci fosse vicino. Perché sarebbe un gesto importante per tutti noi, per tutta la comunità del Nolano che si è stretta intorno a Giacomo. Voglio dire a de Magistris che questa violenza va debellata. Per carità, non lo accuso di nulla, ma, ripeto, lui è il sindaco di questa città e mio figlio è stato ferito qui, in questa metropoli maledetta. Abbiamo un Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nato qui, ma neanche questo è servito a migliorare la situazione. Ma deve arrivare un momento per dire basta a tutto ciò. Oppure che dobbiamo fare? Andarcene tutti via?».

A fronte di questa criminalità diffusa impunita ti ritrovi a parlare dei migliaia casi Tortora, di cui nessuno parla. E di casi Tortora in Italia ce ne sono a milioni.

Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».

Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.

Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?

«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»

Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.

«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»

Verrà pagato per questo incarico?

«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»

A che cosa si riferisce?

«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a  sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»

Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?

«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»

Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?

«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»

È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.

«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»

Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?

«Mi vuole fare il processo?»

No, voglio delle risposte.

«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io.  Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»

Si sente il capro espiatorio?

«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»

Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?

«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»

È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.

«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»

Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?

«Non l’ho detto.»

Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.

«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»

Che cosa?

«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»

Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?

«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»

Che cosa intende esattamente?

«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»

Perché chiese la condanna?

«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»

Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?

«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»

Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.

«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»

Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?

«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»

E forse ha paura di chiedere perdono.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»

Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.

Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".

“No Marmo, non ti perdono”. «Non posso perdonare Diego Marmo perché ha contribuito all’omicidio di Enzo Tortora. Il mio giudizio su di lui resta invariato. Non deve chiedere scusa soltanto alla famiglia ma a tutti gli italiani. Se mai volesse fare un autentico atto di contrizione che testimoni della sua onestà, si dimetta da assessore alla Legalità di Pompei». Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora che seguì il presentatore nel suo calvario giudiziario, e poi nella sua battaglia di giustizia tra i Radicali, ha il tono fiero e dolente di una donna che non si è ancora arresa alla perdita e all’ingiustizia. Ed è così che respinge le scuse ai familiari, che l’ex pm Diego Marmo ha voluto affidare alle colonne de Il Garantista. Lo fa con una intervista rilasciata a Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.

Le scuse di Marmo sono state un atto coraggioso, è la prima volta a memoria d’uomo per un pm, qui in Italia. Reputi il pentimento insincero?

«Voglio sperare che queste scuse attenuino il suo problema di coscienza. Ma rimane il fatto che non posso perdonarlo perché reputo questo pentimento tardivo e insufficiente. Non basta un gesto come questo a riabilitarlo. Quello che ha fatto non si cancella.»

Prova ancora molta rabbia nei suoi confronti.

«Non si tratta soltanto della mia rabbia ma di quella di un intero Paese. È anche agli italiani che Marmo deve chiedere scusa. Ha contribuito all’omicidio di Enzo Tortora, e per quanto mi riguarda dovrebbe ritirarsi a vita privata, invece che fare l’assessore alla Legalità: è un ossimoro.»

Trova sconveniente che gli sia stata offerta la nomina, o che l’ex pm l’abbia accettata?

«Vorrei chiedere al sindaco Uliano: nominerebbe mai assessore ai Lavori pubblici un ingegnere che ha costruito un ponte che è crollato il giorno dopo l’inaugurazione? Marmo ha calpestato il diritto con una protervia inaudita. E queste scuse, per certi versi mi lasciano perplessa.»

A che cosa si riferisce?

«Marmo non si limita a scusarsi, ma sembra puntare oggi il dito contro Di Persia e Di Pietro. Eppure si dimentica che fu lui stesso a definire l’istruttoria dei suoi colleghi di Napoli come “divina, incartata puntigliosamente, un lavoro perfetto e inattaccabile svolto in tempi brevi”. Troppo facile sfilarsi via così dopo trent’anni.»

Mette in dubbio anche la buona fede quindi?

«Delle due l’una: o l’istruttoria era ”divina” e per lui fu giocoforza chiedere la condanna di Tortora, oppure, come credo, ci fu un disegno preciso volto a inquisire un innocente. Le sue parole mi danno conferma di ciò che è sempre stato creduto da molti: la sentenza in primo grado era già scritta prima ancora di arrivare in dibattimento. E Marmo agì da feroce mattatore di una farsa vergognosa dal finale già scritto.»

Che cosa la ferì di più allora, della requisitoria del pm?

«Ce lo ricordiamo ancora tutti, Diego Marmo. In piedi, con le sue bretelle rosse, la sua spocchia quasi spagnolesca e la bava alla bocca. Si comportò da giustiziere della notte. Trattò Enzo come un nemico da abbattere, agendo da feroce mattatore di un processo farsa in cui la sentenza era già stata scritta.»

Ha ammesso che usò termini impropri e che si fece prendere dalla foga.

«Non lo giudicò serenamente come imputato ma lo crocifisse come uomo con parole false e vergognose dettate da un protagonismo ancora impunito, e per definizione impunibile. Lo accusò di essere un camorrista, un ”cinico mercante di morte” eletto con i voti della malavita.»

Su questa circostanza ha raccontato a Il Garantista che faceva riferimento a dati pubblicati sulla stampa.

«Rispondo a Diego Marmo che dimentica un particolare ben impresso nella mia memoria.»

Di che cosa parla?

«Quando l’ex pm definì Enzo un ”cinico mercante di morte”, l’avvocato Coppola protestò e gli chiese di moderare i termini. E Marmo, per tutta risposta tuonò contro il legale: ”Lei difende un imputato che è diventato deputato con i voti della camorra!”. A quel punto Enzo restò sbigottito e disse che era un’indecenza. E per tutta risposta il pm lo accusò di oltraggio alla Corte chiedendo l’autorizzazione a procedere alla Corte di Strasburgo. Che naturalmente rigettò la sua richiesta.»

Se non a perdonarlo, sarebbe disposta a incontrarlo?

«Sarei disposta a un confronto in ogni momento. Un confronto sì.»

In quel processo c’erano anche Di Persia e Di Pietro. Perché secondo lei è rimasto vivido soltanto il ricordo di Marmo?

«Diego Marmo fu l’inarrivabile protagonista di quella storia. Fu proprio lui a teorizzare che se cadeva la posizione di Enzo Tortora si screditava tutta l’istruttoria”. Non si poteva ”fottere” l’inchiesta, bisognava ”fottere” Tortora.»

Che cosa la fa arrabbiare di più di quella condanna di 30 anni fa?

«Mi fa arrabbiare che il maxiblitz contro la camorra, senza Tortora, sarebbe crollato miseramente. Mi fa arrabbiare che l’unica colpa di Enzo era quella di essere innocente. E mi fa arrabbiare che me lo hanno fatto morire.»

Enzo Tortora usato per coprire la trattativa fra Stato e Camorra, scrive Valter Vecellio su “Il Garantista”. Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a Il Garantista, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora «cinico mercante di morte» e «uomo della notte». Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto. Per via del mio lavoro di giornalista al TG2 mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?». Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta. Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il TG2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino… Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? «Nulla». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? «Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato». Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: «Che non sia un’illusione». Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa.

MAGISTRATURA INCONTROLLATA ED INCONTROLLABILE.

Noi, qui, non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena», scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. E noi infatti ci limitiamo a raccontare una storia che ha due antefatti. Il primo, come noto, è che Berlusconi la settimana scorsa ha pronunciato la frase di cui sopra, suscitando la piccata reazione del pm napoletano Vincenzo Piscitelli: «Questo non lo posso accettare», ha detto in aula. Il pm Piscitelli oltretutto è uno dei tre magistrati che esamineranno il verbale di Berlusconi per decidere se trasmetterlo al Tribunale di Sorveglianza di Milano, che a sua volta potrà decidere se revocare l’affidamento ai servizi sociali concesso al leader di Forza Italia. Il secondo antefatto è che il pm Vincenzo Piscitelli fu co-protagonista di una delle vicende più clamorose degli Anni novanta in materia di ingiustizia: il caso di Vito Gamberale, noto manager che nel 1993 era amministratore delegato della Sip (poi Telecom) e che il 27 ottobre di quell’anno fu arrestato per concussione suscitando grande scalpore: nacquero movimenti d’opinione per la sua liberazione (parteciparono semplici cittadini e parlamentari di tutto l’arco costituzionale) e sul possibile «arbitrio» ai danni del manager ebbe a esprimersi anche l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: il 2 febbraio 1994, rivolto al Ministro Guardasigilli Giovanni Conso, scrisse una missiva carica di perplessità sull’operato dei magistrati napoletani con in calce una battuta scritta a mano: «Purtroppo, più che di giustizia, si ha la sensazione dell’arbitrio!!». Con due punti esclamativi. Vito Gamberale, il 18 luglio 1996, fu assolto con formula piena e gli venne riconosciuto uno dei più alti risarcimenti della storia giudiziaria italiana. La vicenda meritò diversi libri e tra questi ci fu il romanzo d’esordio di Chiara Gamberale - Una vita sottile, poi divenuto fiction della Rai - che raccontò l’anoressia vissuta dalla ragazza durante la carcerazione del padre. Bene, domanda: stiamo cercando di ricollegare la vicenda di Gamberale (e di Piscitelli) alla magistratura «incontrollata e incontrollabile» citata da Berlusconi? No. Noi no. Però è vero che il Guardasigilli Giovanni Conso nel 1994 promosse un’azione disciplinare contro Piscitelli, pm che condusse le prime indagini su Gamberale e che secondo il ministro era reo di «essere venuto meno ai propri doveri» e di aver compiuto «una grave violazione processuale» utilizzando un’intercettazione telefonica autorizzata per altro procedimento. L’azione disciplinare fu duplice: la prima degli ispettori del ministero della Giustizia, la seconda del Consiglio superiore della magistratura. E come andò a finire? Noi ci limitiamo doverosamente a segnalarlo: prima il Csm (ottobre 1994) e poi le sezioni unite civili della Corte di Cassazione (settembre 1995) sgombrarono il campo dalle accuse e dichiararono corretto il comportamento tenuto da Piscitelli. Se questo confermi - o smentisca - le tesi di Berlusconi sull’irresponsabilità della magistratura è valutazione che il lettore può fare da solo. Non mancano altri spunti di valutazione. Vincenzo Piscitelli, pm che ha giudicato «inaccettabile» l’uscita di Berlusconi, per la vicenda Gamberale ha anche sporto diverse cause: e le pure vinte. Ci limitiamo a citarne due. Una sentenza è stata emessa l’8 novembre 2003 dal giudice civile Paola Maria Gandolfi (Prima sezione) che ha ritenuto diffamatorio un articolo firmato da Lino Jannuzzi sulla prima pagina del Giornale del 29 novembre 1999: «Gamberale, l’innocente che non può non essere colpevole». Piscitelli ha ottenuto 25mila euro più 13mila e 500 di spese legali; la sentenza è stata pubblicata da Repubblica, Corriere della sera e Giornale il 12 gennaio successivo. Piscitelli ha poi ottenuto altri 25mila euro dal Giornale il 17 gennaio 2002, a seguito di un articolo di Antonio Socci sempre sulla vicenda Gamberale: 25mila euro di risarcimento più novemila di spese legali più la pubblicazione della sentenza con caratteri doppi del normale. E queste non sono certo le uniche querele o cause civili intentate dai magistrati del caso Gamberale, che pure è stato giudicato innocente e meritevole di risarcimento. Anzi, speriamo che questo articolo non allunghi la lista. Del resto noi non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. Noi non l’abbiamo detto e non lo pensiamo. Nessuno lo pensa, in Italia.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. ”C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca“, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte“, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto“. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una ”struttura’‘ attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta ”necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.

Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi  “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr )». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr )». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr ) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».

Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilita' di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte.  Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".

L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto,  pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".

L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello".  E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".

Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".

«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».

PARLA ANTONIO IOVINE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

Parla Iovine, boss pentito: "Cultura della mazzette diffusa dallo Stato. I politici tutti uguali, senza differenza di colore". «So benissimo di quali delitti mi sono macchiato, ma posso spiegare un sistema in cui la camorra non è l'unica responsabile». Sono le prima dichiarazioni - in sintesi - di Antonio Iovine, nel corso del processo che si sta celebrando a Santa Maria Capua Vetere. Secondo il boss pentito, Antonio Bardellino venne realmente ammazzato in Brasile nel 1988. In uno dei verbali depositati, Mario Iovine parla anche del sistema degli appalti sulle grandi opere. Stando al pentito c'era un accordo tra politica, clan e impresa, alla luce delle dichiarazioni rese ai Pm Ardituro e Sirignano. Dice il boss pentito: «C'erano soldi per tutti, in un sistema che era completamente corrotto, in questo ambito si deve considerare anche la parte politica ed i sindaci dei comuni che avevano interesse a favorire essi stessi alcuni imprenditori in rapporto con il clan per aver vantaggi durante le campagne elettorali, in termini di voti e finanziamenti. Devo specificare che non aveva alcuna differenza il colore politico del sindaco». «Generalmente io ero del tutto indifferente rispetto a chi si candidava a sindaco nel senso che chiunque avesse vinto automaticamente sarebbe entrato a far parte di questo sistema da noi gestito». Lo ha detto il boss dei Casalesi Antonio Iovine al pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro in un interrogatorio del 17 maggio 2014. «Devo però anche dire - ha aggiunto - che altre persone del clan potevano avere passione per la politica e comunque un interesse per un candidato piuttosto che per un altro». Nel corso dei verbali depositati al tribunale di Santa Maria Capua Vetere il boss pentito Antonio Iovine, prova a spiegare quella che definisce una «mentalità casalese», determinata anche dalla mancanza dello Stato. Spiega il boss pentito per ricostruire «l'abbraccio tra Stato e camorra»: «Quando parlo di mentalità casalese dico che c'è stata inculcata fin da giovani. E' la regola del 5%, della raccomandazione, dei favoritismi, la cultura delle mazzette e delle bustarelle che, prima ancora che i camorristi, ha diffuso sul nostro territorio proprio lo Stato, assente nell'offrire opportunità alternative e legali alla nostra popolazione». «Anche la parte politica che dovrebbe rappresentare la parte buona dello Stato è stata quantomeno connivente con questo sistema se non complice - si legge ancora nel verbale. - Sicuramente era del tutto consapevole di come andavano le cose. Era noto a tutti che per esempio la ditta per le refezioni scolastiche era un'impresa di Antonio Iovine, eppure nessuno si è mai opposto a questo sistema. Per esempio, a San Cipriano una personalità come Lorenzo Diana, che pure ha svolto un'azione politica dura di contrasto alla criminalità organizzata facendo parte anche della commissione antimafia, ha permesso che noi continuassimo ad avere questi appalti anche quando erano sindaci Lorenzo Cristiano e Angelo Reccia della sua stessa parte politica. Il sistema è andato avanti fino al 2008 e allo stesso modo nulla ha avuto da ridire il sindaco Enrico Martinelli che era invece del centrodestra - conclude il pentito. - Alcuni milioni di euro erogati dal ministero dell'Agricoltura per il rimboschimento nell'alto Casertano finirono nelle casse della cosca - racconta Iovine. - Si trattava di lavori appaltati attraverso finanziamenti del Ministero dell'Agricoltura - dice - e Della Volpe Vincenzo ottenne di essere colui che avrebbe gestito per conto del clan i relativi appalti. Della Volpe utilizzò anche imprese del Napoletano, vivai che avevano le categorie giuste per accedere a questi finanziamenti. Se non sbaglio questi finanziamenti si riferiscono al periodo in cui il ministro dell'Agricoltura era Alemanno e ricordo il particolare che il ministro venne a San Cipriano per una manifestazione elettorale al cinema Faro su invito di mio nipote Giacomo Caterino, anche lui impegnato in politica tanto che è stato candidato alle elezioni comunali e provinciali ed è stato anche sindaco di San Cipriano.»

Antonio Iovine nato a San Cipriano di Aversa il 20 settembre del 1964, conosciuto come ’o ninno, soprannome attribuitogli sia per il suo volto da bravo ragazzo, sia perché il primo arresto arrivò quando era giovanissimo, è stato a capo dei clan dei Casalesi. Dopo la morte nel 1988 di Antonio Bardellino, un gruppo di malviventi mise in piedi una cupola molto potente insieme a quella dei corleonesi:  i boss Antonio Iovine, Francesco Bidognetti, Francesco (Sandokan) Schiavone e Michele Zagaria per decenni dettarono le regole in materia di appalti, di costruzioni abusive, ma anche di traffici illeciti di rifiuti (tra cui materiale radioattivo), un tema delicato che di recente è stato oggetto di numerose inchieste. Condannato all’ergastolo in via definitiva nel corso del processo Spartacus, Antonio Iovine è stato arrestato nell’autunno del 2010, grazie a un blitz della Mobile all’epoca guidata da Vittorio Pisani, all’interno di un covo in una abitazione di Casal di Principe. Dopo quindici anni di latitanza e quattro di carcere duro, il boss ha deciso di pentirsi e di iniziare a parlare con i pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. “Iovine è giovane, non ha ancora 50 anni - scrive Roberto Saviano – ed ha dei figli perfettamente inseriti nella vita della borghesia romana e campana. Recluso nel carcere duro, condannato all’ergastolo e con decine di inchieste sulla testa o ‘ninno ha capito che probabilmente per lui non restava altra strada che collaborare. Così, lui che a differenza di altri boss non aveva rinunciato a vivere pur di non essere arrestato, non aveva confinato la sua esistenza tra le pareti di un bunker che, per quanto attrezzato è sempre una buca, ha capito che dal carcere non sarebbe mai uscito. Antonio Iovine potrà chiarire e raccontare molto, moltissimo: potrà parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent’anni in Campania e non solo”. L’inizio della collaborazione sarebbe preceduta da un paio di segnali: il cambio degli avvocati e il trasferimento di tutti i parenti a rischio in località segrete: la moglie, Enrichetta Avallone, 45 anni, finita in carcere nel 2008 per una vicenda di estorsione e tornata in libertà nel luglio del 2011; e il figlio, Oreste, 25 anni, che invece è tuttora detenuto: fu fermato il 19 ottobre del 2013, insieme ad altre quattro persone vicine alla fazione del clan guidata dal padre, con l’accusa di associazione mafiosa, estorsione e traffico di droga.

La notizia che il boss dei Casalesi ha iniziato a collaborare con la giustizia è ancora fresca di stampa mentre Rosaria Capacchione ce ne offre una prima analisi, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano”. La Capacchione, giornalista de Il Mattino in aspettativa da quando è stata eletta senatore nel Pd, vive sotto scorta da sei anni per le minacce del clan. Ma già nel 1996 il pentito Dario De Simone raccontò ai magistrati di un progetto per ucciderla. Fu incaricato il cugino di Iovine, Michele, capozona di Casagiove. Doveva procurarsi la foto e fare gli appostamenti. Il piano fu accantonato. Michele Iovine è stato poi assassinato nel 2008, due mesi prima del proclama in aula dell’avvocato del boss, Michele Santonastaso, in seguito al quale furono decise le misure di protezione per la giornalista. O Ninno (il Bimbo) canta, i pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano lo ascoltano, l’indiscrezione finisce su Il Mattino e Repubblica, ed ora in molti tremano. A cominciare da quel grumo oscuro di intrecci tra politica, camorra e imprenditoria intorno al business dell’emergenza rifiuti in Campania. In atti all’inchiesta su Cipriano Chianese, l’imprenditore leader del traffico illecito della spazzatura in Campania, si trovano le dichiarazioni sulla nascita di Ecologia89, la prima società che tratta l’affare della monnezza: Antonio Iovine ne era di fatto uno dei tre proprietari. Fu l’atto di nascita dell’ecomafia come sistema. Un modus operandi creato da Iovine e Francesco Bidognetti, il ministro dei rifiuti della camorra, insieme alla parte bidognettiana del clan che aveva i contatti con Licio Gelli tramite Gaetano Cerci, un cugino di Bidognetti, che entrava e usciva da Villa Wanda. Iovine è nato a San Cipriano d’Aversa 50 anni fa. Insieme a Michele Zagaria si è trovato a reggere le sorti del clan dei Casalesi dopo gli arresti di Francesco Bidognetti e Francesco Schiavone, avvenuti tra il 1993 e il 1998. Legatissimo alla famiglia Schiavone, ha finito per acquisirne il controllo delle truppe. Condannato all’ergastolo al termine del processo Spartacus, O Ninno è stato catturato il 17 novembre 2010 dopo 14 anni di latitanza. Durante i quali ha curato affari e strategie della cosca, il traffico di droga, il racket, le infiltrazioni negli appalti pubblici, il modo di riciclare i proventi nel centronord. Trovando però il tempo di viaggiare, conoscere il mondo, fare un po’ di bella vita. Esistono sue foto a Parigi e in Costa Azzurra. “E’ l’unico dei grandi boss che non è stato catturato in un bunker sottoterra – ricorda la Capacchione – e quindi era l’unico che verosimilmente poteva pentirsi, non avendo legami viscerali col territorio”.

Affari e politica, i segreti di 'O Ninno che fanno tremare l'impero dei clan. Arrivato ai vertici giovanissimo, è stato il ministro dell'economia della camorra. La sua testimonianza potrebbe cambiare per sempre le conoscenze sulla grande criminalità, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Il boss Antonio Iovine ha deciso di pentirsi: non è uno qualunque. È un capo, è "il ministro dell'economia" della camorra. È stato condannato all'ergastolo nel processo Spartacus e a 21 anni e sei mesi nel processo Normandia. Ora vuole collaborare con la giustizia: è una notizia che rischia di cambiare per sempre la conoscenza delle verità su imprenditoria e criminalità organizzata non solo in Campania, non solo in Italia. Antonio Iovine detto 'o ninno per il suo viso di bambino ma soprattutto per aver raggiunto i vertici del clan da giovanissimo non è un quadro intermedio, un riciclatore delle famiglie, non un solo capo militare. È uno che sa tutto. E quindi ora tutto potrebbe cambiare. La terra trema per una grossa parte dell'imprenditoria, della politica, per interi comparti delle istituzioni. Le aziende grandi e piccole che hanno ricevuto, che sono nate e che hanno prosperato grazie ai flussi di danaro provenienti da Antonio Iovine, si sentono come in una stanza le cui pareti si stringono sempre più. Il talento di Iovine è sempre stato quello di saper far fruttare il flusso di danaro del narcotraffico, delle estorsioni, delle truffe oltre che sfruttare alla grande gli appalti statali. Tutto il segmento nero diventava investimento vivo, costruzione vera: imprese edili, ristoranti, import-export. Uno dei primi colpi di 'o ninno fu proprio l'acquisto della discoteca Gilda a Roma: una delle sue prime mosse personali nella capitale. Seguendo l'indicazione del padrino Bardellino, Roma era la vera fortezza da espugnare e Iovine l'ha sempre saputo. Ed è qui che si è legato ai tre settori cardine della capitale: cemento, intrattenimento, politica. Ha provato a scalare la squadra di calcio della Lazio, riciclando 21 milioni di euro provenienti dall'Ungheria, attraverso il suo parente Mario Iovine detto Rififì, a Roma ha investito nel settore del gioco d'azzardo legale. Esistono molti boss della mafia pentiti. Ma nella camorra è diverso: Iovine è stato ai vertici dei Casalesi per oltre dieci anni, non esistono precedenti simili, se non forse quello di Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L'altro pentito del clan dei Casalesi che ha cambiato la storia è stato Carmine Schiavone ma era un capo della vecchia generazione, marginalizzato nell'ultima fase, che decise di pentirsi proprio perché estromesso dai vertici, lui che era fondatore del gruppo. Iovine è l'organizzazione. Perché ha deciso di collaborare? A dicembre scorso 'o ninno ha revocato i suoi avvocati. La prima cosa che ho pensato è stata che si sarebbe pentito. L'ho scritto e, come speso accade fui deriso e preso per visionario. Invece è successo ma non riesco ancora a capire perché. Sicuramente gran parte del merito ce l'ha Antonello Ardituro il pm che da anni instancabilmente segue le vicende del Ninno. I grandi capi del clan dei Casalesi Francesco "Sandokan" Schiavone e Francesco Bidognetti si fanno il carcere, sepolti vivi, detengono il potere nel silenzio. Quando un capo è al 41bis sa che non può più realmente comandare ma il suo silenzio è l'assicurazione sui soldi della famiglia e soprattutto è un valore generazionale. Un boss non ragiona in anni ma in epoche. Il silenzio di un boss ha un valore inestimabile per i suoi nipoti. È la vera dote. Un investimento sul futuro. Ma 'o ninno è sempre stato un boss sui generis. A differenza di Zagaria definito "il monaco" per l'attenzione maniacale a una vita moderata e disciplinata, Iovine non ha fatto una latitanza da recluso. In 14 anni di latitanza, prima di essere arrestato a Casal di Principe il 17 novembre 2010 si è molto mosso soprattutto in Francia, in Emilia e in Toscana e a Roma, ha seguito il flusso del danaro e i reinvestimenti. Non ha ancora compiuto 50 anni (è nato il 20 settembre del '64), ha figli giovani, attivissimi su Facebook, e che sono a pieno titolo nella vita sociale della borghesia casertana e romana, una figlia amica di presentatrici tv, importanti imprenditori edili da sempre a stretto contatto con il suo gruppo familiare e suo figlio Oreste che recentemente è finito in galera per traffico di droga, perché dopo l'arresto del padre ha voluto prendere in mano l'organizzazione senza averne davvero le capacità. Enrichetta Avallone, sua moglie condannata a 8 anni, gestiva la sua rete di comunicazione e il Ninno dovrà spiegare come mai un uomo dei servizi segreti le faceva da autista. Non sappiamo ora cosa potrà accadere nell'agro aversano, come reagiranno i clan visto che i figli di Schiavone Sandokan sono legatissimi ai figli di Iovine. Potrebbe essere l'inizio di un cambiamento epocale. Iovine potrà chiarire molto, moltissimo: potrà parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent'anni. Potrebbe persino raccontare alcune verità che spiegheranno i retroscena alla caduta del governo di centro sinistra. Ricordate? Il governo di centrosinistra nel gennaio 2008 cadde perché Mastella ritirò la fiducia dopo che la moglie venne indagata per tentata concussione. Era successo che Nicola Ferraro (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) dirigente Udeur e consigliere regionale chiese a Luigi Annunziata direttore generale dell'Ospedale di Caserta di Caserta di mettere Carmine Iovine cugino del ninno come capo della direzione sanitaria dell'ospedale di Caserta. Solo O' ninno ora potrà spiegare. Potrebbe essere una vittoria dello Stato importantissima. La verità può essere vicina: imprenditoria, politica, giustizia, giornalismo tutto sta per essere attraversato dalle confessioni del Ninno. Costringere i capi dei clan a raccontare la verità perché ormai non hanno più scampo, perché ormai sanno di non poter più vincere: questa potrebbe essere una vittoria della democrazia. Una delle più belle.

LA CAMORRA MEGLIO DELLO STATO?

Frasi di Giuseppe Diana: La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale. Dalla lettera "Per amore del mio popolo".

Lettera a don Peppe Diana di Michele Docimo su “L’Unità”.

Caro Don Peppe, diverse volte ci siamo visti, anche se solo di sfuggita, e forse, in quelle rare volte, i nostri sguardi nemmeno si saranno incrociati. Ma tu mi hai insegnato tanto. Era il 1992, muovevo i miei primi passi in una redazione, ed avevo poco più di sedici anni. In quella stanza tra le cartelline ed il Macintosh, tra le foto e le cartucce estasiato leggevo i tuoi fax. Mi immergevo in quella lettura. La carta termica conteneva pagine scritte a macchina e parole vergate col fuoco. Da quelle parole traevo il senso di che cos’era quel lungo elenco di morti ammazzati ogni giorno. Capivo cosa significasse quel bollettino di guerra in tempi che credevo fossero di pace. Capivo che i tempi non erano affatto di pace. Grazie a te ho capito che «dove è assente lo Stato fiorisce la camorra, dove ci sono mancanza di regole, di diritto, s’affermano il non diritto e la sopraffazione». Sei stato tu ad aver insegnato a tutti noi che «bisogna risalire alle cause del problema camorra per avere la possibilità di sanarne la radice che è marcia». Mi appassionava anche il tuo modo di intendere la Chiesa: impegnata nel sociale, Chiesa dei poveri, degli ultimi, degli emarginati e la definizione che davi della Parola di Dio come una “spada a doppio taglio” che in nome del “lieto annuncio” doveva fendere la gente per metterla in crisi. Leggevo tutto questo ed ero orgoglioso di stare nello stesso posto e di poter scrivere, anche solo poche righe, sulle stesse pagine che pubblicavano i tuoi pensieri. Era il 1994, quel mensile che ci pubblicava entrambi stava per diventare settimanale ed io per il primo numero avevo preparato un’inchiesta sui giovani rincitrulliti a guardare la tv. Quell’inchiesta non fu mai pubblicata. Tutta l’impaginazione del nuovo settimanale saltò, cambiammo tutto, poiché nel frattempo era venuta quella maledetta mattina di marzo, quei colpi, quelle pallottole, le ventimila persone ed i lenzuoli bianchi. Da quel giorno, dal giorno del tuo funerale ho imparato a conoscerti meglio. A quelle esequie qualcuno disse: «Non sappiamo se essere addolorati per la morte di un uomo o essere contenti perché è rinato un popolo». Lo scossone era stato dato, alla radice marcia si stavano dando le prime cure. Da quel giorno in tanti hanno imparato a conoscerti meglio. Ne è passato di tempo, una vita, ma quanto è ancora attuale il tuo messaggio e quanti non ti hanno dimenticato e non ti dimenticheranno. E quanti altri, tantissimi, hanno imparato a conoscerti. Io non ti dimenticherò, nessuno ti dimenticherà… «intanto il sole è già alto nel cielo. È marzo, la primavera sta per arrivare».

Alla fine vincono ancora loro. Anche quando non fanno niente. L’Antistato ha la meglio sullo Stato, ancora una volta. E la ragione è tutta nelle parole di rabbia del fratello di Eddy De Falco (nella foto), il titolare 43enne di una pizzetteria di Casalnuovo, che l’ha fatta finita dopo che si è visto comminare un verbale di 2mila euro dall’Ispettorato del lavoro per la presenza irregolare della moglie nel panificio di Casalnuovo. “La camorra gli avrebbe dato più tempo per pagare prima di mandargli in fumo il locale. Il mio Stato, quello cui pago le tasse, gli ha dato solo 24 ore: devo pensare che la camorra tutela più dello Stato”.

"Mettetevi d'accordo con la camorra". Il disperato appello di un imprenditore taglieggiato dalla criminalità organizzata che dopo 13 anni non ha ancora ottenuto giustizia: «Sembra allucinante ma parlare con un boss è più facile e produttivo che parlare con lo Stato o i suoi rappresentanti», scrive Carmelo Caruso su “Panorama”. Ecco qui non solo vince, ma stravince la camorra. Luigi Leonardi, imprenditore taglieggiato da tredici anni, chiude per mafia, ma si ammala di Stato. E ci sono tutti gli ingredienti della malaburocrazia: la solita giustizia lenta, le associazioni antimafia usa e getta, le sentenze che non arrivano, i prefetti che non rispondono, i pm che ritardano. Leggete l’elenco: 13 anni dalla prima denuncia, 300 riconoscimenti, 8 udienze, 2 maxi processi, 23 le denunce complessive, 3200 le pagine della prima sentenza, 42 i camorristi che ha denunciato. «E pensare che per incendiarmi il negozio ci hanno impiegato 2 ore e mezza, io per dimostrare che è stato incendiato è da cinque anni che metto insieme carte». E non solo gli hanno incendiato un negozio nel 2009, costretto a chiuderne altri 4 sparsi nel napoletano che davano lavoro a 32 operai. Su dieci camorristi che ha segnalato, tre sono a piede libero e hanno perfino minacciato il fratello emigrato intanto in Germania. Sono riusciti a farlo ricredere: nel 1997 aveva messo sù una fabbrica di illuminazione, nel giro di pochi anni la camorra ha iniziato a estorcergli denaro, pian piano farlo arrendere, adesso rimpiangere: «Non denunciate, mettetevi d’accordo con loro». Leonardi che dalla camorra ha pure subìto un sequestro di persona e che avrebbe diritto a una sorveglianza speciale, così come prevede la legge che tutela le vittime di mafia, in tre anni non ha visto nessuno: «Dovrebbero venire ogni giorno i carabinieri a casa mia per sincerarsi delle mie condizioni, ma chi li ha visti in questi anni?». E la risposta è ancora più imbarazzante della negligenza: «Mi hanno detto che secondo le statistiche chi denuncia non corre pericolo. Ma cos’è un pericolo secondo loro?». In quattro anni gli hanno estorto fino a 250 mila euro al mese, obbligato ad assumere uomini vicini ai clan e quando è riuscito a pagare si sono presi pure l’auto e la moto al punto di intestarseli con tanto di passaggio di proprietà. Dunque non sarebbe bastato questo? E invece Leonardi racconta che già la prima udienza ritardava e che addirittura per colpa di un lontano parente che aveva problemi di narcotraffico era stato additato come la pedina «di non so quale manovra eversiva per insabbiare altre indagini. Ma l’incendio era chiaro con tanto di latta di benzina». Per iniziare il processo sono passati due anni e altro tempo si è perso perché il primo pm, secondo Leonardi «era impegnato a scrivere un libro». Per dimostrare la perdita e il valore della sua attività è stato un turbine di atti notarili: «Mi chiedevano le fatture che erano andate perse durante l’incendio». E un riconoscimento per il danno che ha subìto Leonardi lo ha avuto se non fosse un ulteriore onta a carico del sistema. Una perdita stimata nel valore di un milione e mezzo di euro circa, si è tramutata in un rimborso di soli 30 mila euro. Leonardi dice che quei soldi non li ha toccati e li tiene depositati in banca perché è come prenderlo in giro due volte. E preso in giro si sente anche dalle associazioni antimafia che prima si sono interessate al suo caso e poi impaludate: «Gli interessava il caso eclatante, due settimane per fare campagna pubblicitaria poi nulla, avvocati che litigavano con l’associazione e che abbandonavano tutto…». Su dieci camorristi che ha denunciato, tre di questi sono passati a minacciare il fratello. E come si può rimproverare questo fratello che ha deciso per l’omertà? «Ho conservato i suoi messaggi, lui non denuncia. E’ arrabbiato con me, come mia madre del resto. Avrei dovuto preferire il quieto vivere come fa il 90 per cento degli imprenditori napoletani. Si, hanno ragione loro, ho sbagliato». Leonardi vive affittando la casa in nero, e lavora in altrettanto colore: «Nessuno mi vuole affittare una casa, nessuno mi fa lavorare se non di nascosto». Lo ha lasciato la sua compagna: «La capisco». E attenzione i tre che hanno minacciato il fratello sono gli stessi che hanno fatto ritardare il processo. Qui il diritto tocca il punto più basso, la giustizia non si rialza: «C’è stato un ritardo di otto mesi perchè il postino non li trovava. Si trattava di un difetto di notifica nella raccomandata». E non riesce a parlare con nessuno: «Parlare con un boss è più facile di parlare con lo Stato o i suoi rappresentanti. Mediare con la camorra più produttivo. Sembra allucinante ma è la verità». Insomma, qui non c’è solo la provocazione di Leonardi ma una resa dell’imprenditoria, e anche un’ulteriore e la solita prova: il cavillo è il vero braccio armato della camorra.

Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Si chiede Luigi Orsino su “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Ecco i coraggiosi inviti in stile “armiamoci e partite“. Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti.

“DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori. Possiamo fare qualcosa? Certamente: DENUNCIARE PUBBLICAMENTE QUESTA STORIA AFFINCHE’ LE SOFFERENZE E I SACRIFICI DI QUESTA FAMIGLIA NON VADANO PERSE. FATE GIRARE, FATE SAPERE. CON UN MOUSE ABBIAMO DIMOSTRATO CHE SI PUO’ FARE TANTO, MA ABBIAMO ANCHE RISCONTRATO CHE SPESSO SI E’ PIGRI ANCHE DI FRONTE A UN GESTO COSI’ BANALE… SINO A CHE NON SIAMO NOI AD AVERE UN PROBLEMA, “OVVIAMENTE”.

Stato assente. Il collaboratore di giustizia Misso: “Mi pento di essermi pentito”, scrive “Articolo 3”. Il pentito di camorra Giuseppe Misso rivela in un'intervista che, tornasse indietro, non compirebbe la stessa scelta di collaborare con la giustizia, a causa di uno Stato inadempiente. Aveva deciso di pentirsi e collaborare con la giustizia. In cambio, come di consuetudine, gli erano stati promessi benefici. Che però Giuseppe Misso, "Peppe o'chiatt", assicura di non aver mai riscontrato in cinque anni da pentito. Lui, nipote dell'omonimo ex boss del Rione Sanità, intervistato da Nanopress.it, si è sfogato, spiegando come abbia affidato la propria vita alla Procura di Napoli", ma il suo "caso è stato gestito da altri che mi hanno anche torturato psicologicamente, portandomi due volte a tentare il suicidio". "Basti pensare", ha raccontato l'uomo,che fu referente nella metà degli anni Novanta del clan Misso alla Sanità,  "che sono stato tre anni in albergo io, mia moglie e due bambini con le valigie a terra, dovevamo prendere gli indumenti da terra". Per questi e altri motivi, "non collaborerei più", assicura. "Non perchè mi penta di aver fatto arrestare" affiliati alla camorra, "questa è una scelta che ho maturato". E non "parlo neanche della pena, perché è giusto che io la paghi, avendo fatto ammazzare tante persone, ed è giusto che la sconti fino all'ultimo giorno". Piuttosto, parla della legge, che " prevede dei benefici che non mi sono mai stati attuati".  "Il contratto da collaboratore di giustizia", ha concluso l'ex camorrista, "prevede una serie di cose, soprattutto la tutela, l'assistenza, cose che in sette anni non ho mai riscontrato".

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD. COSENTINO, TU VUO’ FA’ LL’AMERICANO, MA SI NATO IN ITALY.

Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.

3 aprile 2014. Tutta Italia ne Parla. Riarrestato Cosentino. Ma Cosentino è davvero amico dei Casalesi? Si chiede Giorgio Dell'Arti su “La Gazzetta dello Sport”. Ieri ci siamo occupati dei carabinieri del Ros (quelli che hanno arrestato i venetisti), oggi invece ci occupiamo dei carabinieri del Roni, cioè Reparto Operativo Nucleo Informativo. Questi bravi militi ieri hanno messo dentro Nicola Cosentino, pezzo grosso della politica campana, andandolo a prendere al civico 25 di via Tescione, a Caserta, dove abita con la moglie e i due figli fratelli gemelli, divenuti maggiorenni l’anno scorso. Assieme a Cosentino sono finiti in cella i suoi due fratelli, Giovanni e Antonio, poi Pasquale e Antonio Zagaria, fratelli del boss Michele. Diciamo che Antonio Zagaria è stato arrestato per rispetto della forma, in realtà era già dentro per altre faccende. Quelli del Roni hanno messo dentro in tutto sei persone, altre le hanno costrette ai domiciliari. L’operazione – praticamente una retata – è stata decisa dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Qui la camorra c’entra?. Fermo restando che sono tutti innocenti fino a sentenza definitiva, sulla questione che ha portato dentro Cosentino indagava la Dda, sigla che significa: Direzione Distrettuale Antimafia. Scrive Borrelli: «A Giovanni Cosentino è stata contestata anche una continua attività di riciclaggio a favore del clan, svolta attraverso il meccanismo del cambio degli assegni di provenienza illecita con denaro contante». Un legame che fa ipotizzare uno «stabile rapporto di cointeressenza di Nicola Cosentino e del fratello Giovanni con esponenti dei Casalesi, con alcuni dei quali sussistono rapporti di parentela e/o affinità… Da questo legame discendeva poi il divieto dei clan di operare estorsioni ai danni di impianti riconducibili ai Cosentino, a differenza di quanto avveniva per i concorrenti». Cosentino è una vecchia conoscenza di questa rubrica, purtroppo per lui. Sapevamo già che suo fratello ha sposato una sorella di Giuseppe Russo, ergastolo per omicidio e associazione mafiosa, boss dei Casalesi. Per il resto, dalla sua citazione del testo redatto dal dottor Borrelli non ho capito praticamente niente. La storia è questa. C’è un imprenditore campano, Luigi Gallo, che vuole costruire un distributore di benzina a Villa di Briano, 5700 abitanti in provincia di Caserta. Non è ancora passata la lenzuolata di Bersani che abolisce la distanza minima tra un distributore e l’altro, quindi se Gallo costruisce il suo distributore, nessun altro potrà metter su una pompa nel raggio di cinque chilometri. Cosentino vuol costruire una pompa da quelle parti? Il padre dei fratelli Cosentino commerciava in gas e altri carburanti. I figli hanno ereditato l’azienda, e hanno parecchie pompe. In effetti, contavano di costruire un’altra pompa non troppo lontana dal punto in cui s’è andato a ficcare questo Gallo. «Come mai il Gallo ha avuto i permessi per fare quello che sta facendo?», si chiedono i tre Cosentino. E Nicola, il più autorevole in famiglia, va allora dal viceprefetto di Napoli, Maria Elena Stasi, una signora bionda e sovrappeso, adesso accusata di estorsione e concussione, e la convince a convocare il sindaco di Villa di Briano, Raffaele Zippo. Quando arriva questo Zippo, Cosentino, senza lasciar parlare la dottoressa Stasi, gli dice: «Tu devi allontanare il tecnico comunale Nicola Magliulo, perché è indiziato di reati di concussione. Questo Magliulo mi sta dando fastidio. Se mi fai questo piacere ti sarò riconoscente, posso anche darti una mano politicamente, ti sto vicino, se ti serve qualcosa vieni qua». Il tecnico Magliulo è quello che ha dato i permessi a Gallo, e che non intende fare marcia indietro. Gallo viene a sapere e va a denunciarla. Ed ecco Cosentino in galera, ieri. È chiaro che questo è il film proiettato dagli accusatori. Che cosa dice Cosentino? Per ora non lo sappiamo. Ma lo possiamo immaginare, dato che l’uomo entra in qualche modo in tutte le principali inchieste napoletane, da quella sulla P3 a quella sul riciclaggio dei rifiuti tossici, e ha sempre proclamato la propria innocenza, ha sempre sostenuto di essere un perseguitato politico. Per due volte i magistrati si sono rivolti alla Camera, quando era deputato, per chiedere di arrestarlo o di poter usare le intercettazioni che lo riguardavamo. La Camera ha detto no. E quella storia della «impresentabilità»? Berlusconi, l’anno scorso, al momento di formare le liste, si rassegnò a tenerlo fuori, proprio perché «impresentabile». Gli faceva la guerra soprattutto la Carfagna. E Cosentino gridava, amaramente: «Sono il capo degli impresentabili…». In galera c’è già stato l’anno scorso, per qualche settimana. Quando tornò libero, dopo il passaggio ai domiciliari, andarono a chiedergli se intendeva finirla con la politica. Lui stava facendo jogging nel parco della Villa di Caserta e, ansimando (ha 55 anni), ha risposto di sì, che intendeva farla finita. Evidentemente non è servito.

Arresto di Cosentino, la diaspora di Forza Campania. Con il leader in carcere, i fedelissimi sono tentati di ricucire con B. Che fa pressing su Napoli. In vista delle Europee, scrive Enzo Ciaccio su “Lettera 43”. Sul sito dei cosentiniani, che con toni agiografici inneggia a Nick ‘o ‘mericano, c’è scritto: «Sei la nostra guida! Non siamo giuristi e tantomeno giudici, ma abbiamo una mente per pensare e due mani per scrivere: perciò, forza Nicola! Non ti molleremo mai!». Devozione da aficionados e buona volontà a parte, però, il clima politico intorno a Nicola Cosentino - 55 anni, ex sottosegretario all’economia ed ex coordinatore del Pdl in Campania arrestato il 3 aprile 2014 dai magistrati anti-mafia di Napoli insieme con due dei cinque fratelli, due presunti camorristi e funzionari pubblici e privati (leggi l'impero dei Cosentino) - è più sfuggente e magmatico di quel che appare. L’ala movimentista di Forza Campania, il gruppo fondato da Nicola Cosentino con alcuni parlamentari ex Pdl, sette consiglieri regionali e un manipolo di amministratori locali per «dar fastidio» al governatore Stefano Caldoro e contrattare con lui più consistenti porzioni di potere, ha reagito con toni battaglieri al nuovo arresto del leader di Casal di Principe. I più agguerriti, specialmente giovani e donne, hanno annunciato cortei e manifestazioni di protesta «contro la giustizia a orologeria e le manette facili» e si stanno scatenando su Facebook e sul quotidiano online Notix che ne interpreta fedelmente il pensiero. Su posizioni radicali è anche Maria Rosaria Carfagna, la cugina salernitana dell’ex ministro Mara e con lei in vivace polemica nel nome - assicura - «della politica che valorizza il territorio». Più silenziosi e un po’ infastiditi dal movimentismo esasperato degli aficionados online appaiono i dirigenti di Forza Campania, che - di fronte al leader ritornato in cella - preferiscono «esprimere solidarietà» ma nel contempo invocano prudenza. Non solo: prima di abbandonarsi alla mobilitazione (eventuale), alla rabbia e all’indignazione pro-Cosentino, i sette consiglieri campani di Forza Campania Paola Raia, Antonia Ruggiero, Luciana Scalzi, Pasquale Giacobbe, Carlo Aveta, Massimo Ianniciello e Sergio Nappi hanno preferito pigiare il piede sul freno e indire una riunione del gruppo da tenere non prima di lunedì 7 aprile nella sede di Caserta. Insomma, al tirar delle somme la reazione dei cosentiniani che contano non appare poi molto dissimile da quella - pacata, anzi tiepidina - espressa dal coordinatore regionale di Forza Italia Domenico De Siano che si è limitato a esprimere un po’ di ovvia solidarietà o poco più. A rendere ancora più esplicita la volontà dei cosentiniani di mantenere i toni bassi sul nuovo arresto dell’amato leader, ha contribuito anche il coordinatore Vincenzo D’Anna, senatore del gruppo Gal e vicinissimo a Nick. «Ingiustizia è fatta», ha dichiarato, «su una storia peraltro trita e ritrita».Poi, però, il senatore ha calcato a sorpresa la mano criticando senza mezze misure i presunti errori che il suo leader avrebbe di recente commesso. Quali errori? «Da quando è uscito dal carcere, ha scelto di mantenere un profilo basso», ha insistito D’Anna, «invece avrebbe dovuto denunciare la persecuzione giudiziaria ai suoi danni, avrebbe dovuto apparire di più in tivù e sui giornali per smentire, anche con libri e pubblicazioni, le innumerevoli falsità dette e scritte contro di lui». Infine, la chiosa più ardita: «Se Enzo Tortora non fosse diventato un’icona dei radicali sarebbe stato di sicuro condannato». Insomma, per lui Cosentino ha sbagliato. E il suo nuovo arresto sarebbe «frutto anche dei suoi errori». Un buon conoscitore di uomini e cose del centrodestra in Campania, ammette a Lettera43.it: «Prendo atto dei toni, per me insoliti e un po’ irrispettosi se riferiti a un vero e proprio mago delle elezioni come Cosentino che nel 2006 in pochi mesi, da coordinatore, ha portato il Pdl campano dall’11% a quote percentuali da record assoluto. Mi meravigliano, le critiche. Forse sotto questi toni si nasconde qualcosa d’altro». Già, qualcosa d’altro. Ma che cosa? È pensabile che, dopo il nuovo arresto del capo, si stia preparando una diaspora dei cosentiniani verso altri lidi politici? E se sì, quali? E a quale prezzo? Qualche segnale già c’è. Due giorni prima del nuovo arresto dell’ex coordinatore, in Consiglio regionale il gruppo di Forza Campania ha votato insieme con il Partito democratico le nomine nel Corecom, l’organismo che distribuisce i soldi alle emittenti locali, isolando e mettendo in minoranza il gruppo del governatore Caldoro. Un dispetto contingente? O l’annuncio di nuovi terremoti politici? Forse spaventato dal clima di frantumazioni a raffica, il responsabile campano di Forza Italia Domenico De Siano sta facendo pressing a Roma su Silvio Berlusconi affinché la scissione imposta da Cosentino con Forza Campania rientri al più presto, «ora più che mai», in vista dell’imminente voto europeo e di quello amministrativo. Anche Mara Carfagna insiste per il rientro dei transfughi: sa che Nicola è una macchina da voti. E che la sua assenza alle urne può risultare letale. C’è chi ricorda, a tal proposito, che a maggio si voterà anche a Casal di Principe, il paese di Cosentino e del clan dei Casalesi. Nella bagarre scatenata allo scopo di far rientrare all’ovile i dissidenti di Forza Campania è finito coinvolto anche Denis Verdini, accusato di sobillare di nascosto da Roma i rivoltosi. La prova? Tra i dirigenti di Forza Campania figura anche Luciana Scalzi, 46 anni, la sua segretaria, catapultata in Regione Campania nel 2010. Ma trame a parte, il quesito ora è: riusciranno i cosentiniani a resistere alle lusinghe di Forza Italia? E ancora: l’enorme monte-voti a disposizione di Nicola Cosentino resta usufruibile anche con il capo in galera? O si tratta di un patrimonio congelato e non utilizzabile da nessuno? Tra i militanti di Forza Campania, comunque, a prevalere è il disappunto: con Nicola in carcere, secondo molti, si azzera ogni credibilità e forza contrattuale. Consegnarsi mani e piedi a Forza Italia, insomma, sarebbe un’operazione a guadagno zero. O quasi. E infatti Stefano Caldoro ha fatto sapere a muso duro agli eventuali fuoriusciti pentiti: «Volete rientrare? Bene, io sono per le soluzioni unitarie. Però scordatevi rimpasti e poltrone: non sono disponibile ai ricatti». Il vero rischio, avverte chi vota centrodestra, è di creare uno stato di totale paralisi. E di diffuso disimpegno elettorale. Molti colonnelli porta-voti come il casertano Mario Landolfi o l’afragolese Vincenzo Nespoli o il beneventano Pasquale Viespoli, se abbandonati a corto di spazio e di promesse, potrebbero decidere di restare alla finestra. Idem per il consigliere regionale Pasquale Giacobbe, ex sindaco di Pozzuoli, o per il primo cittadino di Giugliano Giovanni Pianese o per il consigliere comunale Marco Mansueto e per molti altri. A sintetizzare la scelta che sta prevalendo fra i cosentiniani, cioè quella di barcamenarsi dando un colpo al cerchio ma anche uno alla botte, è Amedeo Laboccetta, deputato ex Msi ed ex Alleanza nazionale, che serafico avverte: «Nonostante il dispiacere per lo stop imposto al caro Nicola, dobbiamo impegnarci tutti per vincere sul centro-sinistra. Perciò, arresti o no, finiamola con le polemiche tra di noi: siamo in campagna elettorale, perbacco».

Camorra, Nicola Cosentino agli arresti. Il distributore e le pressioni dei Casalesi. L'ex sottosegretario di Forza Italia è stato arrestato insieme ai fratelli e ad esponenti del clan camorristico. Una storia che l'Espresso aveva raccontato due mesi fa e che riporta alla luce, ancora una volta, i legami tra il politico e la criminalità organizzata, scrive Claudio Pappaianni su “L’Espresso”. “Regista? Ma di che! Io non sono neanche regista di me stesso”, aveva detto alla presentazione del simbolo Forza Campania, la sua costola nel partito di Silvio Berlusconi appena quattro giorni fa. Quando all’alba i Carabinieri del Reparto Operativo di Caserta hanno bussato alla sua porta, Nicola Cosentino ha fatto solo una smorfia, un sorriso amaro. L’ex sottosegretario all’Economia è finito agli arresti insieme ai suoi fratelli, Giovanni e Antonio, titolari della Aversana Petroli srl, la cassaforte di famiglia con cento milioni di euro di fatturato all’anno. Le accuse vanno dalla estorsione alla concussione, dall’illecita concorrenza con violenza e minaccia, alla calunnia, al favoreggiamento personale e al riciclaggio. Tutti reati aggravati dal metodo mafioso. L’inchiesta, anticipata due mesi fa dall’Espresso , dopo la notifica di un avviso di garanzia all’ex Prefetto di Caserta e parlamentare del Pdl, Maria Elena Stasi. Un lavoro minuzioso di ufficiali e sottoufficiali dell’Arma, coordinati dai Pm della Dda di Napoli, partito nel 2011 dalle dichiarazioni del titolare di una pompa di benzina alle porte di Casal di Principe, Luigi Gallo. Il suo torto? Il suo distributore sorgeva a poca distanza da quello che stava per inaugurare la società dei fratelli Cosentino. Siamo prima della liberalizzazione del settore che dal 2008 ha eliminato i vincoli di distanza minima. Così, l'unica strada era bloccare l’impresa concorrente. Costi quel che costi. Secondo la Dda di Napoli, c’è chi si preoccupa di far pressione e, se è il caso, di minacciare i tecnici del Comune di Villa di Briano che si occupavano della licenza di Gallo, nonché lo stesso imprenditore. “Minacce reiterate nel tempo”, scrive oggi la Procura. “Anche dopo l’entrata in vigore della legge 133/2008, con cui il settore della distribuzione di carburanti era stato liberalizzato”. Tra i destinatari di provvedimenti ci sono anche Pasquale e Antonio Zagaria, fratelli del boss dei boss del clan dei Casalesi, Michele. E ci sono pure due dirigenti della Kuwait Petroleum Italia (Q8), insieme a funzionari dell’ufficio tecnico del Comune di Casal di Principe e un funzionario della Regione Campania. La rete dei Cosentinos arrivava ovunque. Nick ‘O Mericano entra in scena quando Raffaele Zippo, sindaco di Villa di Briano, Comune dove doveva sorgere il distributore della discordia, viene convocato in Prefettura da Sua Eccellenza Maria Elena Stasi. Quando il Sindaco entra nel Palazzo di Governo trova ad attenderlo pure Nicola Cosentino: gli viene intimato di rimuovere il tecnico comunale che aveva rilasciato le autorizzazioni per quel distributore. Per Gallo è l’inizio di un vero e proprio calvario. I fratelli Cosentino presentano pure due denunce nei suoi confronti. Gli vengono bloccati i lavori, fa ricorso al Tribunale Amministrativo e lo vince. A quel punto, intervengono funzionari della Kuwait Petroleum Italia (Q8) per dilatare ancora di più i tempi delle procedure per il suo accreditamento. Quanto basta ai Cosentinos per ottenere per primi il collaudo, indispensabile per far partire il tutto. L’impianto di Gallo non sarà mai ultimato. Quel che resta è ancora lì, lungo la strada statale 7bis, tutto annerito. La puzza di benzina si è sentita lì solo dopo l’incendio doloso che lo ha distrutto. «Quella zona, per quanto riguarda i distributori di carburante, è completamente controllata da 'O Mericano, ovvero il fratello dell’onorevole Cosentino, che, come ho detto in tanti verbali, gestisce l’Aversana Petroli», aveva raccontato ai magistrati il pentito Gaetano Vassallo il 5 dicembre 2008. Giovanni Cosentino, dopo la nostra inchiesta, si è affrettato a dichiarare di aver già querelato Vassallo per quelle parole. La versione dell’Aversana Petroli è, sostanzialmente, che l’azienda fosse vittima dello stesso Gallo. Sembra la storia di Davide e Golia riveduta in chiave moderna, sul set di Gomorra. Per la Procura, quello del distributore alle porte di Casal di Principe era parte di un “’sistema’ criminoso capace di incidere profondamente sul regolare andamento del mercato”. Insomma, non un episodio isolato. Questo, anche grazie ai buoni uffici che, secondo la Procura, i Cosentinos avevano con il clan dei Casalesi. Tanto buoni “che i vertici del clan avevano imposto agli affiliati il divieto di operare estorsioni ai danni degli impianti riconducibili ai Cosentino”. In cambio, scrive la Procura, Giovanni Cosentino riciclava assegni che il clan riceveva dalle vittime di estorsione.

L'ex sottosegretario Cosentino arrestato con due fratelli: "Faceva politica anche ai domiciliari". L'accusa è di estorsione e concorrenza sleale con metodo mafioso nel settore dei carburanti in provincia di Caserta. Coinvolto l'ex prefetto Stasi, scrive Dario del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Torna in carcere l'ex sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino. L'ex esponente di Forza Italia, oggi leader della formazione Forza Campania, è stato arrestato insieme ai fratelli Giovanni e Antonio. La Procura ipotizza i reati di estorsione e concorrenza sleale con metodo mafioso nel settore dei distributori di carburanti in provincia di Caserta. I Cosentino sono imprenditori nel settore. Le indagini sono coordinate dai pm Antonello Ardituro, Fabrizio Vanorio e Francesco Curcio con i carabinieri del Roni di Caserta. L'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Cosentino fa parte di un insieme di 13 misure cautelari nei confronti di altrettante persone, tra cui Pasquale e Antonio Zagaria, fratelli di Michele, boss del clan dei Casalesi. La famiglia Cosentino, proprietaria di vari distributori di carburante, avrebbe agito con pratiche commerciali lesive della concorrenza. Secondo la Procura i fratelli Cosentino, in concorso con dirigenti pubblici, funzionari della Regione e del Comune di Casal di Principe, e complicità di funzionari della Q8, hanno ottenuto rapidamente il rilascio di permessi e licenze per costruire impianti, anche quando c'erano cause ostative. Inoltre avrebbero costretto amministratori e funzionari pubblici locali a impedire o rallentare la costruzione di impianti di aziende concorrenti anche con atti amministrativi illegittimi. All'inchiesta dei magistrati napoletani ha contribuito il titolare di una stazione di servizio in corso di costruzione a Villa Briano, Luigi Gallo, il cui racconto ha trovato riscontri nelle indagini. Determinanti anche le dichiarazioni di collaboratori di giustizia e l'acquisizione di documentazione sull'apertura di due impianti di distribuzione di idrocarburi nel Comune di Casal di Principe e in quello di Villa di Briano. Cosentino è ricomparso appena pochi giorni fa ad una manifestazione pubblica in un albergo di Napoli, alla presentazione di Forza Campania, il gruppo di consiglieri regionali "dissidenti" di Forza Italia, che riconoscono la leadership di Cosentino. In numerose interviste ha sempre negato di volersi candidare alle elezioni Europee e di voler fare politica in prima persona. Ma questo non risulta dalle intercettazioni. Decisivo un passaggio dell'inchiesta sulle esigenze cautelari. Il giudice delle indagini preliminari, nel valutare la necessità dell'arresto, ha ritenuto significativo il fatto che - si legge nel comunicato della Procura - "Nicola Cosentino si sia attivamente interessato per l'andamento degli affari delle imprese di famiglia, circostanza finora sempre negata dallo stesso indagato e l'ulteriore circostanza costituita dalle risultanze dell'analisi di alcuni recenti tabulati telefonici che danno atto dei frequenti contatti del Cosentino, anche nel periodo in cui era agli arresti domiciliari, con importanti esponenti della politica e delle istituzioni locali e nazionali, comprovandosi in tal modo il persistente svolgimento, da parte dello stesso, di attività politica". Colpisce in particolare un episodio. Cosentino e l'ex prefetto di Caserta Maria Elena Stasi convocarono l'allora sindaco di Villa di Briano (Caserta) nell'ufficio della prefettura di Caserta intimandogli di provvedere alla rimozione dell'incarico del tecnico comunale che aveva rilasciato l'autorizzazione all'imprenditore Luigi Gallo, per la realizzazione della stazione di servizio che impediva di fatto ai fratelli Cosentino la realizzazione di un impianto analogo a Casal di Principe. Il tecnico comunale Nicola Magliulo era "colpevole" anche di "aver resistito alle incessanti pressioni esercitate dai Cosentino e da Luigi Letizia" per revocare l'autorizzazione, scrive il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. In caso di mancata rimozione dall'incarico di tecnico comunale, Cosentino e Stasi avrebbero minacciato "azioni ritorsive" da parte dello stesso Cosentino e della prefettura di Caserta contro l'amministrazione comunale di Villa di Briano. "Indebite e illecite pressioni" sarebbero state esercitate in modo coordinato da Antonio e Giovanni Cosentino e da Luigi Letizia sia sul sindaco che su tutti gli addetti dell'Utc di Villa di Briano. Cosentino, ex coordinatore regionale del Pdl e deputato uscente, fu arrestato una prima volta il 15 marzo del 2013. Scelse per costituirsi il carcere napoletano di Secondigliano. Entrò in cella "da persona innocente", disse. Alla fine di "un calvario di cui non riesco a comprendere la necessità". Condannò "la camorra" come la "forma più nefasta di illegalità". E chiese ai suoi cari "e al buon Dio la forza per superare questo baratro".  "Rinuncio a presenziare a tutte le udienze in riferimento al procedimento indicato". Questo il testo del documento che Cosentino consegnò all'autorità giudiziaria appena gli venne notificata l'ordinanza di custodia cautelare. A carico di Cosentino c'erano due ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse per i reati di concorso esterno in associazione camorristica, reimpiego di capitali e corruzione aggravati. Il processo è ancora in corso. Cosentino fu poi scarcerato il 26 luglio 2013 e andò agli arresti domiciliari a Venafro, in provincia di Caserta. Alla sua scarcerazione si erano opposti i pm della procura di Napoli e anche il tribunale del Riesame l'aveva negata, decisione però respinta dalla Cassazione con reinvio degli atti perchè le esigenze cautelari erano cessate dato che "le organizzazioni camoristico-mafiose non hanno interesse a servirsi di politici", scrissero i giudici della Suprema corte. L'uomo politico del Pdl, difeso da Stefano Montone e Agostino De Caro, aveva già ottenuto dal presidente Orazio Rossi, del collegio giudicante di Santa Maria Capua Vetere, il beneficio dei domiciliari. Poi arrivò la decisione dell'altro presidente di collegio giudicante, Giampaolo Gugliemo, e Cosentino poté lasciare l'istituto di pena di Napoli per andare a Venafro come disposto da Rossi. Dopo pochi mesi, l'8 novembre scorso, su decisione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Cosentino ottenne la scarcerazione definitiva, e poté lasciare anche gli arresti domiciliari a Venafro.

Cosentino, ecco i verbali: "Chi ha più forza, quello spara". Nicola, l'ex sottosegretario all'Economia torna in carcere con i suoi due fratelli. Le accuse dell'imprenditore taglieggiato dai Casalesi, scrive ancora Dario del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Formavano un impero. Per la prima volta il potere dei Cosentino, in un'inchiesta, è declinato al plurale. Stavolta non solo l'ex potente sottosegretario e deputato Pdl Nicola Cosentino, ma anche due dei suoi invisibili e potenti fratelli, Giovanni "la mente", e Antonio "l'esecutore", sono trascinati nella polvere. Rinchiusi in carcere. E tratteggiati con parole di fuoco, nell'ordinanza di custodia cautelare eseguita ieri, da parte dell'imprenditore Luigi Gallo, che sarà il loro accusatore. Cosentino sarà interrogato venerdì pomeriggio nel carcere di Poggioreale. "Si sono mangiati il sangue della gente, di tutti. Non hanno avuto pietà di nessuno. Né del figlio di Tizio, né del figlio di Caio... Giovanni? È lui 'o masto... Ma la cosa più eclatante l'ha fatto Nicola, il politico. Mandava a chiamare un altro: vedi come devi fare, vedi che questo e compagnia bella loco, sennò ti stronco la carriera... Speriamo che la magistratura mo' distrugge a lui". Lo stesso Gallo dirà: "Giovanni, è lui 'o masto (il mastro, ndr)". E il gip Iaselli chiosa: "Giovanni Cosentino è davvero la mente". In fondo, sono i signori delle "282 pompe di benzina". Un quadro allarmante emerge dalle 220 pagine della misura cautelare. È il racconto emblematico delle estorsioni e delle violente pressioni subite dall'imprenditore Luigi Gallo "reo" di aver ottenuto i permessi per l'apertura di un'area di servizio a poca distanza dal feudo della Aversana Petroli, cioè a un passo dagli intoccabili Cosentino. Ricatti e modalità punitive sarebbero stati esercitati a più riprese, secondo il quadro accusatorio, sia dai fratelli Cosentino, poi con i taglieggiamenti imposti dal clan dei Casalesi attraverso Pasquale e Antonio Zagaria, fratelli dell'allora superlatitante Michele. Il pentito racconta: così Gallo fu vessato dai Cosentino. Oltre al lungo atto di accusa di Gallo, i pm trovano nelle dichiarazioni di pentiti di camorra, numerosi riscontri alla circostanza del monopolio esercitato dai Cosentino e alle vessazioni subite da Gallo. Francesco Della Corte, ad esempio, collaboratore di giustizia, nel dicembre 2010, racconta ai pm: "Un mio amico, Gallo, aveva quasi finito i lavori per la realizzazione dell'area di servizio, sennonché successe che a non più di 200 metri dal luogo dove stava concludendo i lavori, proprio Nicola Cosentino aprì una sua pompa di benzina che insisteva su Casal di Principe. La beffa per il povero Gallo era che non solo il Cosentino gli faceva concorrenza, ma che addirittura gli avevano revocato la concessione. Il Gallo mi fece anche vedere la sua domanda di concessione e autorizzazione e quella del Cosentino da cui risultava che la domanda del Gallo era stata presentata molto tempo prima di quella del Cosentino. Ma le dirò ancora di più. Il Gallo mi confidò anche che tempo prima che il Cosentino iniziasse le attività per aprire la sua area di servizio a Casal di Principe lo aveva avvicinato (...). Cosentino gli disse che voleva diventare suo socio nell'attività di gestione della sua area di servizio. Il Gallo rifiutò l'offerta in quanto diceva che si trattava di una sua attività che voleva portare avanti da solo. Cosentino allora, così come mi raccontò il Gallo, disse al Gallo che visto che non lo aveva accontentato gliela avrebbe fatta pagare e gli disse esattamente quello che poi si è realizzato: e cioè che avrebbe aperto un distributore a 200 metri di distanza sul territorio di Casal di Principe facendogli chiudere il suo. Sempre a detta del Gallo lo stesso presentò anche un ricorso al Tar per ottenere giustizia dopo la revoca della sua concessione, ma ebbe torto. Diceva il Gallo che Cosentino era anche riuscito ad esercitare la sua influenza in questa causa. Eppure il Gallo non è uno sprovveduto. Aveva rapporti con Giuseppe Papa, capozona di Sparanise. Ma tale legame non gli servì a nulla". "Il sindaco fu chiamato da Cosentino in prefettura". L'episodio è costato all'ex prefetto ed ex deputato Pdl Elena Stasi l'avviso di garanzia per estorsione e concussione. La Stasi, all'epoca in cui era viceprefetto, in compagnia di Cosentino avrebbe convocato il sindaco di Villa Di Briano, ed avrebbe assistito in silenzio al colloquio minaccioso del politico che mirava a far rimuovere un dirigente di quel Comune "colpevole" di aver dato a Gallo legittime autorizzazioni per il suo impianto, che irritava i Cosentino. Racconta Gallo ai pm: "Conoscevo bene il sindaco di Villa di Briano, Raffaele Zippo. Quando mi venne notificato il provvedimento di sospensione, nel febbraio del 2002, mi recai personalmente da lui per chiedergli spiegazioni, dato che non intravedevo alcuna valida ragione per avere la sospensione (e avevo ragione, come dimostra la successiva sentenza del Tar). Ma, mortificato e imbarazzato, il sindaco Zippo mi disse che gli dispiaceva e testualmente aggiunse: "Che devo fare? Mi ha chiamato Nicola Cosentino invitandomi presso il suo studio di Casal di Principe. Lì, alla presenza del fratello Antonio, mi ha detto chiaro e tondo di trovare una soluzione per Luigi Gallo chiedendomi una sospensione dei lavori a seguito di una lettera che mi deve arrivare dalla Regione, che infatti mi è arrivata"". Successivamente, Zippo fu convocato anche in prefettura, alla presenza dell'allora viceprefetto Stasi e di Nicola Cosentino. Il quale gli disse: "Tu devi allontanare il tecnico comunale Nicola Magliulo, perché è indiziato di reati di concussione. Questo Magliulo mi sta dando fastidio. Se mi fai questo piacere ti sarò riconoscente, posso anche darti una mano politicamente, ti sto vicino, se ti serve qualcosa vieni qua". I carburanti? Impossibile entrarci senza i Cosentino. Racconta Pietro Amodio, pentito e imprenditore casertano, a proposito di un articolato progetto che misero in piedi, lui ed un socio, grazie a Cosentino: "Mi chiedete come mai avendo la disponibilità del terreno idoneo ed avendo anche, quanto meno sul comune di Casagiove, i necessari agganci tramite Nicola Altiero, non pensammo, io e il predetto, di costituire una società che si relazionasse direttamente con la Q8. Ebbene: all'epoca dei fatti era impensabile, in provincia di Caserta, rapportarsi direttamente con le grandi società petrolifere senza passare per i Cosentino che avevano in mano tutti i contatti con queste ultime oltre che con gli enti pubblici che dovevano rilasciare i permessi". "Zagaria ci disse di votare per Nicola e Paolo Romano". Un altro pentito, Antonio Zagaria, a proposito dei legami di Cosentino, dice: "Ricordo che quando ci furono elezioni nelle quali erano impegnati insieme Paolo Romano per la Regione e Nicola Cosentino, credo per la Camera, Carmine Zagaria ci disse di votare per loro. Ricordo che venivano distribuiti volantini riportanti entrambi i nomi e le foto dei due candidati per le due diverse competizioni". Va chiarito che Romano, attuale presidente del consiglio regionale, non risulta indagato.

Cosentino in carcere, ora dica ciò che sa. Le compagnie petrolifere non possono non avere rapporti con organizzazioni criminali. Il clan Zagaria continua a essere una delle aziende di servizi più efficienti d'Italia, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Kuwait-Casal di Principe. Se dovessi trovare una sintesi al potere politico di Cosentino utilizzerei soltanto queste due parole: Kuwait e Casal di Principe. Il nuovo arresto di Nicola Cosentino non riguarda solo la sua famiglia, la Campania, la politica meridionale e i fatti criminali locali. Il ruolo della Q8, una delle più importanti compagnie petrolifere al mondo che emerge dall'inchiesta è davvero determinante. Giovanni Cosentino (fratello di Nicola e anche lui arrestato) dice - secondo quanto emerge dall'inchiesta - a Gallo, imprenditore concorrente che vuole provare ad aprire un distributore: "La Q8 sono io". Nicola Cosentino non è un criminale qualsiasi. Ha genio economico e - se le accuse saranno confermate - ha compreso che non esiste profitto senza mediazione criminale e che il profitto va investito in politica e sul territorio. Chi è contro questa regola è contro l'economia stessa. Se osservi le leggi sei un perdente, se forzi le leggi sei un vincente. Il motto economico della criminalità casalese. Cosentino subisce il carcere con l'orgoglio di chi lo considera un rischio del mestiere, cosciente che la via della politica e del potere prevede anche prigione e nemici. Ricordate l'incidente ferroviario di Viareggio? Era il 29 giugno 2009 e morirono 32 persone per il deragliamento di un convoglio composto da quattordici carri cisterna, quattordici vagoni pieni di Gpl. Partivano dallo stabilimento di Trecate per raggiungere Gricignano d'Aversa, a pochi chilometri da Casal di Principe. Il carico apparteneva alla Aversana Petroli, azienda della famiglia Cosentino. Una fatalità che poco ha a che vedere con la famiglia Cosentino, se non fosse che quel treno viaggiava gratis. Fs Logistica, la società del gruppo Ferrovie dello Stato che aveva stipulato il contratto con Aversana Petroli, per il trasposto del Gpl dei Cosentino non riusciva a guadagnare un euro, anzi, più chiudeva appalti più finiva in perdita. In quegli anni Nicola Cosentino era sottosegretario all'Economia. Il suo potere era immenso. L'inchiesta della Dda di Napoli portata avanti da Antonello Ardituro, Francesco Curcio, Fabrizio Vanorio e del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli è un lavoro epocale perché descrive sin nel dettaglio come funziona uno degli affari più redditizi e misconosciuti delle organizzazioni criminali: la distribuzione e la gestione di carburanti, l'apertura di distributori di benzina. Nella letteratura delle inchieste antimafia questa segna uno spartiacque. Illumina i rapporti tra la distribuzione della benzina e la camorra. L'accusa alla famiglia Cosentino (Nicola, Antonio e Giovanni) è di aver ottenuto rapidamente il rilascio di permessi e licenze per costruire impianti, anche quando c'erano oggettive cause ostative. Quando altri imprenditori si proponevano nel territorio, i Cosentino costringevano amministratori e funzionari pubblici locali a impedire o rallentare la costruzione degli impianti concorrenti con atti amministrativi illegittimi. In questo caso specifico, l'alleanza Aversana Petroli con il ramo del clan di casalesi che faceva capo a Michele Zagaria, avrebbe permesso alla famiglia Cosentino di battere la concorrenza utilizzando non solo le capacità militari del clan e il loro dominio sul territorio, ma anche la loro capacità di muoversi nella burocrazia. Il clan Zagaria continua ad essere una delle aziende di servizi più efficienti d'Italia. Esemplare quanto accaduto a Luigi Gallo, imprenditore mandato sul lastrico dalle angherie dei Cosentino solo perché avrebbe voluto gestire un distributore di benzina troppo vicino a quello che i Cosentino avevano in progetto di aprire. La famiglia Cosentino - secondo le accuse dell'Antimafia - avrebbe costretto Gallo ad appaltare tutti i lavori necessari per l'apertura del distributore agli Zagaria. L'alleanza Zagaria-Cosentino che emerge dall'inchiesta è un'alleanza militare e petrolifera. In Italia, le grandi compagnie petrolifere non possono non avere rapporti con le organizzazioni criminali che presidiano il territorio. Le società che non hanno legami con le organizzazioni criminali iniziano con l'avere problemi burocratici per l'inizio delle attività. Sarà difficilissimo se non impossibile ottenere le autorizzazioni, i distributori sulle autostrade saranno messi sotto estorsione e saranno vittima di incidenti di ogni genere, le ispezioni saranno continue, i camion con i rifornimenti saranno sempre in ritardo. Le compagnie che invece avranno accettato di essere non solo protette dalle organizzazioni criminali ma loro partner economici, godranno di una serie infinita di servizi: tra cui uno speciale alert nel caso di controlli sulla qualità del prodotto in vendita. L'alleanza tra compagnie petrolifere e camorra è storica. Questa vicenda specifica però è del tutto particolare. Ci sono due dirigenti della Q8 per i quali la procura ha chiesto e ottenuto gli arresti domiciliari: Giovanni Adamiano e Bruno Sorrentino. La Q8, in questa inchiesta, se dovessero essere confermate le accuse dell'Antimafia di Napoli avrebbe un ruolo centrale e di grande colpevolezza. L'Antimafia di Napoli dimostra che avvenivano ripetuti incontri tra i dirigenti Q8 e Giovanni Cosentino su come organizzare sul territorio il business e decidere chi erano i concessionari. La Q8 in sostanza obbediva ai Cosentino. C'è un incontro fondamentale così raccontato dalla procura: "Di particolare rilievo è la riunione dell'agosto 2009, alla quale partecipa anche Cosentino Nicola dimostrando il suo potere quale politico in grado di fornire raccomandazioni e di presentare al ministro del Kuwait il Presidente della Q8". Cosentino promette un passaggio fondamentale per la carriera di un alto dirigente della Q8: incontrare il ministro del Kuwait. "Q eight", in inglese, rimanda immediatamente al Kuwait, il Paese degli azionisti della compagnia petrolifera. Tra Giovanni Cosentino e Alessandro Giolitti, presidente del consiglio d'amministrazione della Kuwait Petroleum Italia, i rapporti sono costanti. I Cosentino sono fedeli sodali dei dirigenti Q8 e aiutano il figlio di uno dei dirigenti, Giovanni Adamiano, ad essere assunto in Equitalia. La famiglia Cosentino assieme a Sorrentino e Adamiano impone le sue regole a chiunque voglia essere imprenditore nel settore della distribuzione carburanti. Il caso Gallo è un paradigma criminale. L'imprenditore deve accettare diverse assurde imposizioni che la Procura elenca chiaramente:

1. Consentire l'apertura di un distributore di GPL dei Cosentino nell'area di servizio del Gallo;

2. Accettare i Cosentino quali soci e/o compartecipanti all'attività di distribuzione degli altri carburanti sull'area di servizio che doveva aprirsi;

3. Estinguere una posizione debitoria del tutto estranea al rapporto fra Gallo e la Q8 a mezzo di finanziamenti che la Q8 avrebbe erogato al Gallo per il tramite dei Cosentino. In questo modo avrebbero iscritto ipoteca sull'area di servizio, ciò anche nella prospettiva di un prevedibile inadempimento del Gallo, che avrebbe determinato il definitivo passaggio dell'area di servizio in capo ai Cosentino;

4. Sottoporre al Gallo, nel corso di una delle riunioni per definire l'affare congiunto, un preventivo relativo al completamento dei lavori nell'area di servizio dello stesso, dolosamente sovrastimato (256.000 euro circa, in luogo dell'importo equo di circa 100.000 euro) e redatto da un'impresa fiduciaria dell'Aversana Petroli, all'evidente scopo di estorcere al Gallo indebitamente ulteriori somme.

La Q8 ora cosa dirà? Si considererà parte lesa? Farà come la Unicredit su cui Cosentino fece da mediatore - secondo le accuse - per far ottenere al camorrista Di Caterino i crediti per aprire un centro commerciale adibito al riciclaggio? Unicredit scaricò tutto sui responsabili infedeli e si ritenne parte lesa. Ma sul piano politico e culturale basta questo? Il governo dovrebbe pretendere che Q8 rimedi a quest'alleanza non descrivendola solo come errore di suoi funzionari corrotti ma portando investimenti sul territorio e in cultura. A meno di non dare ragione all'adagio dei narcos messicani, ossia che petrolio e cocaina sono imperi governabili solo con sangue, armi e corruzione. Non ci sarà imprenditore onesto che potrà sopravvivere finché continueremo a considerare queste vicende marginali, finché non si smetterà di credere che queste siano solo storie meridionali, finché su questo non ci sarà un dibattito vero, un dibattito centrale, finché non sarà chiaro che la battaglia democratica diventa una battaglia all'economia criminale. Non si creda, poi, che il carcere arresti il potere del crimine. Cosentino dal carcere e dagli arresti domiciliari, come risulta dalle intercettazioni, continuava a fare politica, continuava a dettare la sua linea. Il carcere distrugge soltanto i disperati, può diventare una accademia per i mafiosi. Il potere di Cosentino è un potere che si nutriva anche di uomini dello Stato, nell'inchiesta risulta che c'è stato anche un incontro con l'ex prefetto di Caserta Elena Stasi (la stessa che aveva concesso all'Aversana Petroli il certificato antimafia negatogli nel 1997 dalla Prefettura di Caserta, dal Tar e dal Consiglio di Stato. La stessa che fu poi eletta alla Camera tra le file del Pdl) che convoca dei concorrenti intimidendoli a dimostrazione di quali siano oggi i metodi che lo Stato e la politica utilizzano per favorire le organizzazioni criminali: vessazioni, minacce, sottrazione o promesse di favori. Il sistema Cosentino è molto più complesso di pistole e macchine che prendono fuoco. Nel mondo-Cosentino ci sono prefetti e giornalisti - l'espressione "macchina del fango" fu coniata proprio per descrivere il metodo che Cosentino utilizzava per disfarsi dei concorrenti politici. Il mondo-Cosentino si nutre di giornalisti che si accaniscono sui segmenti militari delle organizzazioni per legittimarsi come antimafia, si nutre di blog che devono insultare i nemici di questi poteri, si nutre di retroscena e retroscenisti che hanno svilito la loro professionalità. Questo mondo, per garantirsi l'esistenza, ha bisogno di utilizzare metodi in tutto simili a quelli mafiosi. Ora Nicola Cosentino vede crollare tutto. E a Cosentino ribadiamo il nostro consiglio: collabori con la giustizia. Collabori subito. Berlusconi lo ha emarginato, lo ha lasciato solo. Il sistema di informazione che gli era vicino, con le sue firme, sta scappando da lui in silenzio, facendo finta di nulla e trovando nuovi padroni da servire, fingendosi indipendente, come sempre, attraverso il vaccino della cattiveria e della superficialità che dispensa a tutti e su tutti. Collabori con la giustizia, Cosentino, racconti tutto quello che conosce. So come ragiona un uomo casalese: non distruggerà, parlando, la sua famiglia, ma può trovare un percorso di riscatto. Potrebbe raccontare non solo le responsabilità del centrodestra, ma anche le connivenze del bassolinismo e di tutto quel potere politico che ha permesso la sua crescita. Cosentino sa sopportare il carcere, ma adesso più che mai provi ad avere un comportamento che non risponda all'onore del silenzio. Dia una chance alla sua dignità, scelga di parlare.

Nicola Cosentino, l'Impero di famiglia. Gpl. Gas. Immobili. Gli affari dei fratelli di Nick 'o mericano, finito in manette. E le parentele in odore di Casalesi, scrive Enzo Ciaccio su “Lettera 43”. Nick lo ha sempre ripetuto: «La famiglia, innanzitutto». Rivendicando con questo slogan le sue radici paesane. La famiglia. Cioè il papà Silvio, dai modi spicci, figlio di emigranti di ritorno, detto ‘o ‘mericano perché nel Dopoguerra fu abilissimo nel barattare di tutto con i militari Usa. E la mamma, Olga, che di cognome faceva Schiavone come i genitori di Francesco detto Sandokan, il gran capo dei Casalesi. E poi i cinque fratelli e una sorella cresciuti faticando in azienda mentre solo a lui, Nicola, era stato riservato il lusso di studiare a Napoli fino a conseguire la laurea in Giurisprudenza. La famiglia, innanzitutto. Eppure, per gli inquirenti sono state proprio le frasi compromettenti pronunciate al telefono dai suoi fratelli a inguaiare di nuovo Nicola Cosentino, 55 anni, ex sottosegretario all’Economia ed ex coordinatore del Pdl. Appoggiato fortemente da Silvio Berlusconi, Nick era riuscito a far lievitare il partito in Campania - in tandem con Luigi Cesaro, detto Giggino ‘a purpetta - dall’11% del 2005 fino al 27% di un anno dopo. Anche se recentemente aveva dato del filo da torcere all'ex Cav, dando vita a una faida interna contro il governatore Stefano Caldoro e organizzando le sue truppe in Forza Campania, costola potente e agitata della creatura berlusconiana. Cosentino, da poche settimane uscito dal carcere nell’ambito di un’altra inchiesta, è stato ri-arrestato dalla direzione antimafia di Napoli (con altre 12 persone) con l’accusa di concorrenza illecita, estorsione, concussione. Nell’inchiesta è indagato anche l’ex prefetto di Caserta ed ex deputato Pdl Maria Elena Stasi che, secondo la procura, nel 2002, da viceprefetto, avrebbe cercato di far rimuovere dall'incarico un tecnico comunale considerato «scomodo». Gli inquirenti ritengono di aver dimostrato «la consolidata amicizia con i boss del clan dei Casalesi» della famiglia Cosentino, che avrebbe più volte chiesto il loro aiuto per minacciare le aziende concorrenti. Le aziende di famiglia, tra gas e gpl. È quasi un impero, quello messo su dai Cosentino: ne fanno parte la Aversana Petroli (fondata da papà Silvio nel 1975 e cresciuta fino a diventare azienda leader per gli impianti di distribuzione di gasolio), la Aversana Gas, la Ip Service più altre società minori. Tra le accuse, c’è anche quella di essersi assicurati permessi e licenze con metodi discutibili e «anche in presenza di cause ostative». Con Nick ‘o ‘mericano, sono finiti in carcere i fratelli Giovanni e Antonio, oltre a presunti camorristi, funzionari dell’ufficio tecnico di Casal di Principe, della Regione Campania, della Kuwait petroleum Italia. «La famiglia, innanzitutto», rivendica Nick. Ma è innegabile che sulle sue disavventure giudiziarie pesa il comportamento «ingombrante» dei fratelli, le cui nozze - come si legge nelle carte dell’inchiesta Il principe e la scheda ballerina - hanno provocato imbarazzo e problemi di immagine. Al cuore, si sa, non si comanda. Ma almeno due dei fratelli di Nicola e un cugino hanno intrecciato legami affettivi ritenuti «discutibili». È noto che il più grande dei fratelli di Nicola Cosentino, Giovanni, 60 anni, carattere ultra-riservato e amministratore della Aversana Petroli, secondo gli autori del libro Il Casalese, (di cui invano è stato chiesto il sequestro giudiziario) abbia sposato il 10 giugno del 1982 a Casapesenna Maria Diana, il cui padre Costantino - deceduto nel 2005 - faceva l’imprenditore edile, aveva per soprannome ‘o repezzato (il rattoppato ndr) e risultava fra gli arrestati per mafia nell’operazione denominata Spartacus 1. E poi c’è Mario, 49 anni, un altro dei fratelli Cosentino, che vive a Formia: sua moglie, Mirella Russo, calabrese di Capo Rizzuto, è sorella di Giuseppe Russo, detto ‘o padrino, che vive a Casal di Principe e fa parte - sempre secondo gli inquirenti - del clan dei Casalesi.
A rendere la vita più complicata all’ex sottosegretario Pdl ci si è messo pure un cugino di primo grado, Palmiro Cosentino, 39 anni, che - secondo le indagini - ha sposato Alfonsina Schiavone, figlia di Francesco detto Cicciariello ma anche ‘o becchino. Francesco è cugino dell’omonimo Francesco detto Sandokan, cioè il capo dei Casalesi. Le amicizie e i business su cui ha messo gli occhi la procura. Al cuore non si comanda. E neanche all’anagrafe, specie in un paese piccolo come Casal di Principe dove tutti si incrociano sul marciapiedi e spesso portano lo stesso cognome. Ma spesso i matrimoni sanciscono amicizie fra gruppi e bande. O alleanze. E ne suggellano la sacralità. Fu proprio per colpa delle parentele ritenute ad alto rischio che nel 1997 la prefettura di Caserta negò alla Aversana Petroli il certificato antimafia per un appalto pubblico. Il motivo? Rischio di infiltrazione mafiosa. Per i Cosentino fu un brutto colpo. L’impero dei distributori di carburante rischiava di crollare. Partirono ricorsi al Tar e al consiglio di Stato. Niente da fare. «I legami parentali», fu scritto, «rappresentano elementi univoci e non contestati da cui ragionevolmente può dedursi... il pericolo di infiltrazione mafiosa». Il gasolio gestito dai fratelli Mario, Giovanni e Antonio fatturava ormai 100 milioni di euro, gli accordi stipulati con Eni e Agip avevano consentito di acquisire altri 150 distributori. Insomma, lo stop costituiva un guaio serio. All’improvviso, però, la prefettura cambiò idea: il nuovo prefetto, Maria Elena Stasi, sollecitò il comitato per l’ordine e la sicurezza a riconsiderare il caso Cosentino. La Aversana Petroli ottenne il certificato antimafia. E Stasi fu eletta al parlamento con il Pdl. Solo coincidenze? Lo stabiliranno i magistrati, che hanno messo sotto indagine l’ex prefetto. Dicono che l’unico a conoscere i segreti di Nicola Cosentino sia don Peppe, il suo fedele autista. Che però non parla di nulla, neanche degli uffici del tribunale civile di santa Maria Capua Vetere, ubicati in un condominio ritenuto inadeguato. L’edificio sarebbe di proprietà della famiglia Cosentino. Gli inquirenti si chiedono anche fino a che punto sia stato un caso che Antonio Merola, il sindaco di Sparanise, fedelissimo di Nicola Cosentino, abbia scelto proprio un terreno acquistato e rivenduto da una società che faceva capo a Giovanni Cosentino per costruire la centrale elettrica da 800 megawatt entrata in funzione nel 2007 fra le proteste degli abitanti. Davvero non c’erano alternative? A proposito di gasolio, in pochi ricordano che era diretto a Gricignano, cioè ai distributori del fratelli Cosentino, il gpl caricato sul treno che il 29 giugno 2009 provocò 33 morti alla stazione di Viareggio per un deragliamento e la fuoriuscita di liquido da una cisterna. Fu una tragedia orrenda, dai tratti ancora nebulosi.

LA CELLA ZERO.

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

NAPOLI FALLITA.

Napoli 2014. Corte dei Conti: Napoli è fallita. Uno su due non paga né multe né tasse. Il primo cittadino Luigi De Magistris è pronto a chiedere al "governo dei sindaci" un decreto per salvare la città, come quello per Roma. Ma la magistratura contabile elenca le irregolarità di bilancio e le inefficienze delle amministrazioni. Prima fra tutte, l'incapacità di riscuotere le tasse. Per tributi locali e contravvenzioni, l'evasione è superiore al 50%. E nel conto economico si procede come se nulla fosse, scrive Giuliano Balestri e Raffaele Ricciardi su La Repubblica”. Il governo dei sindaci è ancora fermo ai nastri di partenza. Ma a Napoli c'è già una bomba a orologeria pronta a esplodere. Per la Corte dei Conti la città è fallita e il sindaco Luigi De Magistris, che lunedì scorso salutava l'ex collega Matteo Renzi come "la persona giusta per una svolta nei rapporti tra Napoli e il Governo", ha invocato un decreto SalvaNapoli: "Fa rabbia anche a chi come me pensa che non si debba andare a Roma con il cappello in mano, che prima Alemanno poi Marino ottengano una legge speciale per la capitale e invece per Napoli ci si giri dall'altra parte". Evasione senza paragoni. Sotto il Vesuvio, però, la situazione è più complicata anche perché le amministrazioni che si sono succedute negli anni non sono state esenti da gravi colpe. A puntare il dito è la magistrature contabile, che mette nero su bianco "l'incapacità" di riscossione delle imposte dovute: tra il 2009 e il 2011 i tributi propri (dalla Tarsu all'Ici/Imu) e le multe per infrazioni al codice della strada presentano un tasso d'evasione superiore al 50%. Un dato impressionante. Basti pensare che sul bilancio 2012 del Comune le stesse voci pesano per l'88% delle entrate correnti: 1,15 miliardi. Il problema nei conti della città - come per ogni ente locale - è proprio questo: tra gli attivi di bilancio vengono iscritti tutti gli accertamenti rilevati, a prescindere dal fatto che vengano effettivamente riscossi o no. Solo che il capoluogo campano ha un tasso d'evasione senza paragoni, al punto che per il solo 2012 potrebbero mancare altri 600 milioni. Peggio: il trend è destinato a peggiorare come certifica il diminuito "recupero dell'evasione tributaria rapportando i valori dei rendiconti al 2009 e 2010 con quelli del rendiconto 2011". Multe cancellate. D'altra parte è il Comune stesso a riconoscere le difficoltà di riscossione, con residui che continuano ad aumentare al punto che per quanto riguarda le multe stradali "le percentuali di cancellazioni presentano un andamento più consistente negli ultimi 5 anni" avvicinandosi al 30% per una - scrive la Corte dei Conti - "fisiologica e coerente" difficoltà di riscossione delle contravvenzioni. La maxi svalutazione. Insomma l'incapacità di incassare effettivamente i denari dovuti dai cittadini rappresenta un problema strutturale per la città, rendono impossibile il suo salvataggio in quanto il Comune non sarà mai in grado di autofinanziarsi. Una situazione che si protrae da decenni e che aveva portato l'amministrazione a compiere una mastodontica pulizia nei conti già nel 2011, quando una revisione straordinaria dei residui attivi e passivi ha generato un disavanzo di amministrazione di 850 milioni, poi rivisto l'anno dopo in sede di rendiconto a 783 milioni. Ma anche dopo questa maxi-svalutazione, a fine 2013 i magistrati volevano ulteriori delucidazioni visto che il rendiconto "continuava a presentare una rilevante massa dei residui attivi del titolo I e III (imposte quali Tarsu e Imu e multe, ndr)" per 1,24 miliardi. Precisazioni che dal Comune non sono arrivate, almeno per quanto riguarda "la capacità di riscossione" di quei crediti. Crediti a bilancio. Tra le varie voci, la Corte dei Conti annota "rilevanti perplessità" sul fatto che l'amministrazione continui a iscrivere a bilancio crediti risalenti a più di dieci anni fa, persino al 1993, per oltre 68 milioni. La sintesi è presto detta: la pulizia fatta nel bilancio, che per il Comune ha un carattere "straordinario", per i magistrati contabili è in realtà un’operazione che dovrà ripetersi in futuro, vista l'incapacità di riscuotere e la massa di crediti ancora dubbi che il Comune si porta dietro. Per i magistrati contabili "l’insussistenza potenziale" dei residui attivi – cioè i crediti relativi a imposte, trasferimenti o multe che in futuro rischiano di volatilizzarsi – è di 431 milioni di euro. Piano di riequilibrio. Nonostante tutto, per De Magistris è "inaccettabile essere sottoposti da un anno e mezzo a un piano di riequilibrio che ci ha costretti ad alzare le tasse, applicare norme che non condividevamo". La Corte però attacca anche quel piano, basato quasi esclusivamente sulle dismissioni immobiliari: dovrebbero generare 730 milioni di ricavi, che coprirebbero quasi tutto il disavanzo dichiarato. Ma anche qui le cose non funzionano: secondo i magistrati la mancanza di un dettagliato cronoprogramma "esprime l'assenza, da parte dell'Ente, di un effettivo controllo delle operazioni poste in essere e di quelle da intraprendere". D'altra parte le prime vendite sono andate peggio delle attese e, per di più, il valore del patrimonio è stimato sei volte sopra quello inventariale: ciò lascia ampi dubbi sul fatto che effettivamente si riesca a realizzare quanto atteso. Discorso simile per la riduzione delle spese del personale, oggi sopra il limite del 50% delle uscite disposto dalla legge: secondo la Corte le previsioni di costi del personale sono sottostimate dai 52 milioni del 2014 ai quasi 100 del 2022 e ciò "non può non destare forte preoccupazione". Un errore che "costituisce non solo un indice di una difficoltà dell'ente a rispettare le ottimistiche quanto irrealistiche previsioni, ma soprattutto incide in modo preoccupante sugli equilibri" del bilancio. Messe tutte in fila, queste incongruenze nella rendicontazione e nel progetto decennale di riequilbrio di bilancio portano il presidente Ciro Valentino a firmare la delibera che rifiuta il piano e apre la prima grana per il governo dei sindaci.

A fronte di questo poi troviamo il paradosso.

La moglie lo aiuta in negozio: pizzaiolo multato per 2mila euro si toglie la vita. Tragedia a Casalnuovo, in provincia di Napoli. L'uomo temeva che gli chiudessero il negozio, scrive “Libero Quotidiano”. Aveva paura che se non avesse pagato subito quella multa, gli avrebbero chiuso il negozio. Ma era anche arrabbiato, per quella multa da duemila euro. E così ieri mattina il 43enne Eduardo De Falco, che tutti conoscevano a Casalnuovo in provincia di Napoli come il pizzaiolo Eddy, è salito in  auto come tutte le mattine. ha messo in moto ma non è uscito dal box per andare al lavoro. E' rimasto lì, ad aspirare i gas di scarico, finchè ha perso i sensi. Quando lo hanno trovato, non c'era più nulla da fare. La "colpa" di Eddy, la ragione di quella multa da duemila euro ricevuta dagli ispettori del lavoro, era quella di aver fatto lavorare la moglie nella sua pizzeria "Speedy pizza" senza un regolare contratto d'assunzione. Lei gli dava una mano nelle ore di maggior afflusso a servire i clienti. Ma nell'Italia che tollera che migliaia e migliaia di lavoratori cinesi lavorino ammassati in capannoni fuorilegge finchè un incendio fa scoppiare il bubbone, questo non si può fare. E' contro la legge. E allora, multa. Eddy si è stancato di vivere in un paese così.

Eduardo De Falco si è ucciso a 43 anni dopo aver ricevuto una multa di duemila euro dall'Ispettorato del lavoro per la presenza della moglie, priva di regolare contratto, nella sua pizzeria ."Vergogna, lo avete assassinato", scrive “La Repubblica”. "Scrivetelo che l'hanno ucciso, scrivetelo. Lo hanno ucciso": attimi di tensione ai funerali di Eduardo De Falco, il commerciante di 43 anni che si è ucciso davanti alla sua abitazione a Pomigliano d'Arco (Napoli), dopo aver ricevuto una multa di duemila euro dall'Ispettorato del lavoro per la presenza della moglie, priva di regolare contratto, nella pizzeria a taglio di cui l'uomo era titolare a Casalnuovo. Il suocero di Eddy, al termine della cerimonia religiosa, ha urlato il proprio dolore alle telecamere presenti davanti la gremitissima chiesa Santissima Maria del suffragio, dove amici, parenti, e commercianti di Pomigliano e Casalnuovo, si sono riuniti attorno alla famiglia del 43enne, distrutta dal dolore per la perdita del proprio caro. L'uomo brandiva una busta con alcune centinaia di euro che, ha spiegato ai giornalisti, gli sono stati dati da una pensionata che ha voluto esternare così la propria solidarietà alla moglie ed ai tre figli del commerciante suicidatosi ieri con i gas di scarico della propria vettura. Rabbia, dolore, e tanta commozione per un gesto che nessuno dei presenti pare avesse presagito. "Era molto orgoglioso - raccontano i vicini di casa - una bravissima persona, rispettosa, discreta, che non voleva dare fastidio a nessuno. Lavorava da quando era bambino, e forse non voleva subire l'umiliazione di farsi prestare i soldi. Non aveva detto a nessuno delle sue difficoltà. Come faranno ora Lucia ed i bambini". Parole confermate da una zia di Eddy, che aveva racimolato i soldi necessari per pagare la multa entro le 24 ore necessarie per non ricevere altre sanzioni accessorie. "Li avevo pronti per darglieli - spiega tra le lacrime - e invece lui non c'è più". Rabbia nelle parole dei commercianti di Casalnuovo, che oggi hanno effettuato una serrata in segno di solidarietà e protesta e che, all'uscita della bara dalla chiesa, hanno inveito contro i politici presenti, tra i quali il sindaco di Casalnuovo, Antonio Peluso,  alcuni assessori e consiglieri anche di Pomigliano, presenti alla cerimonia funebre con i gonfaloni dei due comuni. "Ci stanno uccidendo tutti - hanno gridato i commercianti - i politici si fanno vedere solo quando qualcuno di noi si uccide, o alla notte bianca. Si vergognassero. Non dovevano venire qui. Siamo esasperati, ogni giorno qualcuno chiude, ci si ammazza, e nessuno fa nulla, dalle istituzioni locali a quelle nazionali. Vergogna". Chiusi nel silenzio, invece, la moglie del commerciante, Lucia, che non ha tolto gli occhi dalla bara, in evidente stato di choc, sostenuta da alcuni parenti, a poca distanza dalla figlia maggiore, di appena 14 anni, e dai suoceri ed i cognati. "E' arrivato il momento di dire basta, ora chiamiamoli omicidi"  -  dichiara il Presidente della Confartigianato di Napoli, Enrico Inferrera."Il gesto del signor De Falco è un grido di disperazione che non possiamo più ignorare l'ennesimo esempio di come la crisi in atto colpisce per lo più i titolari di piccole imprese che da sempre sono il motore dell'Italia". "Il caso del pizzaiolo suicida deve indurre ad accertare i fatti e il verbale ispettivo nonchè a dare un'interpretazione certa della regolazione relativa al coadiuvante familiare. Sarebbe infatti particolarmente assurda l'equiparazione tra la moglie che collabora saltuariamente nell'attività commerciale del marito e il lavoratore subordinato in nero anche ai soli fini della comunicazione obbligatoria agli enti previdenziali o al ministero del lavoro, con conseguenti pesanti sanzioni". Lo afferma il presidente della Commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd).

MAI DIRE ANTIMAFIA.

TOGHE ZOZZE, STRADE SPORCHE E TERRA DEI FUOCHI.

Toghe zozze e strade sporche. Trentatre inchieste. Ventidue pentiti. Centinaia di vittime e 2 mila siti inquinati. I protagonisti, dai pm a don Patriciello. Viaggio nell'avvelenamento del Casertano. Che preoccupa Napolitano e i vescovi, scrive Lettera 43 su “L’Infiltrato”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 3 gennaio 2014 ha scritto una lettera a don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che guida la lotta contro i rifiuti tossici delle popolazioni che abitano tra Napoli e Caserta (la cosiddetta Terra dei fuochi). Il capo dello Stato ha promesso attenzione e impegno per la bonifica delle aree avvelenate. Anche il cardinale di Napoli, Cresenzio Sepe, ha affrontato in una lettera - controfirmata dai vescovi delle diocesi interessate - la tragedia dei territori devastati dai roghi killer e dagli sversamenti fuorilegge. Sepe ha parlato di «dramma umanitario». Di fronte a tali eventi, ha aggiunto, «non è possibile restare immobili». Le autorevoli prese di posizione si aggiungono al coro di adesioni che da più parti si leva a favore della battaglia che le popolazioni che vivono tra Napoli e Caserta stanno conducendo contro i rifiuti tossici sepolti a pagamento dalla camorra (su richiesta di una parte dell’imprenditoria del Nord). Ma, al di là delle adesioni (e del rischio-unanimismo che qua e là affiora) che cosa è davvero la Terra dei fuochi? Come è iniziato, 25 anni fa, l’avvelenamento dei territori? Chi sono i protagonisti? Quante sono state le vittime? E soprattutto: che cosa bisogna fare, per uscirne davvero?

1. Nel 1991 la prima indagine. Era la notte del 4 febbraio 1991 quando un camionista italo-argentino, Mario Tamburrino, si presentò ai medici dell’ospedale di Pozzuoli. «Aiutatemi», sussurrò trafelato, «qualcosa mi è entrato negli occhi: non vedo quasi più». Negli occhi, erano penetrate alcune gocce della sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti (571, pieni di rifiuti tossici, caricati sul camion a Cuneo e diretti a sant’Anastasia, a nord di Napoli) che Tamburrino avrebbe dovuto abbandonare sul terreno affinché fossero sepolti in loco dai guaglioni locali. All'indagine giudiziaria che ne scaturì, i magistrati e l’opinione pubblica vennero per la prima volta a conoscenza del vocabolo Ecomafia e del colossale business che già dalla metà degli Anni 80 era in atto tra la camorra, l’imprenditoria del Nord e la classe politica napoletana e campana. Del camionista Tamburrino si è persa ogni traccia.

2. Casertano, terra di roghi. Il primo a definire Terra dei fuochi l’area interessata al fenomeno dei rifiuti tossici sepolti illegalmente fu Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, che nel 2003 usò tale etichetta in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che ogni pomeriggio (tra le ore 18 e le 23) ignoti appiccavano (e ancora appiccano: tra il 2012 e l’agosto 2013 i vigili del fuoco ne hanno contati 6.034) lungo l’Asse mediano, che collega Napoli ai paesi del Casertano. In realtà, la Terra dei fuochi per antonomasia, in Campania, è sempre stata la zona flegrea, ricca di vulcani e di crateri ribollenti di magma e lapilli.

3. La mappa dei veleni: 2 mila siti inquinati. I territori colpiti dai veleni di camorra sono quelli tra le province di Napoli e Caserta. L’area è compresa tra i comuni di Qualiano, Giugliano in Campania, Orta di Atella, Caivano, Acerra, Nola, Marcianise, Succivo, Frattaminore, Frattamaggiore, Aversa, Mondragone, Castevolturno, Villa Literno, Pozzuoli, Bacoli, Marano, Cicciano, Palma Campania, Melito di Napoli. A Napoli, il quartiere Pianura. A firmare il Patto per la Terra dei fuochi, l’11 luglio 2013, sono stati ben 57 comuni tra Napoli e Caserta. Ma la verità è che nessuno sa quanti e dove siano i rifiuti tossici sepolti nel corso degli anni nell’area. L’Arpac, l’agenzia campana per l’ambiente, ha contato più di 2 mila siti inquinati.

4. Gli industriali: «Inutili allarmismi». L'uscita di Lorenzin. Risalgono al 2013 le dichiarazioni del presidente degli industriali di Napoli, Paolo Graziano, che ha definito «inutili allarmismi» le denunce targate Terra dei Fuochi. A identica data risalgono le esternazioni del ministro per la Sanità, Beatrice Lorenzin, che ha sostenuto che la causa dei tumori andrebbe cercata «negli stili di vita sbagliati, nel fumo delle sigarette, nella poca frutta e verdura consumata a tavola» dalle famiglie meridionali. Alla sortita del ministro, in tanti hanno fatto eco definendo per mesi «allarmisti» e «fanatici» i comitati degli abitanti delle aree colpite dall’inquinamento. O, addirittura, ipotizzando che dietro le loro proteste si nascondessero «oscure forze criminali o affaristiche».

5. Il business dei rifiuti degli Anni 80. Per capire come e perché la camorra si buttò fin dagli Anni 80 a capofitto sul traffico dei rifiuti, bisogna sapere che smaltire in maniera lecita rifiuti urbani costava, in quegli anni, 300 lire al chilo. Se si trattava di fanghi di conceria (o peggio), il prezzo saliva fino a 1.200 lire. Le ditte dei clan si facevano pagare tre le 120 e le 130 lire al chilo. Anche se si trattava di fanghi (o peggio).

6. Le 33 inchieste e i pentiti. Le dichiarazioni di Schiavone. Dal 2000 a oggi, le inchieste giudiziarie sui rifiuti tossici sono state 33 a Napoli ad opera di 4 procure (Napoli, Nola, Torre Annunziata, santa Maria Capua Vetere) e 73 in Campania. Adelphi, Cassiopea, Madre terra, Carosello, Nerone, Cernobyl: nomi suggestivi, per etichettare le orrende trame del malaffare. Ben 311 sono le ordinanze di custodia cautelare; 448 le persone denunciate; 116 le aziende coinvolte. Il primo boss di Ecomafia pentito risale al 1988. Si chiamava Nunzio Perrella, all’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti raccontò: «Altro che droga, per noi il vero affare è l’immondizia: dotto’, ‘a munnezza è oro». Specie se fatta di rifiuti speciali, il cui smaltimento costa 600 euro a tonnellata. Finora sono stati 22 i pentiti di Ecomafia. Da Dario De Simone («Se in una discarica ogni giorno arrivano 100 camion carichi di rifiuti, l’ultimo è pieno di soldi», ha spiegato) a Domenico Bidognetti (che raccontò il ruolo dei colletti bianchi Gaetano Vassallo, a sua volta pentito, e Cipriano Chianese, avvocato e manager), da Oreste Spagnuolo (ex killer del gruppo di fuoco del Casalese Giuseppe Setola) a Tammaro Diana, Pasquale Di Fiore, fino a Carmine Schiavone, oggi il pentito più famoso per le rivelazioni del 2013 in tivù che peraltro aveva già reso nel lontano 1996 (ministro dell’interno era prorpio Giorgio Napolitano).

7. Il giallo dei 30 siti di stoccaggio. È l’altra faccia del disastro, quello determinato addirittura dalle istituzioni che ora non sanno più come smaltirle. Si tratta di 30 siti di stoccaggio, che avrebbero dovuto temporaneamente ospitare balle di rifiuti trattati e resi innocui in attesa di essere distrutti. Il risultato? Sei milioni di tonnellate, cioè 4 milioni e 274.616 pacchi di maleodorante immondizia mai trattata giacciono ammassati nelle campagne del Giuglianese, una volta fertili e ora ridotte a paesaggio lunare aggredito da stormi di gabbiani impazziti. È stato calcolato che per bruciare le balle (ma dove? E come?) ci vorrebbero almeno 50 anni.

8. La strage: il 35% dei morti di cancro viene dalla Terra dei fuochi. Su 500 pazienti operati per neoplasia al polmone nel 2013 all’istituto per i tumori Pascale di Napoli, il 35% proviene dalla Terra dei fuochi. Don Patriciello, il parroco di Caivano, sconvolto dai troppi funerali, ha affisso intorno all’altare maggiore i pomodori avvelenati e le fotografie delle decine di bambini deceduti per leucemia. L’incremento dei casi di cancro in Campania negli ultimi 10 anni è del 13%, eppure resta inattuato il Registro regionale dei tumori. Inesistente resta anche un credibile piano di smaltimento rifiuti. Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Resarch in Usa e figlio di Giovan Giacomo (che nel 1977 fu il primo scienziato a scrivere che «la Campania è travolta da un’epidemia silente e causata dall’uomo»), ha detto: «Il 60% dei residenti in Terra dei fuochi svilupperà tumori o altre gravi patologie. Urgono bonifiche e prevenzione sanitaria».

9. La battaglia di don Patriciello e dei pm. Don Maurizio Patriciello parroco di san Paolo Apostolo a Caivano, fino al 18 ottobre 2012 era un anonimo sacerdote alle prese con una terra difficile che gli chiedeva aiuto. Poi, partecipò a una riunione in prefettura sul tema rifiuti e definì il prefetto di Caserta «signora» invece che «eccellenza», scatenando le ire del prefetto di Napoli che lo rimproverò davanti a tutti. La boutade anti-parroco suscitò scandalo in tutta Italia. Ma si trattò di una gaffe provvidenziale, perché da quel giorno don Patriciello diventò famoso e del dramma Terra dei fuochi si iniziò miracolosamente a discutere. I protagonisti veri, però, sono forse altri: si chiamavano Dalia, 12 anni, Luca, 19 anni, Luciano, 16 anni, Tina, 28, Marta, 4. Martiri per forza, bare bianche in processione. Ha detto don Patriciello: «A novembre ho celebrato i funerali di Agostino, 28 anni. A gennaio, il battesimo di suo figlio nato un mese dopo». Tra i protagonisti, vanno citati almeno due magistrati: Maria Cristina Ribera, della direzione antimafia di Napoli, la prima a coniare il termine di «imprenditore camorrista», riferito a coloro che fino ad allora erano ritenuti camorristi e imprenditori. E Donato Ceglie, della procura di santa Maria Capua Vetere, che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale.

10. Bonifiche, unica soluzione rimasta sulla carta. L’unica, vera soluzione per normalizzare nel tempo la vita di chi abita in Terra dei fuochi è la bonifica del territorio. Se ne parla da decenni, ma finora sono stati sperperati milioni di euro con risultati pari a zero. L’impresa, sprechi e imbrogli a parte, appare utopistica. Già nel 2001, cioè prima della grande crisi, la Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti ammise sconsolata di essere a conoscenza degli sversamenti illegali in Campania ma di non poter intervenire perché «la montagna di soldi necessaria per le costosissime bonifiche non ci sono e non ci saranno mai». In alcune aree, del resto, è già troppo tardi. Per esempio, secondo il commissariato di governo, nei 20 chilometri quadrati (pari a 2.600 campi di calcio) dell’area intorno alla ex discarica Resit nel Giuglianese: «Quella terra è morta, risanarla sarebbe un’impresa proibitiva». Inoltre poco o nulla si sta facendo per individuare e punire il traffico illecito dei camion che ogni giorno scaricano i veleni fra Napoli e Caserta. Anzi, il cosiddetto progetto Stir, che avrebbe dovuto consentire il monitoraggio satellitare dei camion, è svanito nel nulla dopo il mezzo scandalo dei fondi volatilizzati. Dalle indagini dei magistrati, intanto, traspare che sul business bonifiche, sui monitoraggi e il resto i più attenti, aggiornati (e dotati dei capitali necessari) appaiono ancora una volta i boss di camorra.

Ma proprio a proposito di Donato Ceglie e l'enunciazione che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale c'è una notizia censurata ai più. Il Mattino è uscito con una notizia a tutta pagina; titolo: “Rifiuti, sotto inchiesta il magistrato Ceglie”, catenaccio: “Avviso di garanzia per abuso d’ufficio nel filone d’indagine sul consorzio Ce4. Gli atti alla procura di Roma”, sommario: “Il sostituto casertano si sarebbe interessato per un porto d’armi / A breve l’interrogatorio”. , scrive Iustitia. Si tratta di una notizia policentrica: nasce a Caserta, viene lavorata a Napoli ed è firmata Roma. In calce all’articolo c’è infatti la sigla ‘re. ro.’, che sta per redazione romana. La notizia è stata pubblicata con grandissimo rilievo sia nelle pagine di Napoli-Campania, settore guidato da Claudio Scamardella, che nell’edizione di Caserta, affidata a Nando Santonastaso. Ma veniamo alla vicenda che vede protagonista il sostituto procuratore della procura di Santa Maria Capua Vetere Donato Ceglie, napoletano, quarantasei anni, da diciotto in magistratura, noto per le sue inchieste sull’ambiente e sulle ecomafie. Il quotidiano di Caltagirone scrive che “nei confronti del magistrato viene ipotizzato il reato di concorso in abuso d’atti d’ufficio. L’accusa si riferirebbe a un presunto interessamento che avrebbe esercitato il pm sammaritano nei confronti di un funzionario di prefettura per il rilascio di un porto d’armi a favore di un imprenditore del settore dei rifiuti”. Una notizia importante, ma piccola, impaginata con un titolo fortissimo e inserita all’interno di un articolo dalla chiusa durissima. “Un’inchiesta – quella sui rifiuti in provincia di Caserta - che si è andata sviluppando – scrive l’estensore anonimo del Mattino – negli ultimi mesi. Al di là delle accuse ai singoli indagati, gli inquirenti hanno disegnato uno scenario complessivo inquietante: un giro di mazzette, regali e favori collegato all’individuazione della discarica – e della ditta a cui demandare lo smaltimento – nella zona compresa tra Falciano del Massico, Mondragone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno e Sessa Aurunca, nella parte alta della provincia di Caserta.  Un giro che vede coinvolti funzionari dello Stato, imprenditori e, in ultimo, anche un magistrato”. L’articolo non è piaciuto al pm Ceglie e il 10 giugno il suo legale, l’avvocato Giuseppe Fusco del foro di Napoli, ha presentato alla procura di Roma una querela nei confronti dell’autore dell’articolo e del direttore del Mattino Mario Orfeo. Nella querela il pm di Santa Maria precisa che l’indagine a suo carico riguarda un fatto che non ha nulla a che vedere con l’inchiesta sui rifiuti e sulle discariche condotta dai magistrati dell’antimafia di Napoli Raffaele Cantone e Alessandro Milita, così come non ha nulla a che vedere con presunte tangenti e attività di corruzione di pubblici funzionari in quanto scaturisce dai suoi “presunti rapporti con il vice prefetto Ernesto Raio”, cui si sarebbe rivolto per sollecitare il rinnovo di un porto d’armi a favore di un imprenditore. E aggiunge che questo è l’unico fatto per il quale è indagato dalla procura di Roma. Inoltre Ceglie ricorda la sua intensa attività di pubblico ministero: ”Sono stato e sono titolare di inchieste proprio nel settore dei rifiuti e delle discariche; sono stato e sono titolare di inchieste anche in materia di cave con sequestri recenti di cave e cementifici (decreti firmati in tandem con il procuratore aggiunto della procura di Santa Maria Paolo Albano, ndr) anche di proprietà della Cementir Cementerie del Tirreno spa; sono conosciuto, non solo nell’ambito locale, ma a livello nazionale, come uno dei magistrati di maggior impegno nel perseguire (con iniziative di grosso spessore) fatti illeciti riguardanti tutta la problematica della tutela del territorio”. Probabilmente non è casuale nella querela il riferimento al sequestro delle cave della Cementir, una spa, che come l’Edime-Il Mattino, fa parte della galassia del gruppo Caltagirone. E proprio sul collegamento tra le due società ha battuto il direttore della Gazzetta di Caserta Pasquale Clemente nel fondo che il 22 maggio ha dedicato alla vicenda Ceglie, fondo esplicito e duro fin dal titolo: “Il magistrato ha fatto chiudere la Cementir illegale / Mattino, vergogna per un porto d’armi”.

Ma di Ceglie si è occupato anche un altro giornale, proprio vicino ai Pubblici Ministeri.

Davanti alla commissione parlamentare ecomafie tre magistrati svelano i rapporti oscuri di Claudio De Biasio, vicino alla famiglia Orsi e numero due della struttura per l'emergenza monnezza, scrivono Tommaso Sodano e Nello Trocchia su  Il Fatto Quotidiano. Il 24 aprile 2007 presso la commissione parlamentare ecomafie presieduta da Roberto Barbieri, sfilano tre, tra i migliori magistrati anticamorra, Franco Roberti ( allora coordinatore della Dda), Maria Cristina Ribera e Raffaele Cantone. Fanno luce sulle responsabilità della politica nell’eterna emergenza e chiariscono il ruolo, anche di un magistrato, nella nomina di Claudio De Biasio al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti. Un’audizione che ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere e che contiene molte risposte a punti oscuri dell’eterna emergenza rifiuti in Campania. L’uomo buono per tutte le stagioni. Claudio De Biasio è stato arrestato pochi giorni fa per lo scandalo depuratori. Nell’ordinanza si legge: ” Negli anni ha dimostrato una personalità criminale allarmante (…)Sconcerta che un personaggio così colpito da iniziative giudiziarie riesca ancora a trovare credito nella pubblica amministrazione con la copertura di incarichi fiduciari, e non certo per concorso pubblico”. De Biasio, infatti, continuava a lavorare al Consorzio Unico ed era commissario liquidatore al commissariato acque della regione Campania, nonostante le ripetute indagini che lo hanno coinvolto. Nel 2005 Claudio De Biasio entra al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti, nel 2007 nonostante l’indagine a suo carico, diventa numero due della struttura, nominato da Guido Bertolaso. De Biasio, forte della sua esperienza nel consorzio Ce4, quello che incrocia gli affari della camorra con il malaffare politico. Pochi giorni dopo la nomina al vertice del commissariato viene arrestato proprio per la gestione del consorzio Ce4 (poi assolto e per un reato prescritto) insieme con i fratelli Orsi (Michele verrà ucciso dalla camorra, Sergio condannato per collusioni)”. A questo punto, i parlamentari convocano i magistrati per capire i retroscena dietro quella nomina. Raffaele Cantone, allora pm presso la distrettuale antimafia napoletana, racconta: “ Le indagini si fermano al 2004, quindi, alla struttura commissariale che passa dalla gestione Facchi alla gestione Catenacci (indagato nel nuovo scandalo depuratori, ndr). E’ sicuramente provata tutta una serie di rapporti fra gli imprenditori Orsi e la gestione Facchi, ma è purtroppo provata anche una serie di rapporti fra gli Orsi e la gestione Catenacci”. Gli Orsi hanno l’obiettivo di entrare nella struttura commissariale con un fidato sodale, e indicano il nome di De Biasio, tutto deciso in una cena, a riprova una telefonata tra Orsi ed il viceprefetto Ernesto Raio ( allora capo di gabinetto di Catenacci), nella quale l’imprenditore indica la necessità di inserire “uno dei nostri” al commissariato. I controllati che si scelgono il controllore. Il magistrato Donato Ceglie, pm a Santa Maria Capua Vetere, ha contatti con gli Orsi, si spende presso Raio (prima alla prefettura poi al commissariato) per il rilascio di un porto d’armi a Michele Orsi, per questa vicenda la toga sammaritana sarà indagato e archiviato su richiesta del pm di Roma Giuseppe Amato. Ceglie venne già indicato dall’allora ministro Pecoraro Scanio come sponsor per la nomina di De Biasio al commissariato di governo. Su richiesta dei parlamentari, a precisa domanda, i magistrati auditi fanno il nome di Ceglie chiarendo l’esito dell’indagine: archiviazione. Nel provvedimento di archiviazione, citato in audizione, si legge: “ Di rilievo ancora agli esiti delle s.i.t. rese dal prefetto Catenacci, il quale, in termini compatibili con quanto già desumibile dall’attività intercettativa, fa riferimento ad un’inusitata attività di consulenza svolta dal Ceglie nei confronti dello stesso prefetto e del commissariato, in ragione della sua precipua competenza professionale, nonché a un parimenti inusitato interessamento del Ceglie per risolvere un ostacolo formale che si pensava sussistesse per l’assunzione presso il commissariato di un professionista, l’architetto De Biasio”. Nel verbale dell’audizione si leggono le parole di stima nei confronti di Ceglie di molti parlamentari per la sua opera contro i traffici illeciti di rifiuti. L’eterna emergenza e il Nord protagonista. Gli Orsi mani e piedi nell’emergenza, rapporti con una toga di primo piano, capaci di indicare un proprio uomo presso il commissariato, quel De Biasio che solo l’arresto nel 2007 eviterà alla commissione ecomafie di sceglierlo come consulente. Ma gli Orsi non si fermano. E nel 2005, dopo l’uscita dal consorzio Ce4, sono pronti con un’altra impresa la Gmc; un’attività imprenditoriale frenata dagli arresti. Sullo sfondo il ruolo di Impregeco, il superconsorzio raggiunto da interdittiva antimafia, che teneva insieme i consorzi casertani e quelli napoletani, la cui vicenda entra a pieno titolo nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di Nicola Cosentino (il processo con rito immediato inizierà a marzo). Impregeco vedeva la presenza degli uomini di Cosentino, dominus politico dell’area casertana, e dei fedelissimi di Bassolino, egemone e controllore dei consorzi napoletani. Una vicenda quella della nomina e del consociativismo dietro la finta emergenza che resta coperta dal silenzio, di cui al momento hanno parlato solo Terra e il Mattino. Torniamo all’audizione, da cui emerge un sistema simile a quello del dopo terremoto del 1980, dove la politica e l’imprenditoria camorrista vanno a braccetto e lucrano dietro il paravento dei rifiuti in strada. Ecomafie diffuse anche al nord, come conferma la pm Maria Cristina Ribera in un passaggio dell’audizione: “Nella mia esperienza, ho potuto constatare che la gestione illegale dei rifiuti, in maniera organizzata e sistematica, ha coinvolto il consorzio Milano Pulita Ambiente, la società Nuova Esa di Marcon veneto, il consorzio Tev di Massarosa Toscana, l’ecoindustria che gestiva rifiuti pericolosissimi in un territorio con vincoli paesaggistici e non aveva neanche il piano di sicurezza in Toscana, Agroter di Pesaro (…) il fenomeno è talmente diffuso che credo sia esteso a livello nazionale”.

Ma non finisce qui. Ceglie è ancora chiacchierato. 

Il magistrato nei guai: "Aveva rapporti con la moglie di un carcerato", scrive “Libero Quotidiano”. "Rapporti frettolosi, nascosti e spesso consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta, a volte nelle stanze della procura generale di Napoli". Stando a quanto riportato dal quotidiano La Repubblica venerdì 24 gennaio, il magistrato Donato Ceglie, impegnato da anni nella lotta contro le ecomafie in Campania, è accusato di concussione e violenza sessuale. Avrebbe infatti preteso e ottenuto rapporti sessuali dalla moglie di un uomo, Gaetano Ferrettino, che lui stesso aveva fatto arrestare. Sulla carriera del magistrato, 56 anni, pende infatti dal dicembre scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm di Roma Barbara Sergenti che sosteiene che "Ceglie induceva Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali”. Tutto inizia  nel 2007. "In quel periodo Ceglie - come riporta La Repubblica - si occupa dell’inchiesta Chernobyl, scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Caserta, Napoli e Vallo della Lucania e sequestra un impianto di compostaggio di cui Ferrentino è amministratore unico, spedendo quest’ultimo agli arresti domiciliari". Nel 2009, secondo la Procura di Roma, sarebbero iniziati i rapporti con la moglie di Ferrentino. Maria Rosaria Granata accetta nella speranza di indurre il pm  ad abbandonare il procedimento contro il marito. Ma la speranza della donna non si realizza. "Quello che il pm fa, invece - continua Repubblica - è ordinare il dissequestro dell’impianto di compostaggio, affidarne la gestione alla Compost Campania e – come scrive il pm Sargenti – "rilasciare indebitamente il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata". La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co di Ferrettino. Ma Ceglie per la sua fiamma riesce ad ottenere una deroga". Il giallo però scoppia nel 2012 quando delle email anonime arrivano in procura e alla redazione del Mattino, quotidiano campano. "I messaggi di posta elettronica - riporta sempre il quotidiano romano -  riportano informazioni scioccanti: "Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga", "Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta" e "Da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino". Ceglie non nega gli incontri, ma sarebbero avvenuti per motivi legati alla giustizia.  Secondo la difesa, infatti, "gli incontri innanzitutto sono stati limitati nel tempo" e, in secondo luogo, risulterebbero "al solo scopo istituzionale".

"Pretendeva sesso dalla moglie di un arrestato". Finisce nei guai il pm della lotta all'ecomafia. Napoli, il magistrato Donato Ceglie accusato di concussione e calunnia. La difesa: "Incontri con lei limitati nel tempo", scrivono Fabio Tonacci e Francesco Viviano su “La Repubblica”. Chiedeva sesso, il magistrato Donato Ceglie. Lo pretendeva, e lo otteneva, dalla moglie di uno che aveva fatto arrestare. Rapporti frettolosi e nascosti, consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere, a volte nelle stanze della procura generale a Napoli. Proprio lui, il pm simbolo della lotta all’ecomafia del casertano, proprio lui che indaga da anni sui veleni nascosti sotto terra. Ora se la deve vedere con altri veleni. Sulla carriera di Donato Ceglie, 56 anni, pende infatti dal dicembre 2013 scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero Barbara Sargenti di Roma. Le accuse sono di concussione e violenza sessuale, perché «induceva — si legge nell’atto — Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali». Abuso che sarebbe iniziato a Santa Maria Capua Vetere e proseguito anche dopo che Donato Ceglie, era il 2011, viene trasferito alla procura generale di Napoli. Una storiaccia ancora poco chiara, con un esito giudiziario ancora tutto da definire (la richiesta è ferma davanti al gip) e che però ha un prologo certo nel 2007. In quel periodo il pm napoletano sta seguendo personalmente l’inchiesta “Chernobyl”: scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Napoli, Caserta e Vallo della Lucania, sequestra l’impianto di compostaggio nel salernitano gestito dalla So.Rie.Co., dove venivano smaltiti illegalmente quelli di quattro depuratori, e di cui Ferrentino è amministratore unico. Ceglie lo spedisce agli arresti domiciliari. Seguono un paio di anni di indagini, altri sequestri, il fallimento della So.Rie.Co. nel 2009. Poi, sempre secondo la procura romana, cominciano i «rapporti sentimentali e sessuali» tra Ceglie e la Granata. Una relazione che, a prescindere dalla sua natura, forse consenziente forse no, avrebbe dovuto indurre il pm napoletano a abbandonare per ragioni di opportunità il procedimento contro Ferrentino, nel frattempo rinviato a giudizio. Cosa che non accade. Accade invece che Ceglie si adoperi per trovare un lavoro alla Granata. Prima ordina il dissequestro dell’impianto di smaltimento, poi lo affida in gestione alla Compost Campania a cui nel 2011 rilascia «indebitamente — scrive la Sargenti — il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata». La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co. di Ferrentino. Ma Ceglie, per la sua “fiamma”, riesce a ottenere una deroga. E continua a interessarsi del rinnovo del contratto di gestione anche dopo essere stato trasferito a Napoli. Nel 2012 però qualcosa si rompe. Nelle caselle di posta elettronica di alcuni magistrati della Procura generale e alla redazione del Mattino iniziano ad arrivare decine di e-mail e fax del genere: «Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga », «Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta», «da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino». Ma a quali ricatti si riferisce l’autore delle missive? Che cosa sa veramente? Fatto è che Ceglie decide di denunciare la Granata, sostenendo sì di averla incontrata, ma solo «limitatamente» e «sempre per motivi istituzionali ». I pm romani non gli credono, e così hanno indagato il magistrato che lotta contro la mafia dei rifiuti anche per calunnia, per aver incolpato la donna «pur sapendola innocente».

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.

«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».  

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.

"Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia a “Sky tg 24”. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa". "Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente”. Queste le parole di Carmine Schiavone, ex boss di camorra del clan dei Casalesi, intervistato in esclusiva da SkyTG24. Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. "Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle”. Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".

Camorra, parla il pentito Schiavone: "Abbiamo ordinato oltre 500 omicidi". Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino  del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi , nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".

Tirato fuori dopo decenni, giovedì 31 ottobre 2013 il documento che denuncia la collusione dello Stato con le organizzazioni mafiose. In data 31 Ottobre il Parlamento ha fatto ciò che non ha mai voluto fare in passato, scrive “News You-ng”. Tutti i governi, di destra e di sinistra, dal 1997 in poi non hanno mai tolto il segreto di stato posto 16 anni fa sul verbale di 63 pagine concernente le dichiarazioni e le prove che il boss mafioso Carmine Schiavone, appartenente alla “Cosa Nostra Campana” (cioè il clan dei casalesi), ha consegnato ai giudici e ai parlamentari presenti nella Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Il boss noto come il “cugino di Sandokan“, non solo ha indicato tutti i siti in cui sono stati intombati i rifiuti, ma ha anche sottolineato più e più volte che quei rifiuti prima o poi “uccideranno tutta la povera gente“. In un’intervista di venerdì scorso a Le Iene (in onda su Italia Uno), Schiavone descrive con disprezzo la reazione del governo, dell’amministrazione locale e di tutti coloro che avrebbero dovuto predisporre le bonifiche dicendo: “Mi sono sentito dire che non hanno i soldi, in nome dei soldi lasciano che tutta questa gente muoia…“. “Da che pulpito viene la predica” verrebbe da dire, anche perché a sotterrare quei rifiuti è stata proprio la Cosa Nostra Campana che lucra maggiormente col traffico di droga e il traffico dei rifiuti tossici e nucleari e che oggi potrebbe voler lucrare sulle bonifiche. Ma Carmine Schiavone non ci sta a queste dietrologie, lui dice che si è pentito “per un fatto di coscienza”, una coscienza che dovrebbe pesargli tanto dopo aver ucciso con le sue stesse mani di “50 o 70 persone”… Non riesce nemmeno a contarle ma afferma che “però erano tutti colpevoli perché appartenevano ai clan avversari“. Una personalità davvero sui generis quella del boss pentito, che però consegna nomi, cognomi e numeri di targa anche dei camionisti e delle ditte di trasporti che si sono occupati nella propria vita del trasporto di rifiuti. Almeno quelli che conosce lui, uno dei massimi esponenti della mafia casertana. Perché di mafia si tratta, Schiavone ci tiene a precisare che il clan dei casalesi non è “Camorra” come Saviano ha tentato di insegnarci, ma “Mafia” affiliata a quella siciliana di cui parla anche con un certo disprezzo. Infatti quando il giornalista gli chiede: “Ma chi ha ucciso il giudice Giovanni Falcone?”, Schiavone risponde pesando molto bene le parole: “Materialmente chi può essere, solo quell’ignorante di Riina o quel pecoraio di Provenzano. I giudici si corrompono, non si ammazzano, non si fa un allarme sociale di questo genere, solo che loro non volevano essere corrotti e allora li hanno uccisi“. Fubini continua: “Ma allora chi li ha uccisi?” e Schiavone risponde: “Loro materialmente, ma gli ha detto di ammazzarli?“. Il giornalista incalza: “Chi?“. A quel punto Schiavone dice una cosa che fa rabbrividire: “Vuoi che ci prendiamo una denuncia per calunnia io e te o vuoi essere ammazzato da qualcuno qui fuori? Ma tu che pensi: i segreti di Stato… lo sai quanti ce ne stanno sepolti?“. Ha consegnato allo Stato particolari scottanti che valgono molto, ma ha consegnato anche 2500 miliardi di beni e ha fatto arrestare 1500 persone, ha fatto condannare persone per centinaia e centinaia di anni di galera ed è grazie a lui se son stati sentenziati un centinaio di ergastoli. In pratica Schiavone si vanta di aver distrutto la Mafia “sia a livello internazionale, sia nazionale”. Lui in compenso però si è fatto 10 anni e mezzo e basta, perché è un pentito. Carmine Schiavone è quello che non si stupisce della Trattativa Stato Mafia, infatti ha detto che “la Mafia fa parte dello Stato“, solo che è un braccio nascosto di questo sistema. Non c’è da stupirsi insomma, soprattutto quando si parla di continuità o di trattativa tra Stato e Mafia. Non c’è niente da stupirsi soprattutto se lo Stato sapeva che sarebbero morti tutti con i rifiuti nucleari sepolti, intombati sotto la falda acquifera. Sarebbe bastato che si abbassasse la falda acquifera per portare i danni di questi rifiuti a decine e decine di chilometri di distanza. Il bacino imbrifero si reticola per chilometri. Per dare l’idea di quanto sia pericoloso porre dei rifiuti vicino alla falda acquifera, facciamo l’esempio dell’Irpinia che oggi combatte contro le compagnie petrolifere che vorrebbero trivellare per l’estrazione di petrolio. Premesso che le trivellazioni provocano terremoti come hanno sostenuto in questi anni molti scienziati e premesso che gli acidi perforanti sono composti da sostanze altamente tossiche di cui non si conosce la composizione perché coperte dal segreto industriale, è stato stimato che l’inquinamento delle falde acquifere in Irpinia potrebbe portare danni fino a Reggio Calabria. Ma in Campania l’inquinamento delle falde acquifere interessa moltissimi siti: da Pianura ad Acerra, da Caserta a Somma Vesuviana, da Terzigno a tutta l’area Nord della città partenopea, dall’agro nolano ad Orta di Atella dove si è formato un vero e proprio lago grazie ai barili chimici discioltisi nelle acque sotterranee. Con quelle stesse acque gli agricoltori innaffiano pomodori e peperoni e tutte le colture dei vari vegetali che arrivano sulle tavole locali ma che vengono appaltate anche da prestigiose aziende dell’agroalimentare e quindi distribuite in tutta Italia e, in alcuni casi, anche in Europa. Una popolazione ingannata quindi non solo dalla Mafia e dalla Camorra, ma anche dallo Stato. Servivano davvero 16 anni per desecretare queste 63 pagine? Ed ora che sono state rese note cosa ne sarà del registro tumori il cui finanziamento fu bloccato nel settembre 2012 proprio dal governo monti che impugnava la legge regionale del 19 Luglio dello stesso anno in cui la giunta Caldoro (PDL) disponeva il finanziamento del registro per 1,5 milioni? Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano era Ministro dell’Interno all’epoca delle dichiarazioni. Sapeva tutto sulla sua città natale, Napoli. Come poteva non sapere delle dichiarazioni rilasciate alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti? Oggi che le dichiarazioni sono state desecretate dopo ben 16 anni, si sono espressi tutti su questo piccolo ma significante particolare. Le dichiarazioni più addolorate sono quelle di Antonio Marfella, Presidente dell’Isde Medici per l’Ambiente, il quale si è sfogato su Facebook con queste parole: “Scoprire che Giorgio Napolitano era il Ministro dell’interno all’epoca delle dichiarazioni secretate di Schiavone è una notizia che mi da un dolore profondo, insopportabile, veramente una pugnalata in petto. Ve lo giuro. Non me lo aspettavo….”. Lo stesso Giorgio Napolitano chiamato a testimoniare per il processo sulla Trattativa Stato Mafia, lo stesso Giorgio Napolitano per cui venne ordinata la “distruzione dei nastri delle intercettazioni usate come prove per la Trattativa”. Perchè una simile disposizione? Cosa c’era in quei nastri?  ”Per le bonifiche non ci sono soldi” dicono le amministrazioni locali, ma quando questi soldi usciranno l’unica speranza è che non vadano a quei criminali che hanno ucciso decine e decine di migliaia di persone in questi 30 anni di avvelenamento.

Rifiuti, la Camera rende pubblica la deposizione di Carmine Schiavone: «Quei camion dal nord» (da Il Mattino – 31.10.2013), scrive Chiara Graziani. Il pentito dei Casalesi nel ’97 indicò i luoghi degli sversamenti: «Fra vent’anni lì moriranno tutti di tumore. Per ogni fusto tossico 500mila lire a noi, due milioni a chi doveva smaltire». Cade il segreto sulla deposizione del pentito dei Casalesi Carmine Schiavone, deposizione rilasciata nel remoto ’97 davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. All’epoca parve tanto deflagrante da richiedere la segretazione. Oggi, una decisione dell’ufficio di presidenza della Camera, presa all’unanimità, ci restituisce la verità di Carmine Schiavone. Una verità detta, ormai, 16 anni fa. Dalla viva voce del pentito dei Casalesi torna la descrizione di anni impuniti e criminali: alcune cose già note, altre tutte da scandagliare. Schiavone, ad esempio, elenca i luoghi dove finivano i rifiuti tossici dalla Germania e dall’Italia del centro nord, portati con i camion nelle discariche. Dice di aver già detto tutto “all’autorità giudiziaria”, di avere accompagnato sui luoghi gli investigatori. Racconta che sopra i veleni, appena ricoperti di terra, poi qualcuno ci allevava le bufale. Il tutto in un clima descritto come di generale collaborazione per cui, secondo i ricordi di Schiavone, «la discarica autorizzata faceva scaricare là, attraverso i clan». I rifiuti partivano da fuori la Campania, racconta, inviati da altre amministrazioni e con destinazione discariche autorizzate. Finivano, invece, smaltiti nel terreni dei clan, racconta il pentito. Ricostruzioni già note, in gran parte. Ma la forza del documento sta nell’essere così remoto e così attuale. E di svelarci la mentalità “statale” della camorra, totalmente indifferente ai destini delle persone. Perfino burocratica e banale. Così è stata devastata la Campania. Da persone così. Col registro sottobraccio. Fra le altre cose dal documento emerge il completo controllo dei Casalesi sui subappalti per le opere stradali. Controllo che dava loro la gestione di tutti gli scavi. Per questo sarebbe stato proposto a Schiavone, si legge nella deposizione, lo smaltimento di fusti tossici fin nel 1988. Lui, a quel punto, si sarebbe accorto che “qualcuno”, però, aveva già iniziato a sfruttare l’affare ma che teneva per sè i proventi. Circa 700 milioni al mese. Segue l’affermazione scioccante: «Arrivavano camion di fanghi nucleari (sic) dalla Germania. E hanno scaricato nelle discariche». Ad un certo punto Carmine Schiavone ha un lapsus che fa innervosire il presidente Scalia che lo interroga. Spiega che, secondo lui, «mio cugino (Francesco Schiavone) , Mario Iovine e Bidognetti», già prima del ’90 avrebbero fatto attività di smaltimento illegale di rifiuti, senza versare però nelle casse del clan. «Fino al ’90 – sentenzia quasi sdegnato – hanno rubato . Poi hanno iniziato a versare soldi nella casse dello Stato..(…) Era un clan di Stato, mi sono confuso». Alla protesta di Scalia (“Il vostro Stato!”) Schiavone non si scompone e dice: «La mafia e la camorra non potevano esistere se non era (sic) lo Stato». Così parlava 16 anni fa l’uomo che teneva il registro sotto il braccio e si arrabbiava se qualcuno faceva la cresta mentre lui teneva la contabilità dei fusti tossici, prezzo di smaltimento 500mila lire l’uno. Veleni gettati nei campi, nelle falde acquifere (“Le bucavamo, ci passavamo attraverso, avevamo il controllo totale di tutti gli scavi”). E lui prendeva nota e faceva la somma. Cinquecentomila a noi, e voi ve ne mettete in tasca due milioni secchi a fusto. Da registrare lo stupore nel quale procede l’interrogatorio, nel remoto ’97. Domanda del presidente, che quasi non trova le parole:«Lei è in grado di fare una stima..Quante tonnellate..quanti camion..». Preciso, l’uomo del registro risponde: «Qui si parla di milioni, non di migliaia…Si tratta di milioni e milioni di tonnellate». Ma è la storia dei fanghi nucleari che non può restare sospesa, mostruosa, lugubre. Può dirci qualche cosa di più, chiede Scalia? «So solo che questi fanghi arrivavano in cassette di piombo da 50, un po’ lunghe. Ma mica andavo a vedere l’immondizia di notte..», No, non c’era bisogno che Schiavone seguisse l’affare di notte. Ci pensava il “sistema militare” messo su per gestire il territorio ed il flusso dei rifiuti. Incensurati, con il porto d’armi, con l’auto di dotazione. Pattuglie che, all’occorrenza, potevano usare palette e divise di carabinieri, polizia, finanza. Le forze dell’ordine dei Casalesi. Con un “coordinamento un po’ massonico, un po’ politico”. Laura Boldrini, presidente della Camera, si è detta molto soddisfatta: «Esprimo grande soddisfazione – ha detto Boldrini – per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti». «Si tratta della prima volta che la presidenza della Camera – senza che questo sia richiesto dalla magistratura – decide di rendere pubblico un documento formato da commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».

La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per  l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.

Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?

Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?

«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».  «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».

Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati.  La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".

Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla ndr)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».

I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino  -  ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".

«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana; ndr) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

Per uno scambio di persona è stato arrestato ed ha trascorso 9 anni in carcere. L’uomo, un napoletano, racconta al TG1 della Rai il suo dramma dopo il clamoroso errore giudiziario.

«Io mi son sempre comportato bene. Sono educato. Sono sistemato. Non ho mai avuto problemi con la legge e poi mi capita una cosa di questa. Sì, abito a Scampia, ma mica può essere una colpa. Uno non può avere un lavoro, anzi io avevo un lavoro. Facevo il corriere, ma adesso non ho niente più». Non ha più niente Giovanni De Luise. La sua storia è quella di un terribile errore giudiziario. 31 anni. Gli ultimi nove li ha trascorsi in carcere: da innocente. E’ l’undici dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano. Giovanni è all’obitorio, a Napoli. Gli hanno ucciso il fratello. Lì incontra una donna. Anche a lei hanno ucciso il fratello, Massimo Marino, cugino di un boss del clan degli scissionisti di Scampia. Quando vede Giovanni non ha dubbi.

«Ha continuato a dire che ero io ad aver sparato al fratello. Si credeva che io fossi il killer, “visto da quello che ho visto adesso gli somiglia molto”». Quella donna confonde Giovanni con Gennaro Puzzella del clan Di Lauro. Una somiglianza incredibile. Un calvario durato nove anni. A nulla sono servite le parole dei pentiti di camorra che lo scagionavano. Gli amici che hanno confermato di aver trascorso con lui quel pomeriggio di dicembre, vengono processati per falsa testimonianza. ERRARE E’ UMANO. PERSEVERARE E’ DIABOLICO. L'ingiustizia nell'ingiustizia e nell'omertà dei media che di questo non parlano. Gli anni passano e per Giovanni sembra non esserci speranze, finchè un giorno il vero assassino confessa. Giovanni è libero. Ora cerca di recuperare il tempo perduto. Solo tra qualche anno partirà il processo di risarcimento che potrà arrivare alla cifra massima di 500.000,00 euro.

«L’importante è che sono uscito a testa alta. Non ci sta una cifra che mi può risarcire quello che mi hanno dato».

14 settembre 2013. Hai voglia di dire che non c’entri, quando c’è un testimone oculare che ti accusa. È la vicenda umana e giudiziaria di Giovanni De Luise (classe 1981), vittima di un clamoroso errore di persona che gli è costato otto anni e otto mesi di cella senza un motivo. In pratica, De Luise ha bruciato gli anni più belli della sua vita nei carceri bunker, in alcuni casi anche in isolamento. Condannato a 22 anni di prigione come assassino, come killer di Massimo Marino l’11 dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano, oggi è stato scarcerato grazie a un procedimento di revisione sostenuto dal suo legale Carlo Fabbozzo, su input della stessa Procura di Napoli. Poi il miracolo: un certo Gennaro Puzzella teme di essere stato scaricato dal suo clan, teme di essere ucciso, si pente, confessa. E racconta: «Sono io il killer di Massimo Marino, ma al mio posto è stato condannato De Luise un innocente, che sta in cella a scontare una condanna per un delitto che non ha commesso». Fine dell’incubo, De Luise è libero.

Faida di Scampia, riaperto caso del 2004: fu Cosimo Di Lauro a ordinare la morte di Massimo Marino, scrive “La Nottata”. Per l'agguato era già stato condannato Giovanni De Luise, ma secondo nuove indagini a sparare fu un killer che obbediva all'ordine di sterminare scissionisti e parenti dato da Cosimino. Ordinanza in carcere per entrambi. Per lo sbaglio di una testimone oculare e per l'errore degli inquirenti ad inquadrare la vicenda in una vendetta privata è stato condannato per omicidio un uomo, Giovanni De Luise, che non ha premuto il grilletto. La verità è venuta alla luce solo oggi, grazie alle rivelazioni di un pentito. I pm della Dda hanno ricostruito come l'agguato dell'11 dicembre 2004 a Massimo Marino, parente dell'esponente di vertice degli scissionisti Gennaro Marino detto Genny McKay (il cui fratello Gaetano è stato ucciso lo scorso 23 agosto a Terracina), sia maturato nell'ambito della strategia omicidiaria del boss Cosimo Di Lauro, raggiunto oggi in carcere da una nuova misura cautelare, e così anche l'esecutore del delitto. Al centro di questa intricata vicenda Giovanni De Luise, condannato con sentenza passata in giudicato per l'omicidio di Massimo Marino che vedrà ora rivalutata la sua posizione. Durante la faida di Scampia tra Di Lauro e Amato-Pagano, De Luise si era visto uccidere il fratello Antonio mentre faceva la vedetta e sorvegliava una delle piazze controllate dai Di Lauro. All'obitorio, quello stesso giorno, due ore dopo il corpo di Antonio De Luise arrivò la salma di un'altra vittima della faida, quella appunto di Massimo Marino. La sorella Cinzia credette di individuare il killer di Massimo proprio in Giovanni De Luise, che era all'obitorio per i suoi stessi motivi. Massimo Marino invece, hanno ricostruito gli investigatori, era stato assassinato da Gennaro Puzella, uno dei killer dei Di Lauro all'epoca, raggiunto anche lui oggi da un provvedimento restrittivo, proprio perché Cosimo di Lauro, successore del padre Paolo alla guida della cosca almeno fino al suo arresto il 21 gennaio 2005, aveva ordinato di sterminare comunque gli scissionisti e qualsiasi loro parente anche se estraneo al contesto criminale, come Massimo Marino, all'indomani del duplice omicidio di Fulvio Montanino e Claudio Salierno il 28 ottobre 2004 nella roccaforte dei Di Lauro, in via vicinale Cupa dell'arco, agguato che segna l'inizio della faida e in cui agì Gennaro Marino. Secondo le nuove indagini sull'omicidio di Massimo Marino, l'autore materiale dell'agguato, Gennaro Pulzella, colpì la vittima sporgendosi da un muro e ferendola mortalmente mentre si trovava nel cortile di casa. Fu un delitto, sottolinea una nota del procuratore aggiunto dei Napoli, Alessandro Pennasilico, "di pura natura ritorsiva, senza altro scopo se non quello di colpire comunque la famiglia Marino". Per quest'omicidio Cosimo Di Lauro non era mai stato indicato come mandante. Il gip di Napoli, invece, ha ribaltato la la causale dell'omicidio, rigettando l'ipotesi della vendetta privata attuata da Giovanni De Luise per l'assassinio del fratello Antonio ucciso mentre faceva il palo per i Di Lauro, per individuare il movente nella strategia del terrore di Cosimo Di Lauro volta all'annientamento degli scissionisti e dei loro parenti, anche se estranei al contesto criminale. Prova cardine del processo a carico di Giovanni De Luise era stata la testimonianza di Cinzia Marino, la quale, in circostanze del tutto casuali, mentre si trovava all'obitorio dove era stata portata la salma del fratello Massimo aveva ritenuto di riconoscere l'assassino proprio in De Luise, che si trovava anch'egli all'obitorio per rendere omaggio alla salma del fratello Antonio ucciso nello stesso giorno. Il gip definisce una "involontaria, erronea individuazione" quella della testimone oculare, che si trovava in una difficile condizione psicologica.

I pm ammettono l'errore: "Non è lui il killer". Ma De Luise resta in cella.

Condannato a ventidue anni, da sei è detenuto Eppure la stessa procura di Napoli ha chiesto la revisione del processo, scrive Giovanni Terzi su “Il Giornale”. Questa è una storia drammatica che parla di vicende legate alla criminalità organizzata, alla camorra, al traffico di stupefacenti e alle guerre tra faide a Napoli. Una storia che ha come sfondo il profilo peggiore di questa nostra Italia incorniciato nell'incantevole paesaggio partenopeo. Questa è anche la storia di un uomo, Giovanni De Luise difeso dall'avvocato Carlo Fabbozzo, prima accusato di essere l'omicida di Massimo Marino e poi scagionato dalla stessa procura della Repubblica di Napoli con i pubblici ministeri Lepore e Castaldi ma ancora oggi dopo otto anni in carcere a Lecce. La faida vedeva coinvolti alcuni clan camorristici facenti riferimento ai gruppi dei Di Lauro di via Cupa dell'Arco a Secondigliano e degli scissionisti capeggiati dal boss Raffaele Amato. Era la faida di Scampia che da ottobre del 2004 a febbraio 2005 vide lo svolgersi di una vera e propria mattanza quotidiana a ogni ora del giorno, tra folle terrorizzate, con l'obiettivo del controllo del traffico di droga. Centinaia di vittime insanguinarono le strade di Scampia; uomini dei clan, familiari in parte vicini alle cosche ma anche vittime innocenti. Colpire gli innocenti faceva parte di una strategia ben precisa già adottata dalla «Nuova camorra organizzata » di Raffaele Cutolo tesa a costringere gli avversari ad uscire allo scoperto. La faida di Scampia ha inizio il 28 ottobre del 2004 e ha come vittime Fulvio Montanino e Claudio Salerno uccisi dagli scissionisti. Poi quotidianamente si spara e si uccide per strada, nelle piazze; cadono tre marescialli dei carabinieri che camminavano in borghese nelle vie di Scampia e che furono scambiati per membri di un gruppo rivale. Clamoroso fu il 7 dicembre del 2004, quando alle quattro del mattino circa mille uomini delle forze dell'ordine circondarono Scampia e Secondigliano catturando con cinquantun ordini di custodia cautelare decine di malavitosi. In quell'occasione le donne del rione «terzo mondo» scesero in piazza aggredendo i poliziotti. Pochi giorni dopo, l'11 dicembre alle 16.44 nella Strada Casavatore, fu ucciso Massimo Marino, innocente cugino di Gennaro Marino, ras degli scissionisti. L'omicidio di Massimo Marino per gli investigatori era la ri­sposta dei Di Lauro all'uccisione, avvenuta tre ore prima di Antonio de Luise finito nel mirino degli scissionisti. La svolta per queste indagini avviene attraverso le intercettazioni telefoniche. Infatti i carabinieri della Dda mettono cimici ovunque per combattere la drammatica faida camorristica. Ed è grazie ad una intercettazione fatta alla sorella di Massimo Marino, Cinzia, che i carabinieri arrestano Giovanni DeLuise incensurato fratello di Antonio anche lui vittima della mattanza quotidiana.
Cinzia Marino, disperata all'obitorio di fronte alla salma del fratello, rivolgendosi a un'amica vede la sagoma di Giovanni De Luise e lo riconosce come il killer del fratello. Giovanni de Luise, fino a quel momento incensurato spedizioniere di ventitré anni fu arrestato; movente e testimonianze non lasciavano spazio ad interpretazioni, era lui l'assassino di Massimo Marino. Giovanni De Luise viene condannato a 22 anni di carcere in via definitiva. Anche durante il processo le dichiarazioni testimoniali di Cinzia Marino, sorella della vittima, sono drammatiche e inconsuete. Infatti durante il dibattimento la donna, nell'aula della Corte d'Assise, guardando negli occhi Giovanni De Luise lo accusa dell'omicidio del fratello. Cinzia Marino diventa una teste protetta e, in un mondo fatto di omertà, le sue dichiarazioni a viso scoperto appaiono coraggiose e di esempio. Da quel dicembre del 2004 De Luise passa sei anni in carcere, dichiarando sempre la propria innocenza, fino a quando, all'inizio del 2010, spuntano altri due collaboratori di giustizia; Antonio Prestieri e Antonio Pica. Questi, durante un interrogatorio coperto da omissis, scagionano Giovanni De Luise dall'omicidio di Massimo Marino. Le dichiarazioni sono così attendibili che è la stessa Procura di Napoli nel nome del procuratore Giandomenico Lepore e Stefania Castoldi, a firmare l'istanza di revisione del processo. Un fatto storico, importante e di grande civiltà il mea culpa della Procura che riconoscendo un errore cerca di porne rimedio. Tutto questo avveniva nell'aprile del 2010. A due anni e mezzo da quell'ammissione di errore Giovanni De Luise è ancora detenuto nel carcere di Lecce in attesa di giudizio. Non mi sento di esprimere alcun giudizio se non quello positivo nei confronti di quei pubblici ministeri che cercano di porre rimedio a un errore giudiziario. Lasciatemi però la possibilità di rimanere perplesso su un andamento giudiziario che vede, a due anni e mezzo dalla richiesta di revisione del processo fatta dalla procura di Napoli, una persona ancora detenuta.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss.

Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto.

Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine.

Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso, ndr) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura.

La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all' esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi?

Questo basta? No!

Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

VENDEVA PROCESSI PER UN POKER

Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”.  C'è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d'ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l' avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell'Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d'oro". L'industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all' epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l'intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell'indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell'agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un'altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana.

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l' industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

I RISULTATI, POI, SONO QUESTI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.

ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.

AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.

CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.

ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.

GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.

ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.

LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso (fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area) e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)».  Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

Parliamo di quando Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando Esposito figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.

Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….

Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando Esposito subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando Esposito rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando Esposito non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Fernando Esposito. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando Esposito compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta -  scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando Esposito che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Ferdinando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando Esposito su quello stranissimo incidente stradale del 2007?

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Il 30 maggio davanti al gup  l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando Esposito, sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando Esposito non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando Esposito altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Carmine Schiavone, Casal di Principe (Caserta) 20 luglio 1943. Pentito a suo tempo camorrista, cugino di Francesco alias Sandokan, era amministratore e consigliere del clan dei casalesi (vedi SCHIAVONE Francesco). Figlio di un commerciante di agrumi e di una casalinga, anche lei Schiavone di cognome, ma del ramo delinquenziale della famiglia (sorella del padre di Sandokan). Sposato, con figli. Titolo di studio, diploma in ragioneria. Ammesso al programma di protezione, è agli arresti domiciliari in espiazione di 20 anni di pena. La sua vita l’ha raccontata nel 2000 a Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri, che l’hanno intervistato per il libro Dalla Mafia allo Stato (Gruppo Abele). Prima condanna nel 64 («legata a cose di ragazzi un po’ esuberanti che non pensavano a cosa potesse essere il domani»), da convinto fascista che era, nel 68 passa alla Democrazia Cristiana («passai al gruppo Patriarca che fu il primo politico che feci votare»). Arrestato nel 72 per tentata estorsione, in carcere allarga la cerchia di amici, affezionandosi in particolare a Mario Iovine (vedi SCHIAVONE Francesco alias Sandokan). Assolto e scarcerato dopo pochi mesi, apre centri Aima di raccolta prodotti ortofrutticoli per la trasformazione conserviera e si mette in affari con Iovine («a noi interessava il business, che all’epoca erano le bische clandestine le bollette false, e le truffe insomma»). Arrestato nel 77 per rapina («ingiustamente»), resta in carcere sei anni. Mentre i camorristi si schieravano chi dalla parte di Cutolo chi dalla parte della Nuova Famiglia, «noi facemmo Cosa Nostra casalese, e fummo battezzati io e mio cugino Sandokan. Ciò avvenne nel 1981. Io ero già mafioso dal 1974, ma non ero mai stato affiliato formalmente». Insieme agli altri gruppi casertani si schierano contro i cutoliani («Fino al 1983 ci fu proprio una guerra totale»). «Comunque, già vedevo come sarebbero andate le cose alla lunga: c’era gente che teneva la madre che faceva la vita a Milano, oppure gente che faceva lo sfruttamento della prostituzione o che spacciava droga. Dove si poteva arrivare con queste persone? Si sentivano forti perché erano diventati una massa, ma non c’era un credo ideologico, non c’era il proposito fermo dell’uomo d’onore, era una cosa sbandata». A conflitto ancora in corso, Carmine crea con Iovine il «sistema dei consorzi»: «Io contrattavo con le grosse imprese, con gli appalti, i subappalti. Tutte le attività che passavano attraverso la provincia di Caserta fino a Latina erano controllate dal clan, poi c’erano gli appoggi, a Firenze, a Bologna, a Reggio Emilia, a Roma». Si occupa anche della fornitura di droga, cocaina venduta ai grossisti di Napoli, Roma, Fondi, Milano, con assoluto divieto di spacciarla nel casertano. «La politica che facevamo era: il popolo a noi ci deve amare per amore e non per terrore. Noi non dovevamo fare gli errori che Cutolo e altri avevano fatto. Si doveva capire che noi non portavamo droga a Casale, che noi non facevamo furti, non facevamo rapine. Fino al 1989-90 se qualcuno si è permesso di fare rapine è stato ammazzato, oppure è sparito». Arrestato nell’83, in primo grado viene condannato a 18 anni per associazione mafiosa, ridotti in appello a 5. «All’epoca avevo sette figli: cinque maschi e due femmine. E a un certo punto incominciai a dirmi: “Ho i figli sposati, sono nonno, invecchio, può continuare la vita in questa maniera?». Nel 90 apre un’impresa di calcestruzzo, ma incomincia a litigare coi cugini, per primo con Francesco Bidognetti: «Io gli imputavo che loro avevano inondato l’Agro aversano di fusti tossici e nucleari». L’idea in origine era sua, ma Bidognetti lo aveva scoraggiato per poi farlo di nascosto da lui («incassavano 600 milioni al mese e alla cassa ne davano 100 al mese»). Il 6 luglio 1991 viene arrestato (nell’impresa di calcestruzzo sono state trovate delle armi che in realtà, dice Carmine, lui aveva dato a suo cugino «Walterino»). Il 26 luglio ottiene gli arresti domiciliari (si è dato per cardiopatico), ma il 21 novembre, diventata definitiva la condanna a 5 anni per associazione mafiosa, si dà alla latitanza. Sentendosi lo scaricabarile del clan (per la faccenda delle armi), se la prende con Sandokan, rinfacciandogli pure di fare la cresta sulla cassa del clan: «Abbiamo fatto una guerra con i cutoliani, una con i Nuvoletta, una con i Bardellino, una coi De Falco, l’ultima la dobbiamo fare io e te?». Oltre ai risentimenti personali c’è che dal 90 i Casalesi hanno cominciato a spacciare anche a Casale, e hanno smesso di mantenere i familiari dei detenuti, finché, nel 91, viene ammazzato perfino un bambino di dieci anni. «Quella è un’altra goccia che fece traboccare il vaso. Mio cugino stava in carcere e un altro mo cugino prese la reggenza militare, cominciarono a sparare e dove andava andava. Mi accorgo che i fatti non quadrano più, erano diventati delle bestie. Mi fanno arrestare a Maglie». È il luglio 92, in Sicilia sono stati ammazzati il giudice Falcone e Borsellino, e Carmine si prende il carcere duro («pensai: i siciliani fanno i guai per i loro intrallazzi e noi ne paghiamo le conseguenze»). In carcere viene esautorato, con la scusa ufficiale che avendo l’amante non può più fare il capo. «Mia figlia Rosaria era l’unica di cui mi fidavo, a un certo punto le dissi: “Questi mi faranno pentire, questi non si rendono conto che mi faranno pentire, perché stanno perdendo tutto ciò che significa essere uomo, con questa gente non c’è futuro più per nessuno”». «Stetti quattro o cinque giorni sul letto con la testa sul cuscino. Ho analizzato tutta la mia vita, tutta la vita loro come un proiettore che proietta un film, e dissi: “Sono bestie, io mi sono trovato in mezzo a delle bestie e sono diventato più bestia di loro. Quanti altri morti innocenti ci dovranno essere! Quanta altra gente dovrà piangere i figli drogati!». Qualche giorno dopo riceve la visita della figlia Rosaria, e le dice testuali parole: «Tu gli vuoi bene al tuo fidanzato? Se gli vuoi bene sposati, perché io questa volta sparo la bomba atomica. Questa volta muore Sansone con tutti i filistei». A maggio 1993 si pente, facendo sequestrare beni del clan per 2.500 miliardi. Dalle sue dichiarazioni nasce il processo “Spartacus” (vedi SCHAVONE Francesco detto “Sandokan”). Ammesso al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, dopo due anni ha cambiato generalità. Ora vive con la moglie e il figlio più piccolo in una località segreta. «Dal lunedì al venerdì sono impegnato nei vari processi, il sabato e la domenica cerco di lavorare quando ce la faccio. Ora tengo un po’ tutto abbandonato, perché sto da circa 8-9 mesi quasi fisso in video-conferenza o in processi. E penso che ancora per 15 anni sarà così Ancora ci sono 100 processi in Corte d’assise da fare, ditemi voi quando finirò». «È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra» (sua figlia Pina, in una lettera aperta ai giornali, subito dopo la notizia del suo pentimento, secondo Carmine Schiavone costretta a farlo dai cugini). Lo Stato «Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c’era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Riina usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio, insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci. Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il modo per raggirare». (Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini,Catalogo dei viventi 2009, Marsilio, scheda aggiornata al 5 ottobre 2008.

Carmine Schiavone: “Potessi tornare indietro non mi pentirei”. L’ex capo della cupola casalese si sfoga e si racconta il 23 agosto 2013, tra iperboli e confessioni, ai microfoni di Sky Tg24. "Politici, magistrati e forze dell’ordine sono più responsabili di noi che abbiamo sparato, perché sapevano e hanno permesso”, scrive Emanuele Repola su “Interno 18”. Continua a far rumore il servizio lanciato in esclusiva ieri da Sky Tg24. Le parole di Carmine Schiavone hanno tuonato nell'aria, lasciando a bocca aperta chiunque l'abbia visto. Eppure, quelle parole e quelle confessioni non aggiungono altro rispetto alla quotidianità di queste terre. Rifiuti, elezioni, "modello Caserta", corruzione, omicidi. L'ex ras dei Casalesi parla a ruota libera del sistema e degli enormi interessi che la società di oggi ha nei confronti della camorra. Schiavone parla delle scorie tossiche, provenienti non solo dal nord Italia, ma da tutta l'Europa, nascoste fino a 18 metri sotto terra, lungo tutto il lungomare che va da Baia Domizia fino a Pozzuoli: "Venivano a scaricare rifiuti industriali, farmaceutici, chimici, ospedalieri. In più casse di fanghi termonucleari. Tutto sotterrato tra mare e campagne. Stanno morendo oltre 5 milioni di persone". Racconta poi degli omicidi che gli sono stati imputati, 53, secondo la giustizia, oltre 500 per Schiavone, che ricorda tutti gli assassini ordinati dalla cupola nel corso delle faide territoriali. Ed anche qui l'ex boss si sfoga con la giornalista di Sky. "Ci sono oltre 500 e rotti omicidi, a partire dal '75, dopo la guerra con i Nuvoletta. Noi abbiamo sparato è vero, ma politici, magistrati, polizia, carabinieri, sono più responsabili di noi, perchè hanno permesso tutto questo". Carmine Schiavone soffre l'abbandono delle istituzioni. Attacca politici e magistrati per averlo abbandonato, e si pente del suo pentimento. Nonostante questo abbia permesso l'arresto dei capi della cupola del sistema nei processi Spartacus I e Spartacus II. "Potessi tornare indietro non mi pentirei più. Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Non lo farei più perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Quando poi la giornalista gli chiede dei soldi maneggiati, Schiavone fa un passo indietro con la memoria, e confessa il giro di miliardi che mensilmente girava nelle casse dei clan, arrivando a superare le centinaia di miliardi di lire. "Mensilmente avevamo una spesa di quasi 3 miliardi tra corruzione e piccoli lavori come le copie delle auto di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, delle radiotrasmittenti. In più noi mantenevamo le caserme, ogni tanto davamo loro qualche piccolo spacciatore. Non c'era neanche bisogno di controllarli perchè erano stesso loro che alla sera ci portavano le informazioni". Il rapporto con le istituzioni e con il mondo della politica. Le infiltrazioni all'interno dei palazzi del potere per piazzare i propri referenti. L'asse stato-mafia per Schiavone è qualcosa di indistruttibile. Una fitta maglia di intrecci di interessi da ambo le parti che non chiuderanno mai il circolo vizioso creatosi: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". L'aprassia di chi non si ribella e non si è ribellato è la chiave che ha spalancato le porte del paese al sistema criminale dello stato-mafia, e a poco serve oggi indignarsi per il racconto di ciò che ormai è storia nota da anni. "Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa".

Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. «Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle». Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".

Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino  del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi, nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere . Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".

Don Patriciello. Lettera aperta a Carmine Schiavone. Il parroco di Caivano scrive all'ex boss. "È giunta l’ora del coraggio e della verità. Aiutaci anche tu a svergognare questi loschi figuri nascosti dietro la cravatta e il computer". Ecco il testo intero della lettera aperta girata da don Maurizio Patriciello a Carmine Schiavone dopo la recente intervista pubblicata da Sky Tg24. «Carmine, fratello mio, stiamo soffrendo. Terribilmente. E con noi, ne sono certo, state soffrendo anche tu e la tua famiglia. Abbiamo ascoltato la tua intervista su Sky Tg24 e siamo rimasti angosciati. Tante cose già le sapevamo. Altre le abbiamo da sempre immaginate. Ma sentirle direttamente dalla bocca di chi le ha vissute è tutt’ altra cosa. È proprio vero che la vita è un’ eterna lotta tra il bene e il male. E’ proprio vero che il dio Mammona ammalia, affascina e trascina verso gli abissi più gelidi, profondi e bui tanti nostri fratelli in umanità. Ma è pur vero che la scintilla di luce – la coscienza - che Dio ha messo in ognuno di noi non si spegne mai. Tu, capo del Clan dei Casalesi, tanti anni fa ti sei pentito. Oggi affermi: “Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato…Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi? Perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me…”. Hai ragione. Preferisco essere derubato, imbrogliato, umiliato da un ladro di professione piuttosto che da un ladro travestito da politico, da industriale o da servitore dello Stato. Eppure non riesco a essere d’accordo con te quando affermi che “La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale”. No, mafia e mafiosi, camorra e camorristi possono essere e di fatto saranno distrutti. Il male non ha l’ultima parola. Ci devi credere anche tu. L’ultima parola l’avrà solamente il bene. A trionfare sarà l’amore, non la cattiveria. Sempre e dappertutto, anche in Campania. Ma questo avverrà quando sapremo, noi campani e chi i campani si è comprato per una manciata (potrà essere anche un autotreno è la stessa cosa) di monete. Quei soldi, lo hai visto, bruciano più del fuoco. Il pane macchiato dal sangue che gli innocenti della catastrofe ambientale stanno versando, è indigesto. È pane che non sazia. Pane avvelenato. Pane velenoso. Fratello Carmine, fino ad oggi, purtroppo, i pentiti dell’inquinamento delle nostre terre li abbiamo solo tra i camorristi. È vero. È giunta l’ora che si facciano avanti tutti coloro che hanno avvelenato, o permesso di avvelenare, le nostre campagne. È giunta l’ora del coraggio e della verità. Aiutaci anche tu a svergognare questi loschi figuri nascosti dietro la cravatta e il computer. Non è giusto che il termine “ camorrista” venga appiccicato solo a voi. Loro lo sono stato quanto e forse più di voi. Ma, ti prego, esci dal generico. Dicci chiaramente dove, in quale contrada, in quale terreno, in quale sito sono stati sversati i veleni che stanno portando a morte la nostra gente, i nostri giovani, i nostri figli. Sai che un popolo numeroso e impaurito lotta ogni giorno per arrivare a qualche soluzione. Oso chiederti di aggiungerti a noi. Vieni anche tu con noi. Facci da guida. Impegnati oggi per il bene come un tempo lo sei stato per il male. Insieme ce la possiamo fare a salvare la nostra terra martoriata e bella. Non per noi. Credo che per noi ormai sia già tardi. Lo facciamo per le future generazioni. Per i nostri figli. Per i figli dei loro figli. Perché non abbiano a vergognarsi dei loro padri. Perché non abbiano a maledirci. Ridiamo un poco di speranza ai nostri giovani. E anche tu cerca di non smarrirla la speranza, compagna tra le più care nel corso della vita. Amica indispensabile quando ti svegli la mattina. Ci sentiamo come il piccolo Davide di fronte a Golia. Le nostre mani stringono una piccola fionda e la spada del gigante è lunga e affilata. Ma non siamo soli. Il Signore Gesù non ci ha abbandonati mai. È Lui la nostra forza, la nostra pace, la nostra speranza. E’ a lui che ci affidiamo per lottare e sperare di vincere questa guerra. Lotta anche tu con noi. Chiedi di farlo anche ai tuoi figli e ai tuoi vecchi amici. Presto anche per noi verrà la sera. Sarà bello, allora, sul letto di morte, confessare a chi ci vuole bene: “ Ho sbagliato. Ho peccato. Se potessi tornare indietro non rifarei tanti errori che, purtroppo, ho fatto. Sono pentito, però, e ho fiducia che Dio mi perdoni. Vi prego, figli: tenetevi lontano da ogni violenza, da ogni sopruso, da ogni menzogna. Ricordate sempre che c’ è più gioia nel dare che nell’avere. Peccato che io l’ ho compreso così tardi. Accompagnatemi con la vostra preghiera. Ti benedico, fratello, e ti prometto che pregherò per te».

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

La legge è uguale per tutti? No! I concorsi pubblici evidenziano il merito? No!

Ed allora…? Ed allora, niente. Questi italiani sono troppo coglioni per cambiare le cose. Per loro meglio adeguarsi che lottare.

"Quando si cerca di indicare la luna la politica ti porta a cercare il dito..." rivisitazione personale di un noto proverbio che trovo alquanto educativo. Ho sempre ammirato il modo in cui la politica e le stesse istituzioni riescono a distrarre l'attenzione degli italiani dai veri problemi del paese per focalizzarla, invece, sui piccoli scandali di bunga bunga, case a Montecarlo etc. etc.... In tal modo, e solo così si riesce, ahimè, ad evitare un'insurrezione di massa...distrarre la gente per la sopravvivenza della casta! Scusate signori ma io non ci stò. Ed allora ricominciamo a portare a galla gli scandali istituzionali più seri, sperando di riaccendere il sentimento nazionale. Cominciamo dai concorsi pubblici; quello di magistratura.

ANNO 1992. Si diffuse la notizia che anche i concorsi per diventare magistrati venissero truccati col beneplacito del Ministero di Grazia e Giustizia e degli apparati di vigilanza: "Verbali sottoscritti da gente che non c'era, fascicoli spariti, elaborati inidonei quando non lo erano affatto". Ci vollero tredici anni per venire a sapere tramite un articolo del Corriere della Sera del 2005 che i gravi fatti del 1992 non avevano trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia.

ANNO 2002. Un magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d'Appello di Napoli, membro di commissione, cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm sostituendo durante la  notte la prova giudicata negativa ma venendo "tradita" dall'incorruttibile fotocopiatrice utilizzata che, ripartendo al mattino successivo, iniziò a "vomitare" fiumi di pagine contraffatte dalla commissaria-giudice.

ANNO 2008. Il caso della Fiera di Milano-Rho in occasione del concorso Nazionale per uditore Giudiziario. Fra i 5600 partecipanti per 500 posti si scopre che c'è che può tranquillamente introdurre telefonini, appunti, codici irregolari ed addirittura libri di testo. SI consideri che in queste prove la selezione del materiale avviene nei giorni antecedenti le prove con un rigore che dovrebbe essere assoluto! Decine di candidati in piedi che iniziano ad urlare "vergogna!"

Morale della favola? Poco dopo è lo stesso C.S.M. (organo di autogoverno della magistratura) a richiedere con voto a maggioranza l'archiviazione del caso!!! La Procura di Milano (cui si erano rivolti alcuni candidati inferociti) archiviò il tutto senza disporre alcuna indagine! Si apprese in seguito che la 9° commissione richiese al C.S.M. l'apertura di un fascicolo con l'obbiettivo di "avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell'assoluta affidabilità della procedura di selezione"...ARCHIVIATO IL 19 DICEMBRE!

Potremmo andare avanti così per ore...

E poi, ancora con gli accademici professori universitari.

La Procura di Bari, con un fascicolo aperto nel 2008, indaga 22 docenti e 11 città italiane per manipolazione illecita di dieci concorsi in tutta Italia, dal 2006 al 2011. Una vera lobby di docenti organizzata e ramificata in tutto il Paese. Ma non è tutto. Emergono, infatti, particolari che potrebbero aggravare la posizione degli indagati. Perché, oltre ai concorsi truccati, i docenti avrebbero esercitato pressioni “anti-riforma” sull’allora Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, allo scopo di ostacolare la tanto contestata riforma universitaria, poi approvata nel dicembre 2010. Tramite intercettazioni telefoniche, la Guardia di Finanza avrebbe smascherato una rete nazionale tra colleghi docenti, unanimemente decisi a convincere il Governo di rivedere la riforma. Il testo di riforma contestato dai docenti, include, tra i tanti provvedimenti, nuove procedure di valutazione e di inserimento per professori di prima e seconda fascia e ricercatori, introducendo criteri di sorteggio e l’adozione di un codice per evitare incompatibilità e conflitti di interesse per parentele all’interno dello stesso ateneo. Il che potrebbe spiegare, laddove le indagini si rivelassero attendibili, la ragione di volere impedire, all’epoca dei fatti, l’approvazione della riforma. Dunque una lobby anti codice etico, pro familismo e parentopoli universitaria. Intanto dopo l’avviso di garanzia ricevuto lo scorso anno, sui docenti gravano reati di associazione a delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico.

Accordi, scambi di favori, sodalizi e patti di fedeltà: così, secondo la procura di Bari, sono stati pilotati dal 2006 i concorsi pubblici per docenti di prima e seconda fascia di diritto costituzionale, ecclesiastico e diritto pubblico applicato in alcune università italiane, scrive “Blitz Quotidiano”. A decidere in anticipo quelli che dovevano essere i risultati delle prove per conquistare le cattedre di ordinario e associato sarebbe stata un’associazione per delinquere composta da professori universitari. Per questo nell’inchiesta dei pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli si ipotizza il reato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, al falso e all’abuso d’ufficio. Ventidue i docenti di 11 facoltà italiane indagati per aver manipolato ”l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite” attraverso una rete criminale che la Guardia di finanza di Bari ritiene di aver individuato dopo due anni di indagini. Proprio per cercare ulteriori riscontri sull’esistenza del gruppo criminale, militari del nucleo di polizia tributaria hanno compiuto perquisizioni in uffici universitari e studi professionali dei docenti delle università di Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo. Nel capoluogo lombardo hanno subito perquisizioni Giuseppe Ferrari, ordinario di diritto pubblico e comparato dell’Università Bocconi, e i professori Giuseppe Casuscelli e Enrico Vitali, entrambi docenti di diritto canonico ed ecclesiastico all’Università statale. Quattro i prof indagati a Bari: Aldo Loiodice, docente di diritto costituzionale alla facoltà di giurisprudenza; Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Roberta Santoro docente aggregato della facoltà di Scienze politiche e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto ecclesiastico. L’indagine è stata avviata nel 2008 ed avrebbe quasi subito svelato l’esistenza di alcuni concorsi pubblici truccati attraverso un meccanismo di accordi e scambi di favori. Come aveva già evidenziato un’altra indagine, sempre della procura di Bari, che nel giugno 2004 portò all’arresto di cinque docenti di cardiologia. Sei anni dopo gli arresti e otto anni dopo l’avvio dell’indagine, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli indagati, accusati di aver gestito un sistema criminale dei concorsi nazionali per ordinario, associato e ricercatore di cardiologia nelle facoltà di Bari, Firenze e Pisa. Per il lungo periodo trascorso, alcuni reati sono già caduti in prescrizione e tutti gli altri saranno prescritti tra non molto tempo.

Questi, signori, sono i veri scandali, queste le "porcate" che devono destare l'opinione pubblica. Qua non si parla dell'appaltino (sempre importante) truccato...qua si parla della formazione dei principali poteri dello Stato. Qua si parla di soggetti che domani saranno chiamati a spiegare al cittadino cosa sia la giustizia! E' interesse di tutti, spero, sapere di andare in Tribunale e trovarsi di fronte all'autorità di un giudice che serenamente ha superato un concorso pubblico.

Ancor più scandaloso che nessuno ne risponda! Qualcosa è successo, qualcuno ha fatto il furbetto, eppure nessuno viene indagato, processato o condannato! Tutto bene, tutto normale, tanto l'importante è guardare il dito...

Vogliamo presentare un breve excursus dal 1992 ad oggi dei casi più salienti, per vedere cosa è stato fatto e se realmente qualcosa è cambiato, scrive “Avvocati senza Frontiere”. Con il primo articolo del 2007 apparso sul tema un nostro anziano avvocato si domandava di quale credibilità potesse ancora godere la magistratura italiana se gli stessi concorsi per entrare a farne parte continuavano ad apparire poco trasparenti, come denunciato nei decenni precedenti da molteplici candidati, senza che si sia mai fatta piena luce sui diversi episodi di brogli e corruzione emersi in ogni parte d’Italia.

Correva l’anno 1992, quando trapelò per la prima volta che anche i concorsi per magistrati venivano truccati col beneplacito del Ministero di Giustizia e degli apparati di vigilanza: “Verbali sottoscritti da gente che non c’era, fascicoli spariti, elaborati giudicati “idonei” quando non lo erano affatto“. Passarono poi ben 13 lunghi anni prima di venire a sapere tramite un articolo di denuncia del Corriere della Sera, pubblicato nel 2005, che i gravi fatti del 1992 non avevano ancora trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia amministrativa italiana né tantomeno sanzione penale.

Nel 2005, nonostante l’autorevole denuncia di Silvio Pieri, ex Procuratore Generale del Piemonte, e le diverse interrogazioni parlamentari sul tema, la scandalosa vicenda del concorso truccato del 1992, risultava finita nel porto delle nebbie, così come ogni altra successiva denuncia del genere. Vale la pena qui ricordare il suggestivo episodio della fotocopiatrice integerrima che smascherò il broglio di una componente della commissione esaminatrice della sessione del marzo 2002 e al contempo magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d’ Appello di Napoli, la quale cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm, della corrente di Unicost, sostituendo clandestinamente durante la notte la prova giudicata negativa della sua protetta, ma venendo tradita dall’eccesso di zelo dell’incorruttibile copiatrice, utilizzata nottetempo dall’alto magistrato, che ripartendo al mattino misticamente vomitava fiumi di copie delle pagine contraffatte dalla giudice Dr.ssa Clotilde Renna.

Negli anni successivi, neppure l’agguerrito Ministro Alfano, al pari del Guardasigilli di centro-sinistra Mastella, provava a scalfire l’impenetrabile muro di gomma eretto dalla casta e dalle massomafie che la proteggono, sui criteri e le procedure che governano l’accesso alla magistratura. L’argomento, evidentemente troppo scottante anche per i falsi neoliberisti e i rampanti filoberlusconiani che sulla corruzione giudiziaria hanno prosperato, costruendo la loro fortuna economica e politica, continua così ad essere un tabù di cui nessuno si occupa.

Correva l’anno 2008, quando scoppia il nuovo caso della Fiera di Milano-Rho, in occasione dell’ennesimo Concorso Nazionale per Uditore Giudiziario truccato. Tra i 5600 aspiranti magistrati per soli 500 posti si scopre che c’è chi si può permettere di introdurre impunemente telefonini, appunti, codici “irregolari“, rispetto alle norme dettate dal concorso e addirittura libri di testo, tanto da scatenare un vero e proprio putiferio. Mentre decine di candidati urlavano in piedi “vergogna!“, un altro gruppo esprimeva il proprio sdegno chiedendo di annullare la prova.

Ma “more solito” tutto vien presto messo a tacere e il livello di preparazione e di moralità dei giudici italiani e la conseguente disponibilità a “non lasciarsi ammorbidire dal potere“, restano quelli che tutti abbiamo avanti agli occhi ogni giorno nelle aule d’udienza: aperto favoreggiamento dei più forti, nepotismo, corporativismo, prepotenza e arroganza mischiate spesso ad aperta ignoranza ed assenza di rispetto nei confronti di avvocati e soggetti più deboli. (C’è persino chi scrive durante la prova riscuotere con la “q”, chi confonde la Corte dell’Aja con la «Corte dell’Aiax», o un maturo Presidente di sezione di Corte d’Appello civile a Milano che alle soglie della pensione non conosceva neppure la differenza tra un reclamo in corso di causa ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. proposto al collegio da uno ex art. 669 septies c.p.c. proposto allo stesso giudice di merito).

La casta corrotta al pari della classe politica si protegge per autoriprodursi. Ma la cosa che più fa scalpore nel caso del concorso di Rho è il fatto che, messi a parte i dissidi tra il Guardasigilli Alfano e il C.S.M., è lo stesso organo di autogoverno della magistratura a richiedere con voto a maggioranza la frettolosa archiviazione del caso. Tutto normale anche per il Ministero di Giustizia, nonostante le molteplici denunce inquietanti di tanti candidati che segnalavano con dovizia di particolari come durante la prova milanese fossero saltate tutte le regole del gioco e che rampolli figli di noti magistrati avessero potuto fruire del tutto indisturbati di materiale vietato. Circostanza veramente anomala tenuto conto che il concorso per magistrati è ritenuto l’esame più controllato nel nostro Paese. I testi a disposizione dei candidati prima di venire ammessi e introdotti in aula vengono preventivamente verificati e timbrati da un’apposita commissione esaminatrice. Un cancelliere di Tribunale controlla siano realmente dei codici, che non vi siano nascosti appunti o fogli volanti e che siano conformi al bando. I nuovi brogli di Milano-Rho non potevano quindi venire liquidati, ancora una volta, laconicamente e senza alcuna indagine, per coprire le solite spinte corporative e gli oscuri interessi di chi controlla e manipola nell’ombra l’accesso in magistratura, prediligendo le logore logiche di nepotismo e di clientelismo, da cui si alimentano solo le massomafie, il malaffare e non di certo la legalità. Le molteplici proteste dei candidati della prova svoltasi alla Fiera di Milano-Rho per cui dovette persino intervenire la Polizia Penitenziaria per proteggere la commissione esaminatrice cieca, sorda e complice, non sono quindi ancora una volta servite a nulla.

La complicità della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Una cinquantina di candidati si recò in Procura a Milano per denunciare la gravità dei fatti di cui erano stati diretti testimoni, percependo che la Commissione intendesse mettere tutto a tacere per favorire i soliti raccomandati. Ma il procedimento, come di rito, viene frettolosamente archiviato, nonostante la quantità delle denunzie e la convergenza delle testimonianze, tutte acclaranti gravi irregolarità. Ciò, peraltro, senza disporre alcuna accurata necessaria indagine, seppure l’indignazione avesse inondato i siti web, estendendosi agli stessi consiglieri togati del Movimento per la giustizia e Magistratura Democratica che chiedevano un’inchiesta del Csm sulle innumerevoli irregolarità denunciate dai candidati.

Dai media si apprende della richiesta di apertura di un fascicolo da parte della 9° Commissione di Palazzo dei Marescialli con l’obiettivo di “avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell’assoluta affidabilità della procedura di selezione“. Ma, come denunciato, il 19 dicembre il C.S.M. definiva con una frettolosa archiviazione, eludendo ogni accertamento sullo svolgimento delle prove scritte del concorso indetto con D.M. 27/2/2008, svoltesi a Milano nei giorni 19/21 novembre 2008. La pratica era stata aperta da “I Giovani Magistrati”, all’indomani delle inquietanti notizie fornite da stampa e televisione, in ordine alle modalità di espletamento del concorso. Dal sito movimentoperlagiustizia.it si apprende che nel corso della discussione plenaria, i consiglieri del Movimento per la giustizia chiesero invano il ritorno della pratica in Commissione per l’espletamento di ulteriore attività istruttoria, già inutilmente da loro richiesta anche in sede di Commissione, non condividendo la circostanza che la Commissione avesse voluto frettolosamente portare all’attenzione del plenum del C.S.M. una delibera monca, articolata sulla base di un’attività istruttoria carente, costituita essenzialmente dall’acquisizione delle sole relazioni del presidente della commissione di concorso (17, 20, 22 nov. e 1.12.08) e del direttore generale direzione magistrati del Ministero (25.11 e 9.12), nonché dalle audizioni dei commissari di concorso e di altri funzionari del Ministero di giustizia e della Procura Generale di Milano. “Nessun cenno nella delibera in esame del contenuto delle 19 missive, pervenute alla 9° Commissione anche via e-mail, delle quali più della metà regolarmente sottoscritte da candidati che segnalavano disfunzioni gravi o meno gravi riguardanti soprattutto il ritardo verificatosi il 19 novembre nella dettatura della traccia di diritto amministrativo e la presenza in loco di testi non consentiti”. Per saperne di più, in relazione alla dinamica degli eventi, i tre consiglieri dissidenti aggiungono di avere inutilmente richiesto l’audizione di alcuni dei candidati firmatari degli esposti. Nessun cenno nella delibera del C.S.M. del contenuto della risposta del Ministro della Giustizia all’interrogazione parlamentare che, peraltro, si era sviluppata nel senso di una presa di distanza dall’operato della commissione di concorso. Il sito dei giovani magistrati del Movimento per la giustizia denuncia poi di avere sostenuto con forza che non vi fosse alcuna urgenza di definire, in tempi così brevi, una pratica dai risvolti talmente delicati, con una delibera che, agli occhi dell’opinione pubblica, avrebbe corso il rischio di essere additata (come in effetti, poi, accaduto) “come una risposta corporativa e sostanzialmente “a tutela” dell’operato della commissione di concorso“. Per di più, in una situazione in cui era in corso di indagini preliminari il procedimento aperto presso la Procura di Milano (iscritto a mod. 45), a seguito delle citate denunce pervenute dai candidati. Del resto, diversi sono gli aspetti inquietanti mai chiariti dal C.S.M. e dalla Procura di Milano, le cui archiviazioni hanno proceduto di pari passo per mettere tutto a tacere. Secondo quanto affermato nella relazione del Presidente Fumo sarebbero stati “schermati” i settori riservati ai candidati onde evitare comunicazioni telefoniche. Questo assunto, come si legge nel sito dei giovani magistrati, è stato smentito dal Direttore generale del Ministero, dott. Di Amato, che ha ammesso la mancanza di schermatura elettronica nei padiglioni ove si svolgeva il concorso, riscontrata peraltro dal sequestro di apparecchi telefonici che risultavano funzionanti all’interno dei locali. È appena il caso di rilevare che, come si legge nella relazione ministeriale, la “possibilità di una schermatura elettronica non ipotizzabile per la sede di Roma” era stata una delle ragioni che avevano condotto l’autorità competente alla scelta di Milano quale sede esclusiva di concorso. Quanto all’identificazione di circa 5.600 candidati con tesserini privi di fotografia e alla carenza di controlli anche dei testi e dei codici all’ingresso delle sale di esame (almeno 28.000 volumi), inutilmente proseguono i giovani magistrati di avere fatto richiesta di acquisizione di notizie più in dettaglio sui controllori (250 persone per ogni turno dislocate su 26 postazioni). Del pari, inutilmente hanno fatto richiesta di notizie sui 23 funzionari di segreteria e sui 750 addetti alla vigilanza durante le prove, che avrebbero potuto portare ad accertare le ragioni della discrasia tra l’enorme numero di addetti al controllo e gli insufficienti effetti del controllo medesimo. Accertamenti che avrebbero dovuto quindi trovare ingresso quantomeno in sede penale, onde poter escludere che l’indifferenza della commissione alle clamorose proteste dei candidati abbia inteso favorire i soliti raccomandati e che la prova invero “non fosse solo la solita farsa“.

Quanto allo svolgimento delle prove non ha poi convinto la scelta di non sorteggiare le materie nei diversi giorni di esame. “È vero che non vi era obbligo di legge in tal senso, ma è pur vero che ragioni di oppurtunità e trasparenza avrebbero dovuto indurre la commissione di concorso a procedere al sorteggio, così come le stesse ragioni inducono da anni il CSM a sorteggiare l’individuazione dei commissari di concorso”. Ma soprattutto, ciò che non ha convinto i giovani magistrati è stato l’indisturbato allontanamento del commissario, prof. Fabio Santangeli (poi dimessosi il 25.11), il giorno 19, che è stato la principale causa dell’abnorme ritardo nella dettatura della traccia di “diritto amministrativo”, avvenuta alle h.14. Parimenti, non hanno per niente convinto in particolare le giustificazioni fornite sul punto dal Presidente della Commissione, secondo il quale non sarebbe stato in alcun modo possibile trattenere nella sala il professore, senza chiarire la ragione perché non fosse stata approfondita sin dal primo momento la disponibilità di tempo del professore, evitando che partecipasse all’elaborazione dei testi. Cosa che poi provocava la ripetizione dell’operazione di individuazione /elaborazione delle tre tracce da sorteggiare, con l’ulteriore conseguenza della dettatura di una traccia ambigua, che ha causato ulteriori problemi di ordine pubblico, a causa delle diverse letture possibili. L’esistenza di queste accertate disfunzioni ed il mancato chiarimento di aspetti essenziali ai fini di un regolare e sereno svolgimento delle prove di esame avrebbero consigliato, secondo gli esponenti del Movimento per la giustizia, maggiore cautela nell’adozione di una delibera di archiviazione da parte del CSM. In definitiva, non si è compreso che solo una adeguata istruttoria avrebbe dissipato tutti i dubbi e reso trasparente l’operato della Commissione. Il nostro voto contrario, conclude il sito dei magistrati dissidenti, è determinato esclusivamente dall’esigenza di accertamento della verità. Esso non significa e non può significare “condanna”, ma rappresenta una decisa presa di distanza da una logica di “tutela” preventiva ed incondizionata in favore di tutti i protagonisti istituzionali della vicenda, troppo frettolosamente ritenuti attendibili, pur in difetto di quel “contraddittorio” con le voci dissonanti dei candidati, come da noi richiesto e ribadito. “Il voto contrario non significa quindi che si ritiene sussistere i presupposti per l’annullamento del concorso in via di autotutela, ma testimonia il nostro disaccordo su una risposta istituzionale del tipo “tout va très bien madame la marquise!“. Ne deriva che ”Madama la Marchesa” dovrebbe trovare del tutto preoccupante e scandaloso che anche l’ennesima indagine sui concorsi truccati in magistratura condotta dalla Procura di Milano sia stata frettolosamente archiviata in breve tempo, trascurando i molteplici riscontri probatori, che avrebbero dovuto indurre il P.M. a svolgere più accurate indagini, il quale senza neppure ascoltare le persone informate sui fatti e i candidati parti lese, prendeva invece per “oro colato” la relazione presidenziale e le sole fonti istituzionali. E’ quindi lecito dubitare che gli inquirenti al pari dei politici e dei membri del C.S.M. abbiano agito seguendo quel profondo senso di giustizia che dovrebbe animare coloro a cui è affidata la sorte della legalità.

E comunque, nella puntata di Report del 15 maggio 2011 sono stati svelati tutti i segreti che ci sono dietro ai concorsi per diventare notai, primari di ospedale o professori universitari. Forse abbiamo scoperto le modalità con cui vengono truccati alcuni concorsi ma che in Italia funzionasse così lo sapevano già tutti, non era certo un segreto che il figlio di un operaio potesse diventare notaio..neanche se molto meritevole. Interessantissima comunque l’indagine presentata da Milena Galbanelli, forse non abbiamo scoperto l’acqua calda ma il fatto che quello che succede venga raccontato apertamente in televisione è come una piccola ricompensa per chi queste cose le ha subite. L’argomento “raccomandati” è di moda nel nostro paese e lo dimostra anche il successo del film al cinema: C’è chi dice no.. Purtroppo la “raccomandazione” non serve solo per posti di lavoro molto ambiti come quelli trattati da Report, anche per lavori molto più umili occorre bussare la porta giusta o essere parenti di qualche personaggio di rilievo..  E’ inutile girarci molto intorno, l’Italia è proprio questa, programmi come Report possono però dare un piccolo aiuto a sensibilizzare la nostra mentalità sbagliata.

In questa curiosa Italia dove la legge è uguale per tutti ma per qualcuno è più uguale, dove le norme devono essere «interpretate» prima di venire «applicate, e dove la lotteria del ricorso al Tar è sinonimo di certezza del diritto, si riesce regolarmente ad aggirare perfino uno dei pilastri fondamentali del vivere civile sancito dalla Costituzione, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Più chiaro di così, l'articolo 97 della Carta non potrebbe essere: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Negli anni, però, la nostra creatività ha scovato mille modi per far prevalere su questo sacrosanto principio parentele, amicizie e legami d'altro genere. Il caso classico è quello delle assunzioni per chiamata diretta nelle società controllate dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali. Ricordate lo scandalo delle municipalizzate romane, rimpinzate di raccomandati da politici e sindacalisti? Qualche anno fa si è poi scoperto che il Consiglio regionale della Campania aveva centinaia di dipendenti in pianta stabile senza avere mai indetto un concorso pubblico dal 1971, quando la Regione era nata. Assunti da società pubbliche, erano stati distaccati presso gli uffici consiliari e poi «stabilizzati» con qualche leggina regionale. Ma non stupitevi: la pratica della «stabilizzazione» per legge, spesso votata di notte pochi giorni prima delle elezioni, è diventata ormai una regola comune in quasi tutte le Regioni.  Ma c'è un mezzo ancora più odioso per evitare l'obbligo del concorso. È il concorso stesso. Non passa giorno senza che arrivi la segnalazione di qualche presunto abuso nelle valutazioni, di regole studiate ad hoc per favorire questo o quel candidato, di esclusioni paradossali dalle selezioni pubbliche, di commissioni d'esame costruite in modo sospetto. Addirittura di ricorsi al Tar che inspiegabilmente si bloccano, mentre ricorsi gemelli procedono speditamente fino a spalancare a chi li ha presentati, di solito giovanotti dal nome eccellente, la strada di una prova d'appello spesso risolutiva. Certi concorsi pubblici assomigliano moltissimo a certi appalti pubblici nei quali si sa già in partenza chi sarà il vincitore. Le cronache sono sempre più piene di casi sconcertanti. Come quello del famoso chirurgo Mario Lanzetta, un luminare della ricostruzione della mano, al quale per nove anni è stata negata la cattedra di ortopedia, nonostante cinque sentenze a lui favorevoli. Oppure quello del cardiochirurgo diventato professore dopo aver superato l'esame davanti a una commissione composta da due igienisti e tre dentisti: ma era figlio del rettore di una grande università nella quale già insegnavano moglie e figlia. O ancora quello di un certo ateneo meridionale dove l'autorità Anticorruzione allora guidata dall'ex prefetto Achille Serra aveva scoperto che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50 per cento dei casi il corpo docente con personalità del mondo politico, forense o accademico». E non succede soltanto nelle università. Giuseppe Oddo ha raccontato martedì sul Sole 24 ore di un concorso per dirigenti della Regione Lombardia «mai apparso in Gazzetta ufficiale», vinto da 31 persone: molte delle quali, guarda caso, appartenenti al movimento di Comunione e liberazione «il cui esponente più noto», ha sottolineato il giornalista, «è il presidente della Regione Roberto Formigoni»: fra di loro anche il nipote di un vescovo e il biografo del fondatore di Cl don Alberto Giussani. Un concorso poi dichiarato illegittimo tanto dal Tar quanto dal Consiglio di Stato, ma grazie a un cavillo quei 31 restano al loro posto. Per non parlare delle autorità indipendenti, oggi una delle poche occasioni che si offrono ai nostri giovani di entrare a far parte di una classe dirigente «tecnica» di livello europeo. Basta dare uno sguardo agli elenchi di chi ci lavora. Si scopriranno innumerevoli coincidenze con illustri cognomi. Naturalmente hanno tutti superato un concorso. Magari anche molto selettivo, ne siamo assolutamente convinti. Peccato che talvolta ci sia una discrezionalità forse eccessiva (e difficilmente controllabile) nel giudizio di certi requisiti. Facciamo un esempio? Per essere ammessi a un recente concorso bandito da un'authority si assegnavano fino a 14 punti su un massimo di 50 per le esperienze post laurea. In che modo? Quattro punti per le esperienze ritenute «sufficienti», otto per quelle «buone», dodici per le «ottime» e quattordici per le «eccellenti». Ma perché un'esperienza dovesse essere considerata soltanto «sufficiente», piuttosto che «eccellente», non era specificato. Nello stesso concorso venivano attribuiti al massimo quattro punti su 50 per la conoscenza delle lingue. Così da non penalizzare chi non sapeva una parola d'inglese o spagnolo? Boh...C'è un posto di lavoro, ma che tu non potrai mai avere anche se studi e fai sacrifici per migliorare la tua preparazione perché è già prenotato da chi ha qualche santo in paradiso: è il messaggio più odioso che si possa mandare ai giovani. Toglie loro anche le residue possibilità di sperare, oggi che la speranza è così poca. È ora di dire basta ai concorsi truccati, falsati, pilotati. Un Paese che ha la meritocrazia nella Costituzione, ma poi non assicura ai suoi figli parità di condizioni, che Paese è?

Magistratura, avvocatura, notariato. La truffa dei concorsi. Considerazioni di Paolo Franceschetti a margine dell’esame da avvocato.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. 2. Considerazioni. 3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. Esce oggi il risultato della Corte di appello di Roma relativo all’esame da avvocato. I risultati sono sempre i soliti: meno del 20 per cento di promossi. Normalmente, tra le persone, sono passati i più mediocri, mentre i migliori non riescono a passare (questo osservando il risultato tra circa una settantina di miei allievi, ove riscontro questo curioso trend nel rapporto preparazione/superamento esame). Qualche tempo fa l’ineffabile Fatto Quotidiano (il giornale che non perde occasione per incensare il peggio del peggio del sistema che abbiamo – lodi all’Unione Europea, lodi ai magistrati più delinquenti, e ultimamente anche lodi alla massoneria con inviti ad iscriversi rivolti alla magistratura nel suo complesso – ; il giornale che riduce tutti i problemi italiani a due soli: la mafia e Berlusconi) ha pubblicato un articolo lodando la politica del Ministero della Giustizia in fatto di concorsi. Infatti di recente sono stati annullati due concorsi per l’accesso alla magistratura del Consiglio di Stato e del Tribunale amministrativo regionale (cosiddetto TAR) per irregolarità; è stato annullato un concorso notarile per palesi irregolarità. E’ il segno, secondo il quotidiano, che si tenta di fare pulizia in questo campo. In realtà è il segno che si sta facendo pulizia, sì, ma in senso completamente diverso. Spieghiamoci meglio. Fino a qualche tempo fa il concorso in magistratura e quello notarile erano considerati “puliti”. Circolava voce tra i candidati che queste prove fossero infatti tra le più pulite nel mondo dell’amministrazione pubblica. All’esame da avvocato, al contrario, le porcherie dell’amministrazione sono state effettuate sempre a cielo aperto. Il famoso caso di Catanzaro del 2001 fu la prova provata, lampante, eclatante, delle irregolarità di massa effettuate all’esame: la magistratura infatti – a seguito di una denuncia di tre candidati, che segnalarono il fatto che la commissione aveva dettato le soluzioni delle tre prove a tutti – aprì un’inchiesta che coinvolse tutte le migliaia di candidati presenti all’esame, oltre ai membri della commissione, ma il risultato fu che venne tutto messo nel dimenticatoio e archiviato. Le irregolarità sono continuate; e il sud continua a sfornare percentuali altissime di vincitori, a fronte della bassa percentuale dei candidati del nord, ove regolarmente vengono trombati i migliori e fatti passare i peggiori. Al concorso in magistratura, invece, le cose erano sempre andate diversamente. In realtà in questi anni anche il mito della pulizia di questo concorso è stato sfatato in modo palese. E’ dal 2003 infatti che le irregolarità al concorso in magistratura sono sempre più eclatanti. In quell’anno scoppiò il famoso caso Clotilde Renna, ovverosia il caso di un magistrato di Cassazione sorpreso a truccare un elaborato; successivamente la commissione avallò il comportamento del magistrato sostanzialmente ammettendo le irregolarità, ma non venne preso alcun provvedimento. Negli anni successivi c’è stato poi lo sfascio totale del concorso, con i candidati che portavano in aula testi non ammessi, le persone sorprese a copiare che non venivano espulse, ecc... Anche il concorso notarile sta seguendo, a quanto pare, il trend degli altri concorsi, mostrando apertamente le irregolarità commesse. Il motivo per cui è stato sospeso il concorso di recente, infatti, non è un motivo banale e secondario, ma un motivo gravissimo, che dimostra platealmente una precisa volontà di non seguire le procedure da parte della maggioranza dei commissari (precisamente furono assegnate – contrariamente a quanto dice la legge – delle tracce che erano già state assegnate pubblicamente in una scuola notarile romana).

2. Considerazioni. Che anche i concorsi per magistratura e notariato fossero truccati, in realtà, è sempre stato noto a chi lavora nell’ambiente. Ricordo perfettamente, ad esempio, che anni fa un magistrato della Corte Costituzionale, scambiandomi per un massone a causa dell’incarico importante che rivestivo (incarico da cui mi buttarono fuori dopo pochi giorni), mi propose di fare il concorso al TAR anche se non ne avevo i titoli, che tanto “ci avrebbero pensato loro”. Così come ricordo che un mio conoscente con cui facevo ogni settimana il viaggio Napoli-Roma, figlio di una importantissima famiglia romana, vinse il concorso notarile pur avendo sbagliato la soluzione e pur non riuscendo a cogliere la differenza tra usufruttuario di un bene e amministratore di un bene (secondo lui erano la stessa cosa perché l’usufruttuario ha anche l’amministrazione del bene), e superò anche l’esame da avvocato pur non avendo con sé i codici durante le tre prove, tranne quello di procedura penale (perché secondo lui il diritto civile e penale li conosceva, quindi il codice non gli serviva, e il codice di procedura penale invece lo aveva portato a tutte e tre le prove perché – cito testualmente – “può sempre servire”). La differenza dei concorsi in magistratura e notarile rispetto all’esame da avvocato era che le irregolarità erano molto più raffinate e nascoste rispetto a quelle dell’esame da avvocato (che sono sempre state commesse a cielo aperto) ed erano evincibili dai dati e si riusciva a captarle solo se si aveva una conoscenza approfondita del sistema. La gran differenza rispetto agli anni scorsi è unicamente che, da dieci anni a questa parte, il sistema ha deciso di rendere note a tutti le irregolarità. Oggi tutti le hanno potute constatare e raccontare. Resta da chiedersi il perché. Il sistema ha sempre nascosto le notizie che non voleva fossero conosciute, dando all’esterno l’immagine che sceglieva di avere. E’ ovvio allora che le irregolarità di questi ultimi concorsi, e l’accentuazione di quelle effettuate all’esame da avvocato, sono volute. Sono infatti troppo evidenti, e troppo stupide, per poter essere casuali. Far entrare dei candidati che portavano con sé testi non ammessi, sì che tutti attorno potessero constatare il fatto, e per giunta espellere in alcuni casi le persone che protestavano proteggendo colui che stava commettendo il reato, nonché ammettere pubblicamente le irregolarità, come fece in TV la commissione del concorso in magistratura nel 2003, assegnare a 5000 candidati delle tracce palesemente illegittime, significa perseguire una precisa volontà di esternare a tutti i candidati la situazione. Significa dire a tutte le migliaia di candidati: vedete? Noi commettiamo irregolarità! Questi concorsi sono truccati. Sappiatelo. E significa esternare tutto ciò in modo sfacciato, sicuri dell’impunità. Allora, lungi dal vedere in ciò un segno positivo del sistema, occorre vedere un segno di altro tipo. Occorre cioè domandarsi: perché il sistema ha deciso di uscire allo scoperto, rendendo palesi certe irregolarità? Il motivo a mio parere è sociale e psicologico.

3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità. Il motivo è da ricercare nel trend dell’attuale situazione politica. Tutti abbiamo notato che in questi anni c’è un decadimento della politica. Si sono abbassati i contenuti della lotta, e i personaggi che dominano la scena sono privi di spessore e cultura. La politica insomma è diventata un caos. L’istruzione, dalle scuole elementari all’università, peggiora la qualità dei servizi sfornando gente sempre più ignorante. Nell’ambito della giustizia si è fatta la stessa cosa. Perché il sistema attuale possa funzionare, dobbiamo avere leggi pessime e farraginose, magistrati ignoranti e demotivati, e avvocati dello stesso livello. Non a caso lo sfascio a cielo aperto del sistema giustizia comincia dal 2001, anno in cui viene nominato come Ministro della Giustizia un ingegnere. La nomina di un ingegnere come Ministro della Giustizia non è casuale. Apparentemente può sembrare un’anomalia come tante nel nostro panorama politico. Un’anomalia grave, ma in fondo simile a quella di tanti altri ministeri, ove si avvicendano alla sanità persone che di medicina non capiscono nulla, all’istruzione persone incolte, ecc. Ma in realtà la scelta non è affatto casuale. Ogni ministro, e ogni ruolo che ricopre, infatti, serve anche a dare un segnale politico e a trasmettere messaggi simbolici che possono essere colti solo da chi è “iniziato” a tale linguaggio. Era quello il segnale politico che doveva essere distrutto il sistema in modo sistematico. Nel 2001 abbiamo lo scandalo di Catanzaro. Nel 2003 lo scandalo Renna. In una discesa allo sfascio che ormai non conosce più ostacoli. Le ragioni? Demotivare i migliori. Far andare avanti prevalentemente i raccomandati, gli stupidi, quelli che il sistema non lo capiscono veramente. Gli altri, quelli che capiscono, scelgono di lavorare altrove. Abbandonano. Si demotivano. Perché non possono continuare a lavorare in un sistema dove vengono premiati i peggiori e in cui le irregolarità sono all’ordine del giorno, sotto gli occhi di tutti, e vengono commesse sia nelle piccole cose che nelle grandi. Il 2001, insomma, è l’anno cruciale per il sistema giudiziario. La nomina di Castelli all’esecutivo è l’ordine – dato in termini simbolici – di dare il via alla danza dell’irregolarità conclamata. Le ragioni delle scelte ministeriali in tema di esame da avvocato e concorsi, insomma, è la stessa che sta alla base di tutte le altre scelte politiche. Sfasciare. Demotivare. Ordo ab chao, il motto massonico.

La vicenda dei compiti non corretti nel concorso del 1992. «NON INSABBIATE LO SCANDALO DEL CONCORSO». L'ex pg del Piemonte: colpiti anche i magistrati onesti. TORINO. Così, il giorno dopo le rivelazioni de «La Stampa» sul concorso per uditori giudiziari, parla l'ex procuratore generale del Piemonte, Silvio Pieri. L'alto magistrato non usa mezzi termini: «Quanto è accaduto è gravissimo. Ho avuto modo di verificare l'intera documentazione raccolta dall'avvocato Berardi. Ho fotocopiato tutti gli atti, uno per uno. Credo che, a un certo punto, questa situazione si potesse risolvere subito, con decisione, con la necessaria trasparenza. Ma il ministero ha pervicacemente rifiutato, sino all'ultimo istante, di affrontare in modo  diretto quanto era accaduto, quanto era sotto gli occhi di tutti. Con il risultato di mettere a pregiudizio le posizioni anche di quei magistrati che svolsero, in allora, i temi in modo corretto. Ma non credo assolutamente che si possano ulteriormente ignorare i verbali sottoscritti da gente che non c'era, la storia dei fascicoli spariti, degli elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto». Non solo. Contro il muro di gomma opposto dal ministero di Grazia e Giustizia (a proposito del concorso per uditori giudiziari del 20, 21, 22 maggio 1992, ora sotto accusa per aver trasformato in «idonei» decine di candidati autori di prove molto discutibili) erano già rimbalzate, nel corso degli anni, ben 13 interpellanze parlamentari, firmate quasi tutte da Nicky Vendola di Rifondazione Comunista, ma anche da esponenti di An e di altri partiti. Morale: nessun risultato. Acqua fresca. I vari governi «prendevano atto», e tutto ricadeva nel silenzio. Adesso, in attesa dei risultato del ricorso presto in discussione al Consiglio di Stato per ottenerne l'annullamento, emergono nuovi e sconcertanti aspetti di quelle prove d'esame, che hanno poi regolarmente trasformato in magistrati 275 candidati su 2244. I «promossi» di allora rischiano il posto, anche se le sentenze e le decisioni emesse in questi anni non perderanno la loro validità. L'avvocato penalista Pierpaolo Berardi è riuscito - dopo un'estenuante ed epica battaglia con il ministero - ad avere visione dei temi giudicati «idonei». «Uno choc -racconta ora, nel suo studio, nel centro di Asti - perchè le irregolarità erano così palesi da rasentare il ridicolo». I temi sono contrassegnati da numeri, in modo da non rivelare l'identità del candidato alla commissione. Dunque, tra i promossi, il 624 non conclude il tema; il 1050 utilizza solo settori del protocollo, lasciandone una parte in bianco, così come il 525 e l'848, che usa una facciata sì e una no; il 1053 fa di più: cambia più volte la calligrafia; il 791 è un tipo strano. Un tema lo scrive tutto in stampatello, il secondo e il terzo in corsivo; il 210 ha un singolare rapporto con le C. In alcune compare un vezzoso, insistito, ben sottolineato, «ricciolino». In molte altre C, però, niente. Ancora: il 1440 «copia interi brani, e i temi sembrano, anzi sono, l'esatta fotocopia di testi giuridici»; il 2006 cambia la grafia, come se un vento tempestoso soffiasse sulle linee verticali delle T, delle P, delle Q. Ogni tanto piegano a destra, ogni tanto a sinistra, ogni tanto ritornano al centro. Abbastanza da far impazzire un grafologo. «...Sistemi, anche rozzi, solo per farsi "riconoscere". Ma sono solo un esempio. C'è anche il 1457, che scrive in un modo assolutamente illeggibile. Come hanno fatto altri», spiega l'avvocato, che spera «di avere, prima o poi, giustizia», non solo dal Consiglio di Stato, ma anche dal gip di Perugia, che dovrà decidere proprio in questi giorni sulla sparizione dall'archivio del ministero dei tre temi del candidato, attuale magistrato, Francesco Filocamo, e sui misteriosi verbali di quella commissione, le cui firme conclusive, all'altezza dello spazio riservato al segretario, portano talvolta questa curiosa dizione: «Apposta per errore». Appunto, errori su errori. «Ho avuto molte prove di solidarietà, in queste ore. Decine di telefonate. Professori universitari, avvocati da tutta Italia. E soprattutto numerosi magistrati. Mi hanno detto di continuare questa battaglia, di non farmi intimidire da nessuno, che è giusta, che difende la professionalità e l'integrità morale dei magistrati, la maggioranza, che il concorso lo hanno vinto con onestà, dopo anni di studi e sacrifici. No, non me lo aspettavo», dice l'avvocato. Nel corso dell'interminabile iter, il Tar impose tra l'altro che le prove di Berardi fossero riesaminate. «Ma i miei temi finirono sotto gli occhi della stessa commissione che mi aveva già dichiarato inidoneo. Il buon senso avrebbe voluto che fossero nominati altri, nuovi, esaminatori. Come avrebbero potuto, i primi, sconfessare il loro primo giudizio? Lo confermarono. E stop. Solo un magistrato, Giovanni Bellagamba, si dimise con una lettera. Spiegando che quella procedura non era corretta nei miei confronti». Il dossier raccolto dall'avvocato di Asti sarà oggetto di nuove interpellanze parlamentari. Con la speranza che non vadano a morire, come le altre, perdute nel porto delle nebbie. Tratto da "La Stampa", 10 settembre 2004.

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Il che sta scatenando una serie di ricorsi che, insieme con l'inchiesta penale aperta dopo la scoperta dello scandalo della fotocopiatrice di cui il Corriere ha già scritto e con la denuncia di un giudice indignato che ha chiesto a Ciampi l'annullamento della prova, rischiano di far saltare tutto. Sia chiaro: alla larga da ogni tentazione anti-meridionalista. Moltissime delle vittime di questa «anomalia», come provano le email furibonde inviate ai siti Internet specializzati quali www.sarannomagistrati.it, sono giovani laureati meridionali certi d'avere subito un sopruso. Meridionali (e napoletani «sfortunati») sono molti dei firmatari degli esposti al Tar. E ancora meridionale è l'avvocato Giovanni Pellegrino, già senatore della sinistra, al quale sono state affidate una cinquantina di denunce. Un esempio solo: in tutta la Sardegna coloro che hanno superato sia la «preselezione informatica» sia gli scritti, sono stati 6. Uno ogni 266 mila abitanti dell'isola. Contro una media nazionale (alzata dall'impennata partenopea: uno ogni 43 mila) di un promosso ogni 137 mila che senza la Campania sale a uno ogni 187 mila. Tutti tonti, i bocciati? Mah... Forse vale la pena di ripartire dall'inizio. E cioè dalla mattina del 24 settembre 2002 in cui i laureati in giurisprudenza che sognano di entrare in magistratura partendo dal ruolo di uditore giudiziario vengono convocati alla selezione preliminare, un test su una scelta di alcune decine di quiz presi dai 15.743 pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale. Le sedi d'esame sono quattro: Torino (tutti i candidati del Nord, tranne l'Emilia), Roma (tutti quelli del Centro, più l'Emilia-Romagna, la Campania e Reggio Calabria), Bari (tutti quelli della Puglia, della Basilicata e di Catanzaro) e Palermo (tutti i siciliani). I convocati sono 25.204, dei quali 1.236 di Roma e del Lazio, 1.008 del  distretto di Corte d'Appello di Napoli (tutta la Campania, meno Salerno), 414 di quello di Milano e della Lombardia occidentale (Bergamo, Mantova e Cremona stanno con Brescia). Alla preselezione, in realtà, si presentano in 10.153. Dei quali circa un quinto (1.952, più gli emiliani dirottati alla sede d'esame di Roma) delle regioni settentrionali. Una quota molto bassa, rispetto alla popolazione che, Emilia-Romagna compresa, rappresenta il 44% della popolazione italiana. Prova provata che la toga non gode, al Nord, del fascino che esercita sui giovani del centro ma soprattutto del Sud della penisola. Una disaffezione grave. Accentuata, diciamo così, tra i membri della commissione esaminatrice, presieduta da Michele Cantillo, a lungo presidente della commissione tributaria di Salerno e poi di una sezione della Cassazione. Commissione che vedeva la presenza di 11 giudici (6 delle regioni settentrionali tra i quali Francesco Saverio Borrelli) del Centro-Nord, in rappresentanza del 66% per cento della popolazione italiana, e 13 del Sud, dei quali 7 di Napoli o Salerno, in rappresentanza del restante 34%. Ma ancora più anomala era la composizione della fetta accademica della commissione: su 8 professori, infatti, uno veniva da Teramo e tutti gli altri dagli atenei del defunto Regno delle Due Sicilie, con una preponderanza straripante di docenti napoletani: cinque su otto. Tutto regolare, per carità. Tutto regolare. Ma non è questo un metodo geniale per portar acqua al mulino di quei razzisti nostrani che ragliano di una «giustizia terrona»? Non sarebbe stata più saggia, moralmente e politicamente, una scelta meno squilibrata? Certo è che il cammino del concorso è stato fin dall'inizio accidentato. In plateale contrasto con le regole più ovvie previste per un concorso che doveva assumere 350 persone nel ruolo e nel settore più delicati della pubblica amministrazione, per esempio, i fogli consegnati per la prova scritta agli esaminandi non erano firmati dal presidente o da un suo incaricato ma solo timbrati. E furono distribuiti così disordinatamente che moltissimi sono stati portati a casa dai candidati (e se fu possibile portarli fuori è ipotizzabile che qualcuno avesse potuto anche portarli dentro, magari già compilati) per finire come prova delle irregolarità nei fascicoli delle denunce alla magistratura. Alla diffidenza seminata tra i giovani con questo andazzo un po' arruffone per una prova così delicata, fu aggiunta una scheda elettronica con i quiz, tipo la nuova patente di guida, non sorteggiata ma nominale: a Mario Rossi i quiz destinati a Mario Rossi, a Luigi Bianchi i quiz destinati a Luigi Bianchi, con tanto di fototessera dell'aspirante uditore. Viva la fiducia, ma non sarebbe stato meglio evitare anche il sospetto che il raccomandato Tizio Caio avesse avuto i suoi 90 quiz accuratamente scelti tra i più facili? Non bastassero le polemiche, ecco arrivare infine lo scandalo fatto esplodere dalla «fotocopiatrice legalitaria e giustizialista». Ricordate? Una delle toghe della commissione, la napoletana Clotilde Renna, chiese ai colleghi come fosse andata una sua protetta. Ricostruzione del giornale online Diritto e giustizia edito dalla Giuffrè: «I colleghi mostrano il risultato: respinta, c'erano alcune lacune che non consentivano un giudizio favorevole. "Ma come - chiede il magistrato-commissario - è una ragazza molto brava". "Sarà - rispondono - ma la prova non va bene". Il giudizio era già stato verbalizzato, non c'era più niente da fare». A quel punto la donna, decisa comunque ad averla vinta, si introdusse di notte nella sala dov'erano custoditi i compiti, aprì la busta con l'esercizio della raccomandata, infilò un nuovo foglio con alcune correzioni che avrebbero permesso alla sua coccola di fare ricorso al Tar contro la bocciatura. Non contenta, per dimostrare quanto aveva fatto a chi le aveva chiesto un occhio di riguardo per la pulzella, tentò di fare una copia del falso. Al che la fotocopiatrice si ribellò e, grazie all'errore d'impostazione nella programmazione delle copie, cominciò a sfornarne per ore e ore, a centinaia e centinaia. Col risultato di smascherare l'imbroglio e di far scattare la denuncia, l'inchiesta, la rimozione di Clotilde Renna dalla commissione. «Se irregolarità vi è stata, e questo sarà oggetto di accertamento», avrebbe dichiarato la donna poco prima di essere sospesa, «tengo a precisare che la serenità della commissione non può essere in alcun modo messa in discussione e così i lavori da essa compiuti». Grazie, ex-giudicessa: se ce lo garantisce lei! Macché: per niente rassicurati dalla serenità della visitatrice notturna, i giovani laureati non ammessi agli orali hanno preso a tempestare Internet di domande. Come faceva la Renna a chiedere notizie di un nome, qualunque fosse, se i temi devono per legge restare anonimi fino al momento in cui tutti (tutti) sono già stati corretti? E come potevano i colleghi della commissione risponderle che la sua protetta era stata trombata se anche per loro ogni compito doveva essere anonimo? E chi diede alla magistrata nottambula le chiavi della stanza dove stavano gli scritti? E come fece la falsaria a individuare la busta giusta se questa doveva essere priva di segni di identificazione? Insomma: siamo sicuri che noi cittadini stiamo assumendo come magistrati tutte persone perbene e non anche qualche furbetto che ha mischiato le carte per indossare la toga? Il ministero e il Csm hanno niente da dire? Ma non è finita. Alla lista dei dubbi, infatti, se n'è aggiunto un ultimo. Messo chiaro e netto in questi giorni in un esposto a Carlo Azeglio Ciampi, Roberto Castelli e Virginio Rognoni dal giudice onorario Carlo Michele Mancuso. Il quale, forte di un cognome siciliano che da solo spazza via ogni ipotesi di polemica anti-meridionalista o bossiana, non solo si richiama a tutte le perplessità già riassunte («pare certo che la correzione degli scritti non è avvenuta in modo collegiale» e senza «alcuna garanzia di eguaglianza, imparzialità e legalità nei confronti di tutti») ma chiede di annullare il concorso anche per lo strabiliante trionfo dei candidati campani: «E' difficile pensare a una percentuale così alta di candidati appartenenti a un solo distretto giudiziario». Mancuso parla espressamente di «provato favoritismo». Altri, più benevoli, citano la mitica tradizione giuridica napoletana. Oppure la preparazione fornita dalle grandi scuole partenopee quali quella di Rocco Galli, così famosa e così frequentata che i corsi ormai si tengono solo a Roma in ampie sale da centinaia di posti quali il cinema «Nazionale» o il teatro «Sistina». O ancora la preponderanza tra gli aspiranti giudici di giovani meridionali, preponderanza che fatalmente porterebbe ai risultati di oggi. Tutto vero. I numeri, però, danno da pensare: è mai possibile che gli ammessi agli orali dei distretti di Napoli e Salerno (un 25° dei candidati, inizialmente) siano 132 e cioè il doppio di tutte le regioni del Nord che messe insieme (tolta l'Emilia Romagna) arrivano stentatamente a 74? Possibile che i ragazzi laziali passati ai preliminari e agli scritti siano stati il 3,7% e quelli campani (tolta Salerno) addirittura il 12%? Possibile che la Campania abbia poco più degli abitanti della Sicilia ma il quadruplo (132 contro 36) dei quasi-giudici e tre volte la popolazione della Sardegna ma 22 volte più geni del diritto? Per non parlare del rapporto con alcune regioni settentrionali come il Veneto e il Friuli, che insieme fanno più abitanti della Campania ma si ritrovano con una dote di futuri magistrati otto volte più bassa: 17 contro 132. Tutti mona? Domanda: c'entra qualcosa, in queste eccentriche coincidenze, un pizzico  di campanilismo, familismo, favoritismo? A meno che non sia una domanda impertinente...  Gian Antonio Stella (La Stampa 10 09 04 - tratto dal Corriere della Sera)

"Durante la prova scritta una commissaria, magistrato di Cassazione, avrebbe favorito una candidata, correggendo il suo compito «Indagate sul concorso truccato dei giudici» Il Tar chiede al Guardasigilli di far luce su presunte irregolarità degli esami"di Massino Martinelli (Da Il Messagero, 7 ottobre 2004). Il ministero della Giustizia dovrà avviare una ispezione sulla regolarità del concorso per magistrato, tuttora in svolgimento. A sollecitare l'attività dell'Ispettorato è stato il Tar del Lazio, dopo che alcuni candidati esclusi dalla prova orale avevano avanzato dubbi sulla trasparenza dei criteri per la correzione dei compiti. A provocare la polemica è stata la scoperta, lo scorso luglio, del tentativo di una commissaria d'esame, consigliere di Cassazione, di correggere il compito di una candidata sua amica. Il magistrato è stata indagata e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio, ma adesso molti dei 25 mila candidati chiedono di ripetere le prove. Il Tribunale amministrativo del Lazio, prima di pronunciarsi sul ricorso di alcuni esclusi, chiede "accertamenti" al Guardasigilli «Concorso dei magistrati, il ministro indaghi». La candidata favorita da una commissaria, interviene il Tar: serve un'ispezione. Adesso nessuno potrà far finta di niente, nei corridoi del ministero della Giustizia. La patata bollente del concorso truccato per entrare in magistratura dovrà essere presa in mano, sbucciata e servita ben aperta a chi deve decidere se quei 25mila ragazzi che sognavano la toga dovranno ricominciare tutto daccapo oppure no. Con una decisione che ha pochi precedenti, il Tar del Lazio ha infatti "invitato" il ministero della Giustizia ad avviare una ispezione formale sull'accaduto. E' come se un controllato chiedesse al controllore di darsi una mossa per scoprire chi, e perché, e come, ha commesso una grave irregolarità. Eppure, su questa vicenda che vede come protagonista un (ormai ex) alto magistrato di Salerno, il consigliere di Cassazione Clotilde Renna, si sono già mossi in tanti. La Procura di Roma l'ha indagata per falso e abuso in atti d'ufficio; il Csm l'ha sospesa in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio. Ma il ministero, niente. «Evidentemente, temono che una ispezione formale possa rallentare il concorso, o peggio, bloccarlo - sussurra un alto funzionario del ministero che chiede l'anonimato - E di questi tempi, sarebbe davvero negativo rinunciare ai nuovi magistrati». Eppure, il Tar del Lazio, questa ispezione la chiede ufficialmente. Anzi la "ordina", come si legge nell'ordinanza del 25 settembre scorso. E assegna anche un termine al Capo dell'Ispettorato: 45 giorni. Al termine dei quali dovrà essere depositata una relazione che risponda ad una serie di quesiti indicati nell'ordinanza. La storia è nota. Il sostituto procuratore generale di Salerno, Clotilde Renna, da trent'anni in magistratura, già componente della commissione d'esame di quel concorso, è accusata di aver sostituito alcune parti di un compito scritto che era già stato corretto e giudicato insufficiente. L'aggiunta, che tecnicamente gli inquirenti chiamano "falso per addizione" sarebbe servita ad una giovane candidata, per ricorrere contro l'esclusione. Il pm incaricato degli accertamenti, Pietro Giordano, ha già convocato l'alto magistrato per contestargli i reati; e la Renna sarebbe pronta a presentarsi la prossima settimana, assistita dal professor Alfonso Stile. Le indagini della Procura hanno ricostruito tutti i passaggi della vicenda, a cominciare dalla curiosa circostanza che portò alla scoperta del fattaccio: la Renna avrebbe fatto alcune fotocopie del compito corretto e la macchina si sarebbe inceppata per esaurimento della carta; la mattina dopo, una volta ricaricata, avrebbe ricominciato a sfornare copie del compito riveduto e corretto, tra lo stupore degli altri commissari d'esame. E' stata identificata anche la candidata che avrebbe goduto del falso compito: si tratta di una ragazza che l'alto magistrato conosce e alla quale è legata da un legame affettivo. Questa verifica ha permesso di escludere l'ipotesi della corruzione: se effettivamente la commissaria si adoperò per sostituire il compito della giovane candidata, questo non avvenne dietro pagamento di denaro. Ma il Tar del Lazio, che non ha poteri investigativi ma deve basare le sue decisioni sugli accertamenti svolti da altri, ha deciso di chiedere al Csm il fascicolo sul caso Renna e di mobilitare il ministero per conoscere una serie di circostanze ancora dubbie. Ad esempio: l'alto magistrato continuò a correggere compiti anche dopo l'episodio della fotocopiatrice? E come faceva a sapere qual'era il compito della sua protetta se gli elaborati erano contrassegnati solo da un numero e la lista dei candidati con il numero di riferimento doveva essere segreta a tutti? E ancora, come sono state formalizzate le dimissioni della dottoressa Renna dalla commissione d'esame, visto qualcuno parla di una lettera di dimissioni con la data lasciata in bianco? Insomma, il Tar del Lazio vuole sapere se qualcuno, in seno alla Commissione, abbia cercato di tenere tutto nascosto anche dopo la scoperta del fattaccio. Intanto, i cinquanta candidati che, con l'assistenza del professor Giovanni Pellegrino, si sono rivolti al Tar, aspettano fiduciosi. Chiedono che i compiti siano corretti di nuovo da una commissione al disopra di ogni sospetto. E sembra che il Tar abbia intenzione di accontentarli.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

"Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male”. Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, a La Zanzara su Radio 24. “Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che nelle tre legislature che aveva fatto alla Regione Veneto nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo”. “E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista”. Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi.

Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, tre mesi or sono Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.

Anche perché a volte qualcosa suona strano. Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza, che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il "coordinamento" delle indagini di Palermo. E nella Magistratura vi sono molte famiglie che adducono che la funzione giudiziaria è roba loro. Anche Luigi De Magistris ha una famiglia di Magistrati. Lo stesso Francesco Saverio Borrelli è tra familiari magistrati. Che strano!!! Qui non si parla più di Raccomandazione. Arriviamo addirittura alla biologia. Si diventa magistrati non più per discendenza o lignaggio, ma per DNA. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

Un decreto cautelare emesso dopo sole 24 ore dal deposito, di sabato, da chi non era legittimato ed in favore di un azienda in odor di mafia.

Arriva al capolinea l'inchiesta sull'aggiudicazione provvisoria alla Cogea dell'appalto dei servizi di igiene urbana del comune di Casarano, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ed ecco che viene ufficialmente formalizzata l'iscrizione nel registro degli indagati del presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari. Il suo nome compare nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nelle scorse ore, a firma del procuratore capo Cataldo Motta, insieme a quelli dell'avvocato Luigi Quinto, 38 anni, di Lecce, e di Enzo Giannuzzi, 67 anni, di Nardò, direttore della segreteria della prima sezione giurisdizionale del Tar. L'ipotesi di reato che viene contestata loro è quella di concorso in abuso d'ufficio. La vicenda ormai nota, è balzata nel settembre dello scorso anno agli onori delle cronache quando iniziarono a trapelare le prime indiscrezioni su un'inchiesta che vedeva coinvolto il numero uno del Tar di Lecce, al quale i carabinieri del Nucleo investigativo avevano sequestrato il computer. Oggetto del contendere un decreto cautelare emesso il 3 marzo 2012 con il quale il presidente Cavallari aveva accolto il ricorso presentato dalla Cogea che appena il giorno prima si era vista revocare dal comune di Casarano l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto dei servizi di igiene urbana. Una decisione-lampo, presa dopo sole 24 ore dal deposito del ricorso, che secondo la Procura sarebbe stata priva dei requisiti di «estrema gravità ed urgenza». Un disegno ordito, quindi, con il solo scopo di «procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale alla Cogea Srl».

Dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta sul Presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio, l’Avvocato Pietro Quinto non nasconde a TRnews la propria perplessità, dopo tutto, per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio, Erminia Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita, boss del Sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto, fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che, in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo  l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole”, sottolinea ancora l’Avv. Quinto. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto, la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.

Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo. La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012. All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’infor mativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casar ano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte. L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita , quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.

Cavallari non è nuovo ad essere soggetto di accuse.

"Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda". I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm, bufera su Antonio Cavallari. "E' incompatibile". "Accuse infondate, il legale si occupa di cause di lavoro", scrive  Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il primo a lanciare la pietra era stato il presidente dell'Arpa pugliese, Giorgio Assennato. "L'Ilva  -  aveva detto  -  non si è mai voluta sedere a un tavolo con noi. Sono rimasti sull'Aventino e hanno continuato a fare ricorsi su ricorsi al Tar di Lecce, sempre vinti... Sono sicuro che anche la Procura di Taranto perderebbe se fosse il Tar di Lecce a decidere sui suoi atti". Subito dopo erano intervenute le associazioni ambientaliste, segnalando come in questi anni molte decisioni di natura sanitaria prese da Comune e Asl fossero state sempre cassate dal Tar. Ora il caso arriverà davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Perché? Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, è il cognato (hanno sposato due sorelle) di uno degli avvocati esterni dell'Ilva, Enrico Claudio Schiavone. "Una situazione  -  spiegano dal direttivo nazionale di Legambiente  -  che secondo noi è doveroso segnalare al Csm perché il Consiglio valuti eventuali situazioni di incompatibilità o anche soltanto di opportunità. La situazione è così delicata, che richiede il massimo della trasparenza a tutti i livelli. Anche quello della magistratura amministrativa". I due protagonisti però rimandano al mittente tutte le accuse. "Da un punto di vista tecnico, non siamo nemmeno affini. E soprattutto l'avvocato Schiavone non difende l'Ilva davanti al Tar". Schiavone è infatti un lavorista, è lui a difendere il siderurgico (in qualità di consulente esterno) nella maggior parte delle cause contro i lavoratori: "Questo della parentela  -  dice  -  è un dettaglio insignificante". Il Tar era finito nell'occhio del ciclone per aver accolto una serie di ricorsi dell'Ilva: dal referendum chiesto dai cittadini per decidere sulla chiusura dello stabilimento a una serie di ricorsi di natura sanitaria. A febbraio il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, aveva ordinato la fermata degli impianti per effettuare una serie di lavori per ridurre inquinamento e impatto ambientale. Ma il Tar aveva sospeso il provvedimento sostenendo che non esisteva un'emergenza sanitaria tale da giustificare "l'esercizio del potere di ordinanza attribuito al sindaco". Qualche mese dopo sarebbe arrivata la decisione del gip, Patrizia Todisco, di sequestrare l'impianto proprio per l'emergenza sanitaria. "Ma se c'è qualche responsabile in questa vicenda  -  dice Cavallari  -  è chi doveva controllare e non lo ha fatto. Noi in 23 anni abbiamo avuto appena 36 ricorsi dell'Ilva e molti sono stati respinti, come per esempio quelli su alcune prescrizioni dell'Aia". Assennato però faceva riferimento a un provvedimento dell'Arpa che, già nel 2010, imponeva all'Ilva di abbassare le emissioni di benzoapirene, l'inquinante segnalato come pericolosissimo oggi dai periti della procura. I tarantini potevano risparmiare due anni di veleno. Ma anche in questo caso, il provvedimento fu cassato. "Ma era incoerente  -  spiega il giudice amministrativo  -  si chiedeva all'Ilva di applicare determinate prescrizioni in materia di emissioni sulla base di parametri stabiliti in tempi successivi. Se si stabiliscono dei limiti alle emissioni, e poi quei limiti vengono abbassati, noi dobbiamo basarci sui parametri in vigore nel momento in cui si contesta il superamento di quei limiti". Cavallari, tra l'altro, in questi giorni è al centro di un'altra inchiesta giudiziaria. È indagato per abuso di ufficio con l'accusa di aver riassegnato un appalto a un'azienda che era stata esclusa per mafia. Firmò lui il provvedimento nonostante toccasse a un'altra sezione. "Ma era un provvedimento d'urgenza e la collega non c'era: agimmo in accordo. Sono serenissimo" conclude il giudice amministrativo.

Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

MAGISTRATURA ED ABUSI: POTERE MAFIOSO?

Nell'agosto 2011, molto prima che gli venisse assegnato il verdetto della Corte dei Cassazione sul Cavaliere, il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Suprema Corte, durante una cena si è sfogato con i commensali: "Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così". A raccontare l'aneddoto è stato il Giornale raccogliendo la testimonianza di un imprenditore calabrese, Massimo Castiello, che aveva invitato nella sua villa a San Nicola Arcella, sul Tirreno, la toga. A tavola c'era anche l'attore Franco Nero che oggi conferma le parole del suo ospite. Chiamato al telefono Libero ha confermato che da parte di Esposito non c'era un atteggiamento sereno nei confronti di Berlusconi.  

"Se becco Berlusconi gli faccio un mazzo...". Spunta un'altra imbarazzante cena (con testimoni) in cui il magistrato dichiarava il suo pregiudizio scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. «Berlusconi mi sta proprio sulle palle. Se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Parlava a ruota libera il giudice Antonio Esposito davanti ai commensali stupiti. Sono passati due anni da quella cena, ma il padrone di casa, Massimo Castiello, si ricorda ancora molto bene quelle parole. «Ce l'aveva col Cavaliere, i suoi non erano giudizi affrettati, si capisce che coltivava proprio un'antipatia profonda. Non lo sopportava. E non si faceva problema nel comunicarlo a chi gli stava intorno». È l'agosto del 2011. Castiello, piccolo imprenditore sessantottenne con interessi nel mondo immobiliare, organizza una serata fra amici nella sua villa con vista Tirreno di San Nicola Arcella, in Calabria. «Io e Esposito ci conosciamo da una vita. Esposito faceva il pretore a Scalea, in provincia di Cosenza, non lontano da San Nicola Arcella, il mio paese. Insomma, sia pure a salti, con le intermittenze della vita, ci siamo frequentati. Anche se poi ci siamo persi per un certo periodo. Comunque, per l'occasione allargo gli inviti, anzi nella mia testa quel piccolo evento serve per far incontrare Esposito e un altro mio amico, anzi l'unico mio vero amico, Franco Nero». Sì, il grande attore, l'interprete di tanti film indimenticabili. «Ho scoperto - riprende Castiello - che Esposito è un fan scatenatissimo di Nero, ha visto quasi tutti i suoi film, cita a memoria scene e battute, meglio di uno sceneggiatore, e insomma l'occasione è ghiotta. Nero in quell'agosto di due anni fa è ospite a casa Castiello ed Esposito, come d'abitudine, trascorre il periodo estivo a Sapri che non è molto lontana». Il menu d'ordinanza prevede pasta, patate e provola. «Un piatto delizioso, accompagnato da un buon vino locale». Il tutto nella cornice meravigliosa di una terrazza porticata a strapiombo sulle acque del Tirreno. Una cena da cartolina. «Dunque a tavola siamo in sette: io e mia moglie Sandra, Esposito e la sua signora, altre due persone e lui, il mito. Franco Nero». Si parla e si sorride, ma è chiaro che la star della serata è Nero. Esposito s'informa e a un certo punto il discorso cade su un film che gli spettatori italiani non hanno mai visto: L'escluso, in cui Franco Nero è diretto dal figlio Carlo e recita insieme alla moglie Vanessa Redgrave. «È la storia di un avvocato italoamericano che fa di tutto per far assolvere il proprio cliente. La trama è ambientata negli Stati Uniti e la pellicola è stata girata negli Usa, alle porte di New York. In Italia però non è mai arrivata». Pare che i diritti siano stati acquistati, combinazione, da Mediaset, comunque L'escluso qui da noi è un fantasma. «Ora non ricordo bene - prosegue Castiello - ma forse, proprio a partire dal film il discorso è scivolato su Berlusconi. Sento ancora le parole del magistrato che mi hanno ferito non una ma due volte. La prima perché io ho sempre avuto simpatie berlusconiane, la seconda, molto più importante, perché chi parlava era il presidente della seconda sezione della Cassazione». Un magistrato autorevolissimo, un giudice, che in teoria, avrebbe pure potuto trovarsi un giorno faccia a faccia con l'imputato Silvio Berlusconi». Come poi puntualmente è avvenuto tre settimane fa quando la Suprema corte, presieduta da Esposito, ha condannato il Cavaliere a 4 anni di carcere per frode fiscale, al termine del processo Mediaset. Due anni fa nessuno poteva prevedere che quello sarebbe stato il finale e però Esposito - se sono veritiere le affermazioni di chi lo invitò quella sera - avrebbe dovuto frenare. E invece il giudice, davanti a una tavolata composita, con persone che in parte conosceva e in parte no, e con un personaggio famosissimo seduto vicino a lui, si lascia andare a briglia sciolta: «Berlusconi mi sta proprio sulle palle». Niente male per chi dovrebbe essere un monumento all'imparzialità, alla terzietà, alla riservatezza e via elencando. Ma questo è solo l'antipasto, poi Esposito, almeno a sentire Castiello, ingrana la quinta: «Quello, Berlusconi, si salva sempre, grazie ai suoi avvocati... la prescrizione... ma se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Testuale. Alla faccia della serenità della giustizia. Gli esperti parlerebbero di pregiudizio, insomma se quella frase così ruvida, inammissibile per un magistrato, fosse stata recapitata a Berlusconi prima del verdetto fatale, sarebbe stata probabilmente motivo più che sufficiente di ricusazione. Esposito avrebbe dovuto passare la mano, la corte avrebbe avuto un altro presidente e la sentenza, chissà, forse avrebbe avuto un altro esito. Ma quella notte la frase, anzi le frasi riverniciate di antiberlusconismo militante, restano fra le mura di quel terrazzo porticato, affacciato sul Golfo di Policastro. Esposito parla sempre con Nero, ma già che c'è tira pure un pesantissima stoccata a Wanna Marchi, immancabile come un mantra nei suoi incontri conviviali. I lettori del Giornale avranno già capito: Stefano Lorenzetto ha raccontato su queste pagine una cena, con successiva premiazione, in cui incrociò lo scintillante giudice. Siamo nel marzo 2009 e ci troviamo a Verona, all'hotel Due Torri, a centinaia di chilometri di distanza da San Nicola Arcella, ma a quanto pare le ossessioni di Esposito sono sempre quelle. Il Cavaliere e Wanna Marchi. Esposito si dilunga sul Cavaliere, fa sfoggio delle sue presunte intercettazioni a luci rosse, si diffonde sui testi in cui il Cavaliere avrebbe dato i voti alle prestazioni erotiche di due deputate del Pdl. E la Marchi? Quel giorno manca poco, pochissimo alla sentenza e Esposito anticipa a Lorenzetto il verdetto che leggerà di lì a poche ore: la condanniamo. La teletruffatrice non sta simpatica al presidente di Cassazione e lui fa di tutto per trasmettere questi sentimenti all'ex vicedirettore del Giornale. Come si vede, il copione si ripete un paio d'anni dopo. In Calabria. La sentenza Marchi è ormai in archivio, ma Esposito la condensa, sempre secondo Castiello, in modo efficace: «C'era qualcosa prescritto, ma abbiamo fatto finta di niente». Il plurale rimanda alla corte, composta da cinque membri, e dunque va preso con le pinze perché sarebbe la firma su una scorrettezza gravissima. Forse il presidente ha sintetizzato in modo brutale quel che è avvenuto nel segreto della camera di consiglio e l'ha in qualche modo volgarizzato. Non è chiaro. Per la cronaca Wanna Marchi è stata sepolta sotto una pena di 9 anni e 6 mesi di carcere e sempre per la cronaca l'ex venditrice, dopo aver letto i documentatissimi articoli di Lorenzetto, ha annunciato, attraverso l'avvocato Liborio Cataliotti, che ricorrerà alla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. E che, se dovesse vincere devolverà i soldi dell'indennizzo alle sue vittime. Ma quella è un'altra storia. Sono i toni aspri dell'antiberlusconismo in salsa Esposito a rimanere impressi nella mente di Castiello. Il banchetto si chiude lì, anzi Esposito riceve pure un piccolo omaggio che lo riempie di gioia: la videocassetta dell'introvabile film di Nero, L'escluso. Poi, ed è cronaca recente, accade l'impensabile. Esposito, come presidente della sezione feriale, si trova a tiro il Cavaliere. E conferma la sentenza d'appello. Poi s'infila da solo nei guai, concedendo una spericolata intervista al Mattino in cui, fra una battuta in italiano e una in napoletano, anticipa le motivazioni che non sono ancora state depositate. È abituato a chiacchierare, Esposito. E non si tiene nemmeno in quella circostanza. Come aveva fatto a cena, a Verona, e a san Nicola Arcella. Il banchetto del 2009 è stato ricostruito da Stefano Lorenzetto, adesso sappiamo che davanti al Tirreno e alla pasta con la provola Esposito emise la sua sentenza definitiva. Irrevocabile: «Berlusconi mi sta sulle palle».

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

Tutto il potere a Toga Rossa. Magistratura democratica e Movimento per la giustizia da tempo condizionano tribunali e procure grazie a una collaudata organizzazione del consenso. E ora puntano all’unificazione scrive Maurizio Tortorella in collaborazione con  Annalisa Chirico su “Panorama”. Non mollano. Non demordono, nemmeno dopo la condanna definitiva dell’Avversario; non si rilassano nemmeno un po’. Era la sera del 1° agosto 2013, Silvio Berlusconi era appena stato giudicato colpevole dalla Cassazione. Avrebbero potuto festeggiare il risultato raggiunto. Invece è bastato che il presidente della Repubblica, appena mezz’ora dopo, dichiarasse: «Auspico che adesso possano aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi all’amministrazione della giustizia». E subito Magistratura democratica è saltata su, come un tappo: «La sentenza dimostra che i giudici sanno fare il loro mestiere, nonostante tutti i tentativi di condizionarli», mentre «parlare di riforme della giustizia è un segnale negativo». Così, ancora una volta, ha parlato la massima corrente della sinistra giudiziaria, attraverso il presidente di Md Luigi Marini (ex pm torinese, oggi in Cassazione) e il segretario generale Anna Canepa (pm genovese). Durissimi, contro Giorgio Napolitano e contro tutti. La loro dichiarazione è lunga, ma merita la citazione proprio per quanto è minacciosa: «I richiami alla necessità di riforme della giustizia suonano come risposte alla prova d’indipendenza che la magistratura ha saputo dare, a dimostrazione che una parte consistente (quanto consistente vedremo) della politica considera quell’indipendenza un pericolo e intende andare alla resa dei conti». A seguire, un corollario d’accuse: contro chi cerca di «addomesticare» i magistrati; contro i politici «in malafede»; contro i continui «tentativi di condizionamento»…

È l’unione delle toghe rosse. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. Da anni Berlusconi sostiene di esserne perseguitato: a giudicarlo, in effetti, spesso sono stati giudici dichiaratamente di sinistra. Tra i cinque giudici che il 1°agosto lo hanno condannato in Cassazione nel processo Mediaset, per esempio, il presidente Antonio Esposito, finito nei guai per l’intervista in cui ha anticipato le motivazioni del verdetto, passa per simpatizzante di Movimento per la giustizia, l’altra corrente di sinistra. Mentre Ercole Aprile nel 2007 si era candidato all’Anm proprio nelle liste di Mpg (incidentalmente in lista con Caterina Interlandi, il giudice milanese che lo scorso maggio ha condannato Giorgio Mulè, direttore di Panorama, a 8 mesi di reclusione senza condizionale per omesso controllo su un articolo ritenuto diffamatorio). L’unione delle toghe rosse si articola in queste due organizzazioni: Md, forte di 800-900 iscritti, e Mpg, con altri 400. Insieme, raccolgono appena un settimo dei 9 mila magistrati italiani. Però riescono a coagulare un terzo dei consensi di categoria e contano come fossero la maggioranza. Federati nel cartello elettorale Area, alle ultime elezioni del febbraio 2012 per l’Associazione nazionale magistrati, un po’ il sindacato di categoria, Md e Mpg hanno preso 2.271 preferenze su 7.200 voti validi. Rispetto alle precedenti elezioni del novembre 2007, dove si erano presentati divisi, hanno perso 300 consensi  e un seggio nel comitato centrale, da 13 a 12 su 36. Ma grazie a un’alleanza con la corrente «mode-rata» di Unicost hanno ottenuto il segretario dell’Anm: Maurizio Carbone (Mpg). Mentre al Consiglio superiore della magistratura, che regola le carriere e giudica sui procedimenti disciplinari della categoria, dal 2010 hanno 6 consiglieri togati su 16. E anche qui fanno il bello e il cattivo tempo.

Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino (e anche lui iscritto a Md negli anni Sessanta), dal suo ritiro in pensione è il grande critico delle correnti giudiziarie: «Sono solo centri di potere» dice «che cercano di ottenere posti rilevanti per gli iscritti. Md e Mpg giurano di essere diversi: sbandierano carte dei valori, pretendono purezza e integrità morale. Ma poi fanno esattamente come gli altri». Se lo dice Tinti, che è azionista e collaboratore del Fatto quotidiano, c’è da credergli. Del resto, alcuni mesi fa è arrivata una conferma dalla vicenda-simbolo svelata da un’email sfuggita a Francesco Vigorito (Md), giudice romano e consigliere del Csm: finita su una mailing list aperta, la lettera manifestava dubbi su una nomina al Tribunale di sorveglianza di Salerno, dove Area aveva sostenuto con forza una magistrata solo perché appartenente alla corrente, e preferendola ad altri colleghi «forse più meritevoli» soltanto per «le pressioni interne».

Il caso ha acceso grandi polemiche, presto tacitate in nome della disciplina di partito. Le rivelazioni via email sono state spesso una spina nel fianco della sinistra giudiziaria, tanto che si è fatto di tutto per renderle inaccessibili. In passato, infatti, alcune incursioni giornalistiche nel circuito degli iscritti hanno scoperchiato clamorose partigianerie e faziosità. Quando per esempio nel dicembre 2009 uno squilibrato ferì al volto Silvio Berlusconi lanciandogli contro una statuetta del Duomo di Milano, in Md si accese il dibattito. E prevalse chi giustificava: «Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce “eversivi” i magistrati?».

Due anni fa, quando il centrodestra cercò d’impostare l’ennesima riforma della giustizia, le email violate di Mpg segnarono nuove impennate di avversione: «Lo zietto Berlusconi deve togliere al più presto il disturbo» scrisse un pm. Altri suggerirono la chiamata a difesa di tutta la sinistra e del sindacato: «La nostra corporazione da sola non può reggere uno scontro politico, se non gioca politicamente». Certo, Md e Mpg hanno preso posizione su ogni sospiro della politica italiana e, soprattutto, sulle leggi approvate dal Parlamento.

Livio Pepino, uno dei maggiori esponenti di Md, postulò del resto la necessità che «il magistrato si ponesse come contropotere». Più forti di un partito politico, più dure di un sindacato, più potenti di un esercito, le toghe rosse hanno così sparato a zero sul potere legislativo: censurando tante norme, da quelle anticlandestini («Si introduce un reato inutile, profondamente iniquo e discriminatorio: non si può trasformare un fenomeno sociale in fenomeno criminale») fino alla legge Biagi («La celebrata riforma del mercato del lavoro, lungi dal provocare il benefico effetto di un’emersione del “nero”, accresce la precarizzazione dei rapporti e l’arretramento della sicurezza»). La verve censoria in luglio ha riguardato anche il governo Letta, contro la legge svuota-carceri: «Sconfortante il balletto di reati ora sottratti alla carcerazione preventiva, ora inclusi, ora oggetto di ripensamenti».

La capacità di condizionare la politica è elevata. In questo agosto, sul Fatto quotidiano, due alti esponenti di Md hanno massacrato le tesi appena un po’ garantiste del nuovo responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva: prima Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, poi Gian Carlo Caselli, procuratore di Torino, hanno affossato le sue tesi come «inquietanti», «strampalate», «stravaganti»... Una cassazione preventiva: così, tanto per frenare un compagno che sbaglia. Mentre in maggio Beppe Fioroni, deputato del Pd in quel momento candidato alla presidenza della commissione Giustizia, aveva raccontato in un’intervista delle telefonate ricevute dall’Anm per garantire proprio quel posto a Donatella Ferranti, già magistrato di Md ed ex segretario del Csm. Fioroni aveva dichiarato alla Repubblica: «Io ovviamente ho obbedito ai magistrati, mica al Pd».

Poi aveva smentito, ma alla fine il risultato è stato quello: Ferranti for president. Va detto che, là dove Md ha nel Pd la sua evidente sponda partitica, l’altra corrente ha meno legami diretti: quelli di Mpg a tratti sembrano vicini al Movimento 5 stelle, a tratti a Sinistra ecologia e libertà, a volte a nessuno dei due. Questo, malgrado siano in minoranza nel cartello elettorale di Area, non impedisce che spesso prevalgano i loro candidati nelle primarie per il voto al Csm o all’Anm. È stato così, a sorpresa, nel 2010: nella circoscrizione della Cassazione, dove Aniello Nappi (Mpg) ha prevalso su Giovanni Diotallevi (Md). Due anni dopo, Nappi è uscito dal gruppo di Area (che al Csm ha altri due consiglieri: Paolo Carfì, il giudice del processo berlusconiano Imi-Sir oggi in Corte d’appello a Milano; e Roberto Rossi, il pm barese che ha indagato sul ministro del Pdl Raffaele Fitto) rivendicando maggiore indipendenza.

Ma sono screzi da poco, l’unità della sinistra giudiziaria non è mai posta in discussione: «Di recente» dice Nappi «ho chiesto l’iscrizione anche a Md». E uno dei leader storici di Mpg, il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, dichiara a Panorama: «Francamente, io proprio non capisco perché siamo ancora separati». Anche Antonella Magaraggia, giudice veneziano e dal gennaio 2011 presidente di Mpg, dice di guardare oltre il cartello elettorale: «Area» dichiara «è un progetto politico-culturale aperto anche ai non iscritti, verso il superamento delle correnti. A unirci con Md è molto, quasi tutto. Sì, forse Md in passato è stata più ideologica, ma noi oggi siamo debitori per tutte le sue conquiste. Noi di Mpg siamo più attenti all’organizzazione, all’efficienza del lavoro. Però l’ambito ideale è lo stesso, dividerci è impossibile».

Betta Cesqui, alta esponente di Md, è d’accordo: «Qui, semmai, dobbiamo allargare la nostra base». Da giugno Area tende dichiaratamente alla fusione, con un comitato di coordinamento fatto da 7 magistrati: 2 a testa sono di Md e di Mpg, e 3 indipendenti eletti in un’assemblea a Roma. Il giudice veneziano Lorenzo Miazzi (ex Md) è uno dei 7: «Vogliamo creare un’associazione liquida» spiega a Panorama «sul modello di Libera, l’organizzazione di don Ciotti contro le mafie. Anche perché vogliamo che idee, tesi e linea escano non più dai vertici, ma dalla base». Queste istanze orizzontali un po’ ricordano la «democrazia del web», tanto cara a Beppe Grillo. Con molta trasparenza in meno, però: sia Magaraggia sia Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano e uno dei massimi leader di Md, confermano a Panorama che l’elenco dei circa 1.250 iscritti alle due correnti «non è pubblico», anche se entrambi «a titolo personale» si dicono favorevoli a rendere note le liste. Il risultato, comunque, è una grave anomalia: nessun cittadino può sapere se a inquisirlo o giudicarlo sia un magistrato schierato a sinistra, di Md o di Mpg (nel 2002 ci provò per le vie legali Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa imputato a Milano, ma ottenne un secco no). Non è un bene. Anche perché non è un mistero che i magistrati aderenti alle due correnti siano spesso importanti, esposti, attivi in ruoli chiave. Negli anni Settanta e Ottanta, Md era presente soprattutto nei «ranghi bassi»: pretori d’assalto, giudici istruttori. Oggi, con i colleghi di Mpg, la sinistra giudiziaria è presente ovunque, soprattutto nelle procure, e arriva fino in Cassazione.

Non bastasse la capacità politica espressa in Italia, la sinistra giudiziaria ha poi una sua casa europea. Da anni Md e Mpg aderiscono a Medel, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés: da Strasburgo l’organizzazione propugna il diritto di azione collettiva dei magistrati, la «diffusione della cultura giuridica democratica» e ha tra gli obiettivi «la difesa dei diritti delle minoranze, con particolare riguardo a quelle dei migranti e dei poveri». Medel oggi riunisce 19 correnti delle toghe di sinistra ed estrema sinistra, come l’Unión progresista de fiscales in Spagna e Syndicat de la magistrature in Francia, per oltre 17 mila iscritti. Molto influente presso la Commissione europea e le Nazioni unite, Medel risponde alle parole d’ordine della sinistra più oltranzista: ha appena preso posizione contro i tagli allo Stato sociale dettati dalla crisi finanziaria; critica ogni tentativo di introdurre il minimo principio di responsabilità civile nell’attività giudiziaria; attacca ogni censura (anche istituzionale) che vada a colpire un magistrato «democratico». Insomma, se mai servisse, è una superlobby a difesa degli interessi della categoria. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. E poi ridono quando dicono che un giudice si butta a sinistra…

GIUDICI IMPUNITI.

I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.

Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono  Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.
Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;
b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;
c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;
d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;
e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;
f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm.

E noi adesso lo diremo. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri.

Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa). Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!)
- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%)
- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%)
- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%)
- 2 sono stati  i rimossi (l’1%)

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario.  Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso”  nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente  dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”, alla cui dotta enucleazione si sono stracciate le smancerie antiberlusconiane. "Ci deve pur essere un giudice a Berlino" è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo. Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia. Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Alla fine questi giudici  hanno condannato Silvio Berlusconi, che anela, ancora, un Giudice a Berlino.

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

Il Paese del garantismo immaginario. Le vanterie sull'Italia patria di Beccaria? Sono sciocchezze: la cultura manettara è egemone, scrive Alessandro Gnocchi  su “Il Giornale”. Viviamo in una società garantista? Il garantismo è pensiero corrente, se non egemone? No, è la risposta secca di Non giudicate, il saggio di Guido Vitiello edito da Liberilibri. Un giro in libreria, scrive Vitiello, a caccia di tomi che propugnino ideali garantisti, si risolverebbe in una ricerca senza frutto. Al contrario, gli scaffali sono ben riforniti di libri firmati da «magistrati-sceriffo impegnati sulla frontiera delle mille emergenze nazionali» o da «reduci gallonati di Mani pulite» o da giudici «scomodi» ma non al punto da non trovare frequente ospitalità nei vari talk show serali. La tivù è la tribuna da cui levano doglianze sui paletti alle indagini posti dai politici in nome del «garantismo» (quasi sempre «peloso», nota Vitiello). Basta dare un'occhiata alle cronache dei quotidiani per rendersi conto che gli avvisi di garanzia sono percepiti come sentenze della Cassazione; e che spesso l'odio (ma anche l'amore) per l'inquisito o il condannato di turno fa velo alla valutazione dei fatti. Il pensiero supposto egemone si rivela «solitario», e paga il conto anche ai «falsi garantisti» che si sono mescolati ai veri, «finché la moneta cattiva ha scacciato la buona e reso sospetti tutti i commerci». Insomma, la reputazione «ben poco commendevole» del garantismo in parte, ma solo in parte, è meritata: c'è stata poca chiarezza nel distinguere casi personali e questioni di principio. La tesi di Vitiello comunque è limpida: «L'imbarbarimento giudiziario italiano è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vederlo, e non abbia interessi di bottega tali da suggerirgli una cecità deliberata. Basta gettare uno sguardo, anche distratto, sul punto di caduta o di capitolazione - le carceri di un sistema che è in disfacimento fin dalla testa, per arrossire quando sentiamo ripetere quelle insulse vanterie sul Paese di Beccaria». L'originalità del saggio consiste nel farci vedere i principi incarnati in quattro ritratti di garantisti doc: Mauro Mellini, Domenico Marafioti, Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico. Sono pagine nate sulle colonne del Foglio (l'introduzione è di Giuliano Ferrara) ampliate e arricchite da un carteggio fra Mellini ed Enzo Tortora. E proprio la vicenda di Tortora, insieme con Marco Pannella e le battaglie dei Radicali, lega tutti i protagonisti di Non giudicate. Tocca a Mellini, avvocato di conio liberale, leader radicale e deputato per svariate legislature, introdurre il lettore all'abbecedario garantista, cioè alle parole di cui diffidare perché sventolate al fine di giustificare l'indebito allargamento dei poteri della magistratura. Emergenza: «cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra»; giustizia d'assalto: «ha dato la stura a innumerevoli interventi di magistrati ritenuti o autodefinitisi provvidenziali, di cosiddette supplenze e vicarianze di altri poteri»; esemplare: è una sentenza «che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta». Domenico Marafioti, avvocato e letterato, è l'uomo delle profezie inascoltate: nel 1983 pubblicò La Repubblica dei procuratori. Sottolineava, scrive Vitiello, «i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano»; criticava il modello inquisitorio del processo; segnalava la nascita del giudice pedagogo, che vuole redimere il prossimo. Corrado Carnevale, presidente della Prima sezione penale della Cassazione dal 1985, è noto come l'ammazzasentenze, nomignolo affibbiatogli da una campagna stampa denigratoria iniziata dopo l'annullamento dell'ergastolo ai mandanti dell'omicidio di Rocco Chinnici. La corporazione non si levò certo in sua difesa (lo fece Pannella). Più volte finito sotto processo, sempre assolto, Carnevale illustra cos'è «l'astratto formalismo» che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. «Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss'anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali». Carnevale rifiuta l'appellativo di garantista: «E nel fare giustizia il garantismo che c'entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall'applicazione corretta, intelligente della legge». Giuseppe Di Federico ha fondato il Centro studi sull'ordinamento giudiziario dell'università di Bologna. È lui a sollevare un altro insieme di questioni: la separazione delle carriere, l'assenza di un valido sistema di valutazione dell'operato dei giudici, il tabù dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questi sono i limiti non solo, per così dire, ideologici del sistema ma anche gli ostacoli all'efficienza della macchina. Se vi sembra che queste idee siano moneta corrente nel nostro Paese «garantista»...

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

Come è possibile che i giovani siano attratti dal pensiero giustizialista? Cronaca della presentazione del libro “Non giudicate” di Guido Vitiello su “Zenit”. L’opera, con la prefazione di Giuliano Ferrara, raccoglie le voci di alcuni “veterani del garantismo” italiano, scrive Antonio D’Angiò.  Sabato 27 ottobre 2012 è stato presentato alla Camera dei deputati, in occasione della quarta edizione delle “Giornate del libro politico a Montecitorio”, il “libretto” (così definito dallo stesso autore) di Guido Vitiello intitolato “Non giudicate” edito da liberilibri. Vitiello, nato trentasette anni fa a Napoli, è docente all’Università di Roma La Sapienza e collabora, tra gli altri, con il “Corriere della Sera” e “Il Foglio”. Per una fortuita coincidenza temporale, all’interno dell’opera è raccontato quanto avvenuto precisamente dieci anni fa, cioè il 30 ottobre 2002, quando il Presidente di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (accusato di aver “aggiustato” alcuni processi di mafia e da alcuni pentiti di essere un referente dei boss) dopo circa un decennio di vicende processuali. Iniziamo da questa “ricorrenza temporale” per parlare del libro di Guido Vitiello, perché Corrado Carnevale, con Mauro Mellini, Domenico Marafioti e Giuseppe Di Federico è uno dei quattro veterani (tutti ultraottantenni all’epoca dell’intervista e, peraltro, tutti meridionali) che l’autore  ha incontrato per discutere del garantismo in Italia e successivamente dare vita a questa pubblicazione. Ma soprattutto perché Carnevale è l’unico dei quattro che oltre a discutere, descrivere, documentare, applicare i temi e i commi della legislazione, è stato sia giudice che imputato e come recita la terza di copertina, è stato “esemplare garante del giusto processo, per questo ha subìto una persecuzione mediatico-giudiziaria, uscendone vittorioso”. Una serata (nell’affollata sala Aldo Moro del Parlamento) dove le riflessioni di giovani come Guido Vitiello e Serena Sileoni (Direttore Editoriale di liberilibri, coordinatrice dell’evento) si sono ben integrate nei toni e nei contenuti con quelle di tre maestri del giornalismo italiano: Pierluigi Battista, Massimo Bordin e Giuliano Ferrara, quest’ultimo autore della introduzione all’opera. Scrivendo e parlando della giustizia, non poteva non essere posta in relazione la giustizia degli uomini con quella di Dio (o amministrata per conto di Dio), in particolare nelle assonanze con alcune ritualità tra inaugurazione degli anni giudiziari e i “riti basilicali”; in alcune forme sceniche dei processi che ricordano in Italia più i tribunali dell’inquisizione in confronto con quelle della legge britannica (dove l’imputato è al centro e in alto rispetto alla corte giudicante); nonché con quel “non giudicate” che fa proprio uno dei passaggi del discorso della Montagna di Gesù Cristo o, infine, nel riferimento a Ponzio Pilato o al bacio di Giuda. Così come è stata più volte ripresa, per i cultori del diritto, la conseguenza che comporta sui processi la combinazione, tipicamente italiana, tra l’obbligatorietà dell’azione penale, la carcerazione preventiva, la limitata responsabilità civile dei magistrati e l’assenza della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Oppure, per gli appassionati di vicende processuali, i racconti su alcuni processi, come quelli nei confronti di Enzo Tortora o di Scattone e Ferraro (questi ultimi accusati dell’omicidio della studentessa Marta Russo) che fanno emergere quanto, questi processi, abbiano rappresentato un’occasione mancata per una più ampia riflessione sul sistema giudiziario, prima che il termine garantismo fosse abbandonato da chi lo aveva nel suo patrimonio culturale e politico e fosse acquisito (l’autore dice “sputtanato”) da neofiti in virtù di un’interpretazione forzatamente privata, “ad personam”, di questioni comunque universali. Infine, i riferimenti letterari a Sciascia, Borges, Kafka, Pasolini, Dostoevskij, Gide, Anatole France, Gadda, Dante Trosi, rappresentano un vero e proprio elenco di consigli per la costruzione di una biblioteca del garantismo nella quale cercare le motivazioni più profonde sull’essenza del giudicare. L’avvocato e politico radicale (e anticlericale) Mellini, lo scrittore e avvocato Marafioti (di formazione repubblicana, deceduto pochi mesi dopo l’intervista), il professore di diritto Di Federico, il cattolico magistrato di Cassazione  Carnevale, aiutati dalla prefazione di Giuliano Ferrara, tendono a spiegare quello che Vitiello rende immediatamente percepibile con una domanda. Come è stato possibile che i giovani, gli studenti (che peraltro lui incontra nelle aule universitarie) siano stati attratti dal pensiero giustizialista con quell’incarognimento che li ha portati a parlare di legalità, manette, intercettazioni con sillogismi feroci? E allora, per chiudere, pensiamo che le parole finali della conversazione con Corrado Carnevale in un certo qual modo possano spiegare il senso più profondo del libro e lasciare a credenti e non credenti il cercare di comprendere se e quanto ampio, in tema di giustizia, sia oggi la distanza tra cultura radicale, liberale e cristiana, per provare a indicare una nuova direzione alle giovani generazioni. “Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche dal peggior delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare.” Suona come una variante del precetto evangelico che abbiamo scelto come titolo per questo libro, “Non giudicate”, nel quale Sciascia credeva dovesse radicarsi la missione stessa del giudice. Qualcosa di non troppo diverso intende Carnevale: “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il Cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il Cristianesimo non è una corrente associativa.”

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

Manette facili e ideologia. Che processi tragicomici.

Oltre quarant'anni fa, le commedie all'italiana avevano colto le degenerazioni del sistema giudiziario. Quasi nulla è cambiato, scrive Claudio Siniscalchi su “Il Giornale”. L'editoria cinematografica italiana è stata dissanguata prima dagli ideologi di sinistra, poi dal dominio della scrittura oscura di semiologi e psicoanalisti, o presunti tali. Ormai trattasi di un corpo tenuto in vita da una macchina artificiale. Ci vorrebbe, per rianimarlo, un miracolo. O, almeno, un po' di sangue fresco. Buona linfa scorre all'interno di una linea di ricerca sul cinema italiano avviata dall'editore calabrese Rubbettino, guidata dal giovane universitario Christian Uva, all'insegna di una complementarità: cinema e storia. L'ultimo tassello è In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello. Il volume, raccolta di molti saggi, suscita alcune considerazioni. Dagli anni Trenta del secolo passato ad oggi, cioè dal fascismo alla democrazia, la commedia è stata il genere principe del cinema italiano. Nel Ventennio la macchina da presa s'è tenuta alla larga dai tribunali. Nel dopoguerra invece ci si è buttata per cogliere il tratto comico della giustizia. L'immenso Vittorio De Sica con la toga da avvocato (versione aggiornata dell'azzeccagarbugli manzoniano), folti capelli candidi, gesti da mattatore, eloquio da senatore (del Regno non della Repubblica), ridicolizzato dalla perdita della memoria. Totò e Peppino, grandissimi falsi testimoni. L'Albertone nazionale alla sbarra imputato di essersi bagnato nella marana senza vestiti. Il giudice Adolfo Celi che non ammette repliche alla sua autorità e competenza equestre. Insomma, in aula si ride. Pensate ora all'americano Codice d'onore (1992) di Rob Reiner. Il giovane Tom Cruise in doppiopetto blu con bottoni d'oro, avvocato della marina, assistito da Demi Moore, impegnato ad incastrare davanti alla corte marziale un mastino gallonato del corpo dei marine, Jack Nicholson. Non è uno scontro generazionale, di temperamenti, ma di visioni del mondo. Persino di attori. Il processo qui è anche spettacolo. Un grandioso spettacolo. Serissimo. Certo l'impianto giuridico americano rispetto a quello italiano agevola la drammatizzazione cinematografica. Per questo il cinema hollywoodiano ha un genere specifico dedicato ai tribunali, il courtroom drama o legal film. La commedia all'italiana, però, non è stata soltanto un contenitore di risate. Ha saputo anche cogliere e indicare questioni cruciali. Ad esempio la denuncia dell'arbitrarietà della carcerazione preventiva. L'odissea giudiziaria (e carceraria) che tocca ad Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy è un capolavoro dal sorriso amaro. Lo stritolamento dello sfortunato e innocente geometra mette a nudo l'arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Siamo all'inizio degli anni Settanta, e sembra la storia di oggi. E come dimenticare l'istantanea sull'ideologizzazione progressista della magistratura scattata da Dino Risi nel suo In nome del popolo italiano (1971)? Il giudice Ugo Tognazzi non riesce a contenere l'odio di classe nei confronti dell'imprenditore di successo Vittorio Gassman. Quest'ultimo incarna il male del capitalismo italiano del boom economico: corrotto e corruttore. Quindi va eliminato, anche bruciando le prove della sua innocenza. La condanna non deve essere giudiziaria ma ideologica e morale. Infatti il procuratore, che mostra con disinvoltura una copia dell'Unità, non ce l'ha solo con i ricchi. Vorrebbe chiudere in cella anche capelloni, maoisti, anarchici, obiettori di coscienza, giovani scansafatiche. Da un figlio dei fiori redarguito si becca un insulto e l'accusa di essere fascista. Del resto nello stesso periodo la magistratura viene raffigurata come il braccio armato del potere (spesso occulto, antidemocratico, fascistoide), sia nel genere popolare «poliziottesco», sia nel filone di «ricerca impegnata», da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri a Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi. Il cinema italiano si suicida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nelle macerie dell'ultimo trentennio si salva poco o niente. L'inchiesta Mani pulite poteva diventare un serbatoio infinito di sceneggiature ma la poltrona della sala cinematografica è stata sostituita dal divano di casa. La magistratura saliva al cielo grazie al piccolo schermo. La grande popolarità di Antonio Di Pietro, il più teatrale dei magistrati, comincia con la televisione. E con la televisione si chiude. Non regge all'urto della cannonata sparatagli da Milena Gabanelli. Col tubo catodico era schizzato tra le stelle. Col plasma è tornato sulla terra.

Vi ricordate di Antonio Esposito, uno dei giudici della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per il processo “Mediaset”? «Chist'è na stupotaggine». Ormai la battuta gira irrefrenabile. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha dato mandato all'ispettorato del ministero per approfondire la vicenda relativa all'intervista del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che ha emesso la sentenza Mediaset, e ha nominato come consulente Felice Caccamo, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”.  Il direttore e fondatore del giornale 'O Vicolo è l'unico in grado di interpretare lo spirito di quella famosa intervista passata alla storia come «Vabbuò, chill' nun poteva nun sapere». Quando si ascolta la registrazione della telefonata del presidente Esposito al giornalista del Mattino viene spontaneo immaginarselo nelle vesti di Felice Caccamo: giacca azzurra, cravatta con nodo esagerato, gli occhiali dalle lenti spesse e il Vesuvio sullo sfondo: «Tengo 'o mare n' fronte, 'o cielo n' ccoppa». Il tormentone su Caccamo (forse il più riuscito personaggio di Teo Teocoli) è partito da un articolo di Annalisa Chirico su Panorama.it e ha fatto in fretta a diffondersi, come succede a quelle battute che diventano subito una spia di consenso. Persino la senatrice Alessandra Mussolini si è esibita in un'imitazione della telefonata. Certo, tra un esimio presidente della Corte di Cassazione e un giornalista, un po' cialtrone, intento più alle sue singolari abitudini alimentari ('o struzzo di mare oppure 'a frittura globale), che a scovare notizie, la differenza è abissale. Ma sono bastati una telefonata in dialetto («Tiziu, Caiu e Semproniu an tit che te l'hanno riferito. E allora è nu pocu divers»), un momento di eccesso di confidenza, uno stato di rilassamento familiare per avvicinarli in maniera incredibile. Caccamo vive con la moglie Innominata (che prende puntualmente a «mazzate in faccia») e i figli Tancredi, Boranga e Ielpo. I suoi inseparabili amici sono Pesaola, Bruscolotti e l'ex presidente del Napoli Ferlaino, suo vicino di casa. Ormai è una maschera napoletana, come Pulcinella, Tartaglia (il vecchio cancelliere balbuziente, astuto e pedante, dai grossi occhiali verdi), 'O Pazzariello («Attenzione... battaglione... è asciuto pazzo 'o padrone...»).  Caccamo sa bene che i magistrati parlano attraverso le sentenze, ma sa anche che qualche volta parlano al telefono.

Certo non era una verginella riguardo ai suoi trascorsi. I guai disciplinari di Esposito: già due processi davanti al Csm.Il magistrato è stato imputato a fine anni '90 per "protagonismo", minacce a un cancelliere e per il doppio lavoro all'Ispi. Ma si è salvato, scrive Emanuela Fontana  su “Il Giornale”. Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito. Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico. Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe. In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale. Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili». I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza. La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie». Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.

La rete di affari di Esposito: ecco perché fu trasferito. Il Csm lo spostò: "Con la sua scuola guadagna centinaia di milioni che gli  permettono di avere una Jaguar, una villa a Roma e un motoscafo". Nelle carte i favori ricevuti. E spuntano una Mercedes gratis e le cene a sbafo, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Tutta colpa di una scuola e di affari milionari. A far traslocare da Sala Consilina Antonio Esposito, dopo un quarto di secolo nel quale il magistrato era rimasto affezionatissimo a questa piccola perla del Tirreno, è stato il plenum del Csm, il 7 aprile del 1994. In poco meno di cinque ore, l'organo di autogoverno della magistratura votò a maggioranza la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale. Le 32 pagine di verbale di quella seduta raccontano il dibattito serrato dei consiglieri che dovevano decidere del suo futuro. Forse con una certa apprensione, visto che in apertura venne ricordata l'ispezione ministeriale condotta da Vincenzo Maimone, con lo 007 portato in tribunale da Esposito e «prima condannato per calunnia e poi assolto in appello», a maggio del 1992, perché il fatto non costituiva reato. Così il consigliere togato Gianfranco Viglietta rilevò «come il dottor Esposito si rivolga in modo pesantemente critico nei confronti di tutti coloro i quali esprimano riserve sul suo operato», osservando che «ciò è certamente indice di non particolare equilibrio». Una sindrome del complotto, insomma. Che toccava anche uno dei presenti nel plenum, Alfonso Amatucci, il quale infatti mise a verbale di essere «a giudizio di Esposito (...) una sorta di quinta colonna di quel complotto presso il Csm». Ruolo che Amatucci, va da sé, negò con forza. Spiegando di aver appreso frequentando Sapri dei «molti giudizi negativi» sul giudice, ai quali non aveva dato peso. A far cambiare approccio ad Amatucci era stato un primo episodio «significativo», quando «dopo aver cenato in un ristorante», a Sapri, il consigliere «ricevette i complimenti del ristoratore per il fatto che egli, a differenza di altri magistrati del luogo, era intenzionato a pagare il conto». «Da quel momento» Amatucci «prese a considerare con maggior attenzione le voci sul conto di Esposito». Lo stesso consigliere rivelò anche un'altra «vicenda emblematica: sarebbe stata portata, per conto della ditta Palumbo (un costruttore attivo all'epoca nell'area del golfo di Policastro, ndr), una vettura Mercedes di colore beige, gli pare di ricordare a benzina, acquistata» da un direttore romano di banca «con chiavi nel cruscotto, sotto l'abitazione del dottor Esposito». Ancora Amatucci rispolverò la fresca assoluzione dell'avvocato Francesco Vallone (che aveva dato il via con un esposto al procedimento disciplinare contro Esposito) nel processo per calunnia e falsa testimonianza intentato contro di lui proprio dall'ex pretore, e Vallone aveva parlato proprio di presunti favoritismi della pretura di Sapri nei confronti del costruttore che avrebbe «recapitato» la lussuosa berlina tedesca. Il plenum sostenne che Amatucci, che aveva parlato di episodi non presenti negli atti dell'istruttoria, avrebbe dovuto «comunicare per tempo elementi così gravi e rilevanti». Alcuni consiglieri cominciarono a valutare l'ipotesi di un rinvio della pratica in commissione, altri, come Laudi, consideravano invece «paradossale rinviare la decisione in ragione del fatto che sono stati presentati elementi aggravanti». Si decise di votare per il rinvio, ma la proposta venne respinta. Il coinvolgimento di Esposito nella «scuola» di famiglia, l'Ispi, ebbe un forte peso nella decisione, e il relatore spiegò che quell'elemento, insieme alla presenza «ultraventennale», avevano «accresciuto il potere» di Esposito, dando luogo «qualcosa di diverso e incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Anche perché il contributo che il pretore dava alla scuola non era solo per passione. Ecco cosa scrivono i consiglieri del Csm quando definiscono il trasferimento. Sulla scuola di formazione si soffermano a lungo, e un po' si stupiscono davanti al tenore di vita del magistrato, «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo». Avallano così «l'ipotesi che l'Ispi abbia consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Insomma, toglierlo da Sapri è un gesto «di buon governo». Al voto, 14 consiglieri sono per il trasferimento, 11 votano contro, 4 si astengono. Non è finita. Esposito a gennaio '97 cita in giudizio davanti al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento danni per 4 miliardi di lire, due componenti del Csm - Amatucci e il relatore, Franco Coccia - insieme all'avvocato Vallone e a Ermanno Marino, «reo» d'aver raccontato ad Amatucci di aver guidato la famosa Mercedes. Ma il tribunale di Roma respinse la sua richiesta. Far pagare i consiglieri per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni era davvero troppo.

E il giudice querela il Giornale ma non chiarisce il caso Ispi. Esposito si fa scudo dell'associazione Caponnetto e denuncia Il Giornale per lo scoop sul doppio lavoro. Il colloquio col Mattino è lungo 40 minuti: al Csm l'audio integrale, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il giudice Antonio Esposito si sente diffamato. Quello che ancora non conosciamo è invece l'umore del dottor Antonio Esposito, il tuttofare della scuola Ispi, quello che mette il suo numero di telefono tra i contatti per chi vuole fare master o esami nella sede locale dell'università telematica. Non si sa, insomma, cosa pensano l'uno dell'altro. L'unica cosa certa è che sono la stessa persona e di fatto il giudice fa un doppio lavoro. La domanda allora è: si può fare? Esposito promette querela. L'annuncio non lo fa di persona, ma si nasconde dietro l'associazione Antonino Caponnetto di cui è presidente onorario (e che sulla pagina Facebook «si stringe intorno al suo presidente e ai suoi familiari vittime di una campagna vergognosa e diffamatoria dopo la sentenza di condanna emessa a carico di Berlusconi»). In pratica tira in ballo una colonna della lotta alla mafia per ribadire quello che il Giornale in realtà non ha mai nascosto, e cioè che la sezione disciplinare del Csm lo ha sempre ritenuto estraneo a tutte le accuse. O meglio, a quasi tutte, visto che il 7 aprile del '94 il plenum del Csm approvava a maggioranza la proposta di trasferimento d'ufficio dell'allora pretore di Sala Consilina, che venne destinato alla Corte d'Appello di Napoli nonostante lui avesse fatto presente che l'adozione del provvedimento gli avrebbe causato danni incalcolabili, ledendo irreversibilmente il suo onore e il suo prestigio professionale e denunciando che la relativa procedura sarebbe stata condotta con spirito persecutorio e diffamatorio nei suoi confronti, in esecuzione di un disegno comune ai convenuti». I suoi colleghi, insomma, conoscevano l'intreccio di interessi tra il pretore e la vita sociale ed economica di Sapri. E per questo lo hanno trasferito. Nell'ultima seduta del Csm i consiglieri ne hanno parlato a lungo, anche scontrandosi sulle diverse interpretazione di certi episodi. Ma alla fine sono stati d'accordo sul fatto che «la presenza ultraventennale di Esposito nella pretura di Sala Consilina e il suo coinvolgimento nella gestione dell'Ispi hanno determinato una situazione particolare che ha accresciuto il suo potere fino a dar luogo a qualcosa di diverso e di incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Sulla scuola di formazione i consiglieri si soffermano a lungo, ipotizzando che il particolare tenore di vita del magistrato che risultava «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo avallassero l'ipotesi che l'Ispi avesse consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Alla fine è stata proprio la gestione dell'Ispi a determinare il trasferimento. «Dovrebbe essere provato - si legge nel provvedimento - che Esposito svolga attività ulteriori rispetto a quella dell'insegnamento per il quale è stato autorizzato dal Csm». E come emerge dagli accertamenti del capitano dei carabinieri Ferdinando Fedi. «Esposito - scrivono i consiglieri - poteva essere reperito sistematicamente presso i locali della scuola e i collegamenti con l'Ispi venivano tenuti anche in pretura. Pure i carabinieri a volte dovevano attendere perché nello studio del pretore erano a colloquio delle studentesse della scuola stessa». Ora, invece, Antonio Esposito deve chiarire il pasticciaccio della sua intervista al Mattino di Napoli. Qualche domanda se la sta facendo anche il ministro Cancellieri, che ha messo in campo gli ispettori di via Arenula per indagare sulla vicenda. Qualcosa non torna neppure al Csm, dove il presidente della prima commissione Annibale Marini e il vicepresidente Michele Vietti si sono affrettati ad acquisire l'audio integrale del colloquio. Il Mattino ne ha pubblicato on line solo una manciata di minuti. Il resto, quasi 40 minuti, non è irrilevante. Forse il primo a dover pretendere trasparenza è proprio il giudice Esposito. Chieda al suo amico giornalista di farci ascoltare tutto.

Il buonsenso vorrebbe che le dichiarazioni di Esposito fossero considerate gravi. Invece non è così, anche se danno a Berlusconi un ottimo alibi per fare ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, scrive Alessandro Tantussi su “Imola Oggi”. Gli “ermellini” sono basiti: ora si aprono nuovi scenari. Ubi maior minor cessat, però mi vanto di averlo detto prima. La gravità della sortita del magistrato non può e non deve sfuggire alla gente di buon senso, anche a chi non mastica tutti i giorni diritto. Esposito ha smentito di aver pronunciato quelle frasi, ma il sonoro dell’intervista registrata lo inchioda alle sue responsabilità. Il direttore del quotidiano napoletano lo ha ribadito: il magistrato voleva proprio dire quello, ha anticipato ad un organo d’informazione le motivazioni della sentenza, non ancora rese note per le vie ufficiali. Alla faccia della terzietà, della sobrietà, dello stile di vita specchiato e della limpidezza operativa che dovrebbe contraddistinguere chi fa la professione di Esposito. Si è verificato l’ennesimo cortocircuito tra settori politicizzati della magistratura e alcuni media che puntano ad esasperare il conflitto tra poteri. In Cassazione tutti sono basiti. Con le sue dichiarazioni, che di fatto anticipano i contenuti di una sentenza impostata sul principio che Berlusconi “sapeva” della frode fiscale, Esposito apre inevitabilmente (e inconsapevolmente) nuovi scenari. Quelle parole, seppure ritrattate dal diretto interessato inchiodato dal sonoro della registrazione che quindi si è beccato del bugiardo a ragione veduta, sono un assist sia per la difesa, che ora avrà ulteriori motivi per tentare la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

E anche Wanna Marchi fa ricorso a Strasburgo.

Il magistrato svelò la condanna prima della sentenza. La difesa: "Diritti violati", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. L'intervista show di Antonio Esposito invade ancora giornali e tv come un'onda anomala. E lui, il giudice del Cavaliere, si ritrova sempre più al centro dell'attenzione. Ora, e pare incredibile, anche Wanna Marchi, l'urlatrice di Castel Guelfo, ha deciso di portare Esposito, o meglio la claudicante giustizia italiana, a Strasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il motivo è molto semplice: anche la Marchi ha letto sul Giornale il documentatissimo articolo firmato da Stefano Lorenzetto, giornalista e scrittore con un passato nella redazione di via Negri. Ricordate? In quel pezzo Lorenzetto rievocava una cena avvenuta a Verona, in occasione della consegna del premio «Fair play», il 2 marzo 2009. Nel corso della festa Lorenzetto aveva conosciuto proprio lui, Antonio Esposito. E il magistrato, fra una portata e un brindisi, l'aveva deliziato descrivendo le presunte performance a luci rosse del Cavaliere, lo stesso Cavaliere che Esposito ha condannato la scorsa settimana con sentenza definitiva. Non solo: già che c'era, gli aveva preannunciato un altro verdetto importante: quello che di lì a un paio di giorni avrebbe travolto proprio Wanna Marchi, la regina delle teletruffatrici, e la figlia Stefania. Affondate, rispettivamente con 9 anni e 6 mesi e 9 anni e 4 mesi di carcere. Quella sera, a sentire Lorenzetto, Esposito era stato perentorio: la Marchi che gli stava, per usare un eufemismo, antipatica, era colpevole. Senza se e senza ma. E puntualmente di lì a poche ore arrivò la condanna, irrevocabile, come si dice in questi casi, per madre e figlia. Giù il sipario, dunque. Le Marchi erano scomparse dai nostri radar. Peccato che le sentenze non possano però essere anticipate, così come non si dovevano bruciare sul tempo le motivazioni del processo Mediaset che il relatore deve ancora vergare. Ma Esposito corre in avanti. Troppo. Con Silvio Berlusconi e con Wanna Marchi, senza aspettare quel momento burocratico e noioso, ravvivato da chissà quali sbadigli, chiamato camera di consiglio. Così le Marchi, dopo aver digerito la clamorosa sorpresa, hanno deciso di giocare la carta del ricorso a Strasburgo: se le rivelazioni a posteriori sono esatte, il presidente del collegio non era imparziale. «Attenzione - spiega l'avvocato Liborio Cataliotti - Wanna Marchi non intende negare le proprie responsabilità e neppure cerca una qualche scorciatoia rispetto alla pena, in gran parte già scontata, e al successivo percorso di reinserimento nella società insieme alla figlia. Wanna ha avuto prima il lavoro esterno, poi la sospensione della pena; Stefania ha lasciato la cella per motivi di salute ed è detenuta ai domiciliari. Però le Marchi chiedono come tutti che i loro diritti fondamentali siano rispettati». Dunque, a Strasburgo si cercherà di capire se la Suprema corte abbia agito in modo canonico oppure se quelle confidenze spifferate nel bel mezzo di un banchetto conviviale costituiscano una ferita che oggi deve essere sanata. Il viaggio a Strasburgo non sarà una passeggiata: ci vorrà tempo e certo un'eventuale condanna non riabiliterebbe la Marchi, a capo di una vera e propria associazione a delinquere pensata per spolpare migliaia e migliaia di creduloni sparsi su tutto il territorio nazionale, ma sarebbe uno schiaffo per l'alto magistrato e soprattutto per la credibilità della nostra giustizia sulla vetrina internazionale. Cataliotti, l'avvocato di Reggio Emilia che i lettori del Giornale conoscono bene perché a lui è affidata la maxi-causa civile, una sorta di class action, contro Antonio Ingroia, è pronto alla battaglia. E questa volta è lui a suggerire il possibile finale: «Se otterremo un risarcimento i soldi andranno dritti alle parti civili». Sì, alle vittime dei raggiri della teleimbonitrice. Senza trucco e senza inganno.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

"Ad alto rischio" di Mario Mori e Giovanni Fasanella (ed. Mondadori). "Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

La paradossale condizione di un servitore dello Stato, che è riuscito ad arrestare il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, che alla fine della carriera viene accusato da quello stesso Stato di essere sceso a patti con la mafia. È la storia del generale Mario Mori:

«Non mi arrendo di certo e voglio andare fino in fondo, abbiamo anche rinunciato alla prescrizione  perchè vogliamo essere giudicati e avere giustizia».

Presentando il libro “Ad alto rischio”, scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, su "la vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Toto’ Riina" (così recita il sottotitolo), il generale Mario Mori affida a poche parole il capitolo non ancora scritto della sua vita, quello che riguarda la vicenda giudiziaria ancora in corso che lo vede coinvolto.

«Ho scritto questo libro perchè io e il mio ex collaboratore Mauro Bino, imputato con me nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, non usciremo mai da questa situazione, in quanto per una parte dell’opinione pubblica rimarremo personaggi ambigui: quindi lo dovevo a lui e a tutte le persone che hanno lavorato e rischiato con me», si limita a dire il generale presentando il volume nella sala del Refettorio di palazzo San Macuto: accanto a lui, oltre al coautore, ci sono giornalisti e politici che ne hanno seguito le gesta: Emanuele Macaluso, Giuliano Ferrara, Marco Minniti, Massimo Bordin, Stefano Folli.

Nel libro si ripercorre la storia del generale dei Carabinieri, tra i fondatori del Ros, dagli inizi al Sid fino ai vertici del Sisde, passando per i nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, la sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, le indagini con Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80. Nel libro Mori scrive di non essere amareggiato, perchè «servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati comporta dei rischi” e “si possono pagare dei prezzi anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico e, a volte, a presentarti il conto per i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita».

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano scrive Stefano Brusadelli su “Il Sole 24ore”. Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal. E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata». Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori: "Mi hanno assolto ma non mi basta".

Il generale, prosciolto dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, racconta a Panorama 20 anni di persecuzione giudiziaria. Appena il tempo per una breve vacanza in montagna, ed eccolo di nuovo a Roma, a prepararsi per la «campagna d’autunno», quando a Palermo inizierà il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Cosa nostra. Ma è sereno, Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile. Dopo aver già vinto una battaglia contro la Procura di Palermo nel 2006, alla fine del luglio scorso ha incassato una seconda assoluzione, insieme al colonnello Mauro Obinu. Se arriverà anche la terza, ovviamente nessuno può dirlo. Di sicuro, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale che è stato strumento d’eccellenza nella lotta alla mafia, da anni costretto a difendersi nelle aule di tribunale, è pronto a combattere. Intanto, eccolo nel suo nuovo ufficio con il cronista di Panorama, il giornale cui rilascia la sua unica intervista.

Generale, è ovvio che se lo augurasse. Ma, sinceramente, avrebbe scommesso su questa sentenza?

«Non avevo dubbi che sarebbe finita così, anche se in un processo di mafia c’è sempre un condizionamento ambientale che può indirizzare persino il giudice più corretto e asettico. Dopo più di cento udienze, è emersa tutta l’inconsistenza delle argomentazioni dell’accusa: sì, prevedevo l’assoluzione, ma non la formula».

È la migliore che lei potesse sperare?

«Attendo il deposito della motivazione per capire come i giudici sono arrivati alla sentenza».

Non è comunque privo di significato il fatto che il tribunale abbia disposto l’invio alla procura delle testimonianze dei suoi accusatori, Massimo Ciancimino e Michele Riccio.

«Certo, significa non solo che non li ha ritenuti attendibili, ma vuole che la procura valuti se ci sono anche gli estremi per un procedimento per calunnia nei loro confronti. Comunque, Mauro Obinu e io abbiamo già denunciato Michele Riccio per calunnia».

Tre lustri vissuti sotto tortura giudiziaria: ora come si sente?

«Sotto tortura, sì, è proprio il caso di dirlo. Il mio calvario giudiziario è iniziato formalmente nel 2006. Ma in realtà ero finito sotto tiro già nel 1994, un anno dopo la cattura di Totò Riina. Da allora, sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico, criticato, meglio sarebbe dire bombardato, da una certa area ideologica. Siamo nel 2013, l’anno prossimo sarà il ventennale. Sarebbe una bugia se dicessi che non sono provato da questa esperienza. Ma, per carattere, non la do vinta a nessuno. Per assurdo direi che, se questa storia finisse, non saprei più che fare, talmente mi sono immedesimato nella parte. Una battaglia che Obinu e io abbiamo combattuto a viso aperto. Abbiamo rinunciato alla prescrizione, uno dei pochissimi casi nella storia giudiziaria italiana, probabilmente. Ma era doveroso farlo, per imputati di reati connessi all’esercizio della propria professione. Osservo a riguardo che anche questa correttezza istituzionale non ci è stata riconosciuta dai nostri detrattori».

Come ha cambiato la sua vita, questa battaglia?

«Dal punto di vista professionale non ha inciso granché: ero ormai a fine carriera. Quando cominciò il primo processo, nel 2006, avevo praticamente ultimato il mio incarico alla direzione del Sisde, l’allora servizio segreto civile. Sul piano personale mi ha aiutato invece la solidarietà che ho sentito intorno a me. Certo il limo mediatico, con il mio nome dato continuamente in pasto all’opinione pubblica senza la possibilità di poter replicare, ha pesato molto…»

E sul piano familiare?

«In famiglia ovviamente mi hanno sostenuto, mi sono stati tutti vicini».

E nel suo ambiente professionale, nell’Arma cui lei è molto legato, lei ha pagato qualche prezzo?

«Ho avuto la solidarietà ravvicinata di tanti colleghi e dipendenti che non mi hanno mai fatto mancare anche il loro contributo di idee alla mia difesa». 

Colleghi e dipendenti dell’Arma... E i vertici?

«Hanno assunto una posizione di prudente attesa. Che cosa vuole? Le istituzioni in quanto tali sono sempre un po’ «matrigne» nei confronti dei loro figli che incappano in qualche incidente di percorso».

Perché?

«Difesa dell’ufficio, della funzione. Ma lo capisco. Sono stato a capo di un'istituzione e in talune circostanze mi sono comportato in modo analogo».

Dopo la sua assoluzione, è cambiato l’atteggiamento?

«Non saprei… Sono una persona piuttosto spigolosa. Molti probabilmente hanno paura di telefonarmi perché sanno che li manderei a quel paese».

Ma c’è mai stato qualche momento in cui lei si è sentito completamente solo?

«Il rapporto tra la mia posizione e il mondo esterno è sempre stato molto lineare. C’erano i favorevoli e i contrari, come sempre avviene in Italia, il Paese delle tifoserie. Quello che però mi ha offeso profondamente è stato il pregiudizio. Gran parte dell’opinione a me contraria lo era in modo acritico: quanto fango lanciato senza conoscere i fatti!»

Ne è sorpreso?

«È stata una scoperta, sì. Mi ha profondamente offeso in particolare l’atteggiamento della stampa e della politica».

La stampa?

«La stampa, certo. Non ha seguito correttamente il processo, tranne rare eccezioni. I grandi quotidiani non inviavano quasi mai i loro cronisti. Ai dibattimenti c’erano costantemente solo i giornalisti delle agenzie. Poi, però, l’indomani leggevi resoconti molto dettagliati, soprattutto quando l’udienza sembrava più favorevole all’accusa. La gran parte dei giornali ha sposato acriticamente le tesi dell’accusa, senza quasi mai riportare quelle della difesa».

E la politica?

«Mi hanno offeso le posizioni assunte da persone che stimo e da cui non me lo sarei mai aspettato».

Qualche nome… Se la sente di farlo?

«L’onorevole Giuseppe Pisanu, per esempio. E Walter Veltroni. Da loro mi aspettavo giudizi più distaccati e sereni. Pisanu è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia».

Si riferisce alla sua relazione finale, licenziata qualche mese prima della sentenza?

«Non posso accettarla, quella relazione! Ha scaricato su un semplice colonnello dei carabinieri, qual ero io all’epoca dei fatti, tutto il peso di una vicenda che, se fosse stata come da lui descritta, aveva aspetti penalmente rilevanti e non poteva non coinvolgere personalità che stavano più in alto, molto più in alto. Sia politiche che istituzionali».

C’è stato invece qualche gesto che l’ha sorpresa positivamente?

«Le telefonate di molti magistrati dopo la sentenza di assoluzione. Ma non le farò i nomi».

Un’indicazione geografica, almeno?

«Telefonate ricevute da ogni parte, dalla Sicilia alla Lombardia».

Piemonte?

«No, Piemonte no».

Torniamo al processo. Diceva dell’inconsistenza delle ipotesi accusatorie…

«L’accusa non è riuscita a prospettare ipotesi plausibili in relazione ai fatti accertati».

Favoreggiamento per il ritardato o il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Di questo lei era accusato.

«Mi sono difeso contestando ogni accusa con i documenti. Solo una persona innocente può portare la propria difesa sui fatti, perché i fatti parlano da soli. Durante il dibattimento ho reso una serie di dichiarazioni spontanee che hanno documentato la mia innocenza». 

Ha capito perché lei e suoi ufficiali del Ros siete da 20 anni sotto attacco giudiziario?

«Considerazioni più ponderate potranno essere fatte solo tra qualche anno, quando certe situazioni si saranno decantate, e la vicenda sarà meno calda e sensibile».

Un’interpretazione, almeno, di quello che è accaduto?

«Questi processi sono conseguenza di una funzione della magistratura che si è enormemente dilatata, perché non è più limitata al campo specifico della attenta applicazione della norma, ma si inserisce nel contesto politico-sociale, spesso condizionandolo».

Secondo lei questa azione della magistratura avviene in buona fede?

«Bisogna riconoscere la buona fede a tutti. Mi correggo: quasi a tutti. E mi fermo qui, per ora».

La sua famosa inchiesta dei primi anni Novanta su mafia e appalti, quella che le aveva affidato Giovanni Falcone, è per caso all'origine delle sue disavventure giudiziarie?

«Diciamo che è stata una discriminante, per un certo tipo di contesto. Il conflitto che si è creato tra il Ros e una parte della magistratura palermitana e il danno che ne è derivato nell’attività investigativa sono stati certamente ben visti da una parte della società siciliana. Mi riferisco a quella zona grigia al confine tra politica, economia e mafia».

Col senno di poi, avrebbe attenuato certe sue posizioni critiche sulla Procura di Palermo?

«Io ho il carattere che ho. E anche certi magistrati hanno il loro caratteraccio. Se ci fossero state meno spigolosità, certe fratture forse si sarebbero sanate. Tuttavia, su un punto insisto: il metodo investigativo che attaccava il potere mafioso attraverso l’ambito economico, cui Falcone e il Ros si ispiravano, è ancora oggi il più efficace nella lotta a Cosa nostra: non ha alternative altrettanto valide».

Le accuse contro di lei si basavano in gran parte sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. A che cosa puntava il figlio di don Vito?

«Voleva salvare il salvabile dei beni di famiglia, sfruttando documenti che gli aveva lasciato il padre adattandoli e interpretandoli a suo modo».

Eppure, Ciancimino jr era stato elevato addirittura a «icona dell’antimafia». Perché?

«Il personaggio è stato sfruttato senza valutarne il reale peso specifico, per pure ragioni strumentali o di cassetta. E lui è riuscito a cogliere gli interessi anche di tipo ideologico di settori dell’informazione, e li ha assecondati. Da un lato passava notizie finalizzate a colpire personalità istituzionali; e dall’altro forniva ai giornalisti argomenti che confermavano certi loro teoremi sul rapporto Stato-mafia. La verità è che Ciancimino jr e i suoi sostenitori si sono usati a vicenda».

L’effetto di quelle campagne, a parte le sue disavventure giudiziarie?

«Si è attenuata l’attività investigativa di uno dei reparti di eccellenza impegnati nella lotta alla mafia, il Ros. Questo è stato il risultato. E qualcuno, in Sicilia, ne è stato molto contento. Non mi riferisco alla magistratura, ovviamente. Ma alla zona grigia di cui ho parlato prima».

Lei è già stato assolto in due processi. Ma ora dovrà affrontarne un terzo, quello sulla trattativa Stato-mafia: peseranno le prime due sentenze, a lei favorevoli?

«Lo capiremo solo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Tuttavia, il terzo processo, almeno per il 70 per cento, è stato costruito sulla documentazione del secondo. Io sono ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia e politica nell’ambito della trattativa. E io sono stato assolto per ben due volte dalle accuse rivoltemi».

Restano tuttavia molte ombre su quello che accadde in Italia tra il 1992 e il 1993…

«È ancora troppo presto per dire cose concrete. Di sicuro, nel tempo, c’è stata una lunga correlazione tra la politica siciliana e la criminalità mafiosa, sin dal Risorgimento. Ma non necessariamente erano contatti diretti. C’era, diciamo così, una reciproca conoscenza tra le due parti: una sapeva qual era l’interesse dell’altra, e cercava in qualche modo di assecondarla».

Un rapporto storico, che andò in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Ci fu una trattativa per rinegoziarlo?

«Non so se ci fu una trattativa: se ci fu, io non ne sono a conoscenza. Comunque, non credo che, se c’è stata, sia avvenuta intorno al famoso 41 bis (il regime penitenziario per i mafiosi, particolarmente severo): su 324 «ammorbidimenti» del carcere duro, poco più di una ventina riguardavano mafiosi e nessuno era un boss di rango. Se qualcosa è successo, è avvenuto a livelli altissimi».

Generale, mentre si prepara per il terzo processo, lei ora di che cosa si occupa?

«Con alcuni amici abbiamo avviato un’attività di tipo pubblicistico. Abbiamo aperto un portale informatico di geopolitica, economia e sicurezza, Lookout news , rivolto principalmente al campo internazionale. Facciamo analisi di situazioni, prepariamo report su aree di crisi e approfondimenti su temi specifici. Abbiamo già circa 12 mila visitatori che ci seguono costantemente da tutte le parti del mondo. E presto vorremmo realizzare il portale in una o più lingue».

Una volta lei disse: «Non finisce qui». Ha ancora qualche sassolino da togliersi dalle scarpe?

«Ci sto pensando, non è escluso che lo faccia. La vicenda Mori-Obinu è emblematica di un’Italia che non va bene. Per niente!»

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".

Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?

"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.

Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori.

Ora arriva la ciliegina.

Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da  Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane. Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.

Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?

Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.

I pm d’assalto hanno radici profonde…

Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.

Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?

In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.

Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.

Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.

Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.

La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.

Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?

Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.

In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.

Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.

Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.

Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.

Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.

I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.

Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?

Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.

Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.

Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.

Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?

Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.

Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?

La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.

Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?

È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.

Corruzione Roma: “Fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri”, scrive Donatella Stasio su “Il Sole 24Ore”. A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l’enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L’ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L’ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla “bilancia” un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant’è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l’effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C’è anche «l’utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso – e recente – dei processi previdenziali “finti”. «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all’estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell’Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un’altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch’essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l’eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un’integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie “anime morte” della giurisdizione». Va bene Gogol, ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell’impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell’impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali». L’elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».

«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 Ore”. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente». Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.

Nello Rossi. Ma non è quel magistrato attenzionato dal CSM?

Il magistrato era stato intercettato al telefono con Mancino. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente. Il Csm ha aperto un fascicolo sul procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per la telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, con l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente, dopo che il testo della conversazione era stato pubblicato da alcuni quotidiani. La conversazione, in cui il magistrato, esponente storico di Magistratura democratica, tranquillizza Mancino, è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia della Procura di Palermo. Nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha più volte sottolineato le difficoltà incontrate a indagare su un tema così delicato che sfiora e in alcuni casi coinvolge pezzi importanti dello Stato se non istituzioni. Nel giugno scorso la Procura di Palermo ha chiuso le indagini per dodici persone: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri. Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ed ancora.  «Il pm che mi ha indagato in 60 giorni non fatto nulla per mio padre in tre anni».

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

L'autore del libro «Il caso Genchi» a processo con l'accusa di aver diffamato un magistrato dell'Anm: «Ma le indagini preliminari sulle valvole cardiache impiantate a mio padre che fece poi un ictus le ha tenute aperte tre anni e sei mesi. Poi la Procura ha chiesto nientemeno che l'archiviazione», scrive Felice Manti su “Il Giornale”. C'è un filo rosso che lega le grandi inchieste che coinvolgono parlamentari e magistrati e l'eterna lotta tra politici e toghe. Sullo sfondo c'è la riforma della giustizia che ad alcuni ambienti della magistratura proprio non va giù. Il libro «Il caso Genchi» sulla storia e i segreti del consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris sul caso "Why Not", che ha fatto irritare molti magistrati, ne è la summa. A Milano nei prossimi mesi inizierà il processo contro l'autore del libro, Edoardo Montolli, che avrebbe diffamato il magistrato romano Nello Rossi e che oggi è alle prese con l'ultimo romanzo («L'Illusionista», Alberti editore), dove la fanno da padroni giudici e poliziotti corrotti. L'accusa contro di lui è rappresentata da Maurizio Romanelli, il pm che ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, editore del «Giornale», per la famosa intercettazione Fassino-Consorte, quella dell'«abbiamo una banca». Del famoso brogliaccio si parla anche nel tuo libro, vero? Ma il pm non ti ha chiesto nulla? «Romanelli? Investigava sull'intercettazione Fassino-Consorte e non mi ha mai nemmeno convocato per farmi qualche domanda, dato che ne "Il caso Genchi" dedicavo a quella telefonata oltre cento pagine dense di dati, e non opinioni, che emergevano dall'archivio del consulente e dalla sua memoria difensiva. Ma si vede che non erano dati interessanti». Riguardavano Paolo Berlusconi? «No. Tutt'altro. Ma rimando alla lettura del libro, che comunque il pm Romanelli ha letto». Perché? «Sono stato querelato per il libro dall'ex segretario dell'Anm Nello Rossi, attuale procuratore aggiunto di Roma che, insieme all'ex magistrato Achille Toro, aprì l'indagine su Genchi. La querela è del 2 marzo. E il 3 maggio Romanelli ha chiuso le indagini. Evidentemente, nonostante le numerose indagini di cui si occupa, è riuscito a leggere molte pagine del libro e a tirare le conclusioni in due soli mesi, senza fare alcuna indagine. È stato strepitosamente veloce. Specie rispetto all'esperienza che ho vissuto con lui da privato cittadino». Cioè? «Mah, siccome ero strabiliato da una tale velocità, a luglio sono andato a controllare in tribunale a che punto fosse un esposto, che avevo fatto per quanto accaduto a mio padre nel novembre 2006, assegnato proprio a Romanelli. Per me una cosa un pochino più grave». Spiega. «Dopo un'operazione di sostituzione di valvola aortica nel 2000, mio padre ha avuto un ictus ed un'emiparesi sinistra, restando invalido al 100% a soli 55 anni. Pensavo fosse colpa del destino. Ma nel novembre 2006 la valvola, praticamente ancora nuova, risultava piena di trombi, nonostante tutte le settimane, invece che tutti i mesi, un primario ne controllasse i valori sanguigni, risultati sempre nella norma. Andava sostituita nuovamente. E siccome la valvola era stata messa da un medico, poi arrestato e condannato, ho chiesto il sequestro della vecchia valvola, avvenuto all'indomani dell'operazione e spiegato tutto in un esposto». Risultato? «L'indagine è stata presa in carico da Romanelli. Non ha mai chiamato né me né i medici che dovevano testimoniare. Ho pensato che avesse svolto indagini, che non fosse emerso nulla e che l'inchiesta fosse stata archiviata. Invece a luglio ho scoperto che, dopo 3 anni e sei mesi, l'indagine era ancora in fase preliminare». Tre anni e sei mesi? «Già. Ho chiesto l'avocazione del procedimento, ma la cosa più straordinaria è che stato respinto perché la Procura, addirittura in agosto, ha chiesto l'archiviazione. Cioè, ha tenuto aperto un fascicolo per tre anni e sei mesi per poi chiedere l'archiviazione, senza nemmeno sentire un teste. Ma ci volevano tre anni e sei mesi per accorgersi che non era accaduto nulla di penalmente rilevante? Da chi dovevano far analizzare la valvola, dalla Nasa? Ecco, il problema è proprio questo». Quale? «Che se è l'ex segretario dell'Anm a presentare una querela per diffamazione, i tempi del dottor Romanelli sono incredibilmente veloci, se invece da Romanelli va un cittadino qualsiasi, si prende un sacco di tempo. Certo, Nello Rossi si sentiva diffamato e si doveva fare in fretta, mentre mio padre ha "solo" rischiato di morire».  Non sembri avere molta fiducia nella magistratura. «È che mi fanno sorridere i magistrati che attaccano Berlusconi, dicendo che la legge deve essere uguale per tutti. Come no. Per esperienza personale e professionale, aggiungerei tutti quelli che vogliono loro. Dipende da chi querela e da chi è l'imputato. D'altra parte scrivo sempre di vicende di ingiusta detenzione, e non a caso l'Italia è il Paese più condannato dall'Ue in materia, senza che nessun magistrato sia mai stato condannato per questo. Finché la situazione è questa, se io fossi il premier, farei una legge "ad personam" al giorno per difendermi. D'altra parte nella conclusione del libro sul caso Genchi evidenziavo una volta di più il vero problema dell'Italia, che non è la destra o la sinistra, ma l'anomalia della magistratura». Cioè? «Proponevo una separazione delle carriere un po' diversa da quella richiesta dai politici: i magistrati che vanno al ministero non tornino in tribunale. Perché non è possibile che a giudicare i politici siano gli stessi magistrati che alla legislatura successiva ottengono incarichi di governo. O fai una cosa o fai l'altra». Genchi però attacca sempre di più Berlusconi...«Ognuno ha le sue idee. Di certo in "Why Not" di Berlusconi non c'era alcuna traccia. Ma basta leggersi il libro per trovare gli stessi nomi e gli intrecci emersi con il successivo scandalo Protezione Civile o alcuni sprazzi sulle stragi del '92-'93. Ma, a dirla tutta, ho scritto che nemmeno m'importava se "Why Not" fosse giusta o sbagliata. Quello che mi sembrava paradossale era che a prendere in mano le carte di De Magistris fossero magistrati sicuramente in contatto con alcuni imputati. Ecco, questo non è eticamente accettabile. Così come non è eticamente accettabile che chi ha sequestrato l'archivio Genchi avesse fatto alcune telefonate presenti all'interno del medesimo archivio, come quella tra l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi e l'ex ministro della giustizia Mastella che doveva mandare in soffitta entro la fine di luglio del 2007 la riforma Castelli sulla separazione delle carriere: il tutto mentre Prodi era stato appena indagato e a giorni lo sarebbe stato proprio Mastella. È su questo, su ciò che accadde a luglio 2007, che si discuterà nel corso del mio processo. E invito tutti a venirlo a vedere per capire in che Paese viviamo. Che non ci sono eroi, tantomeno bianchi e neri. Ma che tutto è un intreccio grigio».

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”.

Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.

E che dire di un altro Generale. Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Robereto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.

Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire  in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigiole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro  in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.

"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".

Come ha conosciuto Speciale?

"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".

Cosa vuole dire?

La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".

E questa lista cosa sarebbe?

"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".

Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.

"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".

Cosa?

"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".

Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.

"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

Punita la pm anti Vendola. E ora vuole candidarsi. La Digeronimo denunciò i rapporti tra Nichi e il gip che l'aveva assolto dall'abuso di ufficio, scrive Tiziana Paolocci su “Il Giornale”. Il processo a Nichi Vendola ha fatto strike di magistrati all'interno del Tribunale di Bari. Il pm Desirè Digeronimo, che all'indomani dell'assoluzione del governatore della Regione Puglia da parte del gup Susanna De Felice denunciò l'amicizia tra questa e la sorella del governatore, Patrizia, è stata trasferita alla Procura di Roma. Una punizione in piena regola per chiudere un procedimento aperto proprio dal Csm per «rimuovere preventivamente una situazione di presunta incompatibilità tra lei e i colleghi». Il gup che giudicò innocente il presidente di Sel dall'accusa di abuso d'ufficio, invece, verrà trasferita alla Corte d'appello di Taranto, ma solo per avallare una sua richiesta. Era stato lo stesso giudice a chiedere, infatti, il trasferimento all'interno di un concorso ordinario. Due pesi due misure, quindi, per i principali attori di un processo che sollevò un vero e proprio terremoto all'interno del Tribunale, seguito da uno strascico di polemiche. I pm Desirè Digeronimo e Francesco Bretone che avevano chiesto una condanna a 20 mesi di reclusione per Vendola (processato insieme all'ex assessore alla Salute Alberto Tedesco), infatti, subito dopo l'assoluzione del politico avevano inviato un esposto al procuratore generale di Bari, al capo del loro ufficio e a un procuratore aggiunto, segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore. Dall'iniziativa, però, avevano preso le distanze 26 pm firmando una lettera, che aveva spinto poi i consiglieri di Area ad aprire una pratica sulla Digeronimo. Le accuse del Csm su di lei erano basate non solo sulla conflittualità con alcuni colleghi e avvocati, ma anche sul rischio di non imparzialità per via dei rapporti personali con l'ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino e con la sua amica Paola D'Aprile. E non era bastato a dar manforte alle parole della Digeronimo le foto pubblicate a febbraio da Panorama, che mostravano una pranzo organizzato nell'aprile 2006 per il compleanno di una cugina di Vendola, al quale partecipavano lo stesso governatore e il giudice De Felice. Così il pm non ha potuto far altro che indicare una nuova sede di lavoro ottenendo in cambio l'archiviazione della pratica disciplinare. Ma non ha deposto le armi e ieri in una lettera aperta è tornata ad attaccare il Csm, Vendola e i colleghi: «Incolpevolmente ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che la legge è uguale per tutti». Poi annuncia: «Se si creeranno le condizioni servirò in altro ruolo i miei concittadini». Una promessa che non esclude un futuro da candidato sindaco di Bari.

Ecco il testo della lettera aperta indirizzata "ai cittadini di Bari" e postata dal sostituto procuratore Desirée Digeronimo sul suo profilo Facebook: "Ho chiesto il trasferimento alla Procura di Roma ritenendo non più “tollerabile” la mia permanenza in servizio presso la Procura di Bari a seguito delle accuse totalmente infondate di alcuni colleghi sostituti auditi al CSM nel corso della pratica che mi ha riguardata. Preciso che tale procedura per incompatibilità non attiene in alcun modo a profili disciplinari né tantomeno a pretese irritualità riferibili all’invio di una nota, riservata personale, diretta ai miei superiori gerarchici e avente ad oggetto accadimenti inerenti il processo a carico del Presidente di Regione, Niki Vendola. La richiesta di trasferimento è stata motivata dal profondo rispetto dovuto all’istituzione della Procura della Repubblica di Bari e dalla mia personale indisponibilità a proseguire una collaborazione con alcuni colleghi in servizio in tale ufficio; infatti, dopo la pubblicazione sulla stampa del contenuto delle contestazioni formulate dal CSM, ancor prima che, in un legittimo contraddittorio, potessi dimostrarne la pretestuosità e falsità, come in ogni caso ho fatto depositando una memoria ampiamente supportata da riscontri documentali, ho ritenuto doveroso tutelare, da tali false accuse, la mia onorabilità e dignità professionale depositando un esposto alla competente Procura di Lecce. Nel corso di questi anni e soprattutto di questi ultimi mesi, attraverso un’ ossessiva sovraesposizione mediatica, ovviamente mai da me voluta o ispirata, sono state riportate notizie non corrispondenti alla verità dei fatti, che oggi ritengo opportuno precisare e smentire. La riservata da me sottoscritta unitamente al collega Bretone sulla vicenda De Felice – Vendola costituiva, nell’esercizio delle mie funzioni di Pubblico Ministero titolare di quel processo, una doverosa comunicazione di ufficio con riferimento a fatti e circostanze che necessitavano di superiore valutazione da parte dei soggetti istituzionali a ciò preposti. Tale atto, e non esposto, lungi dall’essere stato compiuto in violazione di legge e/o regole processuali era corrispondente a precisi doveri del mio ufficio. Illegittima e in violazione del dovere di riservatezza risulta la pubblicazione di tale nota riservata, circostanza in merito alla quale ho provveduto a formalizzare denuncia presso le sedi competenti. Tralasciando aspetti suscettibili di altre e ben più gravi valutazioni, una irrituale interferenza nell’esercizio delle funzioni a me assegnate dallo Stato potrebbero considerarsi i successivi documenti diramati alla stampa da parte dei rappresentanti di associazioni di categoria e/o di singoli uffici, con i quali, senza cognizione di causa e frettolosamente, veniva stigmatizzata a mio carico l’inesistente violazione di regole processuali. In merito ad una serie di false affermazioni riferite da alcuni protagonisti di tale vicenda e riportate dalla stampa , ho sporto denuncia presso la Procura di Lecce, in particolare: al contrario di quanto riferito dal Presidente Vendola nel corso di numerose trasmissioni televisive non sono mai stata amica, nel senso pieno del termine, della collega De Felice né mai ho presentato quest’ultima alla sorella del Presidente, Patrizia; del resto nella ormai nota fotografia del settimanale “Panorama” non sono certo io ad essere ritratta tra tali intimi protagonisti del pranzo di compleanno della cugina del Presidente; al contrario di quanto riferito da Patrizia Vendola non ho mai chiesto favori a lei o al fratello né mai ho avuto motivi di astio o inimicizia nei confronti di costoro; al contrario di quanto riferito dalla dott.ssa Pirrelli, moglie del ex senatore PD e magistrato Gianrico Carofiglio, non ho mai avuto rapporti conflittuali con giudici o avvocati del distretto, né con la maggior parte dei colleghi sostituti di Bari, mai ho intrattenuto rapporti di amicizia o colloqui telefonici con la dott.ssa Lea Cosentino, come risulta peraltro inconfutabilmente dimostrato dalla trascrizione di una intercettazione telefonica tra me e la dott.ssa Paola D’Aprile avvenuta ad opera del collega Scelsi nell’agosto del 2009, collega oggi imputato a Lecce per tali condotte in un processo che mi vede persona offesa. La verità di ciò che è accaduto in questi lunghi anni è tutta da un’altra parte. Prima di indagare sugli illeciti nella gestione della sanità regionale pugliese anche per chi oggi mi accusa ero magistrato competente e attento e del resto i risultati prodotti in 15 anni di lavoro appassionato e serio presso la Procura di Bari sono sotto gli occhi di tutti. La mia incompatibilità ambientale nasce dall’ “incolpevole” circostanza di essermi imbattuta in un’indagine che avevo il dovere, in ossequio al servizio che svolgevo per i cittadini di Bari, di approfondire e concludere; doveri che mi imponevano di non voltare la testa, di non tenere le carte nei cassetti. “Incolpevolemente” ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che “la legge è uguale per tutti” e pur provocata e aggredita , “incolpevolemente” ho pensato che per un giudice il primo dovere fosse proseguire il suo lavoro nel silenzio e nella riservatezza, facendo parlare esclusivamente i propri provvedimenti. Ed in effetti i provvedimenti della Corte di Cassazione che hanno confermato la bontà dell’impianto accusatorio dell’indagine sulla sanità che sino al novembre 2009 ho personalmente seguito e poi condiviso con altri colleghi non possono che parlare per me. Oggi sono fiera di essere riuscita a indossare con onore una toga, pervenendo a tali importanti risultati , mentre un “potente” , come Lui stesso si è definito in recenti interviste, Presidente di Regione, nell’agosto 2009 in una lettera aperta pubblicata su tutte le testate nazionali, pur dichiarando di agire “per amore della verità” chiedeva a gran voce la mia astensione dall’indagine, mi tacciava di incompetenza, accusandomi genericamente di intrattenere rapporti di parentela e amicizia incompatibili con il ruolo. Sono fiera di aver saputo onorare con il silenzio l’istituzione che rappresento a fronte di tale comportamento del Presidente della Regione Puglia, che omettendo di rappresentare le sue doglianze presso le sedi competenti, così privandomi di ogni legittima difesa e contraddittorio, compiva una grave interferenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali di un magistrato della Repubblica Italiana. Sono fiera di aver resistito nell’adempimento del dovere nonostante la solitudine e la mancanza di solidarietà di chi avrebbe dovuto proteggere non me ma la mia funzione. E così la sezione locale dell’ANM che liquidava la questione della lettera di Vendola come un “fatto personale” tra me e il Presidente o il CSM dell’epoca che, contrariamente a quanto fatto per identici casi che riguardavano altri colleghi e altri personaggi pubblici, mi negava tutela posso dire oggi, con assoluta convinzione, che mancavano di salvaguardare non un singolo magistrato ma il prestigio e la credibilità delle funzioni giudiziarie. Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso, forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre il centro dei miei affetti e dei miei pensieri, e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini, con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza. Tanto esprimo ai cittadini di Bari che non mi hanno fatto mancare l’affetto e la solidarietà ma anche a chi oggi gioisce per una vittoria di “Pirro”. Un grazie speciale e con il cuore alle donne e agli uomini con cui ho condiviso quotidianamente le fatiche e le gioie del mio lavoro, ho apprezzato in voi onestà e coraggio, abnegazione assoluta a uno Stato spesso avaro con i suoi uomini migliori. Infine, rivolgendo un pensiero a quei colleghi della Procura di Bari, che pur decretando il mio esilio ringrazio per avermi aperto nuove e luminose strade da percorrere, mi torna in mente con un sorriso la frase di Diogene il cinico, il quale, condannato dai “ Sinopi” all’esilio, condannava costoro a rimanere in Patria". Bari lì 26 luglio 2013 Desirée Digeronimo.

La giunta distrettuale di Bari dell’Anm esprime "il proprio rammarico per il discredito che è stato gettato sull'intera magistratura, sul suo organo di autogoverno e sulla stessa Associazione nazionale magistrati". Secondo la giunta barese dell’Anm, è doveroso "sottolineare come il magistrato non possa sottrarsi alle regole che è chiamato a far rispettare". "La scelta della dott.ssa Digeronimo – rileva l’Anm – di trasferirsi presso altra sede, che di fatto ha bloccato il procedimento apertosi per la verifica di condotte che l’abbiano resa incompatibile con la permanenza presso la Procura di Bari, non può e non deve portare a cercare il consenso popolare, per fini evidentemente extragiudiziali, attraverso dichiarazioni unilaterali che altri magistrati, in ossequio ai principi di serietà, riservatezza e rispetto del codice deontologico, hanno riservato esclusivamente alle sedi istituzionali".

Vendola risponde al magistrato che lo indagò. "Scende in politica? Ci guadagna la giustizia". Scontro aperto tra il governatore leader di Sel e il pm Digeronimo che ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco di Bari. "Contro di me spinta da motivazioni politiche".  "Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".  E' scontro aperto tra il governatore Nichi Vendola e il magistrato Desirée Digeronimo che lo ha indagato per la vicenda della nomina di un primario, cui sono seguiti strascichi giudiziari e frizioni interne al Palazzo di Giustizia di Bari che hanno portato al trasferimento del pm a Roma per incompatibilità, scrive “La Repubblica”. Trasferimento annunciato con una lettera aperta alla città in cui la Digeronimo, oltre ad attaccare Vendola e i colleghi che l'hanno segnalata al Csm, si è detta pronta  a candidarsi per diventare il prossimo sindaco di Bari. Circostanza che - attacca Vendola - porta a galla la verità sulla "lunga clandestina campagna elettorale che spingeva le azioni della dottoressa Digeronimo". "Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso" scrive la Digeronimo alla cittadinanza, sostenuta da un gruppo di associazioni politiche, pronte a lanciare le primarie della società civile. "Forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre al centro dei miei affetti e dei miei pensieri e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza". "Sebbene sia abituato a cercare sempre le parole più appropriate per raccontare le mie emozioni - questa la replica del governatore - confesso che questa volta, dinanzi alle parole della dottoressa Digeronimo, ho provato la tentazione di restare in silenzio. Per marcare una distanza. Tuttavia, siamo dinanzi a una lettera pubblica e non davanti ad un atto giudiziario: ed è doveroso parlare. Una lettera ai 'cittadini baresi' proveniente da un magistrato tuttora in servizio a Bari, che non disdegna di esibire la propria 'folgorazione' per la politica. Lo fa con esibita ostilità nei confronti della mia persona. Lo fa, ed è la cosa che appare più paradossale e imbarazzante, con ostilità nei confronti della funzione giudiziaria, che tutti i cittadini vorrebbero esercitata da uomini e donne equilibrati e sereni. Che la dottoressa Digeronimo non sia stata terza e serena nei miei confronti, io lo so bene e la sua lettera una volta di più lo conferma. "Oggi capisco che non è serena nemmeno con il Csm, che ne ha decretato all'unanimità l'incompatibilità, imponendole di fatto il trasferimento. E non è serena neppure con i suoi colleghi, pm e giudici. Per cinque anni ho bevuto un calice amaro, ma sono stato sempre ossequioso verso le istituzioni giudiziarie e mi sono difeso nei processi uscendone sempre a testa alta. E' vero: mille volte ho sospettato che il suo accanimento nei miei confronti fosse motivato anzitutto da vanità, sebbene piuttosto crudele. Oggi finalmente appare la verità. Dunque, era solo una lunga clandestina campagna elettorale per una sorprendente autocandidatura quella che spingeva le azioni della dott. ssa Digeronimo. Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore  a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi. Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”». Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.

Tutta la verità sulle foto di Vendola. La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama» . Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola ndr) e il gip (Susanna De Felice ndr) che lo ha assolto». Bum! Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio. Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia: «La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie». Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso. Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini. Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori. Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti. Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario. In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it. L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità. Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere  il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci. Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate: «Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così ndr) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente». Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto». Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»: «Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata». Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso». La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca. «Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola ndr) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?». Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico». Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio: «Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale». Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali. Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere». Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.

Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama.  «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali. 

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.

Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato - per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto. Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

NAPOLI 40 ANNI DOPO.

Napoli, dopo 40 anni una tedesca va via dalla città: «Qui ho paura». Christina Bethe, docente al Goethe, è in città dal 1971: "Fu amore a prima vista, ma ora è diverso". Gara di solidarietà, i Verdi: "Le faremo cambiare idea", scrive  Gerardo Ausiello su “Il Mattino”. C’era una volta una giovane tedesca. Aveva vent’anni, l’oceano negli occhi e una valigia piena di sogni. Un giorno decise di lasciare Monaco per vivere a Napoli. Voleva emozionarsi, scoprire il calore umano sulla pelle, sentirsi a casa, anche a mille chilometri di distanza. Fu amore a prima vista. Era il 1971. Oggi quella giovane bavarese è diventata una donna matura. Lavora al Goethe Institut e insegna il tedesco ai napoletani che vogliono partire, senza mai voltarsi. Quelli che hanno le loro ragioni per andare via. Fino a qualche tempo fa Christina Bethe faceva fatica a comprenderli. Non poteva neppure immaginare che qualcuno potesse staccarsi da una terra così magnetica, che ti cattura e ti travolge, come uno tsunami. Ora, però, qualcosa è cambiato. E lei ha preso la decisione più difficile: dopo quarant’anni dirà addio a Napoli. E non tornerà più. «Ma il mio cuore resta qui, lo lascio a voi - racconta commossa al Mattino - Questa città mi ha regalato sensazioni irripetibili, mi ha incantato e sorpreso, mi ha reso felice. Qui ho trovato la passione, un’alba meravigliosa e sempre nuova, un tramonto che ti toglie il fiato». Tutti gli amori, presto o tardi, finiscono. È stato così anche tra Napoli e Christina: «Ho paura di restare, c’è troppa insicurezza. Vivere così è diventato molto faticoso ed io non ho più le energie». Ogni giorno, ammette, hai una battaglia da affrontare. Per un posto auto, per prendere il pullman, per affermare un tuo diritto che altrove sarebbe sacrosanto. Qui no, qui devi guadagnartelo. «Ormai all’ombra del Vesuvio l’aggressività ha contagiato tutti, esiste un disagio diffuso, le persone hanno troppa fretta. La crisi economica non c’entra, la miseria si percepiva già negli anni Settanta, forse di più. È la gente che si è trasformata. Oggi non riesco a sentire quella straordinaria umanità di un tempo, la partecipazione, la condivisione che hanno reso questa terra irripetibile. E poi fa male vedere tanta bellezza sprecata e sfigurata. In qualsiasi altro Paese i vostri monumenti, le chiese e i musei sarebbero diventati una miniera d’oro. Anche il progetto del lungomare pedonalizzato è avvincente, mi piace, ma credo sia difficile da realizzare». Se si guarda indietro, ripensa a tanti momenti speciali, scolpiti indelebilmente nella sua memoria: «Una volta avevo comprato un po’ di zuppa forte ma non sapevo come cucinarla. Chiesi informazioni ad una signora sull’autobus e subito si scatenò un dibattito che coinvolse anche l’autista. Alla fine fummo tutti d’accordo: quella zuppa andava fatta con le linguine». Fu, insomma, una scena alla «Così parlò Bellavista», l’esilarante commedia di Luciano De Crescenzo su vizi e virtù dei napoletani. «Ai miei tempi ogni occasione era buona per fare amicizia con qualcuno, per intavolare una discussione, per gustare un caffè insieme. Era tutto più semplice, più umano, più lento». Il senso di solidarietà, dice, lo percepivi soprattutto nei momenti difficili: «Dopo il terremoto dell’Ottanta incontravi un amico in strada e lui ti abbracciava, si preoccupava che stessi bene, era pronto a sacrificarsi per te. Adesso scene del genere sono davvero rare». Christina non tornerà in Germania. Per la sua nuova vita ha scelto Trieste: «L’ho scoperta quasi per caso e ho iniziato a documentarmi. Se la osservi di notte, con le sue mille luci e il mare che invade strade e piazze, ti ricorda davvero Napoli. Ma è una Napoli più vivibile, quella che tutti vorrebbero e che difficilmente vedremo. Perché questa città è unica, nel bene e nel male, e non cambierà mai». «Se Christina Bethe andrà via - raccontano il responsabile regionale dei Verdi Ecologisti Francesco Emilio Borrelli e Gianni Simioli della Radiazza, che stanno preparando una vera e propria gara di affetto dei napoletani per far cambiare idea alla signora tedesca - sarà l' ennesima sconfitta per la nostra città e per chi anche se faticosamente ha deciso di rimanere a viverci. Proprio per questo noi vogliamo convincere Christina con tanti piccoli gesti a cambiare idea e farle riscoprire una città che ha ancora un grande cuore anche se meno visibile e più rabbioso rispetto al passato». «Con tanti napoletani abbiamo deciso di farle riassaporare Napoli. Per questo Antonio Sergio del Gambrinus ha preparato per lei una colazione speciale da degustare con tanto di tradizione del caffè sospeso. Gino Sorbillo ai Tribunali l'aspetta per farle degustare quanto prima una splendida pizza con tutte le prelibatezze della nostra terra. Mimo Filosa presidente Unipan l'associazione dei panificatori della Campania l'aspetta al suo forno per donarle un palatone ed un tipico casatiello napoletano. Dario Cincotti, titolare del Kanathè a Pozzuoli, e Mario Morra, del bagno Elena a Posillipo, vogliono offrirle una giornata di mare e piena di relax. Andrea e Alessandro Cannavale vogliono farle riscoprire la Napoli antica accompagnandola in una nuova visita guidata della città. C' è ancora tanto buono e tanta vitalità nella nostra città. E' tempo per tutti coloro che amano la nostra terra di far emergere il meglio ed arrestare questo assurdo degrado culturale partendo proprio da questa storia che a nostro avviso coinvolge tutta la città e soprattutto chi ama Napoli davvero e non vuole che sia abbandonata».

«Dopo quarant'anni Napoli si ritrova nelle medesime condizioni di allora, se non peggio». Il giudizio lapidario è di un napoletano doc, Francesco Rosi, l'autore del film "Le mani della città", una delle pellicole più celebrate del cinema italiano, atto di denuncia del sacco edilizio di Napoli. Rosi lo afferma nello "Speciale Tg1" (in onda su Rai 1 domenica 25 agosto 2013), realizzato dal vicedirettore della testata Gennaro Sangiuliano, un documentario che rievoca, quarant'anni dopo, l'epidemia di colera che colpì la città nel 1973. E' il racconto di una pagina cupa della storia di Napoli, troppo presto dimenticata, decine di morti e migliaia di contagiati, con casi che si estesero a Bari e ad altre località del Mezzogiorno. Tra le inchieste giornalistiche dell'epoca che verranno riproposte, quelle condotte da "l'Espresso", che titolò "Bandiera gialla" per sottolineare le condizioni igieniche in cui il colera aveva trovato facile approdo. A quarant'anni di distanza, oltre a riascoltare i protagonisti di quelle giornate, lo speciale ripropone tutte le criticità del territorio perché, come denuncia Rosi, «la devastazione dell'ambiente e l'aggressione del cemento è continuata grazie agli stessi interessi forti di allora».

Il colera 40 anni dopo "I giorni della paura". "Repubblica" racconta attraverso le voci dei protagonisti la tragedia moderna di quell'agosto del 1973: il vibrione, l'epidemia, le vittime, la reazione della città, scrive Stella Cervaso su “La Repubblica”.  Il 27 agosto 1973 è un lunedì, l'estate è rotta dalla pioggia, si attende il controesodo e il governo balneare Rumor torna a riunirsi sui temi decisivi del "già serrato dibattito politico": occupazione, Mezzogiorno, pensioni, costo della vita. Il mondo è inchiodato davanti ai telegiornali per 60 svedesi tenuti in ostaggio dai banditi in una banca per 131 ore: usciranno difendendo i rapitori, e nascerà la "sindrome di Stoccolma". In Italia il presidente della Repubblica è Giovanni Leone, quello della Camera Sandro Pertini, Moro è ministro degli Esteri, alla Sanità c'è Luigi Gui. Si prepara la stagione del terrorismo. E in quello stesso giorno, una virgola mette in ginocchio Napoli. Il vibrione del colera, chiamato così dal latino per la forma di virgola, si era messo in marcia qualche giorno prima del 27 da un vicolo di San Giuseppe alle Paludi, nel paese vesuviano di Torre del Greco, dove le anse della lava vulcanica erano andate a cercare il mare lasciando l'eredità di un suburbio insalubre e malato. A infettarsi per prima è la moglie di un marinaio. Partita di cozze dalla Tunisia o residuo dell'epidemia dell'anno precedente nel porto di Odessa, il colera del '73 resta un regalo nero del mare. Dodici o ventiquattro, non si saprà mai quanti i morti e c'è il giallo del vibrione mai trovato nelle cozze sequestrate a migliaia. Oggi telecamere invadenti avrebbero trasmesso un reality, ma in quei giorni Alfredino Rampi non era ancora caduto nel grande occhio del pozzo di Vermicino. I sintomi del colera: perdita di fluidi e morte per disidratazione. Alla fine non resta che la bile, la "col (l) era". Giuseppe Sbarra era corrispondente del "Roma" da Torre: "Scoppiò una polemica tra il direttore del Cotugno, Ferruccio De Lorenzo, e il primario di Medicina dell'ospedale Maresca, Antonio Brancaccio che, con un piccolo gruppo di colleghi di esperienza, ritenne non si trattasse soltanto di una forma grave di gastroenterite. Per De Lorenzo parlare di colera invece era "scandalismo"". Ma la paura si diffuse più del contagio. Le strade odoravano di creolina, non si consumò più una foglia di insalata se non messa prima a mollo nell'amuchina. E chi lasciava un sacchetto di rifiuti in strada prima del passaggio del camion della nettezza urbana, rischiava il linciaggio. "Il professore Brancaccio fu autore di un piccolo atto di eroismo  -  ricorda Antonella Molese, igienista e direttore sanitario della Croce rossa campana, nipote del direttore del Maresca, Virginio Molese  -  chiamò mio zio e gli disse: guarda che è colera. Verificarono ancora su un vetrino e poi scelsero la strada più corretta dal punto di vista della salute pubblica: fecero le notifiche e fu allestito il cordone sanitario. La gente non doveva uscire dal paese". Molese ricevette una medaglia d'argento dal ministero della Sanità. In alcuni casi, come quello della disputa tra primari, giocò anche l'appartenenza politica: De Lorenzo era liberale, Brancaccio non nascondeva le sue simpatie berlingueriane. Ma nella stretta del pericolo, ci furono partiti come il Pci che optarono per il senso di responsabilità e la cultura di governo, a partire proprio da uno dei quartieri più popolosi e più rossi: Ponticelli. "Ci sostituimmo all'amministrazione  -  ricorda Aldo Cennamo, allora segretario di zona  -  Diventò pressante la richiesta di vaccinazioni, ma il Comune di Napoli aveva una debolezza strutturale a rispondere. Aprimmo noi il primo centro vaccinale vicino alla Casa del Popolo, presso lo studio di un medico, Gigi Maggiore, coadiuvato da altri colleghi e da un gruppo di giovani. Il Comune aveva preso atto di non poter fare fronte alla psicosi che si era sviluppata. Con l'autorizzazione dell'ufficiale sanitario ci rifornivamo di vaccini, siringhe e alcol. C'erano 80 persone impegnate nei centri medici, anche di orientamento politico diverso. Attrezzammo un camion, disinfestavamo con i bidoni della Zucchet cortile per cortile, dove gli abitanti si servivano tutti dell'unico servizio igienico. All'ambulatorio arrivarono migliaia di persone. Ben presto dovemmo trasferirci alla scuola Enrico Toti. Chiusero bottega tutti gli ambulanti e i panificatori". L'economia fu messa a dura prova: vietate le cozze, banditi dalle tavole anche i fichi, visitabili da altri possibili vettori di infezione come le mosche. In caduta verticale i pesci, rei di frequentare le stesse acque dei mitili. "Fu l'occasione per far sparire molte attività economiche  -  rievoca l'editore Attilio Wanderlingh  -  Vi fu la rivolta dei "luciani" contro i vigili urbani: il Comune ne inviò 500 per permettere l'asportazione delle cozze. Qualche giorno dopo i vigili diventarono mille. Analoga sorte ebbe l'acqua delle "mummare" di terracotta, la fonte del Chiatamone venne chiusa per paura che fosse inquinata". I ricoverati sono 90 al giorno, al termine dell'epidemia 911. Un elenco preciso di decessi non c'è. Ma le cifre sono ben altro dai 13 mila falciati dal colera che uccise anche Leopardi e dai 7000 deceduti nel 1884. Bruno Vittorio, 71 anni, 31 nel '73, padre di quattro figli, finì al Cotugno per 20 giorni tra la fine di agosto e l'inizio di settembre: "Mi diagnosticarono una forma non grave. Avevo chiamato il medico curante per dei forti mal di pancia, ma non avevo mangiato cozze. Mi misero in una stanzetta con altre persone, passavo il tempo a leggere, mi davano da mangiare in bianco". C'era il cordone sanitario, ma Vittorio racconta di aver visto i familiari sulla porta della sua stanza dopo sette giorni di ricovero. "Uno dei primi casi capitò a me: ci chiamò il parroco  -  ricorda un vigile urbano di Torre del Greco  -  una donna che in paese chiamavano "la Biagini" perché era bionda come un'attrice dell'epoca. La donna si era chiusa in bagno e non usciva più. Facemmo venire l'ambulanza". La seconda dose di vaccino, sconsigliata dal ministero della Sanità, fu autorizzata dalla Regione e la Sclavo mise sul mercato 2 milioni di dosi. "Con un collega anziano  -  racconta il vigile  -  correvo in motoretta a Napoli a prendere i vaccini nelle bottiglie da 200 cc. Ci facevamo consegnare le siringhe monouso, quelle in vetro avrebbero dovuto bollire un'ora a cento gradi". Per fare prima, gli americani tagliarono corto, introdussero le siringhepistola usate in Vietnam. Una corsa contro il tempo che aveva prodotto un record: in 7 giorni, un milione di vaccinati. Il fotografo Luciano Ferrara arrivato a Berna si vide negare il posto in albergo: "Avevo prenotato da 15 giorni. Capii quando vidi le immagini di Mergellina in fiamme per le cozze. Spiegai che venivo dalla Germania, non da Napoli: ero fuori da tre mesi". Il vibrione non abita più qui (se mai vi ha abitato). Ma porta ancora per mano un pregiudizio lungo molto più di 40 anni. È tutto scritto nella pagina Facebook "Napoli colera sei la vergogna dell'Italia intera". Ogni giorno qualcuno segnala la pagina. A Palo Alto, sede americana del server, non possono non essere sensibili alle accuse razziste. Ma la pagina dell'infamia resiste. Nessuno la cancella.

De Magistris, il giustizialista con la giunta piena di indagati. La triste fine di Giggino, che da pm metteva sotto torchio i politici e ora a Napoli deve difendere i suoi (tanti) assessori finiti nel mirino delle toghe, scrive Carmine Spadafora su “Il Giornale”. Gli ultimi due a finire sul «taccuino» dei pm (iscrizione nel registro degli indagati) sono stati il potente vicesindaco, Tommaso Sodano, uomo forte della giunta capeggiata da Luigi de Magistris e l'assessora, senza deleghe (ha rimesso quella allo Sport), Pina Tommasielli, l'unica reduce - con il rifondaiolo Sodano - della prima giunta di Giggino. Tutti gli altri arancioni della prima ora, una dozzina, fatti fuori o dimessisi non senza polemiche. Anzi, in qualche caso, con molti strali inviati all'ex pm d'assalto. Tommaso e Pina non sono gli unici due esponenti della giunta orange ad essere finiti in due distinti fascicoli aperti dalla Procura di Napoli. Ce ne sono altri. Il senatore Pdl Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, lo ha rilevato e twittato. «Comune di Napoli in giunta 10 indagati su 12. Il metodo de Magistris applicato a de Magistris. Chi di spada ferisce di spada perisce». Come dire: faceva il giustizialista, chiedeva la testa di ogni politico indagato, ne ha fatto un cavallo di battaglia in campagna elettorale e ora che fa? Giggino resta al suo posto. Non solo. Qualche osservatore fa notare: perché la Tommasielli ha rimesso la delega allo Sport (ma che farà a Palazzo San Giacomo se non ha incarichi?), mentre Sodano - indagato per alcune consulenze sospette - è restato al suo posto, con tutte le sue belle deleghe, come se niente fosse accaduto? Il partito del vicesindaco invoca sempre le dimissioni degli indagati degli altri partiti, ma quando a esserne colpito è uno dei suoi, fa finta di nulla. Per la sua twittata, datata 29 luglio, Minzolini si è preso un bel po' di insulti e commenti acidi: «Sono indagati, non rinviati a giudizio». Difatti l'ex direttore del Tg1 lo ha precisato: «Ci sono degli indagati in giunta». Non ha parlato di imputati. Vale la pena ricordare che la giunta capeggiata da Giggino in appena due anni e due mesi di governo della città, è stata finora oggetto di ben cinque indagini: Coppa America, strade «scassate», pista ciclabile, le 7 multe della Tommasielli, recapitate a familiari ma, sembra, secondo la Procura, cancellate con un colpo di spugna e l'indagine per abuso d'ufficio su Sodano per un incarico concesso alla sua amica Cristina Roscia per un progetto da 50mila euro nell'ambito della campagna «Bollino blu». Giggino l'Immacolato, che da magistrato e da europarlamentare chiedeva un passo indietro a tutti i pubblici amministratori coinvolti in inchieste e incitava gli ex colleghi magistrati a colpire duramente i presunti fedigrafi è sotto inchiesta per la Coppa America e le buche. E poi c'è il suo capo di Gabinetto, l'ex colonnello Attilio Auricchio indagato per la Coppa America. De Magistris non ha mai traballato, non è mai stato sfiorato dall'idea di rimettere il suo mandato. Il fratello di Giggino, Claudio, che senza deleghe lavora gratis a favore della giunta, è finito nel mirino della Procura per la vicenda legata alla Coppa America. Pochi benefici per la città, molto lavoro per i pm, alle prese con una indagine che vede coinvolti una mezza dozzina di potenti di Napoli, tra cui, il presidente dell'Unione industriali e il presidente della Camera di commercio, Maurizio Maddaloni. E poi, c'è l'ex assessora alla Mobilità, Anna Donati, oggi consulente dell'amministrazione arancione. Insomma, Tommasielli e Donati, due quote rosa per le quali è stato adottato il sistema dei due pesi e delle due misure. I maschietti, sindaco e vice sindaco, pure indagati, sono rimasti al loro posto. E, intanto, Affaritaliani.it rivela che per pochi minuti sull'account Twitter di de Magistris, è comparso un tweet con le percentuali dei suoi follower suddivisi per nazionalità, ricerca basata su uno studio effettuato sul sito Twocation.com. Singolarmente è emerso che i follower italiani sarebbero solo il 57%. Dunque, poiché de Magistris non è un leader politico mondiale, sorge spontanea la domanda: da dove salterebbero fuori circa 80mila follower da Europa, Nord America e resto del mondo? Si tratta infatti di una percentuale di follower provenienti da paesi stranieri superiore anche a quella di Barack Obama. Il tweet dopo pochi istanti è stato rimosso. Alimentando ulteriori dubbi.

E poi senti che il parroco anti camorra sconfessa il pm Woodcock. Don Merola in radio attacca la toga dell'inchiesta Cosentino: "Leggendo gli atti non ho trovato prove per dire che è un camorrista. Immorale che sia in prigione" scrive Francesco Cramer su “Il Giornale”. Il prete anticamorra benedice Berlusconi e Cosentino e sconsacra il pm Woodcock. È un fiume in piena don Luigi Merola, sacerdote, scrittore, cavaliere della Repubblica, una vita in trincea contro i clan dei vicoli campani. Microfono in mano, a La Zanzara su Radio 24, il 6 luglio 2013 parla di politica. E parla chiaro: «Berlusconi? È un perseguitato, i magistrati lo perseguitano tanto». La sua è un'omelia politicamente scorretta ma genuina, specie quando parla delle toghe: «Lo perseguitano come hanno fatto con Mastella - dice il prete -. Alcuni magistrati sono politicizzati e ignoranti, devono leggere e studiare di più. Ci vuole la formazione permanente dopo il concorso». Parole sante anche se difficilmente Anm e Csm sarebbero disposti a fare mea culpa. Poi ci si aspetta che, da prete, arrivi la scomunica per lo stile di vita del Cavaliere. Ma don Merola è tutto fuorché un ipocrita: «Berlusconi - ragiona - è un peccatore come tanti altri. Sono stato a Roma tre anni per lavorare al ministero dell'Istruzione e dico che quello che fa Berlusconi lo fanno tutti, politici di sinistra e di destra, alti funzionari e magistrati. Tutta gente che ha la seconda, la terza e la quarta amante da cui si fanno accompagnare con l'auto blu. Farò nomi e cognomi». E ancora, per l'ex premier arriva il segno della croce: «Berlusconi lo assolvo per il fatto che fa mangiare 80mila famiglie in Italia. Lo perdono con l'assoluzione per qualsiasi cosa abbia fatto». Una vita a raccattare gli ultimi alla stazione centrale di Napoli; una quotidiana battaglia contro l'usura e contro i clan; una guerra aperta alla criminalità organizzata tanto che in un'intercettazione un camorrista disse: «Lo ammazzerò sull'altare». Don Merola la malavita la conosce bene. La tiene sotto controllo, la combatte, la studia. E studia le carte processuali. Tutte. Senza lenti ideologiche. Ecco perché, quando gli chiedono del conterraneo Nicola Cosentino, ex sottosegretario pidiellino diventato simbolo degli impresentabili, don Merola anche questa volta spiazza tutti: «Leggendo gli atti che riguardano Cosentino, mi sono fatto l'idea che non ci sono le prove per dire che è camorrista e per stare in carcere». E quindi «è immorale e ingiusto che sia in prigione, non può inquinare le prove perché si è costituito e il procedimento è chiuso». Naturalmente il sacerdote non può non parlare anche di Henry John Woodcock, uno dei pm titolari dell'inchiesta: «Woodcock lo considero di estrema sinistra, ho saputo che è diventato magistrato dopo due bocciature al concorso. Come prete vengo a sapere tante cose, Woodcock potrà essere preparato sullo sport ma sul diritto deve studiare un po' di più». Prete di strada, don Merola è solito dire pane al pane e vino al vino. Chiama le cose con il loro nome. E per questo è stato inviso alla sinistra. Sul sindaco di Napoli, per esempio, era stato tranchant: «De Magistris a Napoli ha fatto due cose: ha chiuso il centro storico e fatto la pista ciclopedonale, manco fossimo nella Pianura padana. Ma purtroppo non ascolta nessuno. Noi napoletani non sappiamo a che santo dobbiamo votarci, ma saremo proprio noi, alla fine che salveremo Napoli». E non aveva risparmiato neppure Grillo: «Non lo capisco: è un fenomeno tutto italiano. Come si fa a non avere nessun rispetto delle istituzioni, come si fa a dire arrendetevi a chi rappresenta l'Italia? Vogliamo costruire qualcosa o soltanto opporci?». Amico di Caldoro e di Francesco Nitto Palma, don Merola era stato in predicato di diventare parlamentare con la casacca del Pdl. Era pure stato a palazzo Grazioli per un'ora di colloquio con Berlusconi. «Mi ha offerto un seggio per portare avanti le mie battaglie. Ma poi ho detto di no vedendo le liste». Al suo niet fu subito corteggiato da Luca Cordero di Montezemolo ma anche a lui disse niet. E spiegò: «È inutile discutere sul Cosentino sì o Cosentino no. La colpa è del porcellum. Se i cittadini potessero scegliere direttamente questo non succederebbe, invece a scegliere sono i segretari dei partiti».

ED E' TUTTO UN MAGNA MAGNA.

Il primo aprile 2014 tutta l'Italia ne parla, ma non è un pesce d'aprile. C'è qualche remota relazione tra l'attività di consigliere regionale e l'acquisto di sigarette o di piante ornamentali? Si chiede “Il Corriere del Mezzogiorno”. Come è possibile collegare la voce «funzionamento dei gruppi consiliari», come recita la norma, con una festa di capodanno o una serata in un locale notturno? Sono gli interrogativi retorici che fanno da sfondo all'inchiesta della procura di Napoli sulla erogazione dei rimborsi ai rappresentanti della assemblea regionale della Campania che ha vissuto oggi una tappa importante con l'emissione di 55 avvisi di conclusione delle indagini preliminari, di cui 51 notificati a consiglieri in carica (ad uno solo per contestazioni riguardanti la precedente consiliatura). Si profila così un maxiprocesso nei confronti di esponenti di tutti i gruppi politici, ovvero la maggioranza schiacciante dell'assemblea che conta 60 seggi in tutto. Sono nove i consiglieri regionali salernitani, attuali o ex, indagati per rimborsopoli: si tratta di Giovanni Baldi (Pdl), Dario Barbirotti (Centro democratico), Giovanni Fortunato (Nuovo Psi), Eva Longo (Pdl, attualmente senatrice), Monica Paolino (Pdl), Anna Petrone (Pd), Donato Pica (Pd), Antonio Valiante (Pd), Gianfranco Valiante (Pd). Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza ha notificato i provvedimenti firmati dal pm Giancarlo Novelli e dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino, coordinatore della sezione «reati contro la pubblica amministrazione. Tra i 55 avvisi vi sono anche quattro inviati a privati che avrebbero fornito ricevute irregolari. Peculato e truffa i reati ipotizzati a vario titolo, per fatto relativi a un arco di tempo che va dal 2010 al 2012. Tra gli indagati c'è anche il sottosegretario Pd Umberto Del Basso De Caro. I provvedimenti preludono a una imminente richiesta di rinvio a giudizio, che sarà formalizzata se il quadro accusatorio non dovesse essere modificato da nuovi elementi. Finora, nel corso degli interrogatori, buona parte dei consiglieri, soprattutto del Pd, hanno sostenuto di non dover fornire alcuna giustificazione, in quanto la legge regionale (poi abrogata, anche per gli effetti di vicende giudiziarie analoghe che coinvolgono altre Regioni) non prevedeva di rendicontare le spese. Mentre altri gruppi, in specie il Pdl e Nuoco Psi, hanno esibito una cospicua documentazione, con fatture, ricevute e altri atti. Agli atti dell'inchiesta, scontrini per gli acquisti, di cd e dvd, piante ornamentali, sigarette, giocattoli, cravatte, farmaci, capi di abbigliamento. E ancora spese in bar, pasticcerie e enoteche, pagamenti di feste e cene in locali notturni, e persino di una rata della Tarsu. Una ipotesi di truffa si riferisce al rinvenimento di fatture emesse da un commerciante di rottami. Il recordman dei rimborsi è risultato Gennaro Salvatore, del Nuovo Psi-Gruppo federato Caldoro, il quale risulta aver ricevuto in due anni 93.215 euro. Il governatore Caldoro non è coinvolto nell'inchiesta.

Tra i destinatari dei provvedimenti c’è il sottosegretario Pd alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro. I consiglieri hanno chiesto rimborsi per sale d’alberghi di lusso fatturate per convegni che non si sono mai svolti, cravatte firmate. bottiglie di vino, occhiali da vista, la Tarsu di una sede di partito. E pranzi e cene. Commentate così da un inquirente: “Stavano sempre a mangiare, questi politici campani”. Non è indagato il governatore Stefano Caldoro, scrive Vincenzo Iurillo su Il Fatto Quotidiano”. La tintura per capelli per il consigliere calvo. Una festa in un ristorante all’ora di pranzo della vigilia di Capodanno fatta passare per evento politico. Un giocattolo. Sale d’alberghi di lusso fatturate per convegni che non si sono mai svolti. Consulenze fittizie. Cravatte firmate. Bottiglie di vino acquistate in enoteca. Occhiali da vista. La Tarsu di una sede di partito. E pranzi e cene. Tante, tantissime cene, con molti commensali. Commentate così da un inquirente di alto livello: “Stavano sempre a mangiare, questi politici campani”. Quante spese allegre nell’inchiesta sui rimborsi facili del consiglio regionale della Campania, che stamane è arrivata al dunque con l’emissione di cinquantuno di avvisi di conclusa indagine. Per quasi tutti è il peculato l’accusa avanzata dal pm di Napoli Giancarlo Novelli, coadiuvato dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza agli ordini del colonnello Nicola Altiero. Ma ad alcuni consiglieri è contestata anche la truffa, compiuta nella gestione dei fondi per la comunicazione. Le notifiche stanno avvenendo in queste ore. Tra i destinatari dei provvedimenti c’è il sottosegretario Pd alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro, consigliere regionale della Campania dal 2010 al 2013 e per un periodo anche capogruppo dei democratici. Tra gli indagati che rischiano a breve di diventare imputati con un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio: il coordinatore di Forza Italia in Campania Domenico De Siano, la parlamentare Eva Longo. Non è indagato il presidente della giunta, il Governatore Stefano Caldoro, che pur essendo anche consigliere regionale, il sessantunesimo componente dell’assemblea, non ha mai attinto ai fondi per il funzionamento del consiglio. L’inchiesta è andata avanti su un’ipotesi: i milioni di euro destinati ai gruppi politici e ai singoli consiglieri, in assenza dell’obbligo di rendicontazione, grazie alle falle di una legge regionale piuttosto permissiva (poi abrogata), potrebbero essere stati utilizzati per finalità private. Oppure impiegati in modo non consono alle finalità pubbliche dei finanziamenti stanziati ed erogati. L’analisi della documentazione rinvenuta dagli investigatori ha aggravato i sospetti. La prima mossa della Procura risale al 21 settembre 2012, i giorni del caso Fiorito nel consiglio regionale del Lazio. La Finanza fa incursione negli uffici del Centro Direzionale e carica una montagna di faldoni in quattro auto di servizio. Si lavora su una traccia: una telefonata intercettata al consigliere regionale Ugo De Flavis (all’epoca Udeur, oggi Ncd), che ha il cellulare sotto controllo per una storia di presunte assunzioni clientelari. Al telefono si parla dei fondi pubblici regionali in un modo che insospettisce il pm. Si parte con le analisi contabili. E si rilevano gli importi annuali. Il fondo per il funzionamento dei gruppi consiliari consiste in 1.055.981 euro, quello per la comunicazione in 1.523.000 euro, mentre l’assistenza per le attività istituzionali impegna 1.891.000 euro. Le Fiamme Gialle setacciano gli anni dal 2010 al 2012. Eccone la ripartizione riferita dei singoli gruppi. Il Pdl ha goduto di circa 206.000 euro annuali per 21 consiglieri. Il Pd ha ottenuto 152.000 euro (14 consiglieri). Udc e Lista Caldoro hanno ottenuto 71.183 euro. L’Idv ha goduto di 53.105 euro. Circa 44.000 euro per il gruppo misto. 35.000 euro a Udeur, Pse, Noi Sud. La legge stabiliva un tetto di 1.100 euro al mese al singolo consigliere (voce diversa e in aggiunta all’indennità) e un tetto di 2.100 euro al capogruppo. Ogni gruppo si è dotato di un regolamento autonomo. In sostanza nessun consigliere ha ottenuto il massimo e, con i primi riflettori accesi, il consiglio regionale ha abrogato quella normativa. Il Pdl elargiva ai consiglieri 800 euro mensili, il Pd 600 euro. Poco alla volta sono emersi alcuni presunti imbrogli, e in particolare un giro di false fatture presentate con il solo scopo di ottenere indebiti rimborsi. Il 20 dicembre 2012 è il giorno degli arresti del consigliere Pdl Massimo Ianniccello: avrebbe ottenuto 63.000 euro grazie a fatture emesse da società fantasma intestate a teste di legno. Un successivo sviluppo costa a Nicola Caputo l’elezione alla Camera dei deputati nel Pd. Ha appena vinto le parlamentarie nel collegio di Salerno-Caserta quando riceve un invito a comparire per un paio di fatture sospette. I democratici, in nome della questione morale, lo depennano. Più o meno la stessa fine di un altro papabile per uno schieramento avverso, il Pdl Angelo Polverino, anche lui escluso dalle liste perché raggiunto da un avviso di garanzia per le stesse ragioni. Il 22 aprile 2013 il Gip Roberto D’Auria emette una nuova misura cautelare. Sergio Nappi finisce ai domiciliari, Raffaele Sentiero al domicilio coatto nel comune di residenza. Viene contestato il solito trucco delle fatture false per prestazioni mai eseguite. In un caso la fattura risalirebbe a un periodo antecedente all’elezione del politico. Nel luglio scorso la Finanza notifica 57 inviti a comparire per rendere interrogatorio. La Procura rivela la sostanza delle accuse, caso per caso, rimborso per rimborso. Uno dei principali indagati, il capogruppo del Nuovo Psi Gennaro Salvatore, viene sentito a fine settembre. Gli fanno domande sulla montagna di scontrini ‘strani’ da lui stesso consegnati agli inquirenti. Molti riguardano pranzi e cene nei week end estivi nella località di mare di Castellabate (Salerno), ma ce n’è persino uno per la bombola di gas della casa fittata per le vacanze. Le sue risposte non convincono. A febbraio Salvatore, uno dei più stretti collaboratori del Governatore Caldoro, suo consigliere per i rapporti tra giunta e consiglio, viene arrestato con l’accusa di peculato aggravato e continuato. È l’ultimo petardo delle indagini concluse stamane.

A De Flavis il record con 96mila euro. Secondo posto per Gennaro Salvatore, ex capogruppo del Nuovo Psi, terzo classificato Raffaele Sentiero (Ncd). Richiesta di archiviazione per una decina di consiglieri e anche per il governatore della Giunta Stefano Caldoro, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano”. Sorpresa. Il recordman dei rimborsi facili in Regione Campania non è Gennaro Salvatore, ex capogruppo del Nuovo Psi, sul quale pesa come un macigno il sospetto di essere appropriato di circa 95.955 euro e per questo è ai domiciliari da più di un mese. Sì, perché gli avvisi di conclusa indagine a 51 consiglieri regionali della Campania per il disinvolto utilizzo dei fondi pubblici in Regione – ai quali vanno aggiunti altre quattro avvisi, tre per imprenditori e uno per un collaboratore di un politico, tutti ritenuti complici di alcune presunte malversazioni – sono anche una gara a chi è accusato di aver percepito indebitamente le somme maggiori. Un campionato dove non c’è gloria per chi arriva ai primi posti. Solo grattacapi. E il rischio di dover affrontare un processo per peculato, in qualche caso per truffa. La medaglia d’oro, infatti, va a Ugo De Flaviis, neo acquisto del Ncd, all’epoca dei fatti mastelliano: la Procura gli contesta un peculato da circa 96.000 euro, poche banconote in più di Salvatore. Mentre il terzo posto se lo aggiudica Raffaele Sentiero, anche lui in Ncd dopo essere stato eletto in una lista minore. È sotto indagine per peculato per importi da circa 43.000 euro, ai quali vanno aggiunti 36.350 euro circa per accuse di truffa su un gioco di fatture: totale, quasi 80.000 euro. Gli ex esponenti di Idv sono tra quelli più esposti. Edoardo Giordano (53.779 euro), Nicola Marrazzo (43.000 euro), Anita Sala (40.000 euro), Dario Barbirotti (37.484 euro), erano stati tutti eletti con il partito di Di Pietro poi si sono sparpagliati tra vari gruppi: Pd, Ncd, Centro Democratico. Fanalini di coda, in positivo, le donne: la signora Sandra Mastella (entrata nel Pdl) e Luciana Scalzi (Forza Campania, il gruppo dei dissidenti azzurri che si riconoscono in Nicola Cosentino), alle quali la Procura rimprovera appena 7550 euro e 6.166 euro. Cifre simili a quelle di un ex Pd, Enrico Fabozzi, che però è stato a lungo sospeso dall’incarico di consigliere regionale per un’altra vicenda giudiziaria. C’è un ex consigliere che spicca per un importo consistente: è Pietro Diodato, eletto nel 2010 nel Pdl e poi rimosso dall’aula a causa di una vecchia condanna con annessa interdizione che lo rendeva in candidabile. Nel periodo in cui è stato in carica avrebbe commesso una presunta truffa sull’utilizzo dei fondi per la comunicazione da circa 74.000 euro. Quantitativamente modesta l’accusa di peculato a carico del nome più in vista dell’inchiesta, il sottosegretario Pd alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro. L’ex consigliere e capogruppo dei democratici, di professione avvocato penalista, legale di Nicola Mancino nel processo sulla trattativa Stato-mafia, deve difendersi da un’accusa di peculato di 11.300 euro. Del Basso De Caro è tra gli indagati che non si è sottoposto a interrogatorio né ha presentato documentazione relativa a fatture o scontrini. Ha preferito rispondere all’invito del pm Giancarlo Novelli con una memoria in punta di diritto. Con la quale ha ribadito una posizione difensiva peraltro comune a molti indagati: la legge regionale non indicava obbligo di rendicontazione sull’utilizzo dei fondi per il funzionamento del consiglio e quindi non c’è niente da spiegare su come siano stati utilizzati. Del Basso De Caro non è l’unico parlamentare coinvolto. Ci sono anche i senatori Domenico De Siano (Forza Italia), nei guai per 19.660 euro, ed Eva Longo (Forza Italia), per una cifra che sfiora i 28.000 euro. Per entrambi il reato ipotizzato è peculato. Sarebbe potuto diventare parlamentare anche Nicola Caputo: aveva vinto le Parlamentarie del Pd, ma il suo nome è stato tolto in extremis dalle liste per le politiche proprio per il coinvolgimento in quest’inchiesta. Reso noto da un invito a comparire per rendere interrogatorio su alcune fatture sospette e collegate al fondo della comunicazione. L’avviso conclusa indagine ne ha individuata una in particolare: riguarda una fattura ritenuta gonfiata, di 21.360 euro iva compresa, la numero 9 del 25 gennaio 2010 (la precedente consiliatura), relativa alla produzione di brochure e volumetti sull’attività legislativa del consigliere. Sono 13 i consiglieri per i quali è stata chiesta l’archiviazione. Per dieci di loro la richiesta si riferisce a tutte le accuse. Sono Fulvio Martusciello, Carlo Aveta, Bianca D’Angelo, Lucia Esposito, Angelo Marino, Francesco Nappi, Annalisa Vessella, Ettore Zecchino, Gennaro Oliviero, Carmine Sommese. Per tre consiglieri – Nicola Caputo, Sergio Nappi, Angelo Polverino – l’archiviazione è stata chiesta per il solo reato di peculato, mentre per la truffa, relativa alle somme stanziate per la comunicazione, è stato loro notificato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari. Nell’inchiesta non è stato mai coinvolto il Presidente della Giunta Regionale della Campania, Stefano Caldoro.

La Procura di Napoli ha chiuso le indagini sui rimborsi dei consiglieri regionali: 55 avvisi di cui 52 notificati a consiglieri della Regione Campania e 3 a fornitori che avrebbero procurato false fatture per ottenere i fondi, scrive “Il Quotidiano Nazionale”. Tredici invece le richieste di archiviazione. Tra gli indagati figurano anche il sottosegretario Pd Umberto Del Basso De Caro e i senatori Domenico De Siano, coordinatore regionale di Forza Italia, ed Eva Longo, componente del gruppo di Fi a Palazzo Madama. Le ipotesi di reato vanno dal peculato alla truffa. I consiglieri regionali, che con l'avviso di chiusura indagini, da indagati diventano imputati, sono tutti appartenenti all'attuale consiliatura tranne che Pietro Diodato che invece è indagato per truffa per l'erogazione dei fondi regionali riguardanti la comunicazione nella precedente consiliatura. L'indagini è stata diretta dal pm Giancarlo Novelli coordinato dall'aggiunto Alfonso D'Avino. Tra le richieste di archiviazione c'è anche quella per Fulvio Martusciello, assessore regionale alle Attività produttive ed ex capogruppo del Pdl. Negli avvisi di conclusione delle indagini si fa inoltre riferimento a nuovi casi di presunte irregolarità, come l'acquisto di cravatte da parte di consiglieri del Pd, giustificato dal capogruppo Giuseppe Russo come gadget. Tra le spese sostenute da alcuni consigliere del Pd e poi portate al rimborso, per i pm indebitamente, ci sono anche quelle per la campagna elettorale di un candidato a sindaco del Comune di Agerola. Il presidente della Regione Stefano Caldoro non era coinvolto in questa indagine. Oltre a Fulvio Martusciello, la Procura ha chiesto l’archiviazione anche per Carlo Aveta, Nicola Caputo, ma solo per il reato di peculato, Biancamaria D’Angelo, Lucia Esposito, Angelo Marino, Francesco Vincenzo Nappi, Sergio Nappi, che era stato coinvolto nell’accusa di truffa, Gennaro Olieviero, Angelo Polverino, Ettore Zecchino, Annalisa Vessillo Pisacane, Carmine Sommese. L’inchiesta riguarda il biennio 2010-2012 sul presunto uso improprio dei fondi per i consiglieri regionali della Campania nel cosiddetto capitolato di spesa detto funzionamento dei gruppi. Secondo la Procura di Napoli molti consiglieri si sarebbero appropriati di somme non utilizzandole per le attività istituzionali ma per fini privati. Secondo gli inquirenti il partito che ha preso maggiori soldi sarebbe l’Idv, con una ipotesi del 95 per cento di fondi illegittimamente assegnati. Segue il Nuovo Psi con il 91, il Pdl con l’89, il Pd con l’82 e l’Udc con il 65 per cento dei fondi. L’indagine scoppia il 21 settembre del 2012 quando le forze dell’ordine con un decreto di sequestro, ispeziona la sede del Consiglio regionale al Centro Direzionale di Napoli. Tre i fondi che finiscono nel mirino dei magistrati: funzionamento dei gruppi consiliari con 1.055.981 euro, comunicazione con 1.523.000 euro, assistenza per le attività istituzionali con 1.891.000 euro. Dall’accusata esamina dei documenti sono spuntante fatture false solo per ottenere i rimborsi. E’ stato così che il 20 dicembre 2012 fu arrestato il consigliere Pdl Massimo Ianniccello: avrebbe ottenuto 63.000 euro grazie a fatture di una società ‘fantasma’. Ad aprile del 2012 ai domiciliari finisce invece Sergio Nappi finisce ai domiciliari mentre Raffaele Sentiero all’obbligo di dimora: stesso reato contestato a Ianniciello. A luglio l’epilogo con 57 avvisi a comparire per tutti i consiglieri. A febbraio Gennaro Salvatore viene arrestato con l’accusa di peculato aggravato e continuato.

Ecco i nome elencati da “Lettera 43”. Regione Campania  Sono 55 gli avvisi di conclusione indagine per peculato e truffa, il primo reato riguarda i fondi dei gruppi, il secondo al fondo comunicazione. Tre sono estranei al consiglio, 51 sono consiglieri, tra cui Pietro Diodato, per la gestione del fondo della comunicazione nella scorsa consiliatura per la quale risponde di truffa. Tra gli indagati figurano anche il sottosegretario Pd Umberto Del Basso De Caro ed i senatori Domenico De Siano, coordinatore regionale di Forza Italia, ed Eva Longo, componente del gruppo di Fi a Palazzo Madama. Tecnicamente si tratta di un atto che fa da preludio a una probabile richiesta di rinvio a giudizio, dopo aver ascoltato interrogatori difensivi o letto eventuali memorie difensive. Inchiesta del pm Giancarlo Novelli, in forza al pool mani pulite dell'aggiunto Alfonso D'Avino, al lavoro gli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Sono tredici le archiviazioni per altrettanti consiglieri, che hanno giustificato in questi mesi in modo corretto le spese. Sotto i riflettori le spese del funzionamento dei gruppi consiliari (circa due milioni di euro, per il 2010 e il 2012), e in alcuni casi per il fondo comunicazione. Fulvio Martusciello è stato archiviato; escono dalle indagini anche Aveta, Caputo (solo per peculato ), Biancamaria D'Angelo, Lucia Esposito, Angelo Marino, Francesco Vincenzo Nappi, Sergio Nappi (che era stato coinvolto nelle accuse di truffa); Gennaro Oliviero, Angelo Polverino, Ettore Zecchino, Annalisa vessillo Pisacane, Carmine Sommese. L'inchiesta approdata alla notifica degli avvisi di chiusa indagine è la stessa che vede coinvolto anche Gennaro Salvatore, che resta detenuto ai domiciliari per l'accusa di peculato (è la vicenda della tintura per capelli comprata con i soldi del fondo consiliare). Nel corso degli interrogatori, numerosi consiglieri coinvolti nell'inchiesta in Campania sui rimborsi hanno sostenuto di non essere tenuti a documentare le spese sostenute in quanto non previsto dalla legge regionale. Una tesi non condivisa dai magistrati, che nel corso dell'inchiesta hanno individuato numerose spese non compatibili con l'attività istituzionale. Tra queste tintura per capelli, dvd, acquisti in pasticceria ed enoteca, giocattoli, occhiali da vista, farmaci, sigarette, capi di abbigliamento. Negli avvisi di conclusione delle indagini si fa inoltre riferimento a nuovi casi di presunte irregolarità, come l'acquisto di cravatte da parte di consiglieri del Pd, giustificato dal capogruppo Giuseppe Russo come gadget. Inoltre sempre a consiglieri del Pd sono addebitate le spese sostenute per la campagna elettorale di un candidato a sindaco del Comune di Agerola.

«Ciclone rimborsi»: maxi blitz della Guardia di Finanza in un Consiglio regionale sorpreso e, a tratti spaventato, da un tale massiccio intervento e spiegamento di forze. Inviti a comparire sono stati, infatti, emessi dalla Procura di Napoli nei confronti di 53 consiglieri ed ex consiglieri regionali della Campania, scrive “Il Corriere della Sera”. L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Francesco Greco e svolta dal pm Giancarlo Novelli, riguarda uno dei filoni di indagine sul presunto uso improprio dei fondi corrisposti a gruppi consiliari o a singoli consiglieri. In particolare gli avvisi emessi oggi si riferiscono alle somme di denaro corrisposte nel biennio 2010-2012 nell'ambito dei fondi per il «funzionamento dei gruppi». Secondo l'ipotesi accusatoria gli indagati si sarebbero appropriati delle somme non utilizzandole per spese legate all'attività istituzionale. Gli inviti a presentarsi per rendere interrogatorio - come spiegano fonti giudiziarie - sono necessari all'accertamento delle eventuali responsabilità: ai consiglieri indagati, in assenza di una documentazione sulle spese (l'erogazione dei fondi infatti non prevede la presentazione di ricevute o di qualsiasi «pezza d'appoggio»), verrà chiesto infatti si chiarire come è stato utilizzato il denaro ricevuto.  Nell'inchiesta non risulta coinvolto il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro. Dagli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza è emerso infatti che non ha ritirato alcuna somma dal fondo messo a disposizione dei gruppi consiliari. Non risultano indagati inoltre alcuni consiglieri che si dimisero dalla carica e non percepirono rimborsi. Per quanto riguarda i partiti, secondo l'ipotesi degli inquirenti, i consiglieri del Pdl avrebbero ritirato indebitamente l'89 per cento dei rimborsi, il Pd l'82%, l'Idv il 95%, il Nuovo Psi il 91%, l'Udc il 65%. La somma complessiva erogata nel biennio 2010-2012 è stata quantificata intorno ai due milioni e mezzo di euro. Nel registro degli indagati per l'ipotesi di reato di peculato figurano sia consiglieri ai quali sono stati liquidati decine di migliaia di euro sia consiglieri che hanno ricevuto somme assai inferiori. Alcuni indagati non fanno più parte dell'assemblea regionale essendo stati eletti di recente in Parlamento. «È un'indagine portata avanti con misura ed equilibrio; lo stesso presidente della Regione, Stefano Caldoro, ha dato tutta la disponibilità e collaborazione possibile», ha detto il Procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo. «È interesse anche dell'istituzione chiarire la situazione», ha aggiunto Colangelo. Per il procuratore gli inviti a presentarsi notificati ai consiglieri sono «atti necessari per mettere ciascuno in condizioni di spiegare». Colangelo ha chiarito che non si tratta di un'indagine a tappeto. «Procediamo in maniera mirata - ha concluso - e valutiamo situazione per situazione. La normativa è carente e un po' equivoca».

La Campania come il Lazio: la Guardia di Finanza arriva in Consiglio regionale per notificare inviti a comparire per 53 consiglieri ed ex consiglieri di Palazzo Santa Lucia, continua “Il Corriere della Sera”. Che avrebbero utilizzato in maniera impropria i rimborsi della regione. Tra di loro molti consiglieri salernitani. Secondo l'ipotesi degli inquirenti, i consiglieri del Pdl avrebbero ritirato indebitamente l'89 per cento dei rimborsi, il Pd l'82%, l'Idv il 95%, il Nuovo Psi il 91%, l'Udc il 65%. La somma complessiva erogata nel biennio 2010-2012 è stata quantificata intorno ai due milioni e mezzo di euro. Tra i pochi a non essere indagati nell'ambito dell'inchiesta sui fondi destinati al funzionamento dei gruppi regionali in Campania c'è il presidente Stefano Caldoro. Complessivamente sono sette i consiglieri regionali che non sono indagati nell'ambito dell'indagine condotta dalla Procura di Napoli-Sezione reati contro la Pubblica Amministrazione diretta dal procuratore aggiunto Francesco Greco. I fondi destinati al funzionamento dei gruppi sono stati utilizzati tra l'altro per spese di ristorante, per comprare sigarette e addirittura per l'acquisto di giocattoli. Tutti i gruppi presenti in Consiglio regionale sono rimasti coinvolti: Pd, Nuovo Psi, Pdl, Idv, Udc, Udeur, Noi Sud. Idv e Udeur sarebbero i gruppi di testa che avrebbero più di ogni altro utilizzato i fondi in maniera ingiustificata. Da giorni in Consiglio regionale si attendeva con terrore l'esito delle indagini della procura. Il 20 dicembre del 2012: la prima ordinanza di custodia cautelare fu emessa per Massimo Ianniciello, esponente del Pdl, accusato di aver indebitamente percepito 63mila euro. Poche settimane dopo furono iscritti nel registro degli indagati anche Nicola Caputo (Pd) e Angelo Polverino (Pdl). La Guardia di Finanza perquisì i loro uffici nella sede dell'Assemblea regionale, al Centro Direzionale, e le abitazioni rispettivamente a Teverola e a Caserta città. Il 22 aprile scorso l'ultima ordinanza: agli arresti domiciliari finì Sergio Nappi e all'obbligo di dimora Raffaele Sentiero - entrambi eletti nella lista Noi Sud, vicina al Pdl - accusati di truffa aggravata.

Gli scontrini parlano chiaro: ci sono kit per la tintura dei capelli, giocattoli, gioielli, farmaci, cialde per il caffè, necrologi e perfino la «spesa» da consegnare a casa e il chewingum, scrive Amali de simone su “Il Corriere della Sera”. Ma soprattutto ci sono assegni pari ad un importo complessivo di un milione e mezzo di euro che non si sa come siano stati spesi e che sarebbero stati attribuiti direttamente ai consiglieri regionali della Campania finiti quasi tutti sotto inchiesta. Da qui il quesito: dove sono finiti i soldi per il funzionamento dei gruppi consiliari della Regione Campania? Si tratta di quasi 2 milioni e 400 mila euro di soldi pubblici, erogati fino ad agosto dell'anno scorso e che solo in parte sono stati «giustificati», stando alle indagini degli investigatori della guardia di finanza di Napoli coordinati dal comandante Nicola Altiero e dal pm Giancarlo Novelli. Per questo motivo quasi tutti i consiglieri regionali della Campania sono indagati per peculato. Mancano all'appello solo il presidente Stefano Caldoro e pochi altri. Dopo la Lombardia, il Lazio, la Basilicata e altre regioni, ora tocca alla Campania: i finanzieri hanno notificato ben 53 avvisi a comparire ai politici che oggi si riunivano in consiglio nella sede del Centro Direzionale. Trattandosi di soldi pubblici, Novelli, magistrato del pool «mani pulite» di Napoli, vuole fare i conti in tasca ai politici che hanno beneficiato di contributi per il funzionamento dei gruppi consiliari. Stando alle analisi dei consulenti della procura per il funzionamento dei gruppi consiliari in regione Campania nella IX legislatura fino allo scorso 31 agosto, sono stati spesi 2.353.331,92 euro di cui 1.464.117,59 erogati a consiglieri con attribuzioni dirette e non documentate, quasi sempre attraverso assegni; 271.321,81 sono uscite documentate coerenti, 99.900,88 uscite documentate non coerenti; 15.711, 58 uscite documentate per fini personali; 84.721,20 è la cifra spesa per collaborazioni e rimborsi a terzi documentati, 180.606,94 per quelli invece non documentati, infine sono pari a 18.868,40 le uscite documentate non coerenti. Insomma, tanti soldi su cui i consiglieri regionali dovranno fare chiarezza. In particolare dovranno spiegare agli inquirenti perché i politici hanno ricevuto soldi attraverso delle attribuzioni dirette, come se fossero state una sorta di ulteriore «stipendio»; dovranno chiarire inoltre se quegli assegni sono stati spesi e soprattutto come sono stati spesi. Lo screening degli investigatori riguarda tutti i gruppi parlamentari: l'Udeur per esempio, ha speso circa 115 mila euro. Come? Circa 94 mila euro sono attribuzioni dirette al capogruppo Ugo De Flaviis, poco più di 7 mila sono andate a Sandra Lonardo (moglie di Clemente Mastella), sempre come attribuzioni dirette. Le uscite documentate coerenti sono circa 800 euro, quelle non coerenti 4 mila mentre le collaborazioni non documentate sono poco meno di 9 mila euro. Le spese del Pdl ammontano a circa 713 mila euro: i consiglieri hanno ricevuto direttamente oltre 505 mila euro, le uscite documentate coerenti sono pari a circa 61 mila euro, quelle non coerenti pari a 33 mila euro e le uscite per le collaborazioni non documentate sarebbero pari a oltre 112 mila euro. Il Pd, stando ai conteggi degli investigatori, ha speso invece più di 515 mila euro erogando direttamente ai consiglieri oltre 186 mila euro; le uscite documentate coerenti sono più di 40 mila euro, quelle non coerenti circa 3 mila euro quelle per le collaborazioni e i rimborsi documentati 26 mila euro, quelli privi di documentazione 40 mila euro. Infine, vengono individuate altre uscite non documentate pari a 218 mila euro. Il gruppo Nuovo Psi-Caldoro presidente ha uscite per oltre 233 mila euro di cui 174 mila attribuite direttamente ai consiglieri, 6 mila sono le uscite documentate coerenti, 21 mila quelle non coerenti, 12 mila quelle per fini personali, 13 mila sono per le collaborazioni e i rimborsi a terzi documentate, mentre le uscite non coerenti e non documentate ammontano a 4 mila euro. L'Udc ha speso 235 mila euro con 149 mila euro dati direttamente ai consiglieri e non documentati, 34 mila euro di uscite documentate e coerenti, 5 mila non coerenti, 3 mila per fini personali, 36 mila per rimborsi e collaborazioni a terzi documentate e 6 mila per uscite non documentate e non coerenti. L'Italia dei Valori avrebbe speso circa 175 mila euro erogando 158 mila euro direttamente ai consiglieri. Le uscite coerenti sono calcolate per 525 euro mentre le collaborazioni di terzi privi di documentazione fiscale ammontano a 16 mila euro. La spesa del gruppo Libertà e Autonomia Noi sud è di 111 mila euro: buona parte 102 mila euro sono andati direttamente ai consiglieri mentre le uscite documentate sono pari a 375 euro e quelle non documentate e non coerenti sono pari a quasi 9 mila euro. I Pse, partito socialista europeo ha documentato tutte le spese per un totale di 114 mila euro: la maggior parte risultano coerenti (83 mila euro), altre no (31 mila euro). Il gruppo misto ha speso circa 139 mila euro, 85 mila euro sono attribuzioni dirette ai consiglieri, 42 mila euro sono uscite documentate coerenti, poco più di mille euro quelle non coerenti, per le collaborazioni documentate sono stati spesi 7 mila e 500 euro e per quelle non documentate 2 mila e 400. Il gruppo che ha collezionato il numero più alto di scontrini «singolari» è quello presieduto da Gennaro Salvatore e cioè nuovo PSI–Caldoro presidente: tra le spese del 2012 spiccano 1935,50 euro per regali acquistati in gioielleria, oltre 8 mila euro tra bar e ristoranti, 318 euro di prodotti alimentari (la normale spesa), 203 euro per la tintura per i capelli. L'inchiesta nei mesi scorsi si era concentrata su rimborsi e fondi per la comunicazione.

E CHE DIRE DEL CONCORSO TRUCCATO PER DIRIGENTE SCOLASTICO?

Scuola, concorso per dirigente truccato: 25 avvisi di garanzia a Napoli, scrive Leandro Del Gaudio “Il Mattino”. Concorso per presidi: blitz nell'ufficio regionale scolastico. La procura di Napoli indaga sull'ultimo concorso per preside in Campania. Associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso, la Procura punta a fare chiarezza sulla gestione del concorso per dirigenti scolastici, notificando in queste ore decreti di perquisizione, ordini di esibizione e alcuni avvisi di garanzia. Indagine delegata alla Guardia di finanza di Torre Annunziata, sono in corso accertamenti e acquisizioni di documenti, sotto i riflettori l'ufficio regionale scolastico. Sono venticinque gli indagati, otto dei quali sono docenti vincitori di concorso dopo l'ultima prova scritta (all'inizio di febbraio) per l'accesso a un posto di dirigente scolastico. Gli altri indagati sono commissari di esame, un ex dirigente dell'ufficio regionale scolastico e sindacalisti. La guardia di finanza di torre annunziata ha anche trovato compiti scritto già fatti in una sede del sindacato. Dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino e dal sostituto Ida Frongillo, è emerso che gli indagati avevano creato un meccanismo per favorire alcuni candidati al concorso. In particolare, sarebbe stata 'pilotata' la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice, grazie ai quali i candidati erano riusciti a conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Inoltre - secondo l'accusa - si era riusciti a eludere l'anonimato delle prove scritte facendo pervenire ai componenti collusi della commissione giudicatrice gli incipit e le frasi finali dei candidati da favorire. Il materiale concorsuale di sei candidati è stato sequestrato.

I CANDIDATI BOCCIATI PER IL CONCORSO DI DIRIGENTI SCOLASTICI CERCANO SANTI IN PARADISO.

I candidati al Concorso per dirigenti scolastici, bocciati inopinatamente ed a tutela delle loro ragioni non ricevendo giustizia dagli Organi Istituzionali terreni, chiedono aiuto a San Giuda Taddeo. Il Santo Patrono delle Cause Perse.

A questo siamo ridotti. Povera Italia. Sono milioni gli italiani vittime di un sistema concorsuale aberrante: selezione naturale, sì, col trucco. Le vittime aivoglia cercare aiuto presso le istituzioni. Lettera morta.

Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, lo scorso 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca indiceva una procedura concorsuale per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi, per 2386 posti complessivi, di cui 224 per la Campania. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori. E la polizia postale avvia un'indagine. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". La Polizia postale avvia un'indagine per individuare i responsabili della fuga di notizie. "C'è la violazione del segreto d'ufficio - ipotizzano gli inquirenti - e questo avrebbe arrecato un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti". A conoscere in anticipo i test ci sono senz'altro coloro che hanno partecipato materialmente alla stesura delle domande e delle risposte. Ma il loro numero è anche questo un mistero. Secondo fonti sindacali sarebbero almeno una sessantina gli esperti che si sarebbero dilettati nel confezionamento dei quiz. Secondo fonti interne allo stesso ministero dell'Istruzione sarebbero al massimo una quindicina le persone in possesso di una batteria di circa 400 test ciascuno. Circostanza che giustificherebbe in parte gli errori contenuti nei test. Ma a proposito delle tracce d’esame. Spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito. Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale". E poi Roma, Latina e Salerno: corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna.

Torniamo al nostro concorso a dirigente scolastico. Procedure regolari, o no? A fine 2012 si concludono, con lo svolgimento delle prove orali e la definizione delle graduatorie di merito, i concorsi regionali per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, qua e là nel Paese, dopo le critiche alla prova preselettiva dello scorso ottobre (domande errate, librone da consultare, ritardo nell’inizio della prova, ecc.), continuano a manifestarsi dubbi sulla regolarità delle procedure seguite dalle Commissioni esaminatrici, soprattutto in merito alla correzione delle prove scritte.

39 mie amiche campane, candidate bocciate al famigerato concorso pubblico chiedono il mio aiuto per far conoscere la loro storia, non avendo trovato riscontro mediatico in quella zona da parte dei giornalisti locali. Motivi di doglianza sono quelli usuali di tutti i ricorsi al Tar per ogni concorso od esame pubblico: illegittimità della composizione delle commissioni (nello specifico, incompatibilità funzionale, in particolare e soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. Stato di coniugio tra commissario e candidata ed addirittura dichiarazioni di presenza di commissari che al contempo si trovavano in altri posti. Novelli San Pio con il dono dell’Ubiquità); correzione degli elaborati, dichiarata come tale ma non avvenuta e riscontrata con mancanza di tempo per effettuarla; impedimento al diritto di difesa con la visione di elaborati di terzi per la comparazione e mancanza di conoscenza dei criteri di giudizio e valutazione degli elaborati. La gente deve sapere che attivarsi presso un organo giudiziario, in questo caso amministrativo, è un terno all’otto. Per il ricorso al Tar contro il giudizio negativo reso all’esame i motivi sollevati sono identici, le risultanze no! Incide molto l’essere rappresentati da onerosi principi del Foro, che molti non possono permettersi. Ergo: non vale la forza della legge e della ragione provata, ma vale la legge del più forte. Per gli effetti del ricorso N. 03864/2013 REG.PROV.COLL., N. 00441/2013 REG.RIC., il Tar di Napoli il 24/07/2013 respinge. Sia chiaro. Per i magistrati il ricorrente è un numero di fascicolo. Vincitore o soccombente ad un concorso pubblico  pari sono: uno vale l’altro. Fa niente se l’interesse pubblico preme affinchè dal concorso pubblico emerga il valore: il merito. In un altro mondo forse, in Italia no! Le tapine già hanno peccato a non presentarsi con un principe del Foro locale. Sia mai che vi sia amicizia che possa favorire l’esito della causa. E questo è un aspetto che può incidere sul suo esito. In questa sede esuliamo dal prospettare disquisizioni linguistiche o dottrinali di stampo giuridico. Come sempre dico: la prassi fotte la legge. E l’appellativo dato agli operatori del diritto è veritiero. Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste. Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3° dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati? Ed ogni riferimento ai fatti di causa è puramente casuale!!

Già, perché per motivi meno appariscenti del nostro ricorso in Molise, ad esempio, il concorso è stato sospeso a seguito di un ricorso presentato da candidati esclusi dalle prove orali (Ordinanza Tar Molise n. 77/2012). Il concorso del Lazio è stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, relative soprattutto alla costituzione della commissione esaminatrice, i cui componenti sarebbero rappresentanti sindacali – motivo, questo, di esclusione dalle procedure di nomina. Anche per il concorso in Friuli Venezia Giulia è stata presentata una interrogazione parlamentare per verificare “che lo svolgimento dell'attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti". In Calabria i ricorsi hanno riguardato la mancata correzione della seconda prova scritta nel caso in cui la prima fosse stata valutata negativamente dalla Commissione; in questo caso, però, il TAR ha respinto i ricorsi, ritenendo che non vi fosse l’obbligo di correggere entrambe le prove. Ultima, in ordine di emanazione, una ordinanza del TAR Lombardia, che prima di decidere definitivamente sul ricorso di alcuni candidati esclusi dalla prova orale, ha chiesto all’Ufficio scolastico regionale di “acquisire le buste contenenti le prove di concorso dei ricorrenti”. Pioggia di ricorsi al Tar per il concorso da dirigenti scolastici. Quaranta aspiranti presidi hanno fatto istanza al tribunale amministrativo di Bari contro l’esclusione dalla prova orale. Dopo gli esiti dell’esame, in tanti hanno fatto appello ai giudici per essere riammessi. Il concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e dall’ufficio scolastico regionale, mira a reclutare 236 dirigenti scolastici in tutta la Puglia, in scuole primarie e secondarie. I ricorrenti hanno sostenuto a giugno 2012 un test scritto al quale non sono risultati idonei. Questo vuol dire che non potranno accedere alla prova orale. Le udienze sono state fissate infatti a fine settembre 2012. Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano. Almeno un milione di euro la spesa per i contribuenti a causa del “concorso-farsa”. Contabilità (per difetto) del presidente Anief, Marcello Pacifico, un’associazione sindacale in rappresentanza di docenti e personale scolastico. Tra l’incarico dato a Formez (centro-studi del dipartimento della Funzione Pubblica) per l’elaborazione dei test e la retribuzione per i centinaia di commissari e presidenti del concorso per dirigenti scolastici. Il Miur di recente ha comunicato le cifre dei compensi elargiti ai componenti delle commissioni. Compensi irrisori, avrebbero accusato alcuni. Eppure si parla di un “compenso base” da 251 euro per il presidente e 209,24 per ogni componente, più un integrativo di 50 centesimi per ciascun elaborato o candidato esaminato. In ogni caso – ha comunicato il Miur – “non possono eccedere i 2.051,70 euro”, con l’eccezione dei presidenti per i quali l’importo va incrementato del 20%. Considerando che le commissioni sono sparse in tutta Italia il conto per lo Stato supererebbe il milione di euro. Concorso per il quale ha chiesto lumi anche l’onorevole del Pd, Antonio Russo, con un’interrogazione parlamentare al ministro (che tuttavia non ha ancora risposto). Soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. E che dire del concorso nell’insegnamento all’estero. Il concorsone pubblico per insegnanti all'estero si trasforma in una vicenda grottesca con tanto di polizia e sospensione della prova. Erano migliaia stamattina ad affollare lo spazio antistante l'hotel Ergife di Roma sulla via Aurelia, arrivati da tutta Italia per sostenere la prova di lingua del concorso per il reclutamento del personale docente e Ata destinato agli istituti scolastici stranieri. Al bando, gestito dall'agenzia Formez per il ministero degli Esteri, hanno partecipato oltre 36mila persone da tutta Italia. Ma qualcosa è andato storto: "Quando ci hanno presentato la prova -- ha raccontato la concorrente Loredana Tonni -- ci siamo accorti che era una presa in giro: ognuno di noi doveva rispondere ai 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto -- conclude -- nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre". Fatti i conti: rispondere a ogni quesito in poco più di un minuto. La protesta dei partecipanti si è fatta subito sentire. La commissione è stata subissata di lamentele. A quel punto sono state chiamate le forze dell'ordine. Il presidente della commissione di concorso ha deciso così di sospendere la prova, assicurando "che la prova stessa si ripeterà entro questa sera con gli stessi quesiti, come se nulla fosse successo". "Le modalità di questo concorso sono fuori da ogni legalità -- ha aggiunto Tonni -- chi è entrato a sostenere la prima prova conosce già tutti i quesiti delle successive e può preparare l'esame all'esterno consultando il volume che la commissione ha permesso di portare con sé". Intanto nelle caselle di posta dei giornali, arrivano decine di mail, molte con questo contenuto: "Il concorso è da annullare, siamo stati presi in giro, abbiamo studiato mesi per la selezione".

Tutto questo ambaradan, giusto per dire alle mie amiche di Napoli, ignorate dai media locali, di non disperare e provare a Roma. Al Consiglio di Stato. Giusto per rispondere a tutti coloro che gridano “le sentenze non si criticano: si rispettano e si applicano”. Questi signori, sicuramente ignoranti, almeno in Diritto, dovrebbero sapere che l’Ordinamento giuridico prevede l’istituto del gravame. Il termine gravame viene utilizzato come sinonimo di impugnazione o, con significato più specifico, per indicare un particolare tipo di impugnazione, che mira al completo riesame della controversia, in modo da giungere ad un nuovo giudizio in sostituzione di quello contenuto nella sentenza impugnata, ritenuto ingiusto. Presupposto del gravame è la soccombenza. Lo scopo è quello di provocare un nuovo giudizio. La parte fondamentale del gravame è la critica mossa alla sentenza ritenuta errata ed ingiusta. Oppure si provi la tutela penale e civile del diritto leso. Sia mai che a presentare un esposto penale, non ci sia un magistrato di buon cuore che stabilisca una volta per tutte che almeno colui che ha il dono dell’ubiquità, qualche reato lo ha commesso e deve risarcirne i danni. E fa niente che era obbligo dei componenti del Tar, quali pubblici ufficiali, presentare denuncia penale. Obbligo disatteso ed impunito. Nei tribunali non vince chi ha ragion, ma chi ha maggior forza dirompente. E lo so io che quei tribunali ben conosco e me la fanno pagare. Vale per loro, care amiche care quel famoso detto… “Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente.”. Se non avete Santi in Paradiso, né in terra (specialmente in Parlamento), chiedete di San Giuda Taddeo, sarà felice di annoverarvi tra le sue fila: Tutti coloro che son vittime di cause perse.

Questo anche perché colei che ha chiesto di dare voce a questa storia, mi ha implorato terrorizzata di omettere il suo nome e quello dei suoi avvocati. Bella Roba. Ecco perchè si ha gioco facile.

VEDI NAPOLI E …POI MUORI!

Fa l'infermiere per essere più libero. «Un docente tedesco mi disse: "La vostra città nel 1947 fu prescelta dagli Alleati per un esperimento di sopravvivenza urbana"», scrive “Il Giornale”. Perché, pur avendo potuto contare su tre suoi figli tra gli 11 presidenti eletti da quando esiste la Repubblica (il primo insediato al Quirinale, Enrico De Nicola; poi Giovanni Leone; oggi Giorgio Napolitano), Napoli sembra più una città dell'Algeria che dell'Italia? Perché, a dispetto dei sei ministri dell'Interno di origini napoletane o campane (Antonio Gava, Vincenzo Scotti, Nicola Mancino, Antonio Brancaccio, Giorgio Napolitano, Rosa Russo Iervolino) sui 15 succedutisi nell'ultimo quarto di secolo al Viminale, la camorra continua a dettare legge nella regione? Perché, volendo scendere terra terra, una colonia di ucraini poté accamparsi per 12 mesi accanto al Maschio Angioino, il monumento simbolo della città, dove si nutriva di colombi allo spiedo, e solo un ministro della Cultura, Sandro Bondi, sollecitato dall'associazione No comment, riuscì a convincere il sindaco Rosa Russo Iervolino a farli sloggiare? Perché una donna africana soprannominata Stelletella, abbandonata dal compagno italiano, è stata lasciata libera di vivere per anni fra i ruderi delle mura aragonesi di via Marina, insieme a una colonia di pantegane che le camminavano sul corpo e sul viso e sbocconcellavano il cibo dallo stesso piatto in cui mangiava la clochard, e solo l'intervento dell'associazione ha costretto le autorità a ricoverarla in una casa-famiglia? Antonio Alfano, che di No comment è fondatore e presidente, teme di aver trovato tutte le risposte nella frase che un docente di Monaco di Baviera, il quale dava l'impressione di saperla lunga, gli disse a bruciapelo a Berlino la sera del 4 novembre 2003, a chiusura di una mostra sul centro storico partenopeo che il sodalizio aveva tenuto alla Willy-Brandt-Haus. Mentre con altri volontari, architetti, accademici e filosofi cenavano nel ristorante italiano Sali e tabacchi, al numero 18 di Kochstrasse, l'anonimo professore guardò Alfano dritto negli occhi e bisbigliò: «Ihr Neapolitaner seid ein wissenschaftiches Experiment, ihr seid Versuchspersonen, die ganze Stadt ist ein Labor», voi napoletani siete un esperimento scientifico, siete delle cavie, tutta la città è un laboratorio. Dopodiché cominciò a raccontargli di un episodio accaduto a Heidelberg il 24 luglio 1971, quando le teste di cuoio dell'antiterrorismo fecero irruzione in un covo della Raf, il corrispettivo tedesco delle Brigate rosse, dove avrebbero sequestrato un documento top secret intitolato Survival urban experiment, recante i timbri dei servizi segreti alleati. Tre cartelle con tre intestazioni: «A) Data inizio progetto: 1947. B) Territorio di attuazione: Italia. C) Area di sperimentazione: Napoli». Ce n'era d'avanzo per accendere la curiosità di Alfano, giornalista pubblicista dal 1992. Il quale prese le mosse dalla sconcertante rivelazione per darsi un'altra identità, quella di Tony Laruspa, cronista d'assalto destinato a finire assassinato in vico del Fico al Purgatorio dopo aver scoperto le prove di The test, il programma avviato in segreto nel dopoguerra, con il consenso del governo italiano, da un team di 18 scienziati americani ed europei: un esperimento teso a studiare le reazioni di una popolazione urbana costretta a vivere in uno stato di stress permanente e in una situazione socio-ambientale altamente degradata. «È stata una provocazione culturale», commenta il «redivivo» Alfano, che per un paio d'anni s'è firmato in effetti Tony Laruspa e ha persino pubblicato in Internet la foto del suo «cadavere» riverso sui gradini di un vicolo, con il volto coperto da un giubbino. «Abbiamo ricevuto centinaia di mail e telefonate da tutto il mondo per capire se The test era davvero in corso. E chi può saperlo?». Napoletano doc, 60 anni, sposato, due figli, Alfano è un giornalista sui generis, che nel modo di vestire ricorda più un prete che un pennivendolo. Fin dalle scuole medie avrebbe sognato di lavorare al Mattino o al Roma. Non avendo mai avuto tessere di partito né appoggi importanti, ben presto si rese conto che non sarebbe mai riuscito a farsi assumere. Così dal 1976 s'è rassegnato a lavorare come infermiere nel reparto di rianimazione del Policlinico, accontentandosi di collaborare nel tempo libero a vari periodici locali, Crash, Enne, Agorà, Polis Nova. Non per questo ha rinunciato al suo mestiere di denuncia anche in ambito ospedaliero: un suo circostanziato esposto sugli anestesisti che venivano utilizzati per 24 ore di seguito e cumulavano straordinari stratosferici provocò un'interrogazione alla Camera. I risultati non si sono fatti attendere: un giorno ha trovato la sua Fiat Punto nel parcheggio del Policlinico con il cofano sfondato.

«Le impronte rimaste sulla vernice erano quelle degli zoccoli usati dal personale sanitario».

Altre minacce?

«La più ricorrente: "Fatti i cazzi tuoi". Per non subire ricatti, ho impedito ai miei figli di presentare domanda di partecipazione al corso per infermieri».

Perché ha chiamato l'associazione No comment?

«Perché le parole non servono. Il nostro scopo è documentare il degrado di Napoli con le immagini e i video. Ogni anno organizziamo un corso di fotografia sociale per formare circa 20 reporter di strada. Il successo maggiore l'ha riscosso l' Illegal tour da Porta Nolana a piazza Carlo III, dove regnano la prostituzione, il contrabbando di sigarette, lo smercio di griffe false e di programmi craccati per computer. S'è creato uno strano fenomeno, quello dei reality travellers , viaggiatori della realtà, soprattutto tedeschi e spagnoli, che si avventurano in quella casbah senza rendersi conto dei rischi che corrono. Alcuni, come Joe Lawton, un fotografo di New York, si rivolgono a noi. Spesso si tratta di donne: ricordo un'epistemologa svizzera e due studentesse di San Pietroburgo».

Ma la denuncia almeno è servita?

«Per nulla. Durante l'Illegal tour abbiamo contato 27 banchetti di contrabbandieri. Al ritorno, erano 36 e i prezzi delle sigarette risultavano aumentati».

Rafforza il dubbio che The test sia in pieno corso.

«Io dico solo questo: dal 1988 al 1999 in Italia ci sono stati cinque ministri degli Interni che provenivano da qui. Costoro hanno avuto a disposizione per 78 mesi ben 4.700 uomini armati per ripristinare la legalità a Napoli. Ci spieghino almeno come mai non ci sono riusciti».

Come mai, secondo lei?

«A che serve un buon attaccante se la squadra resta la stessa? Qui mutano solo i comandanti, l'esercito mai. Faccio un esempio surreale: ogni quattro anni al Policlinico cambia l'impresa delle pulizie per garantire più efficienza. Ma gli operatori, che magari lavano male i pavimenti, sono quelli di prima. Passaggio di cantiere, si chiama. Mi spiega che senso ha? Arriva il sindaco Luigi De Magistris, nomina qualche generale però negli uffici rimane tutto uguale».

Non ha fatto il miracolo neppure lui.

«Io l'ho votato, ci ho creduto. Non ci ha nemmeno mai voluti ricevere. È un uomo di un ego smisurato, non mantiene gli impegni. Governa con i criteri di un monarca borbonico: festa, farina e forca. Ma l'America's Cup non è bastata, pane non ce n'è e puntare il dito contro la camorra non significa fare giustizia. Eppure questo sarebbe il momento migliore per battere i delinquenti, perché le grandi famiglie camorriste di un tempo, quelle con 12 figli che creavano una gestione del potere piramidale, non esistono più. Oggi, quando va bene, un boss mette al mondo un rampollo. Quindi è aumentata la concorrenza fra clan. Non c'è più, mi passi il termine, formazione professionale: prima si cominciava dal pizzo, ora dalla pistola. Ogni vicolo ha 'na capa spostata, senza senatori che la controllino. Siamo all'anarchia».

Quali sono le famiglie più temibili?

«Guardi, anche se Nunzio Giuliano (uno dei fratelli dello storico clan del rione Forcella, ucciso nel 2005 in un agguato dopo essersi dissociato, ndr) lavorava con No comment, di chi siano i capi a me interessa poco. In tutte le città del mondo esiste la criminalità. Ma a Napoli, in più, c'è la cultura dell'arroganza, che rende ingiusto il quotidiano».

Che significa?

«Che questa è una città in comodato d'uso: te ne pigli una parte e nessuno ti fa nulla. È la legittimazione del sopruso la metastasi incurabile. Se il Comune lascia che in via Carbonara gli automobilisti paghino 2 euro l'ora a un parcheggio abusivo, con tanto di "P" blu, questo significa riconoscere implicitamente il ruolo della camorra che lo gestisce. È come dirle: "Qui potete farlo". Il presidente Napolitano viene in vacanza a Villa Rosebery con donna Clio, si piglia 'o ccafè e 'a sfugliatella al Gambrinus, non vede, non fa nulla, riparte felice. Agli intellettuali piace pensare che questa sia ancora la città di Eduardo De Filippo. Non hanno capito niente, non sanno che 150.000 napoletani onesti, disperati, incazzati sono fuggiti dal centro storico per andarsene a vivere a Melito, ad Arzano, a Casoria, a Ponticelli, ad Aversa, dove gli affitti sono più bassi. In dieci anni la planimetria sociale è totalmente cambiata. Su 420 residenti in vicoletto Limoncello, la metà sono senza lavoro. Ottantamila migranti fantasmi vivono in locali malsani sprovvisti del certificato abitativo, pagando dai 250 ai 500 euro: il 20 per cento campa di prostituzione, 1 su 4 è alcolista o drogato. Abbiamo documentato il fenomeno dei cartoneros , 200 famiglie rumene che rivendono quello che recuperano nei cassonetti dei rifiuti. I ragazzi di strada che scendono dai Quartieri Spagnoli sono arrivati a occupare piazza del Plebiscito, il salotto di Napoli, e hanno massacrato di botte alcuni coetanei romani in gita che avevano osato entrare nella loro area di gioco, il tutto sotto la vista di 12 telecamere adibite al telecontrollo. È questa congenita incapacità di stroncare i fenomeni delittuosi che mi spaventa».

Pensi allo shock di chi viene dal Nord.

«Asl 1, due ospedali, Incurabili e Loreto Crispi. Nel primo, cui si rivolgono le donne del popolino, per la visita ginecologica e l'ecografia vanno presentate due richieste e pagati due ticket; nel secondo, frequentato dalle classi agiate, una sola prescrizione e un solo ticket. Le pare normale? Abbiamo filmato due agenti della polizia urbana che camminavano accanto a 35 postazioni di venditori abusivi in via dei Tribunali, il decumano centrale, senza far nulla, neppure un cenno della mano per dire "t'nè a ij", te ne devi andare. Questo significa legittimare le attività criminose. Vuole che le citi altri casi di piccole grandi illegalità tollerate ogni giorno dalle forze dell'ordine?».

Prego.

«Le baby gang di Porta Capuana: il loro passatempo preferito è terrorizzare le badanti extracomunitarie che sostano in piazza Enrico De Nicola, a 30 metri da un commissariato di Ps, a 50 da un comando dei vigili urbani e a 80 da una sede della polizia giudiziaria. Oppure il moto struscio in piazza del Mercato, il luogo anticamente adibito alle decapitazioni, dove c'è la casa natale di Masaniello: il rito tribale si svolge la sera, quando centinaia di adolescenti, tutti privi di casco e spesso in tre su un unico mezzo, sciamano in tondo per ore su motociclette e motorini; è un modo per mostrarsi, per sfoggiare la nuova morosa in minigonna, il nuovo scooter, la nuova pettinatura. Tutto documentato dai nostri filmati. Nessuno muove un dito».

Perché non chiedete le dimissioni del capo dei vigili?

«Non c'è. Nel senso che è come se non esistesse. L'ultimo degno di questa qualifica è stato Luigi Sementa, che proveniva dall'Arma dei carabinieri. Benché fosse a passeggio in abiti borghesi, arrestò un vu' cumprà acciuffandolo con le sue mani. L'hanno fatto fuori dopo che aveva denunciato come all'interno della polizia municipale prosperasse "una categoria di fetenti, di banditi, di gente che porta i gradi ma che fa i propri sporchi interessi". Testuale».

Ma lo aveva nominato De Magistris?

«No, si figuri. Rosa Russo Iervolino. Che, pur con tutti i suoi limiti, ascoltava, s'indignava, provvedeva».

Vi toccherà chiedere la grazia a San Gennaro.

«Se la vede brutta pure lui. A Porta Capuana hanno fracassato la cornice di marmo della teca in cui è racchiuso il suo busto. Deve stare all'occhio».

E lei non teme per la sua incolumità?

«Sono allenato alla sopravvivenza. Mio padre, muratore emigrato per fame in Canada lasciando a casa moglie e tre figli piccoli, morì in un incidente sul lavoro quando io avevo 5 anni. Sono cresciuto con altri 400 sventurati nell'orfanotrofio La Palma. Ma adesso non vedo l'ora di andare in pensione per trasferirmi a Salerno. O, meglio ancora, a Firenze, dove almeno c'è un fiume che mi ricorderà il mio mare. Un indiano buono è un indiano morto. Nun ci à facc' cchiù».

La fidanzata di Mertens: Napoli fantastica se dimenticate il caos e la puzza, scrive “La Repubblica”. Definisce Napoli "una delle città più sottovalutate d'Europa", ma la bacchetta scrivendo: "Se ti metti alle spalle il caos e l'odore di immondizia potrai passare dei fantastici momenti", e sottolineando la presenza invasiva del racket e della camorra ("per i napoletani è normale, da turisti non ve ne accorgerete neppure"). A scriverlo è Kat Kerkhofs, la fidanzata dell'asso del Napoli Dries Mertens, che ha aperto un blog.
 Il blog della giovane olandese ha (julietsjourney. com) è intitolato a Juliet, la cagnolina dei Mertens, e in esso la Kerkhofs scrive delle esperienze in giro per il mondo al seguito del fidanzato calciatore. La signora, in generale, promuove Napoli: "Dopo un anno passato come una turista novellina a cercare di adattarmi ai ritmi della città (cosa che credo sia impossibile) posso affermare che Napoli è una delle città più sottovalutate d'Europa. La frase di Goethe 'vedi Napoli e poi muorì' non potrebbe essere più appropriata, perché la bellezza della città va oltre ogni descrizione. Ma Napoli non ha una buona reputazione tra i turisti: venire qui non è paragonabile a qualsiasi altro viaggio normale, è una città difficile, piena di contraddizioni, ma come accade per le persone, devi conoscere la sua storia per capirla". La Kerkhofs racconta: "Prima di venire qui mi immaginavo situazioni tipo 'Il padrino', con sparatorie in strada e offerte che non avrei potuto rifiutare. Ma non succede niente di tutto questo. Se sei un criminale devi stare attento, ma questo accade in ogni città. Però ci sono anche storie serie: per fare dei lavori spesso bisogna chiamare una ditta della camorra e in molte zone di Napoli, bar e ristoranti pagano il pizzo. Questa è una situazione triste e incomprensibile per uno straniero, ma per i napoletani è normale e da turisti non ve ne accorgerete neanche". "L'unica cosa che noterete e dovrete sopportare - prosegue il blog - è il meraviglioso odore di immondizia per le strade. Negli ultimi dieci anni la camorra ha trovato un nuovo modo di lucrare: l'ecomafia che è un affare molto sporco. Smaltiscono illegalmente i rifiuti tossici e per far proseguire questo affare sabotano la costruzione di nuovi siti di smaltimento". "Napoli - spiega la fidanzata di Mertens - è famosa per la crisi dei rifiuti nel 2007 quando le discariche erano piene e nessuno più raccoglieva l'immondizia. Fortunatamente questo è passato ma la raccolta dei rifiuti non è ancora perfetta. Infatti mi sembra di essere l'unica persona a Napoli a fare la raccolta differenziata". La giovane olandese aggiunge anche una foto della sua cagnolina Juliet accanto a un mucchio di rifiuti con la didascalia: "Juliet ama annusare l'immondizia durante le nostre passeggiate", aggiungendo: "Anche questi aspetti rendono interessante Napoli. Posso dire che da un anno che viviamo qui non mi sono mai imbattuta nella camorra". Poi la ragazza loda "la bellissima mentalità dei napoletani. Anche se venite come turisti vi accorgerete che sono orgogliosi di aiutarvi", e conclude con qualche consiglio di viaggio. "Non menzionate le città del nord, specialmente Milano che è il nemico, soprattutto nel calcio". "Non mettete orologi costosi, le rapine avvengono quando mostrate orologi preziosi, quindi lasciateli a casa". "Evitate i Quartieri spagnoli di sera. Non fraintendetemi, sono un quartiere bellissimo che vale la pena visitare, così come Spaccanapoli, ma ogni città ha quartieri da evitare di notte".

L’origine di questo detto si perde nella notte dei tempi di una città complessa e meravigliosa. Goethe, un viaggiatore al di sopra di ogni sospetto, quando vi passò nel 1787, non potè non riportare ciò che la gente ripeteva “Vedi Napoli e poi muori“. Oggi questa frase è ancora tragicamente calzante poichè tragica è la bellezza sfacciata della città ed oscene le metastasi che la divorano, scrive Donata Carelli su “Ital News”. Quando ho detto che avrei trascorso il Capodanno a Napoli, è stato come comunicare la partenza per una missione di guerra: visi perplessi, al peggio preoccupati “Ma è pericoloso…Ma è sporco…Attenzione ai proiettili vaganti di mezzanotte…Non mettete addosso nulla che attiri l’attenzione“. Chissà se anche a Goethe fu delineato un simile scenario. Restiamo fermi nel nostro intento: Napoli. Poco più di due ore di treno, e siamo alla Stazione Centrale di Napoli. Ne avevo un ricordo ben più degradato quando circa dieci anni fa la vidi invasa di sbandati, bancarelle, trafficanti di ogni mercanzia che urlavano e agganciavano passanti gesticolando furiosamente. Oggi la stazione, totalmente rinnovata, ha un aspetto tutto sommato moderno ed ordinato. Nella folla, di tanto in tanto, veniamo abbordati da chi vuole qualche centesimo ma mai troppo insistentemente. Cominciamo da subito a sfatare dei miti: a Napoli tutti portano il casco e le macchine si fermano civilmente per farci attraversare sulle strisce. Non so da quanto, e non mi importa: l’attraversamento sulle strisce è un fatto culturale, non si impara dall’oggi al domani. Siamo curiosi di verificare con i nostri occhi la situazione immondizia, visto che i notiziari da giorni dicono che si è riusciti incredibilmente a sgombrare il centro. Purtroppo constatiamo che quanto viene sbandierato non risponde a realtà. È il 31 Dicembre e già dal rettifilo, il centralissimo Corso Umberto e poi via Depretis, notiamo accatastati a bordo marciapiede cumuli maleodoranti di sacchi che a tratti coprono la visuale delle vetrine, mentre fiumane di passanti dediti allo shopping aggirano l’ostacolo con consumata abitudine. Ci tuffiamo nelle bellezze di Napoli, guidati dagli sms che un amico partenopeo, di nascita e passione, mi inoltra da Roma dandomi dritte preziose: Maschio angioino, lungomare, Castel dell’Ovo, Capodimonte, Mergellina, pausa con ‘mpepata di cozze, babà e sfogliatelle ricce a volontà. Poi ancora Spaccanapoli, San Gregorio Armeno e la meraviglia dei Presepi, San Domenico, Piazza di San Gaetano, Monastero di Santa Chiara, la Cappella San Severo e la commozione davanti il Cristo velato, persino un “jukebox poetico” con un’attrice che, in una cripta, recita ad personam la poesia scelta. Su un emittente locale rimaniamo rapiti per un’ora dalla sceneggiata napoletana di Mario Merola mentre lo spot pubblicitario canta il jingle di Cicciobello napoletano! Napoli ci ammalia di suoni, colori, sapori e poi ci inghiotte nelle sue viscere sotterranee dove, armati solo di una bugia e di una candela, scopriamo la meraviglia di una cisterna romana che non ha nulla da invidiare a quella assai scenografica vista ad Istambul. La notte si avvicina e di tanto in tanto sobbalziamo poichè l’intero rione trema per la deflagrazione di un botto, forte, sordo anche se solo noi sembriamo, tra i passanti, farcene cruccio. Tutti i ristoranti su via Partenope, il lungomare che si stende con via Caracciolo per chilometri, offrono la loro proposta per il cenone, offerta che aumenta di prezzo man mano che ci si avvicina a Castel dell’Ovo da dove, alle 2 di notte, partirà il più atteso spettacolo pirotecnico di fine anno. Scegliamo “Poseidone”, un ristorante che ci sembra centrare il miglior rapporto qualità/prezzo, ad una decina di minuti a piedi da Castel dell’Ovo, posizione strategica ottima, anche perchè tutti i napoletani con cui abbiamo parlato ci hanno a chiare lettere consigliato di non spostarci dal lungomare o da Piazza del Plebiscito se non vogliamo correre guai, almeno fino all’una di notte. Quanto a “Poseidone”, non solo non ci sbagliamo, ma mai avremmo pensato di aver scelto tanto bene. Il locale è chiaramente a gestione familiare e punta sull’accoglienza. Quello che scopriamo procedendo nella serata, è che nella sala principale, dove anche noi ceniamo, le due grandi tavolate poste ai nostri lati non sono semplici avventori, ma è “la famiglia”, ossia i parenti tutti della “matrona” che ha avviato l’attività. È lei stessa, capelli impeccabili, orecchini corallo e grembiule scozzese, a mostrarci con orgoglio tutti i figli, le figlie soprattutto e i nipoti. Le figlie e le nipoti sono tante e tutte belle, come possono essere belle solo le ragazze partenopee: more, occhi grandi e truccatissimi, mediterranee nelle forme e nel sorriso. La società ci appare rigorosamente matriarcale. La “matrona” ci regala delle perle di saggezza tra una portata e l’altra, circa l’educazione severa impartita in casa sua e commenta sarcastica che oggi s’è perso il valore della serietà e del rispetto, ed invita me, che le ho confidato di essere insegnante, ad essere severa e rigorosa perchè - provo a dirlo con parole edulcorate - “…con l’erba tenera tutti si puliscono le terga, mentre sull’ortica non ci si siede nessuno! “ Parole sante, brindiamo noi che decidiamo questo sia il motto del 2011! A rincarare la dose ci pensa la figlia che materialmente serve ai tavoli e sovrintende alla sala. Ci mostra le foto appese al muro fatte con vari avventori famosi, tra cui Fabrizio Corona col quale, dice, ha avuto subito a che ridire per quel modo spavaldo di chiedere “sa ha cose buone da mangiare”, come se a lei fosse necessario specificarlo, lei che, ribadisce con fierezza “….con 12 ore di lavoro al giorno, sono l’unica vera persona importante in questo locale e in quelle foto” indicando appese al muro le facce sorridenti dei cosiddetti VIP. Le portate si susseguono buone ed abbondanti, condite da battute gridate in dialetto da un tavolo all’altro, mentre ormai siamo di famiglia tanto che c’è chi ci offre fette di una pastiera da urlo o il gesto galante di chi porge alle signore le preziose capesante da gustare, come le ostriche, direttamente dalla valva. In un trionfo di fritture, lenticchie con zampone e dolci a volontà, arriviamo al conto alla rovescia 5, 4, 3, 2, 1 ! E’ il 2011. Io non riesco neppure a dare gli auguri a chi è al tavolo con me perchè prima si fa avanti in un carosello senza fine “la famiglia” tra baci e abbracci! E mentre le donne brindano con la “ola” agli uomini più belli del decennio nella classifica presentata in tv da Barbara D’Urso, tra urla entusiaste e commenti irripetibili fatti da nipoti e zie, usciamo davanti al locale dove lo spettacolo è da togliere il respiro: tutto il lungomare, Posillipo, Montesanto e i Quartieri Spagnoli, dalla collina fino al mare è tutta un’esplosione di fuochi, botti, bengala che illuminano le acque del golfo, persino lanterne vaganti che solcano il cielo sfavillanti dirette chissà dove. Salutiamo il ristorante Poseidone che meglio non poteva farci chiudere l’anno ed iniziare il 2011, con la promessa di tornare al più presto e via, verso Castel dell’Ovo. Le facciate dei grandi alberghi si contendono l’addobbo più elegante. Su tutte vince lo storico Albergo Vesuvio, con un albero illuminato ad intermittenza ed un candeliere su ogni balcone in ferro battuto delle prestigiose suite. Non arriviamo proprio a Piazza Plebiscito dove una signora ci dice che, a seguito delle polemiche politiche dei giorni scorsi, lo spettacolo fosse sotto tono ed anche l’affluenza non delle migliori. Ci gustiamo invece lo spettacolo grandioso e solenne dei fuochi che iniziano, come previsto, alle 2 e che celebrano sul finale i 150 anni dell’Unità d’Italia. Già, l’Italia, questo è il pensiero con cui chiudiamo il 2010 ed apriamo il 2011, sospesi tra un decennio e l’altro. Cosa rimane di questo spirito nazionale? Ed ancora: quale destino attende questa città meravigliosa da secoli maltrattata e bistrattata e che, di volta in volta, diviene il cavallo di battaglia di questo o quel politico ma poi, immancabilmente, affonda in un gorgo di polemiche, recriminazioni e promesse non mantenute? E’ il 1 Gennaio e ci apprestiamo a lasciare il golfo più bello d’Italia, sovrastato dalla maestosità del Vesuvio illuminato da un sole sfacciato, con un misto di sensazioni contrastanti nello stomaco. C’è una valanga di spazzatura, ma c’è anche la raccolta differenziata. C’è la bella guida trentenne, sposata e con una bimba piccola che sogna di trasferirsi alle Canarie perchè “….Napoli è una meraviglia ma mio marito ha deciso che nostra figlia non può crescere qua dove vivere serenamente è impossibile!” C’è l’uomo delle forze dell’ordine, giovane e motivato, che ci parla davanti ad un buon caffè di realtà ai limiti dell’immaginazione, di interi quartieri che vivono di espedienti, di case dove si fanno i turni per dormire nel letto, di chi vive nel sottosuolo ed esce dai tombini per andare allo stadio a vedere il Napoli, di un mondo complesso, agonizzante e pur sempre vivo e dinamico dove “…l’unico intervento possibile è quello per “tamponare, o tagliare l’erba di tanto in tanto solo per evitare che cresca troppo, dove l’unica risposta serie sarebbe quella di agire sul sociale“. Infine, la sera, mentre passano i mezzi che puliscono le strade e i netturbini a piedi, aspirando cartacce, schizzofrenicamente aggirano i cumuli di immondizia sempre più maleodoranti, incontriamo a passeggio un distinto ed elegante signore che con piacere, ad una nostra domanda, si abbandona a fare quattro chiacchiere con noi. È un noto professionista, ci lascia anche i suoi recapiti dovessimo aver bisogno di altri consigli. Sorride quando gli chiediamo della città e dei timori che spesso accompagnano la sua fama. Dice serafico di lasciarsi ammaliare, ci dà dritte preziose per gustare della buona pizza e dei dolci favolosi nella pasticceria più rinomata, dice di girare Napoli in lungo e in largo e lo dice con un tale godimento che il pensiero va spontaneo a Goethe. Anche lui, nel 1787, aveva notato l’attitudine tutta partenopea al godere delle gioie della vita. Nei suoi scritti Goethe chiosavaAnche a me qui sembra di essere un altro. Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso. Anche per noi è stato così ed ora di una cosa siamo certi: a Napoli, a questa città splendida, malata, mille volte data per spacciata e mille volte risorta, diciamo solo un convinto “A…rivederci“!

Non è facile parlare di Napoli: è una città tremendamente complicata, tutto e il contrario di tutto. Il caos dei vicoli nel centro opposto alla calma quasi svizzera di alcune vie del Vomero; i monumenti conosciuti e invidiati in tutto il mondo, ostaggi delle auto, del traffico e dei clacson che non smettono di suonare; la gente generosa, che apre le porte di casa e ti invita a salire dopo un minuto che ti ha conosciuto, costretta a convivere con ladri, ladruncoli e intere famiglie esperte nell'arte di guadagnarsi il pane fregando il prossimo. "Vedi Napoli e poi muori", si diceva un tempo per spiegare come questa città sia sintesi di tutte le cose, il bene il male, splendori e miserie; dopo averla conosciuta è come se si fosse vissuto tutto il possibile del mondo, tanto da poter anche smettere di esistere.

Luoghi comuni, tra verità e bugie.

La complessità della sua gente e dei problemi che da sempre l'attanagliano, hanno fatto di Napoli la città del mondo più carica di luoghi comuni.

Napoli caotica? E' vero.

Napoli sporca? Meno di quello che si pensi e solo in alcune zone, per questa tendenza di alcuni napoletani a tenere la casa tirata a lucido e avere molta meno cura per le strade della città.

Napoli pericolosa? Certo, ma non più di altre grandi città. La Capitale del Sud è pericolosa come ogni grande metropoli a cui si aggiunge la capacità di molti napoletani disonesti di capire al volo chi è il "fesso" di turno da alleggerire.

Napoli con la gente buona di cuore? Si, è così. Camminate in una qualsiasi strada di Napoli e fate finta di cadere. Intorno a voi tutto si fermerà e ognuno vi darà una mano per rialzarvi, mentre qualcun'altro prenderà un bicchiere d'acqua, una sedia per farvi sedere, una camomilla per calmarvi. Godetevi il momento ma guardatevi intorno; tra quelli potrebbe esserci qualcuno che ha puntato la vostra borsa o il portafoglio.

Napoli è la città dove tutti cantano? Si, i napoletani sono spesso allegri e spensierati e classificano molti guai seri come semplici "fesserie" su cui ridere; ma accanto a questi ci sono altri napoletani, tremendamente malinconici, arrabbiati con la città e con tutto quello che le gira intorno.

Napoli dove si mangia bene? Si, Napoli non ha rivali per il cibo, in nessun posto del mondo. A Napoli, tutto è vero e tutto è falso, perché tutto dipende dal rapporto che ognuno ha con questa capitale del Mediterraneo e che lo porterà a mettere l'accento su un lato positivo o negativo.

Come tutte le cose di cui ci si innamora, Napoli è una città che si ama e si odia a seconda dei giorni. Lo sanno bene i napoletani, sempre tentati di andare via ma senza mai trovare il coraggio di farlo per sempre. Il vantaggio di un turista è di poterla scoprire e poi abbandonare, con leggerezza. Sempre che non sia la città a sedurlo, con i colori, le voci che si alzano dai vicoli, gli occhi scuri delle donne o la parlantina colta degli uomini. Un rischio che vale la pena correre, senza dimenticare che Napoli nacque da una sirena, Partenope, venuta a vivere il proprio amore in questo "Paradiso abitato da diavoli".

Napoli, distruggiamo i luoghi comuni, scrive  Stefano Duranti Poccetti. Napoli piena di spazzatura. Napoli piena di delinquenza. Sono queste le caratteristiche con le quali l'odierna informazione fa passare la stupenda città. Qui ho avuto una permanenza di pochi giorni, ma abbastanza perché me ne potessi innamorare e abbastanza per capire e vedere alcune cose: la prima è che a Napoli la spazzatura non c'è, o almeno non ce n'è più di quanto se ne possa vedere nelle altre grandi città; la seconda è che Napoli non è pericolosa, o meglio, anche qui devo aggiungere la stessa cosa, non più che le altre grandi città italiane. Ho girato sempre tranquillo per le strade, l'atmosfera è serena, anche di notte e anche quando "mi sono avventurato" per le viuzze che si aprono su Via Chiaia e Via Toledo non mi è sembrato di respirare un clima di pericolo. Anche i rinomati "quartieri spagnoli" non sono, almeno per quanto mi è parso dal mio rapido giro, pieni d'insidie come ci vengono descritti dall'informazione nazionale, un'informazione che non fa altro che rovinare la reputazione di Napoli, anche dal punto di vista internazionale. La spazzatura insomma per le strade non c'è, l'unico problema, come mi spiega un taxista: "Purtroppo ci mancano gl'impianti perché la spazzatura venga smaltita". Continua sottolineando una cosa molto importante, che troppo poco spesso sentiamo dai telegiornali: "C'è una cosa che i giornalisti non dicono mai, vale a dire che noi di Napoli paghiamo le tasse per l'immondizia più alte non solo d'Italia ma d'Europa, quindi l'impegno da parte nostra c'è perché tutto funzioni". A parte gli argomenti spazzatura e delinquenza, è inutile che dica che Napoli è una città stupenda e solo il fatto che un centro così bello, con Piazza del Plebiscito, sia vicino al mare la rende veramente unica. Non sono comunque una guida turistica e non mi sembra il luogo adatto per parlare del Teatro San Carlo o del Museo di Capodimonte. Questo è invece il luogo adatto per dire che a Napoli ho preso una multa di 41 euro per non avere obliterato il biglietto del bus. La gente ride quando lo racconto, perché pensa che a Napoli tutto sia lecito, ma non è così, anche lì, come in ogni altra città, esistono delle leggi da rispettare e io, purtroppo, ho infranto una legge e, giustamente, ho preso la multa, questo per sfatare un altro mito di una Napoli per così dire "anarchica", un po' anarchica sì (con i motorini che viaggiano in tutti i marciapiedi), ma sotto a certi limiti. I napoletani sono persone meravigliose che non aspettano altro che il momento di aiutarti e quando ho chiesto delle indicazioni dentro i bus mi hanno risposto in quattro o cinque arrivando anche a litigare tra di loro per chi sapesse darmi delle indicazioni migliori. Napoli è una grande famiglia e le persone ti fermano per strada solo per fare due chiacchiere. C'è un senso di comunicazione altissimo, quasi inimmaginabile per noi del "nord". Per me Napoli è una capitale, vi sembrerà strano e paradossale che lo dica, per me Napoli è la capitale della civiltà, perché là gli esseri umani si comportano da esseri umani, vogliono comunicare da esseri umani e amano la loro città sapendola fare amare agli altri. Un viaggio nel capoluogo partenopeo per confermare malsane abitudini oppure cercare di sfatare i luoghi comuni della terra ai piedi del Vesuvio, scrive Pasqualino Magliaro. In un  romanzo di Marcello d’Orta Napoli veniva descritta come “una bellissima principessa distesa con la schiena verso il mare, che se guardata attentamente ha tutte le viscere da fuori”. Un’immagine forte che spiegava la bellezza dei luoghi partenopei sporcati da alcuni vizi e reati che la città si porta dietro da sempre.

Un’immagine da sempre esportata anche all’estero che però viene finalmente smentita da un illustre giornalista mondiale, importante penna del “NY Times”, Ingrid K. Williams. La reporter americana, che cura una delle più importanti sezioni sul turismo mondiale ha visitato recentemente Napoli in ogni suo vicolo ed ha esposto quanto ha potuto vedere sulla pagina “Viaggi” della testata americana. «Nonostante la reputazione di corruzione e criminalità - esordisce nel suo racconto la giornalista -. Il cambiamento è a un passo. Un nuovo sindaco ha inaugurato iniziative per ripulire la città e ha riorganizzato il traffico». Nel corso dell’articolo si fa specifica menzione a un «revival culturale contemporaneo con musei, gallerie d’arte e stazioni metro». La Williams spiega come grazie all’arte e alla cultura a Napoli oggi si respiri aria di positività. Un gran tour che parte con una passeggiata sul lungomare dove la reporter americana apprezza il fatto che si possa passeggiare a piedi dato che «le auto sono state bandite da via Caracciolo e via Partenope - si legge - dove si può ora piacevolmente passeggiare e ammirare le meravigliose viste sul Vesuvio, l’isola di Capri in lontananza, splendidi tramonti che sembrano dipinti nel cielo». Luoghi d’arte fruiti con gran piacere come a due passi dalla Villa Comunale, la visita allo studio Trisorio, che recentemente ha ospitato un’esposizione di Rebecca Horn. Una visita al rinato museo Madre con le opere di Sol LeWitt, poi è la volta del Memus, lo storico archivio del San Carlo che mostra costumi di scena e filmati 3D. Il venerdì si conclude con una passeggiata a Chiaia, con le sue boutique, le sue enoteche e i cocktail e le atmosfere del «Trip» di via Martucci. Un Week–end non solo di arte e paesaggi mozzafiato ma anche di artigianato e gastronomia sulle quali non si può rimanere che estasiati. Ed allora ecco ad ammirare da Marinella le sue cravatte, ritorno a pranzo al centro storico nella «Cantina» di via Sapienza per assaggiare un piatto unico al mondo nella sua proposizione: le polpette al sugo partenopeo. Se nel primo giorno una toccata e fuga a via Costantinopoli era servito per assaggiare la cucina di Mario Avallone e il suo «arancino di mare» nel pomeriggio, tappa al Vomero, per un «salutare» gelato alla gelateria Bianco Bio. La giornata si conclude con una «classica» pizza da Sorbillo ai Tribunali. Le 36 ore partenopee si concludono domenica, con un caffè al «Vero bar del Professore» di piazza Trieste e Trento un’irresistibile sfogliatella da «Mary» in Galleria Umberto I. In via Toledo, tappa «obbligatoria» a Palazzo Zevallos di Stigliano, dov’è custodito il «Martirio di Sant’Orsola» di Caravaggio e «gran finale» con una - doverosa - visita alla Cappella Sansevero, restaurata e illuminata a nuovo negli ultimi anni. Al termine delle 36 ore partenopee la reporter ammette: «I problemi della città persistono, però chi vuole programmare una visita a Napoli sarà ricompensato dalle virtù di questa città». Che la principessa si stia veramente mettendo a nuovo mostrando finalmente al mondo solo i suoi tesori?

Che cosa si pensa di Napoli? Beh tutto il male possibile secondo una corrente di  pensiero che ha fatto della disinformazione la sua punta di diamante. È sotto gli occhi di tutti come l’informazione dominante non perde occasione per infangare la città di Napoli, la Campania e tutto il Sud. I mass media nazionali ed ultimamente anche quelli internazionali non stanno usando mezzi termini, sempre pronti a dare un’enfasi maggiore del necessario a fatti di cronaca che di solito sono ordinaria amministrazione per ogni metropoli. A Napoli ed a tutto il sud non viene perdonato niente, mentre non esitano a sterilizzare fatti molto più gravi che accadono in altre parti d’Italia e d‘Europa, prima fra tutte la tanto decantata Londra. Gli stessi mezzi di informazione, altrettanto disinvoltamente, oscurano le numerose eccezionali realtà imprenditoriali meridionali, realtà che hanno raggiunto un tasso di tecnologia così elevata che non hanno nulla da invidiare a moltissime aziende statunitensi. Un sostanziale aiuto alla suddetta corrente di pensiero viene dato dalla inefficiente classe dirigente meridionale, la quale totalmente priva di senso di appartenenza e di lungimiranza, non solo non reagisce energicamente ed oggettivamente, ma usando l’arma di quel vittimismo che solo loro vedono, forniscono il fianco ad ulteriori denigrazioni. La Campania e con essa tutto il meridione, hanno tutte le carte in regola per diventare la California d’ Europa. Gli ostacoli che si frappongono a questo progetto sono tre:

A) Mancanza di visione strategica

B) Disinformazione

C) Burocrazia ostativa

La mancanza di una visone strategica di sviluppo è conseguenza dell’incapacità dell’attuale classe dirigente meridionale. Un cambio di marcia, per lo sviluppo del meridione non è più rinviabile, il Sud necessita di grandi opere infrastruttura. I mezzi per la realizzazione di queste ultime si possono reperire anche senza aspettare le elemosine politiche, ormai sono di uso comune nuove tecniche di reperimento di capitali, quando sarà il momento spiegheremo in modo dettagliato il progetto.

La disinformazione è l’ostacolo più difficile da superare ed è anche quello che procura i danni maggiori, infatti, attraverso la sua opera questa ultima enfatizza, come dicevamo sopra, i fatti di cronaca e trascura in modo criminale le eccellenze di cui il Sud dispone. Questo ostacolo si può superare creando mezzi di informazione ex-novo, soprattutto composti da giornalisti che abbiano un senso di appartenenza capaci di essere cani da guardia del SUD.

L’ ostacolo burocratico si può superare in un solo modo, sostituire l’attuale classe dirigente. I presupposti perché ciò avvenga ci sono tutti, i cervelli meridionali si sono stancati di emigrare, hanno deciso di rimanere vogliono lavorare per la loro terra, non hanno più voglia di essere comandati e mortificati da incompetenti. I politici meridionali hanno l’obbligo di favorire questa sacrosanta aspettativa, altrimenti verranno spazzati via, il tempo è scaduto.

PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.

Prima di Gomorra. Saviano: "La rivoluzione va fatta col fucile", l'audio di quando aveva 20 anni. Lotta armata, terrorismo e anni di piombo. L'intervento dell'autore di Gomorra a un convegno quando era studente universitario, scrive “Libero Quotidiano”. Pensare che oggi è il volto rassicurante della sinistra progressista: ieri era un filoterrorista marxista senza pietà che declamava: "La rivoluzione si fa con il fucile". Parliamo di Roberto Saviano, l'autore di Gomorra e coprotagonista con Fabio Fazio di Che tempo che fa. Ora siamo abituati a vederlo denunciare le ingiustizie nel mondo con prediche grondanti moralità, ma i suoi giovanili interventi in pubblico grondavano altro. Nel 2000, quando era uno studente universitario di 21 anni, Saviano prese la parola in un convegno dal titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" presso la Federico II di Napoli. A un anno dall'omicidio (firmato Brigate Rosse) del giuslavorista Massimo D'Antona, il virgulto Saviano si lancia in una disanima degli anni di piombo il cui leit motiv è "la rivoluzione comunista in Italia è mancata per una questione di metodo". "I terroristi - diceva - hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo". Dal momento che il convegno, cui partecipavano magistrati e cattedratici, poneva anche interrogativi sul futuro, Saviano concludeva il suo intervento con un auspicio: "Vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato”. Possiamo riascoltare il Saviano-pensiero grazie a Radio Radicale. Secondo il giovane Roberto, i terroristi “Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci, che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie“. Gli anni di piombo sono dovuti quindi, stando al piccolo Saviano, a un naturale riequilibrarsi della lotta proletaria: "E così – prosegue – i terroristi prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci”. Non era spaventato dalla scia di sangue e morte rimasta sull'asfalto: quella dei terroristi era autodifesa di classe. "Un magistrato, un poliziotto, un politico - argomentava - non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura - incredibile a sentirsi oggi - non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo". E' un combattente vero l'autore di Gomorra negli anni pre-Gomorra. “La rivoluzione - arringava la platea di studenti della sua età - è la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile. La polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi”. L'origine dei problemi, in ogni caso, non era la repressione degli organi dello Stato: “Il problema – tagliava corto Saviano – rimane il capitalismo”.

E Saviano? Perde la causa su Peppino Impastato: Saviano non ci sta e attacca. In un articolo del 2008 l'autore di Gomorra parla di una telefonata avuta con la mamma Impastato. Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, la mise in dubbio e per questo fu querelato, scrive “Today”. Saviano ha perso la causa per diffamazione contro Paolo Persichetti ma lo scontro tra i due (e non solo) sembra destinato a continuare fuori dalle aule di tribunale.

Questi i fatti: in un articolo del 2008, poi pubblicato all'interno del libro del “La bellezza e l’inferno” edito da Mondadori nel 2009, l'autore di Gomorra parla di una telefonata tra lui e la mamma di Peppino Impastato, Felicia, morta nel 2004. Dichiara di averla sentita "un pomeriggio, in pieno agosto". A chiamare fu lei. "Roberto? Sono la signora Impastato" scriveva Saviano.

“Non dobbiamo dirci niente - continua l'articolo di Saviano - dico solo due cose una da madre ed una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua.”

Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, scrisse un articolo in cui mise in dubbio che questa telefonata fosse mai avvenuta e per questo fu querelato. Sempre nello stesso pezzo era contenuto l'altro motivo di tensione tra i due. "Si parlava del libro di Saviano "La parola contro la camorra" causa di rottura anche con il Centro Peppino Impastato. Nel libro si attribuisce un ruolo importante nella riapertura del caso Impastato al film "I cento passi" di Marco Tullio Giordana senza il quale la vicenda sarebbe rimasta quasi sconosciuta. Il Centro Impastato non veniva neppure menzionato. Saviano dimostrava di non avere buone fonti e dava mostra di non essere informato correttamente cosa che scrissi nel mio pezzo", spiega Persichelli.

La sentenza del tribunale, e in particolare del Gip Barbara Callari, del gennaio 2013 che ha dato torto all'autore di Gomorra avrebbe dovuto chiudere la faccenda ma così non è stato.

Secondo il Gip Persichetti avrebbe smentito Saviano facendo uso di dichiarazioni fatte da fonti attendibili: riprese un'intervista di Umberto Santino, presidente del Centro siciliano di documentazione "G. Impastato" che a sua volta aveva ripreso Felicia Vitale, nuora di Felicia Bartolotta da sposata Impastato, e moglie di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.

Ecco la sua testimonianza scritta inviata in aula (vedi allegato): "La madre di Peppino non aveva il telefono e faceva le telefonate tramite me. Non mi risulta che abbia telefonato a Roberto Saviano. Faccio notare che mia suocera è morta nel 2004 e il libro Gomorra è uscito nel 2006". Oltre alla sua in aula sono arrivate le testimonianze di Giovanni Impastato e di Umberto Santino. Nella sentenza del gip NON si dice che la telefonata non c'è mai stata ma semplicemente si dice che Persichetti ha esercitato correttamente il diritto di cronaca.

La sentenza è di qualche mese fa ma circola solo ora. "A gennaio quando ci fu la sentenza del gip solo Facci scrisse un articolo su Libero", racconta Persichetti. "Il 9 maggio poi, in occasione dell'anniversario dell'assassinio di Peppino la vicenda poi venne ripresa dal blog Baruda e piano piano cominciò a fare il giro del web", continua il giornalista.

E sulla sua pagina Facebook Roberto Saviano ha deciso di dire la sua scrivendo un lunghissimo post. Eccone una parte: "Di solito mi scrollo il fango di dosso, pensando che sia il prezzo da pagare, ma su questo non ce la faccio. Su questo ho deciso di non tacere, per il rispetto profondo che provo per la memoria di Felicia Impastato e per il disprezzo profondo per chi, odiando me, lorda chiunque trovi sulla sua strada".

Le celebrità dovrebbero andarci pianissimo con le querele, perché rischiano l’accusa di lesa maestà anche quando hanno ragione, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano” riportato da "Insorgenze". Figurarsi se la ragione non ce l’hanno, come nel caso che andiamo a raccontare e che riguarda un querelante di nome Roberto Saviano. Figurarsi, poi, se il giornalista querelato (e assolto) si chiama Paolo Persichetti, ex brigatista latitante in Francia, condannato a 22 anni per l’omicidio del generale Licio Giorgieri e ora in regime di semi-libertà: un personaggio, insomma, che per ottenere ragione da un giudice potrebbe faticare più di altri. Ma vediamo il caso. Persichetti, su Liberazione, nel 2010 scrisse due articoli. Il primo riguardava i contenuti del libro di Saviano «La parola contro la camorra» e, soprattutto, la disputa che ne seguì con il Centro Peppino Impastato. La polemica in effetti ci fu: il Centro rivendicava un ruolo nella riapertura del caso di Giuseppe Impastato – ucciso dalla mafia a Cinisi nel 1978 – dopo che Saviano, nel libro, aveva attribuito ogni merito al film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana senza il quale, parole sue, la vicenda sarebbe rimasta «una storia minore confinata nelle pieghe degli anni Settanta». Il Centro non veniva neppure menzionato. Tornando all’articolo: Persichetti oltretutto forniva la ricostruzione di una presunta telefonata tra Saviano e Felicia Impastato (madre di Giuseppe) e giungeva a sostenere che la conversazione non era mai esistita: e citava, come fonti, due parenti della madre (che nel frattempo è morta, e non può confermare o smentire) ma anche Umberto Santino, direttore del Centro Impastato: «Ma lui, Saviano, non ha avuto il coraggio di querelarlo», dice ora Persichetti, «perché ha preferito rivolgere i suoi strali contro il direttore di Liberazione e me, ritenendomi forse l’anello più debole e delegittimato della catena».

Forse lo status di un brigatista condannato per assassinio, in effetti, potrebbe sembrare inferiore a quello di un mostro sacro dell’antimafia. Sta di fatto che la cosa non impedì a Persichetti, nei suoi articoli, di metterla giù molto dura: «Quando Saviano non abbevera i suoi testi alle fonti investigative», scriveva, «dà mostra di evidenti limiti informativi». La critica si faceva più stringente nel concentrarsi sul «ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali», qualcosa che l’ha trasformato in «un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica». Il contrario dell’antimafia «sociale» promossa da Giuseppe Impastato, la cui vera storia «venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio dei carabinieri e della magistratura. Un passato che Saviano non può raccontare». Diciamo che non le mandò a dire, Persichetti. Non bastasse, nel secondo articolo se la prese con l’impostazione autocelebrativa dello scrittore nel programma «Vieni via con me» andato in onda sui Raitre nel novembre 2010. La sua prestazione veniva definita «imbarazzante» a margine di una «memoria selettiva e arrangiata», di «pochezza culturale», di «un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo di senso del ritmo… accompagnato solo da uno smisurato e pretenzioso egocentrismo». Poi l’accusa forse più sanguinosa: l’essere Saviano «un derivato speculare dell’era berlusconiana». Da qui la querela. L’avvocato di Saviano la depositava il 12 gennaio 2011 ai danni di Persichetti e del suo direttore Dino Greco, personaggi che non avrebbero fatto altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato». La querela è lunghissima (30 pagine) e non risparmia il tentativo di buttare nel mucchio anche la condanna a 22 anni che Persichetti sta scontando: le parole del giornalista contro Saviano, infatti, sono definite come «una condanna inappellabile, come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale Giorgieri». Parole come proiettili, come si dice. Dulcis in fundo, le critiche di Persichetti parevano al legale «senza alcuna finalità di pubblico interesse».

Il 6 luglio 2012, tuttavia, il pm Francesco Minìsci non era dello stesso avviso: e chiedeva l’archiviazione. La notizia di reato a suo dire era «infondata» proprio perché ricorreva l’interesse pubblico del caso. E forse proprio per ravvivarlo, il caso, ecco che Saviano il 15 gennaio scorso compariva in aula a Roma: la presenza fisica, in questi casi, riveste sempre una giusta considerazione. La sua testimonianza ha un che di grave: «Intendo qui difendere la memoria della signora Impastato che ebbe con me una conversazione telefonica (negata nell’articolo querelato)… nella quale mi esprimeva la sua solidarietà… Negare l’esistenza della telefonata non costituisce una critica, ma un attacco teso a minare il mio stesso impegno sociale e civile». Lunedì scorso, tuttavia, il gip Barbara Càllari si è presa il rischio di minare l’impegno sociale e civile di Saviano: ed ha archiviato. Il giudice ha fatto propri i rilievi mossi nella richiesta di archiviazione anche a proposito della presunta telefonata: «Nessun intento diffamatorio può essere attribuito a Persichetti, che si è limitato a fornire una diversa ricostruzione della vicenda, basata su fonti attendibili… Ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate… Malgrado il tono dei due articoli sia a tratti aspro… le valutazioni dell’autore attengono a circostanze precise e ben definite».

E una querela è andata. Resta in ballo, per ora, la causa civile che Roberto Saviano ha promosso ai danni di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce e segretario dell’Istituto Italiano di Studi storici: lo scrittore ha chiesto un risarcimento di quasi cinque milioni di euro (a lei e a Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) per via delle contestazioni ricevute dopo la sua ricostruzione del salvataggio di Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola. Questione, siamo certi, al centro dei vostri pensieri.

Santo o bugiardo? Si chiede “La Rosa Nera”. Roberto Saviano e le sue verità nascoste. Nell’incertezza di questi tempi moderni, solo uno stolto può credere che la verità stia da una parte sola. Come ci insegnano i saggi, quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, che molto spesso sono più veritiere delle verità proclamate a gran voce.

La lezione l’abbiamo imparata un po’ tutti, soprattutto quando si tratta di personaggi pubblici. Sappiamo tutti che esiste l’altra faccia della medaglia, quella oscura, quella che non viene mostrata ai più e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che si fa di tutto per non far venire alla luce. Questa lezione sembrano averla imparata i più, ma non i fans di Roberto Saviano.

Da quando, nel 2006, Gomorra ha superato i 10 mln di copie vendute nel mondo (diventando poi anche un film di successo, girato proprio nei luoghi di camorra), di cui 2 mln 250mila solo in Italia, generando (verità o leggenda?) un’invasione mai vista prima di turisti per le strade napoletane (quelle del centro storico, sì, ma di Secondigliano; nei quartieri residenziali, sì: a Scampia), dove con libro di Saviano alla mano lo sprovveduto, impavido turista tipo “avventuroso” se ne andava in giro domandando alla gente dove potesse trovare il Terzo Mondo o visitare le fabbriche parallele, dare un’occhiata ai Visitors o fare un tour a Parco Verde, ebbene, da allora, da quando con il suo collage sul Sistema camorristico, che altro non è – e lo dicono gli esperti – una raccolta di articoli di giornale e informazioni varie reperite per vie assolutamente risapute e accessibili a chicchessia, Roberto Saviano ha fatto il botto, Roberto Saviano è diventato l’uomo simbolo della lotta alla criminalità organizzata nel mondo: l’uomo minacciato dalla camorra che paga il suo gesto di denuncia vivendo sotto scorta ma che nonostante la paura non smette di denunciare “la verità” ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltare, sui giornali, nelle trasmissioni tv, in pubblici comizi nelle piazze e nelle librerie, l’indiscusso, indiscutibile paladino della giustizia e della legalità, modello di coraggio e di virtù, orgoglio partenopeo, acclamato come Maradona e rispettato come san Gennaro, un uomo senza precedenti che, da solo, ha avuto il coraggio di aprire la porta e gettare la luce sugli oscuri traffici della camorra che infetta la nostra splendida terra, oscura il sole, contagia tutti noi.

Encomiabile, certo. Che Roberto Saviano sia stato il primo a realizzare un’opera omnia sulla camorra, svelandone funzionamento e meccanismi, non è certo in discussione. Che quest’atto sia stato malvisto da alcuni esponenti della criminalità organizzata, in particolare dal clan dei casalesi, che pare l’abbia condannato a morte, salvo poi dedicarsi nell’immediato ad affari di maggiore urgenza che non fare fuori uno scrittore, come per esempio, negli anni, realizzare altre 2 o 3 esecuzioni (Domenico Noviello, per esempio, imprenditore di Baia Verde ribellatosi al pizzo e giustiziato, nonostante fosse sotto protezione, il 20 maggio del 2008; oppure Raffaele Granata, padre del sindaco di Calvizzano ucciso sempre nel 2008 e sempre perché si rifiutava di pagare il pizzo; e ancora Angelo Vassallo, il sindaco attivista e ambientalista di Pollica ucciso nel 2010, probabilmente – ma le indagini sono ancora in corso – proprio perché dava fastidio alla camorra), tutte successive alla data in cui Roberto Saviano è stato posto sotto scorta (2006).

Allo stesso modo è vero che con il suo primo libro, che è subito diventato un best-seller, Roberto Saviano ha attirato l’attenzione internazionale, dei media e della gente, su Napoli e sulla Campania, raccontandole come un far west preda della criminalità organizzata, una terra di nessuno in cui la Camorra spadroneggia a piacimento, in cui il pericolo si cela dietro l’angolo (perché è facile rimanere uccisi per sbaglio in un agguato o in un regolamento di conti), provocando di fatto con l’uscita del suo libro, in una sfortunata concomitanza con uno dei picchi dell’emergenza rifiuti, l’arresto quasi totale della macchina turistica ed economica dell’intera regione.

Tuttavia, ciò su cui mi preme puntare l’attenzione non è tanto la credibilità di quest’uomo in quanto scrittore, giornalista e denunciatore, quanto piuttosto sul modo in cui la sua presunta credibilità venga recepita e acriticamente accettata dal popolo di seguaci della legalità, che nella sua scelta di raccontare (che cosa, poi?) ha colto l’impeto sacro di un uomo illuminato dalla ragione da osannare come un profeta. Portato alla ribalta dai media, come dicevamo Roberto Saviano è diventato un guru della cultura della legalità; ma, come si rifletteva all’inizio di questo articolo, è impossibile, o comunque altamente improbabile ritenere che la verità assoluta risieda univocamente da una parte sola. Esiste sempre l’altra faccia della medaglia, e, nel caso di Roberto Saviano, l’altra faccia della medaglia è quella delle bugie. Deliberate o commesse per distrazione o imprecisione, negli anni il paladino della giustizia, imperituro oppositore dell’illegalità Roberto Saviano, ne ha collezionate un bel po’.

La discussione in merito si riapre in seguito alla recentissima notizia che ha visto Roberto Saviano perdere la causa per diffamazione intentata nei confronti di Paolo Persichetti, giornalista ed ex br, per alcuni articoli pubblicati su Liberazione. La querela risale al gennaio 2011: gli articoli firmati da Persichetti e incriminati erano 2, e contenevano alcuni fatti di “rilevanza giornalistica”. Noi ci soffermeremo su uno solo di questi fatti: ne “La bellezza e l’Inferno”, suo secondo libro, Roberto Saviano racconta di una telefonata avvenuta tra lui e la madre di Peppino Impastato, attivista e giornalista siciliano ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, in cui la donna l’avrebbe spinto a continuare la sua azione di denuncia della criminalità organizzata, invitandolo alla prudenza.

“Non dobbiamo dirci niente, dico solo due cose, una da madre e una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua”.

In uno dei suoi articoli su Liberazione, per i quali è stato poi querelato da Saviano, Paolo Persichetti afferma, documentandosi alla fonte (ovvero stando alle dichiarazioni della nuora di Felicia Impastato), che questa telefonata non è mai avvenuta. Felicia Impastato infatti non aveva il telefono. Le telefonate le faceva a casa del figlio Giovanni, fratello di Peppino, passando per la moglie di lui. Alla quale non risulta che la signora Impastato abbia mai chiamato Roberto Saviano. Anche perché Felicia è morta nel 2004, ovvero due anni prima che l’uscita di Gomorra rendesse celebre il suo autore.

Ora, questo recente avvenimento di cronaca ha portato alla ribalta altre notizie simili, risalenti agli anni passati, che riguardano quella che sembra essere una certa tendenza dell’autore di Gomorra, se non alla spudorata menzogna, quantomeno alla “rivisitazione” della verità, o (non si sa se meglio o peggio, trattandosi di un giornalista) alla mancata verifica delle fonti. Cosa che un personaggio del suo calibro non potrebbe proprio permettersi.

Un altro episodio risale al 2010, quando nel corso del suo monologo “Il terremoto a L’Aquila” andato in onda durante la quarta puntata della trasmissione “Vieni via con me” e successivamente raccolto insieme agli altri in un volume dal titolo omonimo uscito nel 2011, Roberto Saviano racconta l’esperienza di Benedetto Croce sotto le macerie, anch’egli vittima e unico superstite della sua famiglia del terremoto che colpì l’isola di Ischia nell’estate del 1883. Travisando completamente il racconto del filosofo, contenuto nelle “Memorie della mia vita”, (1902), come si legge nella lettera di protesta inviata da Marta Herling, la nipote di Benedetto Croce.

Ancora, sempre nel 2010, ospite al Festival dell’Economia di Trento, Roberto Saviano sollevò un vespaio affermando che la ‘ndrangheta calabrese aveva tentato, per fortuna senza successo, la scalata al settore della distribuzione delle mele altoatesine, tramite l’appoggio di alcuni mediatori trentini.

“C’è stata un’inchiesta, che potete studiare, partita dalla Calabria dove hanno tentato attraverso mediatori trentini di poter entrare, le organizzazioni aspromontine, nella gestione e distribuzione della mela trentina”.

Così aveva tuonato Roberto Saviano dal palco del Festival dell’Economia di Trento. Peccato che quest’inchiesta non ci sia mai stata. La smentita clamorosa di Saviano è arrivata poco dopo, quando la lettera aperta di Luigi Ortolina, rappresentante del Gruppo degli agenti ortofrutticoli della Provincia di Trento in seno all’Associazione mediatori e agenti di affari della Provincia di Trento aderente Fimaa, che chiedeva giustamente al giornalista di fare i nomi dei corrotti in seno alle organizzazioni di imprenditori locali affinché fossero espulsi, ha sollevato un’indagine (stavolta sì, che c’è stata davvero) da parte dei carabinieri del Ros di Trento, che in merito alle presunte infiltrazioni aspromontine in Trentino Alto Adige hanno voluto sentire il giornalista. In quell’occasione il Saviano nazionale se ne è uscito dicendo che le sue affermazioni, che pure parevano tanto sicure e certe e verificate, erano solo un “monito” che voleva avere un “effetto di sensibilizzazione”, insomma: non una verità confermata dai fatti, ma un’affermazione (una supposizione, potremmo dire) da prendere con le pinze. E chissà quante altre sono le affermazioni che, uscite da quella bocca da grande oratore, ammaliatore di serpenti e di folle, vanno prese con la dovuta circospezione.

Lo sappiamo noi, lo sanno quanti sfortunatamente si sono trovati, loro malgrado, implicati o travolti nella centrifuga di menzogne (lui, che soleva citare la macchina del fango!) attivata da Roberto Saviano; lo sanno quanti della sua univocità di santo hanno sempre dubitato. Chi proprio non lo sa, o non vuole saperlo, sono i suoi sfegatati seguaci. Quelli che, nonostante tutto, continuano a venerare il mito di Roberto Saviano, con la vergognosa complicità degli organi di informazione di massa che continuano a tacere queste informazioni.

Tutto ciò, per tornare alla riflessione iniziale, insegna proprio questo: che non esiste una sola verità. Così come non esiste un solo modo di fare “camorra”. La verità non sta mai da una parte sola, anzi. Quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, sull’altra faccia della medaglia, quella oscura, che non viene mostrata ai più, e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che tutti fingono di non vedere. Il perché è semplice: chi ha provato a smascherarle è stato messo a tacere, in tutti i modi possibili, da chi non vuole che un’altra versione della verità venga a galla. La verità l’hanno uccisa sulla bocca di chi ha provato a dirla. A noi comuni mortali, per onorare quanti per amore della verità hanno pagato davvero (e con la vita), spetta almeno il compito di non smettere mai di dubitare.

Daniele Sepe scrive un rap anti Sviano: “E’ più intoccabile del Papa”. Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato, scrive Antonio Fiore su “Il Corriere della Sera”. Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano?

«Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori.

«Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra?

«Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume.

«E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che...

«Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere?

«Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».

Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto?

«Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvage dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.

«A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte?

«Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia?

«Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano.

«Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione?

«Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

PARLIAMO DI LUIGI DE MAGISTRIS.

Sposato con Mariateresa, ha 2 figli maschi Giuseppe e Andrea. Da ragazzo, ha frequentato il Liceo Adolfo Pansini del quartiere del Vomero di Napoli, diplomandosi con 51/60. Dopo la laurea in Giurisprudenza (con la votazione di 110/110 e lode), ha intrapreso nel 1993 - come il padre, il nonno e il bisnonno, che fu a suo tempo oggetto di un attentato per aver perseguitato il malaffare nei primi anni dell'Unità d'Italia - la carriera di magistrato. Dal 1998 al 2002 ha operato presso la Procura della Repubblica di Napoli per poi passare come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Catanzaro. Candidandosi nel 2009 alle elezioni del Parlamento europeo come indipendente nell'Italia dei Valori. Eletto europarlamentare viene anche designato in data 20 luglio 2009 presidente della commissione del Parlamento Europeo preposta al controllo del bilancio comunitario.

Riguardo l’accesso in magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.

Ed ancora. Luigi De Magistris è stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

Napoli e le bugie di De Magistris. Dai trasporti alla gestione dei rifiuti. Tutte le promesse (non mantenute) del Sindaco di Napoli, scrive  Carlo Puca in collaborazione con Luca Fabiani su “Panorama”. Chissà dove dorme ora Pulcinella. E dove riposano Arlecchino, Gianduia e Brighella. All’Edenlandia, la Disneyland di Napoli, hanno rubato tutto: la nave fantasma, Biancaneve e i sette nani, persino le rimanenze di caramelle. E, appunto, il teatro delle marionette. Il 9 marzo la Clear Leisure ha definitivamente rinunciato a gestire il parco giochi a causa del canone richiesto dalla proprietà. Ovvero: la Mostra d’oltremare, dove regna Andrea Rea, un fedelissimo di LdM, il sindaco Luigi «Giggino» De Magistris. Rea ora vorrebbe vendere ma il comune si è accorto che deve prima sanare due palazzi abusivi. Nel frattempo 60 dipendenti sono finiti in mobilità, compresi i tre guardiani notturni, lasciando campo libero agli sciacalli. «In questo posto, dal 1965, sono cresciuti i figli di Napoli. In un colpo solo sono morti i sogni dei bambini e i ricordi degli adulti» racconta Francesco Borrelli, commissario regionale dei Verdi, venuto qui a scaricare pacchi di cibo: nel parco c’è lo zoo e scarseggia pure il vitto per le bestie. Babele Bagnoli La spiaggia cancerogena, la carcassa dell’Italsider, un miraggio chiamato bonifica. Tuttavia l’11 maggio 2012 Giggino fu chiaro: «Sono molto soddisfatto, a Bagnoli abbiamo intrapreso la strada giusta». È stato smentito l’11 aprile 2013. Secondo la Procura di Napoli, che ha sequestrato l’area, le bonifiche degli ultimi vent’anni avrebbero «aggravato l’inquinamento dei suoli», determinando «un pericolo ambientale con immensa capacità diffusiva che coinvolge l’integrità della salute». La procura ha pure chiesto «un nuovo progetto». Martedì 14 maggio De Magistris ha incontrato il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, chiedendo altri fondi per l’ennesima «strada giusta». Ordinaria disattenzione Edenlandia è solo l’ultimo disastro dell’era LdM. Alla vigilia della sua proclamazione, il 30 maggio 2011, Giggino si presentò in piazza (bandana compresa) come il Masaniello che avrebbe scassato il regime precedente. Finora ha soltanto scassato ulteriormente Napoli. L’incendio doloso della Città della scienza (custodita meno bene di un condominio di periferia) e il crollo del palazzo di Chiaia (causato dai lavori per la metropolitana) hanno turbato il sonno del mondo su Napoli. Ma sono pur sempre eventi straordinari. In città al primo cittadino viene anzitutto imputato di avere promesso la rivoluzione ma di essere incapace di gestire persino l’ordinario. Votato insomma per scatenare l’apocalisse, il sindaco sta subendo il giudizio universale dal suo (ex) popolo. Cose da pazzi Il 7 maggio l’intero web ha riso per il video che riprendeva un uomo nudo inseguito dai poliziotti in via Marina. Ma nel filmato c’è dell’altro. Basta osservare i ciclomotori alla destra del fuggitivo: i passeggeri circolano tranquilli, senza casco, davanti agli agenti. A Napoli, camorra a parte, l’illegalità spicciola è tornata una costante: comandano di nuovo balordi, contrabbandieri di sigarette, parcheggiatori e venditori abusivi. Fa nulla che uno dei tratti distintivi del Giggino candidato fosse proprio il suo annunciarsi come sindacosceriffo. La prima regola che impose, in un’ottica anticasta, fu l’uso di biciclette elettriche e mezzi pubblici al posto delle auto blu: applausi a scena aperta. Il sindaco continua però a girarci, in auto blu. Con un’aggravante: il vizio della sosta vietata. Una volta, il 20 febbraio, la macchina era parcheggiata così male da fare intasare Monte di Dio. Ma, per carità, accorsi gli addetti del carro attrezzi, non l’hanno toccata: ubi maior (il sindaco) minor cessat (il traffico). Denuncia Fabio Chiosi, presidente della municipalità di Chiaia: «Se l’auto fosse stata di un cittadino comune, in quanto tempo sarebbe stata rimossa?». Cartoline da Scampia A Scampia il 13 maggio 2011 Giggino prese un impegno solenne: «Ho deciso di chiudere la mia campagna elettorale qui perché non devono esistere le periferie e Napoli deve essere una città unica. Ho visitato le Vele poiché convinto che Scampia possa e debba essere il punto di partenza per la nascita di una nuova stagione etico-politica della città». Eccola, la nuova stagione: altra munnezza. Non solo, il comune è inadempiente per 80 milioni di euro nei confronti delle associazioni di volontariato, costrette a chiudere o a ridimensionarsi. Accusano il sindaco di avere «abbandonato le periferie al loro infame destino». L’ultima protesta pubblica è del 12 aprile. Altre stanno per arrivare: è la rivolta dei giusti. Strada facendo Va capito, Giggino. L’auto blu è diventato l’unico modo per muoversi liberamente in città. La «pista ciclabile più lunga d’Europa» è un’esperienza da circense: il percorso è continuamente interrotto da incroci, buche, muri e scooter in sosta selvaggia. Né sono stati potenziati i mezzi pubblici, anzi. Accusa Alfonso Tricinelli, segretario Faisa-Cisal: «In circolazione ci sono 200 autobus sui 576 previsti. Mancano i pezzi di ricambio e gli autisti vanno al lavoro senza avere un mezzo da guidare». Il 30 gennaio gli autobus rimasero addirittura fermi, erano finiti i soldi per la benzina. Ciononostante, De Magistris ha istituito otto zone a traffico limitato in una metropoli già caotica, fomentando un traffico asiatico. L’impatto è stato avvilente anche per il commercio di molte zone. Per reazione, il 10 aprile i negozianti hanno optato per la serrata generale, corteo e scontri compresi. Il 6 maggio LdM ha sospeso almeno la Ztl del Mare, ma persiste l’altro dramma che presentano le strade partenopee: le buche nell’asfalto. Al punto che il 3 maggio sindaco e assessore alla Mobilità (Anna Donati) sono stati raggiunti da un avviso di garanzia per attentato alla sicurezza stradale e omissione di atti d’ufficio. «Cosa avrei dovuto fare?» ha replicato De Magistris. Riparare le strade, per esempio. Diversamente munnezza «Entro un anno porterò la raccolta differenziata al 70 per cento». La conseguenza? «Niente Tarsu, ma una tassa che farà pagare di meno ai virtuosi». Correva il 16 giugno 2011. Le migliori intenzioni sono crollate davanti alla realtà. L’Asia, la municipalizzata dei rifiuti, costa cara e non decolla (fra l’altro, l’ex presidente, Raphael Rossi, è stato destituito perché si oppose all’assunzione politica di 23 persone), la vera differenziata la fanno i rom che rovistano nei cassonetti in cerca di avanzi. L’ultimo dato lo ha fornito il 26 marzo 2013 il vicesindaco Tommaso Sodano: «La raccolta è al 26,5 per cento». La beffa è che Napoli «ha la Tarsu più cara d’Italia» certifica il centro studi della Uil. E con la Tares (in attesa di vedere che ne sarà), dal 1° luglio, sarebbe stato peggio: 507 euro annui per famiglia. Peraltro, se il centro città è relativamente pulito, le periferie soffocano nei miasmi. Varie ed eventuali Il 29 dicembre 2012 Napoli è rimasta al buio: un blackout di 36 ore ha oscurato le luci pubbliche (non quelle private). Fra le proposte di LdM, c’è quella di istituire un quartiere a luci rosse «modello Amsterdam». Giggino ha pure dato per scontato le visite a Napoli di Barack Obama e Al Pacino («Ciao Al» salutava su Youtube «ti aspettiamo»): nessuno dei due se l’è mai filato. La «società calcio Napoli» attende da mesi una parola definitiva sul futuro dello stadio San Paolo, ma non riesce a ottenerla. Nel frattempo l’Unesco, per bocca di Francesco Bandarin, ha lamentato «lo stato deplorevole in cui versa il centro storico di Napoli». Al Forum internazionale delle culture, in programma per luglio, «mancano 16 milioni, sede operativa e la struttura funzionale» (parola di Alessandro Puca, commissario straordinario del Forum). Pietro Russo, presidente della Confcommercio, denuncia invece che «a Napoli l’abusivismo mette a rischio la sopravvivenza delle imprese e dei posti di lavoro». Certo, a Napoli la disoccupazione è una piaga. Non per la cugina di LdM, assunta nello staff dell’assessorato allo Sport. Il fratello del sindaco è invece consulente gratuito del sindaco, stipendiato dall’Italia dei valori, il partito del sindaco. E pensare che De Magistris teorizzava la gestione del bene comune su un modello pregrillino: la cosiddetta democrazia partecipativa. Poi, però, ha accentrato su di sé (e sul fratello) tutto il potere, cacciando dalla giunta gli assessori scomodi: in un anno e mezzo ne ha già sostituiti otto. Il risultato è che i napoletani non sopportano più il loro primo cittadino. Gliel’hanno urlato in faccia e nelle urne. De Magistris è entrato da socio fondatore nella Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, che a Napoli ha ottenuto, tutto compreso (dall’Idv a Prc), il 3,1 per cento. Alle amministrative del 2011 Giggino superò il 65 per cento al ballottaggio e il 35 al primo turno. Mollato Ingroia, il sindaco ha ricominciato a inveire contro camorra, governo nazionale, salotti buoni e persino settori della magistratura, tutti soggetti attivi di un presunto complotto controrivoluzionario. Ma è un teorema non credibile e il sindaco lo sa bene. Spera infatti di salvarsi dalla decapitazione politica (a Masaniello toccò quella materiale) con l’ennesimo rimpasto della sua giunta. Stavolta, però, dopo un accordo di legislatura con i capataz del Partito democratico. Gli stessi contro i quali, due anni fa, aveva scatenato l’apocalisse. È il destino dei poveri cristi. Ed ancora. La pista ciclabile, fiore all'occhiello (si fa per dire?) del sindaco di Napoli Luigi de Magistris  è finita nel mirino della Procura della Repubblica. Gli ex colleghi di Giggino 'a manetta - come dicono da quelle parti - stanno verificando se sia stata corretta la scelta dell'ex pm di allestirla con procedura d'urgenza. Già indagato per le buche della città, insieme all'ex assessore Anna Donati, il percorso di Giggino, da quando è stato eletto primo cittadino è irto di difficoltà (non solo giudiziarie). Proprio come la pista ciclabile incriminata, che durante il suo tracciato (poco frequentato dai ciclisti, a dire il vero) va a sbattere contro paletti oppure finisce davanti alle strisce pedonali.

"Vittima" di De Magistris, ex giudice si toglie la vita. Era pg di Catanzaro, fu prosciolto dalle accuse ma non si è più ripreso. Si è fatto praticare la dolce morte a Basilea, forse fingendosi malato, scrivono Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. L'ultimo viaggio sola andata l'ex procuratore generale aggiunto di Catanzaro Pietro D'Amico l'ha fatto da solo. È andato a togliersi la vita a Basilea, in una clinica che somministra la «dolce morte», il suicidio assistito. D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Ma era diventato un altro dopo esser stato indagato eppoi prosciolto per una storia partorita da quel mostro giudiziario che va sotto il nome di «Poseidone». Una delle fallimentari inchieste-spettacolo condotte da Luigi de Magistris ai tempi in cui, vestendo la toga di pm d'assalto in Calabria, dava la caccia ai fantasmi dei poteri forti e della massoneria deviata. D'Amico rimase imbrigliato nella rete a strascico lanciata dall'attuale sindaco di Napoli e dal suo consulente Gioacchino Genchi per catturare le immaginarie talpe che si muovevano nei sotterranei della Procura calabrese. C'è una strana «forza» che interviene nelle mie inchieste, andava ripetendo in quei mesi de Magistris, convinto di essere inviso a forze occulte. Oltre a D'Amico, finirono sott'inchiesta a Salerno l'ex pg Domenico Pudia, il capo dei gip Antonio Baudi, il carabiniere Mario Russo e l'ex procuratore Mariano Lombardi, scomparso un paio di anni fa. Furono tutti prosciolti. «Insussistenza della notizia di reato», insostenibile «fattispecie associativa» e «lacunoso impianto accusatorio» furono i termini usati dal giudice per demolire il teorema della fuga di notizie orchestrata dai massimi vertici del distretto giudiziario di Catanzaro. Eppure, nonostante la riabilitazione da quell'infamia subita dopo oltre trent'anni di onorata carriera, Pietro D'Amico non si è più ripreso. È entrato in depressione. Tra il disgusto e la rabbia agli amici aveva confidato: «Questa magistratura non mi merita», e si era dimesso. Era stato massacrato, ai tempi delle Grandi Inchieste di Giggino. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Era finito nel tritacarne investigativo di de Magistris e Genchi (entrambi oggi sotto processo a Roma per l'acquisizione illegale dei tabulati telefonici di otto parlamentari) per aver fatto due telefonate. Una al presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti (suo collega magistrato) della durata di venti secondi. Cronometrati. E l'altra all'allora deputato-avvocato Giancarlo Pittelli. Ecco, i sospetti su D'Amico nacquero così: per aver chiamato due futuri indagati di de Magistris. Il nome del procuratore generale aggiunto fece capolino anche nella vicenda che vide coinvolto l'allora capitano dei carabinieri Attilio Auricchio, braccio destro di de Magistris ai tempi di Catanzaro e oggi suo fedele capo di Gabinetto al Comune di Napoli. Fu D'Amico, infatti, a ottenere che l'ufficiale dell'Arma fosse punito per aver sbagliato a trascrivere una intercettazione telefonica in cui, al posto della parola «provveditore», era stato annotato «procuratore», con l'aggiunta (che nella conversazione originale non esisteva) del nome Chiaravalloti. D'Amico impugnò l'assoluzione nel procedimento disciplinare di primo grado e trascinò Auricchio davanti al gran giurì del ministero della Giustizia che ribaltò l'assoluzione e gli inflisse la censura. Ai pm che lo sentirono qualche tempo dopo, Auricchio rivelò che il ricorso di D'Amico era animato da «uno zelo sospetto». «Per l'allucinante inchiesta di Salerno, era entrato in una depressione nerissima», dice al Giornale l'ex governatore Chiaravalloti. «Era un buono, un uomo dolcissimo. Uno studioso, lontano dai giochi di potere. Visse quell'indagine come un torto personale che non è riuscito a superare». L'ex pg Domenico Pudia ricorda che D'Amico «da tempo, in seguito a quelle accuse, aveva perso il sorriso». Quell'indagine «finì come doveva finire, ma nonostante tutto lui non si è più ripreso. Ebbe una sorta di rigetto della magistratura e forse dei magistrati». «Finì nei guai perché parlava con me», sottolinea Giancarlo Pittelli. Che aggiuge: «De Magistris ha fatto del male a centinaia di persone che ho difeso. A me ha distrutto l'esistenza». Diceva di essere affetto da un male incurabile, D'Amico, così da poter ottenere il via libera al suicidio assistito. Ma più d'uno ne dubita. Il fratello ha saputo tutto solo a cose fatte, con una chiamata dalla clinica. «Se n'è andato un magistrato onesto, una persona perbene», commenta il coordinatore cittadino del Pdl partenopeo, Amedeo Laboccetta. «Tante sono le vittime del de Magistris pubblico ministero, tante sono quelle del de Magistris sindaco di Napoli. Il suo fallimento politico è sotto gli occhi di tutti. Altrimenti, non avremmo raccolto 20mila firme per le dimissioni in poche ore. La città vuole liberarsene. Ormai, deve andare via».

Tale madre, tale figlio: la signora De Magistris porta alla sbarra il Csm. Secondo la vedova il lavoro da giudice rese «invalido» il marito. Palazzo de’ Marescialli contro il risarcimento, scrivono Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Why not? In fondo, non sarà un risarcimento (in più) a mandare a picco la già disastrata previdenza italiana. È da sei anni che Marzia Russo, mamma dell’ex pm Luigi De Magistris, sta combattendo nelle aule di tribunale per intascare un po’ di soldi dallo Stato. Come? Cercando di ottenere dal Consiglio superiore della magistratura il riconoscimento di un equo indennizzo per l’infermità di cui era affetto il marito Giuseppe, magistrato - come Giggino – morto una decina di anni fa. Un’invalidità che la mamma del sindaco di Napoli imputa allo stress lavorativo del coniuge ma che il Csm non intende in alcun modo riconoscere. Lo strano braccio di ferro va avanti dal 2006, da quando cioè l’organo di governo delle toghe rigettò per la prima volta la richiesta della vedova. Secondo Palazzo dei Marescialli, non era provato che l’infermità potesse essere ricollegata all’attività di servizio di De Magistris senior, che nella sua lunga carriera di giudice s’era comunque ritrovato a occuparsi di importanti inchieste: da quella sulle «funi d’oro» del Teatro San Carlo (una storia di corruzione e appalti pilotati) a quella sul sequestro di Ciro Cirillo (l’ex assessore dc rapito dalle Br e liberato grazie al boss Raffaele Cutolo). La bocciatura del Csm non ha «disarmato» la mamma di De Magistris. Il secondo round è così andato in onda l’anno scorso, con il controricorso presentato al Tar Campania. Che, a sorpresa, ha ribaltato la decisione del Csm, dando ragione alla vedova De Magistris. Per i giudici amministrativi, infatti, lo stress lavorativo e le grosse responsabilità professionali cui era sottoposto il papà di Giggino avrebbero giocato un ruolo importante nello sviluppo della sua malattia. E, per motivare questo verdetto, i giudici campani si sono rifatti a una perizia tecnica d’ufficio che, nero su bianco, ha confermato: De Magistris senior è un caduto sul lavoro. Fine dei giochi, dunque? Nient’affatto. Gli ex colleghi del pm diventato famoso per le indagini flop «Toghe lucane» e «Poseidone» hanno ribadito che non ci pensano proprio a mettere la loro firma sotto il maxi-assegno richiesto dalla vedova. Il plenum di Palazzo dei Marescialli, nell’ultima riunione, ha chiesto all’unanimità all’Avvocatura dello Stato di presentare appello al Consiglio di Stato. La mossa di Palazzo dei Marescialli poggia su una duplice considerazione. Anzitutto, ci sarebbe un errore procedurale nel ricorso della vedova al Tar Campania, visto che le decisioni del Csm possono essere impugnate soltanto davanti al Tar del Lazio. Dunque, il Tribunale di «casa» non aveva alcuna competenza a pronunciarsi nel merito. Inoltre, il Consiglio superiore aveva l’obbligo di conformarsi al parere vincolante del Comitato di verifica per le cause di servizio. E il giudizio, in questa vicenda, era negativo. Nel 2008, Giggino fu protagonista di uno scontro al calor bianco proprio con il Csm che lo mise sott’inchiesta disciplinare (abortita per le dimissioni dall’ordine giudiziario) e lo trasferì per incompatibilità da Catanzaro a Napoli, con motivazioni severissime che parlavano di «insufficienti diligenza, correttezza e rispetto della dignità delle persone». Accuse che l’ex pm giurò di demolire «per dimostrare la correttezza del mio operato». Poi arrivarono l’Idv e l’elezione alle Europee, e Giggino si scordò della promessa. Prima lui, ora la madre. Maledetto Csm.

I FALSI PROFETI. LA MAFIA VIEN DALL'ALTO. IN TERRA DI ILLEGALITA’ NESSUNA TOGA O DIVISA PUO’ CHIAMARSI FUORI, PUR DECANTATI DA SOMMI POETI PARTIGIANI.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Gli effetti sono che c'è il terremoto negli uffici giudiziari di Napoli. Avvocati e cancellieri occultavano o manipolavano fascicoli processuali in cambio di mazzette, scrive “Il Corriere della Sera”. Ben ventisei ordinanze cautelari - tre in carcere, 22 ai domiciliari e una misura interdittiva - sono state eseguite su richiesta della Procura di Napoli contro un giro di illegalità scoperto negli uffici giudiziari partenopei. Sarebbero coinvolti quattro avvocati, alcuni cancellieri e un ispettore di polizia. Sono in tutto 45 le persone indagate. Una serie di perquisizioni sono state effettuate dalla Guardia di Finanza negli studi degli avvocati coinvolti e in alcuni uffici giudiziari. L'inchiesta ha portato in carcere due dipendenti della Corte d'Appello, Mariano Raimondi e Giancarlo Vivolo, ed un faccendiere, Vincenzo Michele Olivo. I quattro avvocati agli arresti domiciliari sono Giancarlo Di Meglio, Fabio La Rotonda, Giorgio Pace e Stefano Zoff. Diversi sono i boss che avrebbero beneficiato della sparizione dei fascicoli o di singoli atti. Agli atti ci sono intercettazioni e anche riprese video - delle telecamere installate negli uffici della corte d'Appello - che documenterebbero accordi e scambi di denaro tra cancellieri e avvocati coinvolti nell'organizzazione. Nelle ordinanze si ipotizzano, a vario titolo, le accuse di associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, violazione del segreto istruttorio, occultamento di fascicoli processuali ed accesso abusivo ai sistemi informatici. I reati sarebbero stati commessi in particolare presso la Corte d'appello e il Tribunale di Sorveglianza. Secondo la Procura, dall'indagine emerge uno schema ricorrente. I funzionari o commessi degli uffici giudiziari, su sollecitazione di avvocati o faccendieri, avrebbero compiuto interventi illeciti su alcuni fascicoli, sottraendo parte degli atti o occultandoli completamente, in cambio di denaro o altre regalie, in modo da condizionare il normale iter giudiziario. L'organizzazione avrebbe favorito anche imputati o detenuti per reati di camorra. Gli indagati avrebbero fatto sparire fascicoli o singoli atti, in modo da ottenere continui rinvii e approdare o alla scadenza dei termini di custodia cautelare, o alla prescrizione dei reati contestati. Dalle intercettazioni, sottolineano gli inquirenti, si evince l'esistenza di una vera e propria organizzazione, definita come «rete corruttiva». La misura interdittiva riguarda anche un consulente tecnico iscritto all'albo della procura e del tribunale: su incarico di un avvocato e dietro pagamento di mazzette avrebbe redatto perizie psichiatriche d'ufficio compiacenti a favore di un indagato gravato da numerosi procedimenti penali. Ai domiciliari è finito invece un ispettore di polizia del commissariato Vicaria-Mercato, che - in base alle risultanze delle indagini - avrebbe avuto il compito di sostituire le relazioni negative redatte dal commissariato su richiesta del tribunale di sorveglianza con false relazioni positive, al fine di far ottenere ai condannati provvedimenti favorevoli. Funzionari e dipendenti pubblici corrotti avrebbero stabilito «tabelle» per determinare l'entità delle mazzette da ricevere, differenziate in base al tipo di manipolazione di fascicoli processuali. Venivano chiesti più soldi, naturalmente, quanto più spinoso o scottante era il fascicolo da inquinare. Visto il sistema collaudato, in alcuni casi sarebbero stati gli stessi dipendenti degli uffici giudiziari a sollecitare le attività illecite, proponendo ad avvocati e faccendieri delle ipotesi «interessanti» per i loro clienti e stabilendo il prezzo per ciascuno dei «favori» proposti. Il tariffario era fin troppo preciso: millecinquecento euro per ogni intervento su un fascicolo processuale per ottenere rinvii; ben 15mila euro, invece, per un ritardo di trasmissione degli atti che consentisse di evitare la fissazione immediata dell'udienza. La tabella per le manipolazioni emerge da uno dei numerosi episodi accertati dalla Guardia di Finanza e ricostruiti nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Paola Scandone al termine delle indagini sulla manipolazione dei documenti in alcuni uffici giudiziari di Napoli (che hanno portato stamane a 26 arresti, di cui 3 in carcere). Indagini delicatissime coordinate dai pm Antonella Fratello e Gloria Sanseverino. Il caso in questione riguarda l'insabbiamento del processo a carico di Francesco Troia. Gli intermediari Vincenzo Michele Olivo e Francesco Di Matteo si accordarono - secondo gli inquirenti - con due dipendenti della Corte d'Appello, Giancarlo Vivolo e Mariano Raimondi, affinché il procedimento riguardante Troia, condannato in primo grado, fosse assegnato, in seguito ad impugnazione, alla V sezione della Corte d'Appello in cambio di 1500 euro. Un nuovo accordo, costato 15.000 euro, consentì di ritardare la trasmissione degli atti al presidente della sezione per evitare una fissazione immediata dell'udienza; fissata finalmente l'udienza, fu pattuita la somma di 1.500 euro per ogni ulteriore intervento sul fascicolo (occultamento o sottrazione) per ottenere rinvii.  Nella vicenda riguardante Giuseppe Lampitelli è coinvolto anche un agente di polizia in servizio al commissariato Vicaria - Mercato. In occasione dell'udienza del 20 ottobre 2011, nella quale il Tribunale di Sorveglianza doveva valutare l'affidamento in prova di Lampitelli ai servizi sociali, il poliziotto redasse e trasmise una falsa relazione e un dipendente del Tribunale di Sorveglianza la inserì - sempre secondo l'accusa - nel fascicolo, sottraendo contestualmente quella autentica.

E non è tutto. Vigili e abusivi in combutta, polemiche per il servizio di Striscia  scrive Viola Montemare su “L’Espresso on line”, con l’epilogo del 15 gennaio 2013 con l’intervista al Comandante. "Vigili e abusivi, che strana parentela. Ma, intanto, mi dice il cittadino chi lo tutela?" Questa è la filastrocca scritta sulla famosa pigna consegnata da Luca Abete, inviato di Striscia la Notizia, ad un vigile urbano di Napoli dopo aver filmato un curioso "briefing organizzativo" tra lo stesso ed un parcheggiatore abusivo. Il video è andato in onda nella puntata dell'8 gennaio 2013. Scatenando numerose polemiche. Il tutto parte dalla segnalazione da parte di un ragazzo che si era recato qualche giorno prima a un concerto ed aveva avuto modo di riscontrare come decine e decine di parcheggiatori abusivi operassero indisturbati sotto gli occhi indifferenti delle forze dell'ordine. Tra l'altro, come denuncia il ragazzo, i parcheggiatori abusivi si premuravano anche di avvertire i clienti che in mancanza di pagamento le auto avrebbe potuto subire qualche danno. Una minaccia bella e buona, sventolata sotto il naso della polizia municipale. Abete chiede immediatamente al ragazzo quanto avesse dovuto sborsare per il servizio abusivo e non richiesto. "Cinque euro – risponde nel video il ragazzo, e aggiunge, - e pensa che al concerto c'erano almeno mille macchine, per cinque euro, fai un po' tu i conti". Sì, li facciamo i conti. Più di cinquemila euro in una sera. Un bel guadagno. Un guadagno facile. E sotto gli occhi dei vigili urbani.
"E dopo aver litigato con il parcheggiatore abusivo, speravo di trovare un po' di giustizia dai vigili che erano lì, ma quando ho segnalato la cosa loro hanno minimizzato la situazione e quando ho provato ad insistere sono stato apostrofato in malo modo e spinto per farmi allontanare". Rivela il ragazzo. Dopo la segnalazione Abete corre a verificare la cosa. Nel video lo si vede parcheggiare, sul marciapiede naturalmente, per poi essere immediatamente raggiunto dall'abusivo di turno che sciorina tariffe e minacce. "Sono cinque euro", dice. E quando il potenziale cliente gli chiede se è un parcheggiatore del Comune, il parcheggiatore rivendica fiero la sua identità. "Siamo abusivi ma le guardiamo le macchine, - dice – anzi noi guardiamo le macchine e quelli del Comune no. Hai capito come funziona?" Ma parcheggiare sui marciapiedi non implica sanzioni? No, e l'abusivo si affretta a rincuorare sull'esemplare stoicismo dei vigili urbani. "Questo mi hanno detto, lavora e non farti vedere". E difatti subito dopo il video mostra il bizzarro briefing tra un vigile urbano e un parcheggiatore abusivo. "Come la vediamo questa serata"? Chiede l'abusivo. "Deve venire il Sindaco, non è una buona cosa", risponde vagamente sfiduciato il vigile. "Dopo più in là posso cominciare? Non davanti a voi però, comincio dal secondo palo cosi voi non mi vedete proprio...così mangiamo tutti quanti", insiste il parcheggiatore. "Stammi a sentire – fa il vigile – non fare il secondo, fai il terzo palo, vedi di partire da là e man mano vieni qua. Ammacchiateve, ammacchiateve malamente". Nascondetevi, nascondetevi bene. E quando Luca Abete interviene per ricevere spiegazioni a tutela di tutti i cittadini gli urbani si lanciano in rampicanti negazioni. La storia dei parcheggiatori abusivi a Napoli, si sa, è una piaga perenne. Ma quando chi dovrebbe combatterla per mestiere vi si associa in una strana parentela appunto, come si fa ad uscirne? Chissà cosa avrà detto il Sindaco nell'avvedersi di come è percepita la sua ingombrante presenza da alcuni "suoi" agenti della municipale. "Deve venire il sindaco, non è una buona cosa".

Mal di Napoli, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Trasporti. Spazzatura. Nomine. In città è sempre emergenza. E crolla la fiducia in De Magistris. Il più duro è il maestro Roberto De Simone. Il nome di Luigi De Magistris non viene mai fatto, eppure nella lettera che il musicologo ha spedito all'amico Giorgio Napolitano l'obiettivo è proprio lui. Il sindaco arancione. Il maestro parla di Napoli definendola «una malsana città diventata invivibile», e scrive di«gestioni artistico culturali» ormai in «condizioni degradate», «di sfrontato clientelismo istituzionale», «di inefficiente funzionalità delle strutture cittadine», «di marciume morale»,persino «di un neofascismo - peggiore di quello storico - che promuove solo il radicalismo della superficialità». Il regista de "La gatta Cenerentola" forse esagera, ma non è l'unico sotto il Vesuvio a pensarla così. Nel 2011 De Magistris stravinse le elezioni da outsider promettendo di rilanciare un capoluogo messo in ginocchio dalla vergogna delle montagne di immondizia, dalla criminalità dilagante e dall'immobilismo della giunta di Rosa Russo Iervolino. All'inizio del 2013 la rivoluzione di Gigi, come lo chiamano gli amici del Vomero, sembra però aver già segnato il passo, con la città intera che - tra blackout che durano 36 ore, degrado urbano e scioperi selvaggi a catena - mostra ogni giorno il fiato più corto. Non è un caso che nell'annuale sondaggio del "Sole 24 Ore" sul consenso dei sindaci l'ex magistrato sia passato dal primo al 17esimo posto - dal 70 al 59 per cento - perdendo ben 11 punti rispetto all'anno precedente. In Italia peggio di lui fa solo il vendoliano Massimo Zedda a Cagliari, mentre il rivale Vincenzo De Luca, vicerè di Salerno, è schizzato primo in classifica. «Il sindaco ha fallito. Si muove come Bassolino, pensa solo all'effimero e ai grandi eventi come la Coppa America. E' un flop pazzesco» chiosano ex supporter che a "l'Espresso" giurano di averlo votato. «E' un capopopolo, uno che usa la fascia tricolore solo per la ribalta nazionale del movimento che ha fondato con Antonio Ingroia», attaccano gli intellettuali che a fine dicembre si sono incontrati all'Istituto degli studi filosofici per sfogare il loro disappunto. «De Magistris confessi le sue gravi responsabilità», ha rincarato pure la Cisl, che qualche giorno fa in un j'accuse durissimo ha insinuato di «gare negoziate per gli amici degli amici» e di «spazi pubblici assegnati senza delibere». Dopo nemmeno due anni dal trionfo elettorale, da quell'«abbiamo scassato!» urlato a Piazza Plebiscito davanti al popolo accorso per applaudirlo, il nuovo Masaniello deve fare dunque i conti con la delusione crescente dei napoletani. Stanchi di una città che resta invivibile e di uno stile di governo bonapartista, poco incline al dibattito e a volte distratto da ambizioni politiche nazionali. Difetti che gli stanno alienando le simpatie anche di chi, tra industriali, associazioni e intellettuali, credeva in lui. La Curia l'ha abbandonato già la scorsa estate, quando l'ex magistrato lanciò l'idea - rimasta come altre solo un titolo di giornale - di istituire un quartiere a luci rosse modello Amsterdam. Governare Napoli, una delle metropoli più difficili e complesse d'Europa, non è semplice per nessuno. Soprattutto quando non c'è un euro in cassa, con debiti pregressi che superano il miliardo e mezzo di euro e un disavanzo che si aggira sugli 850 milioni. Eppure gli errori imputati al sindaco e alla sua giunta non sono pochi. Andiamo con ordine, partendo dal "lungomare liberato", grande intuizione che ha trasformato via Caracciolo in un'immensa area pedonale, una passeggiata spettacolare che lascia a bocca aperta i turisti (tornati ai livelli del periodo pre-monnezza) e i napoletani che l'affollano soprattutto nel week end. Epperò la ztl (che non ha alcun servizio ed è assai degradata nella parte verso Mergellina) ha completamente scardinato il delicato equilibrio urbano della città. Il traffico impazzito ha trovato sfogo nelle altre arterie dietro la Villa Comunale, congestionandole tutte. «Basterebbe aprire l'isola agli autobus», chiedono i commercianti che attaccano «il fanatismo» dell'ex pm. «La gente si deve abituare, noi andiamo avanti, nessun cambiamento», risponde caustico il primo cittadino, che non vuole rinunciare alla sua cartolina (dal punto di vista mediatico via Caracciolo sta a De Magistris come piazza Plebiscito stava a Bassolino) e spinge i cittadini a usare la bicicletta. Proprio la realizzazione di nuove piste ciclabili, infatti, è un altro fiore all'occhiello della giunta arancione. Di ciclisti, però, se ne vedono ancora pochini. Sia perché Napoli è arrampicata sulla collina sia perché pedalare sui nuovi percorsi somiglia molto a una via crucis: gran parte della «ciclabile più lunga d'Europa» è stata creata semplicemente dipingendo sui vecchi marciapiedi sconnessi l'immagine di una bicicletta, mentre i tratti nuovi di zecca sono interrotti ogni dieci metri da incroci, buche e scooter in sosta selvaggia. Il filosofo Biagio De Giovanni s'è sfogato sul "Mattino" ragionando di «una città immobile» dove «muoversi è impossibile. Basta tentare di prendere un autobus per verificare come non ci sia più il diritto alla mobilità». Già: le nuove ztl non sono state accompagnate da un potenziamento dei mezzi pubblici. Al contrario gli autobus dell'Anm sono rari come un vascello fantasma. Alcune linee come quelle che collegano Posillipo vantano record d'attesa di 30, 40 minuti, altre (come l'R2) sono affollate come bus indiani. Mentre i treni della Cumana e della Circumvesuviana (entrambe controllate da società della Regione comandata da Stefano Caldoro) sono al collasso, con scioperi selvaggi quotidiani (i dipendenti non vengono pagati regolarmente), decine di corse saltate e pendolari in costante crisi di nervi. Anche se si sceglie di prendere il taxi non c'è scampo: in mezza città a causa di cantieri e ztl le corsie preferenziali sono praticamente scomparse. «Raggiungeremo il 70 per cento di raccolta differenziata entro il 2011», giurò Gigi prima e dopo la sua elezione. Sono passati quasi due anni, è a Napoli il tasso è fermo (come ha rivelato qualche settimana fa il vicesindaco Tommaso Sodano) a un misero 25 per cento, poco più di quanto raggiunto dalla Iervolino negli anni migliori della sua gestione, mentre il porta-a-porta funziona bene solo a Scampia e Posillipo. Le montagne di immondizia non ci sono più, Napoli è più pulita grazie alla nave che porta i rifiuti negli inceneritori olandesi e, in massima parte, ai siti che in Puglia e in Emilia Romagna accolgono i rifiuti prodotti dai napoletani. L'emergenza però non è affatto scongiurata: a Natale cumuli di spazzatura sono tornati ad appestare il Vomero e Fuorigrotta, la multa europea pende come una spada di Damocle, mentre un vero ciclo integrato resta un miraggio: le discariche sono piene, gli impianti di compostaggio non sono stati fatti (Comune, Provincia e Regione non sono nemmeno riusciti a mettersi d'accordo sulla localizzazione), gli stir e il sito di trasferenza scoppiano e la Tarsu - la tassa sull'immondizia - resta la più alta d'Italia. De Magistris polemizza con il governo e scarica le responsabilità sugli altri enti, spiegando che lui, di più, non poteva fare. Di certo, invece, il pasticcio della refezione scolastica sembra farina della sua giunta. A Napoli da settembre i bambini che frequentano asili ed elementari non hanno infatti più la certezza di avere un pasto sicuro (in alcuni istituti va a singhiozzo anche il riscaldamento). Un disservizio causato - attaccano le associazioni delle famiglie - dall'incapacità organizzativa di Annamaria Palmieri, l'assessore all'Istruzione che a cinque mesi dall'inizio dell'anno scolastico non è ancora riuscita a risolvere il problema. Il caos-pranzi (con genitori a volte chiamati a prendere i pargoli mentre stanno già al lavoro) è dovuto a più elementi: se il bando europeo è stato presentato troppo tardi (la gara è stata assegnata solo durante le feste natalizie) e gli infiniti passaggi burocratici tra un ufficio e l'altro hanno rallentato l'iter, l'assunzione da parte del Comune di 317 maestre precarie necessarie a garantire il tempo pieno è avvenuta solo a novembre inoltrato, dopo un estenuante braccio di ferro tra lo stesso De Magistris e l'ex city manager Silvana Riccio. Prefetto di ferro ed ex capo dell'Ufficio dell'Alto Commissario per il contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione, la Riccio - chiamata dal sindaco in persona nel 2011 - è stata cacciata proprio per aver espresso dubbi sulla stipula dei nuovi contratti. Non per cattiveria, ma per paura di un intervento (praticamente certo) della Corte dei conti: nel 2012 il Comune -dopo aver assunto ben 346 netturbini senza alcuna gara pubblica -aveva già sfondato il tetto di spesa previsto per il personale. Come certificato da una dettagliata relazione degli ispettori del ministero dell'Economia, che (come ha scoperto "Repubblica Napoli") ha bocciato senz'appello i conti della municipalizzata, mentre i magistrati contabili hanno già definito «illegali» le assunzioni all'Asia, l'azienda per la raccolta rifiuti. La Riccio non è l'unica ad aver perso la poltrona. De Magistris ha fatto secchi quasi tutti i collaboratori più importanti, un tempo fiore all'occhiello della sua rivoluzione. Chiunque critica il capo, perde il posto: l'ex presidente dell'Asia Raphael Rossi è stato sostituito perché si oppose all'assunzione (giudicata «inutile») di 23 persone; Roberto Vecchioni rinunciò a presiedere il Forum delle Culture per una polemica legata al compenso, mentre nel 2012 sono stati "dimessi" o fatti "dimissionare" pezzi da novanta come l'assessore alla legalità Giuseppe Narducci e quello al Bilancio Riccardo Realfonso. Quest'ultimo fu assessore al Bilancio anche della Iervolino, l'uomo che dunque meglio conosceva i conti disastrati del Comune, tanto da aver spinto il sindaco a ufficializzare il dissesto. «Luigi? Vuole portare avanti una politica di consenso populista basata sulle passerelle mediatiche» disse in un'intervista al "Fatto" dopo la defenestrazione. «Bisognava riorganizzare la macchina comunale, fare tagli severi alle spese, le società partecipate sono da rivoltare come un calzino: il sindaco, disattento o ostile, non mi ha seguito». Oggi De Magistris comanda praticamente da solo: gli unici che ascolta sono suo fratello Claudio, consulente (a titolo gratuito) di tutti gli eventi culturali organizzati in città; il capo di gabinetto Attilio Auricchio (ex carabiniere e vero uomo forte che dallo scorso giugno guida pure la polizia municipale: il vecchio comandante non è stato riconfermato) e il presidente della Camera di commercio Maurizio Maddaloni (diventato vicepresidente del San Carlo). Finora la politica culturale dei fratelli De Magistris non sembra aver lasciato segni importanti. I soldi destinati al marketing territoriale sono stati spesi quasi tutti per l'organizzazione della Coppa America (che di certo va annoverata tra i successi dell'amministrazione). Poi il nulla, o poco più. Al Pacino, che De Magistris aveva invitato con un video diventato cult su YouTube, non s'è fatto mai vedere. Bruce Springsteen, a cui è stata concessa gratuitamente piazza Plebiscito per un concerto (a pagamento), dovrebbe arrivare a maggio. Di grandi mostre nemmeno l'ombra, il museo Pan è in crisi, il Madre (della Regione) idem, in periferia non è stato organizzato alcunché di rilevante, la scena teatrale è in affanno. A Capodanno nella mega-discoteca di via Caracciolo hanno ballato in 300 mila, ma il boom della tecno non cancella le preoccupazioni sul destino del Forum delle Culture. La manifestazione di cui si discute da anni dovrebbe iniziare tra poche settimane, eppure il sito Internet non esiste ancora, né un programma ufficiale è stato mai presentato al pubblico. Dalla fondazione omonima si sono dimessi a raffica consiglieri e presidenti, e ora - visto che Regione e Comune non trovano un accordo - c'è il rischio che del Festival si occupino i giudici del Tar. Lo spread tra promesse fatte e quelle davvero mantenute è una delle cause principali del calo di consensi del sindaco. Per il rilancio di Bagnoli e Napoli Est non è stata messa alcuna risorsa, le strade sono sfasciate come sempre, i decumani del Centro storico restano preda di bancarelle e vu cumprà. Anche nel quartiere simbolo di Scampìa nulla è cambiato: omicidi, bombe e sparatorie scandiscono da mesi la quotidianità degli abitanti, la sicurezza resta un miraggio quasi ovunque. «Sono stufo dei soliti cliché» ha ribattuto il sindaco, «bisogna parlare anche delle cose che funzionano». Una recente delibera del Comune promette l'arrivo sotto le Vele di vigili urbani, stazioni della metro e sedi universitarie, «ma la copertura finanziaria non c'è»commenta laconico Giovanni Zoppoli dell'associazione Mammut, che come altre realtà di volontariato dall'inizio della consiliatura aspetta di ricevere soldi promessi che non arrivano mai. «De Magistris, va detto, è più presente sul territorio di altri predecessori. Ma è una presenza solo simbolica, senza soldi la sua delibera è un libro dei sogni». Se le tasse locali restano troppo alte e creano malcontento dal basso, la democrazia partecipativa che doveva realizzarsi nelle "assemblee del popolo" non è mai partita: non a caso è dato per certo che l'assessore ai Beni comuni Alberto Lucarelli e quello alle Politiche sociali Sergio D'Angelo saranno candidati al Parlamento. Dovesse accadere, le critiche si sprecheranno: sono in tanti a mugugnare sulle ambizioni nazionali del sindaco e il suo cerchio magico, impegnati sia sul fronte Napoli che nel partito capeggiato da Antonio Ingroia. «Troppi errori, troppe delusioni»ripetono gli scontenti. Che cominciano a sospettare che la favola della "liberazione" cantata da De Magistris sia stata solo un fortunato slogan propagandistico, e temono che la speranza di un nuovo Risorgimento rischi di cedere il passo - ancora una volta -allo sconforto, alla rassegnazione e alla rabbia.

Scampia, prigionieri dell'inferno, scrive Duccio Giordano su “L’Espresso”. Alcuni abitanti del quartiere contro Gomorra 2, la fiction ispirata al libro di Roberto Saviano. Dopo 'Romanzo Criminale', ambientato a Roma, Sky ci vuole riprovare con 'Gomorra 2', fiction ovviamente ispirata al libro di Roberto Saviano e ambientata a Napoli. Ma, secondo alcuni abitanti del quartiere Scampia, ci sarebbero alcune sostanziali differenze tra i due progetti: la prima è che a Napoli in questo momento si muore sul serio e nel 2012 la camorra, quella vera, sul territorio campano ha portato a termine più di 50 omicidi. Solo a Scampia negli ultimi mesi si viaggia con una media di circa un morto a settimana. La seconda è invece di carattere sociologico. Il quartiere che ospita il set delle Vele è tra i più popolosi della città. Tra regolari e occupanti, si stima ci vivano più di 70 mila persone. Più del 75 per cento per cento di queste è attualmente senza lavoro. Tale dato ha regalato al quartiere il primato del più alto tasso di disoccupazione di tutta Italia. Attualmente sono ferme anche le piazze di spaccio. Il poderoso giro di stupefacenti che prima veniva smerciato tra le Vele di Scampia e Secondigliano adesso, con la presenza quotidiana delle forze dell'ordine sul territorio, ha incontrato una battuta di arresto e forse si è spostato verso quartieri periferici che non si trovano sotto l'occhio del ciclone a causa della 'faida'. Angelo Pisani, presidente della Municipalità si è per il momento rifiutato di concedere alla produzione i permessi necessari per eseguire le riprese a Scampia e ha indetto una assemblea per coinvolgere direttamente i cittadini del quartiere. All'assemblea che si è tenuta allAuditorium di Scampia, i partecipanti hanno trovato uno striscione attaccato al tavolo del dibattito con lo slogan 'SCAMPIAmoci da SAVIANO'. L'autore si chiama Alfredo Giacometti, imprenditore locale che ha deciso di far ricadere su Saviano anziché sulla malavita organizzata la responsabilità dei mali del suo territorio. Per Pisani lo striscione «non offende nessuno, al massimo si è fatta della satira». In sala a rappresentare la Cattleya e Sky cera anche Gianluca Arcopinto che a 'l'Espresso' ha spiegato di essere rimasto sbalordito dallo striscione ingrato nei confronti di Saviano. Il rappresentante di Sky ha comunque cercato di mediare e di rasserenare gli animi lasciando intravedere al presidente Pisani ampi margini di trattativa sia sulle scelte delle location sia su una eventuale revisione delle sceneggiature.

A Scampia ho visto gli zombie, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. L'inviato de "L'espresso" ha vissuto una settimana nel quartiere della camorra. Fra i disperati che ogni giorno arrivano da Napoli per procurarsi la droga. Chiòve, chiòve, mannaggia 'o muorto quanno chiove. La tramontana ha lucidato il cielo sopra Napoli. Ma quaggiù gli uomini gridano come se arrivasse il temporale. Un trentenne appare al cancello arrugginito della Vela Gialla, un triangolo verticale di appartamenti anni '80, 15 piani con gli ascensori rotti e i tubi che gocciolano un po' dappertutto. «Chiòve», piove, grida ancor più forte, sfilandosi dal volto abbronzato gli enormi occhiali da sole. E dalla Vela Rossa, il condominio scrostato lì di fronte diverso solo nel colore, salgono altre grida. Finestre e ballatoi si riempiono di spacciatori e sentinelle, loggionisti in questo spettacolo allucinato che sfila sotto di loro. Si cammina senza guardarsi intorno. Ogni piccola occhiata a destra o a sinistra scatena altri passaparola: «Chiòve, chiòve», urlano dall'alto. La curiosità non è ammessa quando si entra nella fabbrica di soldi che il clan Di Lauro ha allestito a Scampia. Bisogna aver pazienza in coda, lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe come gli schiavi davanti al loro signore. Si paga. Si ritira la bustina di eroina. E si va via. L'unico modo per vivere qualche giorno qui, e uscirne indenni, è unirsi agli Intoccabili: il livello più basso della casta della camorra, i più disperati in questa Calcutta tutta italiana. Sono i tossicomani che ogni mese rovesciano milioni di euro nelle casse del clan: 8 mila, ma è solo una stima della Asl, gli eroinomani napoletani. Poi ci sono quelli che vengono dalla provincia, da tutta la Campania, perfino da Roma. Sono gli unici ad affollare le strade del quartiere, in questi giorni di guerra infinita tra scissionisti e bande fedeli al boss. Tonino, forse 25 anni, intoccabile lo è davvero. L'ultima roba se l'è iniettata sul dorso delle mani e le infezioni gli hanno aperto piaghe che continuano a lacrimare sangue. Mimmo, la faccia ancora da adolescente, si nasconde i buchi sulle braccia con maglioni di lana spessa. Gli altri tre compagni di viaggio li seguono in silenzio. Insieme, ora camminano in fila verso il retro del caseggiato, la dose appena comprata nascosta nei risvolti del giubbotto. Passi brevi, nervosi. E lo sguardo sempre basso. Ci sono più siringhe usate che cicche di sigarette sui marciapiedi di Scampia. Le scarpe di Tonino calpestano all'improvviso il suo volto, sulle schegge di uno specchio abbandonato. Gli altri già corrono impazienti. E' pieno di rifiuti tutt'intorno. Si attraversa una strada e ci si butta in un grande fossato. Non si vede niente, finché non ci sei dentro. Un alberello, la recinzione di un cantiere a sinistra, il muro che protegge un parco giochi sempre chiuso, un tappeto di aghi, bustine, confezioni, fiale rotte, un debole falò. E in mezzo, 22 persone. Tre stanno ancora scaldando la dose sul fuoco. Gli altri sono impietriti, gli occhi spalancati, la bocca semiaperta, le ginocchia piegate. Un lentissimo movimento li porta sempre più vicini all'erba. Sulla strada appena sopra, passano due auto della polizia. Si buttano nel fossato altri tossicomani, srotolano le bustine di eroina. Subito dietro, li seguono due ragazzi in piena forma. E infatti non sono venuti a drogarsi: sono spacciatori scesi a controllare. Parlano con tutti i loro clienti ancora capaci di rispondere. Domande in napoletano stretto. Meglio inginocchiarsi, rannicchiarsi, fingere di non sentire. Uno dei due tira un calcio. Nessuna risposta. «Chisto è fatto», dice ridendo. Anche Tonino si è afflosciato sull'immondizia che lo circonda. Gli mancano pochi centimetri per finire a faccia in giù. Non aveva la siringa, ne ha raccolta una usata e adesso la sua mente è persa nell'effetto dell'eroina. Non c'è un'ora precisa per vedere gli zombie che camminano lungo le strade di Scampia. Basta prendere l'autobus R5 in piazza Garibaldi a Napoli, davanti alla stazione Centrale. Quarantacinque minuti per arrivare al feudo del clan Di Lauro. Una corsa ogni 20 minuti, dalle 5.30 a mezzanotte. E ogni corsa ha il suo carico di disperati. Chi ha raccolto nella notte i soldi con furti e rapine, si mette in viaggio già all'alba. Gli altri li seguono dalle dieci in poi. Il pomeriggio si uniscono gli studenti. Facce insospettabili, allegre all'andata. Stonate al ritorno. Avanti così, tutti i giorni. Il sabato e la domenica i ragazzi in cerca di droga sono addirittura la maggioranza dei passeggeri. Li riconosci dagli occhi gonfi, ma soprattutto dai discorsi. Il passaparola su chi vende la qualità più forte, il taglio più scadente, o il retroscena sull'ultima esecuzione in strada. Non parlano solo di eroina. Perché lassù, tra i palazzoni controllati dalla camorra, si compra anche cocaina e cobret, l'eroina da fumare come il crack. L'autobus si è appena infilato in corso Novara, la salita subito dopo la stazione, e già il viaggio si fa movimentato. Carmela, 41 anni, si alza in piedi e con tutta la voce che ha nei polmoni invita i tossicomani a pregare la Madonna e ad ascoltare Radio Maria. Una cantilena che non sembra convincere i ragazzi seduti in fondo. Qualcuno ride. Domenico, il più giovane del gruppo, risponde alle domande della predicatrice: «Ho vent'anni, vengo da Benevento, perché ti interessa?». Lei insiste con altre domande. «Vado a Scampia, sì, e allora? Faccio un giro con gli amici». Gli manca mezzo indice dalla mano sinistra: «Un incidente sul lavoro, facevo il carpentiere in Toscana». «E adesso vieni a Napoli a comprare droga?», chiede Carmela. Lui non risponde. Lei gli offre un libro di preghiere del papa. «Ma cosa me ne faccio?», replica il ragazzo.«Solo 7 euro: è il biglietto per il viaggio verso la tua salvezza»,insiste lei. Ma Domenico non le dà più ascolto. I soldi che ha in tasca sono destinati ad altri viaggi. L'R5 arranca nel traffico di corso Secondigliano. Nei finestrini scorrono le facciate squadrate delle Case celesti. Proprio lì davanti, il 15 gennaio, è stata uccisa Carmela Attrice, 47 anni: condannata a morte perché mamma di Francesco Barone, uno dei capi degli scissionisti. Le avevano chiesto di andarsene ad abitare altrove, in ossequio alla pulizia etnica decisa dal clan Di Lauro. Ma Carmela Attrice non ha voluto lasciare la sua casa. Poco dopo ecco via Monte Rosa, via Fratelli Cervi, via Ghisleri, via Baku. Omicidi, sparatorie, un corpo decapitato fatto ritrovare dentro un'auto in fiamme. Gran parte degli agguati porta il nome di queste strade: 54 morti finora, una decina di feriti e un quartiere completamente sconquassato, anche se i finestrini dell'autobus non mostrano nulla di diverso dai giorni della pace criminale. Le vedette e gli spacciatori sono sempre ai loro posti. Sotto i portici dei palazzoni del lotto T. Davanti ai piccoli condomìni che qui chiamano le Case dei Puffi. Perfino di fronte all'ingresso del Sert, il servizio sanitario che dovrebbe sottrarre i tossicomani all'eroina. A volte non si vedono, ma basta guardare meglio per scoprire che si è sempre sotto lo sguardo di qualcuno. Le tre Vele, rossa, gialla e celeste, arrivano subito dopo, in via Labriola. Domenico e gli altri passeggeri seduti in fondo all'R5 scendono qui. Mani in tasca e passi veloci, sfilano davanti a due poliziotti che stanno controllando il bagagliaio di un'auto. Da una sentinella nascosta sale il grido che annuncia l'arrivo di estranei: «Chiòve». E il gruppo sparisce in uno dei palazzi. Polizia e carabinieri da settimane fanno controlli a campione. Fermano auto. Verificano documenti. Quasi ogni giorno sequestrano dosi, proiettili e pistole. Anche bombe a mano, nell'ultima settimana: segno che nella loro guerra, i clan sono pronti a tutto. Da queste parti perfino l'applicazione del codice della strada diventa una sfida tra Stato e camorra. «Ai posti di blocco»,racconta un agente, «chi va in moto senza casco viene fermato e multato». Una banalità a Roma e Milano. Ma a Scampia gli spacciatori bloccano chi si avvicina con il casco in testa. Il loro è semplicemente un consiglio: meglio toglierselo se non si vuole correre il rischio di essere scambiati per killer avversari. Con chi stare? Una scelta quotidiana quando si vive da queste parti. Un confronto che condiziona il comportamento già dalla scuola. Il bullismo è considerato un problema normale nella crescita dei ragazzi. Ma qui rischia di essere l'anticipazione di un consenso alla camorra: la massima espressione di un sistema regolato dalla legge del più forte. Alcuni insegnanti della zona hanno distribuito un questionario nelle classi delle medie. Tra le domande, c'era anche questa: «Nella vita bisogna essere prepotenti?». Il 66,3 per cento degli studenti ha risposto di sì, anche se «solo in certi casi». La violenza è spesso una regola di sopravvivenza fuori della scuola. E la difficoltà più grossa diventa proprio seguire i bambini delle elementari e i ragazzi più grandi quando tornano a casa. Un gruppo di volontari della Comunità di Sant'Egidio ci ha provato 25 anni fa. E l'esperienza sta ancora funzionando. Si chiama Scuola della pace. Una volta alla settimana i bambini del quartiere, anche quelli che vivono nei rioni più dimenticati, si improvvisano maestri per i bimbi di un vicino campo rom. O assistenti, il sabato pomeriggio, per gli anziani di un istituto della provincia. «Coinvolgere questi ragazzini a prendersi carico degli anziani o dei bambini più poveri di loro», spiega Enzo Somma, 40 anni, insegnante a Secondigliano e coordinatore del progetto di Scampia, «aiuta a crescere con un'idea della vita diversa. Noi vogliamo far capire che la felicità non è solo legata al successo e alla forza, ma è anche far felice qualcuno che sta peggio. Vogliamo far capire ai bambini di Scampia che la loro vita non è irrilevante, ma è importante. Abbiamo bimbi che a scuola vanno male, ma davanti agli anziani scoprono un altro volto di loro stessi». «L'irrilevanza della vita è la nostra battaglia quotidiana»,racconta Goffredo Miano, 42 anni, sociologo e dirigente del Sert di Scampia, il servizio per le tossicodipendenze: «I ragazzi che curiamo sono i bambini di ieri che non hanno trovato spazio nella loro vita. Spacciatori e tossicomani alla fine provengono dallo stesso ambiente. Qualche giorno fa è venuto qui un ragazzo e mi ha detto: dottore, io faccio il muratore e guadagno mille euro al mese, mio fratello si è messo a spacciare e si prende 500 euro al giorno. Quando uno si fa certe domande è perché nella sua testa sta prendendo delle decisioni: o diventano spacciatori o magari tornano a drogarsi». Come Francesco, 35 anni, un viaggio sull'autobus R5 da Napoli a Scampia passato a spiegare agli amici come era riuscito a smettere, una volta. Adesso è alla fermata di via Ghisleri con le vene piene di eroina: «Francé, mannaggia», urla l'amico che lo accompagna e lo prende a schiaffi: «Mannaggia, Francé, svegliati».Lui apre gli occhi, li richiude e si addormenta di nuovo. Altri due ragazzi si stanno afflosciando come Francesco all'incrocio di via Baku. Altri quattro illuminati dai lampioni, sul lato opposto della strada. E' ormai tardi, i due bar e l'unica pizzeria dell'isolato sono rimasti deserti tutta la serata. Scampia è così da quando si è cominciato a sparare. Restano in giro solo facce allucinate dalla droga. Stesse scene al capolinea degli autobus. Una fermata buia tra due muraglioni di cemento armato. Sui sedili in fondo, due ragazzi inalano i fumi di cobret e il suo odore intenso di gomma bruciata. Uno non avrà più di 12 anni e conclude così la sua domenica. Altri due stanno preparandosi una siringa. Altri sette ciondolano con gli occhi chiusi. Si parte a mezzanotte in punto, verso il centro di Napoli. Un'altra giornata da zombie per i passeggeri dell'R5. Un altro incasso record per i camorristi di Scampia.

'De Magistris, non mi deludere' scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Caro Luigi, a Napoli nessuna riforma è stata avviata. E le periferie sono state dimenticate. Dov'è la città promessa?» La lettera aperta di Saviano al sindaco arancione.

"Caro Sindaco De Magistris, sono consapevole che qualsiasi forma di critica venga rivolta a lei e al suo operato viene interpretata come una critica personale. O si è con lei in tutto o si è un suo nemico. Chi le parla è una persona che l'ha sostenuta, come hanno fatto in tanti. Chi le parla, a maggio di due anni fa, durante la sua campagna elettorale, con un editoriale in prima pagina su "Repubblica", la sostenne sperando che la sua amministrazione avrebbe inaugurato un nuovo progetto per la città. E non abbia l'ingenuità di accomunarmi a chi l'accusa di essersi corrotto con la politica, né a chi ritiene che abbia fatto questa scelta per interessi privati. Non lo penso. Allo stesso modo lascia interdetti ascoltare che le parole di analisi e di critica che le ho rivolto sarebbero secondo lei il frutto di una campagna elettorale o di finalità elettorali. E' cosa assai ambigua da ascoltare, come quando parla di masso-mafie in maniera tanto generica da suscitare ilarità più che preoccupazione. Non mi sono mai candidato, né ho mai preso parte a una militanza. Il mio mestiere è un altro. Quindi le analisi al suo operato non sono ispirate da nessuna campagna elettorale. Non banalizzi. Caro Sindaco, amministrare una città come Napoli è forse uno degli impegni più complessi che ci si possa consapevolmente assumere. Città caotica, piena di debiti, con mille difficoltà. Impegno che ha avuto il coraggio di prendere. Ma ciò che fa più male è vedere come non sia stato iniziato nessun percorso di riforma. A meno che per riforma non si intenda cambiare uomini e mettere i propri. Certo, anche questo è parte di un piano di cambiamento, ma non può essere il solo cambiamento possibile. Il sottotesto di ciò che spesso dice sembra essere: "Napoli è diversa perché ci sono io". Napoli signor Sindaco non sembra per nulla diversa. Ha deluso il comportamento verso i collaboratori "licenziati": Raphael Rossi, Giuseppe Narducci, Riccardo Realfonzo, Silvana Riccio. In molti casi l'unica colpa era un disaccordo con lei non nel progetto generale, ma in scelte particolari. Scelte che non erano mancanze di lealtà nei suoi confronti, ma erano proposte per evitare che Napoli finisse dinanzi la Corte dei conti o che si legasse a progetti economici poco chiari. E' sembrato che queste persone da un giorno all'altro dall'offerta migliore che in quel determinato campo ci fosse, siano diventati peggiori collaboratori possibili. Allontanati senza spiegazioni, senza motivi che non fossero clientele da conservare, bilanci da approvare e status quo da mantenere. Allontanati per dei contrasti che se superati sarebbero stati la prova di una reale volontà di essere discontinui rispetto a un passato insostenibile. L'attitudine spesso è importante, e questo suo atteggiamento un po' guascone sicuramente non rende le cose più facili in una città in cui chi ci vive deve sopportare una serie infinita di difficoltà. Sull'emergenza rifiuti nessun sistema virtuoso. Non sono state raggiunte le percentuali di differenziata promesse all'inizio del suo mandato. I rifiuti non sono diventati una risorsa, come in un circolo virtuoso potrebbero essere, ma una spesa e si spediscono altrove. A breve, Sindaco, lei lo sa, il problema tornerà urgente come in passato. Le operazioni che adesso verrebbe da definire "di facciata" sono importanti: liberare il lungomare dalle automobili, portare la Coppa America in città, ma non le devo insegnare io cosa è successo a Valencia con la Coppa America. Non devo essere io a dirle come il volto di una città può realmente cambiare approfittando in maniera virtuosa dei finanziamenti che vengono stanziati per grandi opere e grandi eventi. Inutile accusare Roma di inefficienza, che la gestione di Napoli fosse impresa complicatissima si sapeva dall'inizio. Ha accettato una sfida incredibile e avrebbe dovuto farlo con un piano strutturato, progetti concreti sul lavoro e sulle periferie. Nella Napoli disastrata degli ultimi anni della dirigenza bassoliniana, io e i mie coetanei non ne potevamo più di sentirci rispondere che la città era in crisi e profonda difficoltà ma piena di mostre, musei e festival. Importanti certo ma quando servono a riformare un territorio e non a mettergli il belletto o a comprare il consenso degli intellettuali locali. L'argomento camorra è poi forse una delle note più dolenti. La querelle delle telecamere a Scampia è l'ultima delle questioni, del resto sono abituato ad ascoltare le solite accuse di speculazione e arricchimento: chiunque racconti, chiunque abbia mai raccontato ad un grande pubblico, viene accusato di speculazione. Le potrei fare un elenco lunghissimo, da Scorsese a "I Soprano" a Malaparte che hanno ricevuto le medesime accuse. Su Scampia l'atteggiamento non può essere il solito. Quando si è all'opposizione chi racconta le contraddizioni è visto come colui che sta facendo un lavoro importante, un servizio alla comunità, quando poi si va al potere il motto diventa: Napoli non è solo Scampia. Frasi dette e ridette da Antonio Bassolino, da Rosa Russo Iervolino, sindaci, amministratori, con cui lei si è voluto porre da subito in netta discontinuità. E' naturale che Napoli non sia solo Scampia, come è naturale che Scampia non sia l'inferno popolato da diavoli cui voi e solo voi volete e "potete" ridare dignità. A oggi la nascita di associazioni, l'attenzione e l'impegno sul territorio lo si devono anche a queste opere artistiche che hanno generato coinvolgimento, che hanno fatto sentire le persone meno sole. Che hanno contribuito a provocare indignazione. Incredibile come tutto questo venga dimenticato. In molte altre periferie d'Italia si vivono condizioni analoghe, ma non c'è tutto questo impegno civile anche per mancanza di luce, attenzione, racconto. Non è parlando meno di camorra che Napoli è anche altro che ci si avvia a una soluzione del problema. Le opere di racconto sul territorio contengono la parte sana e la sua resistenza. Bisognerebbe giudicare le opere, vederle, approfondirle e non in maniera oscurantista chiedere di "smetterla con la speculazione" non sapendo nemmeno come sarebbe stato affrontato il racconto. Su Scampia, Sindaco, e sulle periferie in generale, lei ha fatto davvero poco. Non ci sono state idee nuove, per esempio proporre di costruire una no-tax zone dove portare aziende che potessero investire con sgravi fiscali in una terra depressa, dove solo la criminalità riesce a fare affari. Portare il comune fuori dal centro cittadino. Un dibattito sulla legalizzazione delle droghe. Nulla di tutto questo. E Napoli resta quel contesto asfittico che fa comodo a tutti. Chiunque la racconta è visto come il peggiore degli usurpatori. "Come osi, siamo noi che possiamo parlare, siamo noi che sappiamo qui come si vive gli unici a poter dire come stanno veramente le cose". Bene, io sono nato a Napoli e racconto Napoli. Studio il territorio e non mi sento intimidito dal "tu che ne sai". Sappiamo invece, e che vi piaccia o no, raccontiamo. Signor Sindaco, non pensi che le critiche che le vengono rivolte siano frutto di chi sa quale cattiveria. Nessuno le ha chiesto una rivoluzione in pochi mesi, si è avuta pazienza, le si è dato credito, ma non è stato fatto nulla laddove la quotidianità resta una corsa a ostacoli. Laddove gli eventi che la città è in grado di catalizzare sono dovuti più al credito e alle bellezze che la città ha, che non ai suoi amministratori. Rispondere alle critiche dicendo "venite qua invece di parlare" significa in qualche modo ripercorrere le orme del governo Berlusconi e prima ancora qualsiasi altra forma di potere. Se si vuole collaborazione, interlocuzione, è inutile dire "voi del Nord che ne sapete" o "invece di parlare perché non agite". Accogliere comprendere le analisi entrarvi in dialettica. Ascolti il rumore ormai non più di fondo delle persone deluse dalla sua gestione di Napoli, persone che avevano creduto in lei. Le analisi sono fatti, le analisi sono conseguenza dei fatti. Esistono amministratori, analisti, intellettuali, giornalisti, scrittori, registi e tutti devono poter agire liberamente, esprimersi liberamente e accettare le critiche. Nessuno pretendeva che lei potesse costruire una città nuova. Nessuno pretendeva che lei risolvesse camorra, monnezza, trasporti e sanità pubblica. Ma che almeno iniziasse un percorso questo sì. Un percorso che oggi non si vede se non in quelle ridicole biciclettine disegnate sul basalto e sui sampietrini sconnessi, al centro dei marciapiedi, che in nessun'altra città a parte Napoli, qualcuno avrebbe potuto spacciare per pista ciclabile. Napoli non sta cambiando, c'è solo il timore che sia stata una scomoda piattaforma, un difficile volano per un'attività politica nazionale. Aver deciso di fare il sindaco di Napoli ribadisco è una scelta coraggiosa e con altrettanto coraggio andrebbe considerato ora che c'è qualcosa che non va. Che la Napoli promessa non è realizzata. La crisi economica e la situazione europea non aiutano, ma imputare tutto a fattori esterni è disonesto. Bisogna aprire la città, mutarne la politica, cambiare le priorità. Già so la risposta che questo mio scritto riceverà: "Facile scrivere editoriali e reportage, tirati su le maniche e muoviti". Credo di farlo con la mia attività: la parola quando viene dall'osservazione, dall'approfondimento, dall'analisi, è azione. E io provo ad avere una parola d'azione. A ognuno il suo mestiere. Prenda queste righe come vuole; io le ho scritte come un allarme sul rischio di una grande delusione: aver creduto in un progetto di riforma che non sta avvenendo. Se invece le prenderà come l'ennesimo capriccio dell'intellettuale in diaspora da Napoli alla ricerca di luce, be', si metta in fila, sarà l'ennesimo. Non capita spesso, lo confesso, a volte però credo davvero che Napoli prima o poi possa farcela a uscire dalle sue terribili difficoltà e trovare la strada. Ma questa strada, Sindaco, ancora non si intravede nelle sue mappe."

La risposta del Sindaco Luigi De Magistris. 'Caro Roberto, sbagli tutto' di Luigi De Magistris. Il sindaco arancione Luigi De Magistris risponde alla lettera aperta pubblicata dall'Espresso dello scrittore. "Se ami questa città, non puoi consentire che sia trattata come un palcoscenico pulp da piegare alla speculazione mediatica e commerciale. Se ami questa città, non puoi consentire che sia strumentalizzata a fine elettorale. Credo che Saviano non faccia un danno all'amministrazione o al sindaco, rispetto ai quali ogni critica è lecita, ma faccia un danno a Napoli. Come ho detto in merito alla fiction Gomorra2, pur rispettando il diritto alla comunicazione e alla libera espressione artistica, comunque eviterò politicamente la riduzione di Scampia a merce da circo mediatico. Allo stesso modo contrasterò la trasformazione delle problematiche cittadine, in primis i rifiuti, a carne da macello elettorale.
Non posso non osservare, infatti, la tempistica 'precisa' e gli spazi 'definiti' di questa crociata unilaterale che Saviano ha ingaggiato: a poche settimane dal voto e su alcuni organi di informazione, vicini a quelle forze partitiche che pure hanno sostenuto il governo Monti (che ha strozzato i comuni, fra i quali il nostro) e che hanno amministrato per decenni questa città e questa Regione. Se lo ricorda questo Saviano? Erano i tempi dell'emergenza rifiuti e delle consulenze a pioggia, i tempi delle partecipate costruite come serbatoi di voti, durante i quali il lavoro era gestito come strumento di consenso elettorale. Erano gli anni in cui, amministrando in un 'certo' modo, si determinavano premesse negative per conseguenze drammatiche: quelle che oggi combattiamo quotidianamente e che impediscono la crescita della città. A quali conseguenze mi riferisco? Un miliardo e mezzo di debito e ottocento milioni di disavanzo del Comune della terza città di Italia. Se la ricorda Saviano quella stagione? Se lo ricorda chi amministrava allora? E nonostante l'assenza di risorse, Napoli è da un anno e mezzo al riparo dall'emergenza rifiuti ed ha riconquistato, anche per questo, una nuova immagine internazionale, come dimostra la presenza turistica e la sua capacità di attrarre eventi. Saviano capisce quale sforzo totalizzante è stato compiuto per evitare i sacchetti in strada, senza costruire altre discariche o inceneritori, e contrastando le tante "manine" che vorrebbero ancora Napoli in ginocchio sommersa dalla spazzatura? Ed in quella pista ciclabile - fatta con soldi che se non utilizzati per quello andavano persi - oppure nel lungomare chiuso al traffico e aperto alle persone e alle emozioni, sui quali Saviano ironizza, è sintetizzato ed evocato un modello di città eco-sostenibile ed europea che vogliamo realizzare ma che l'assenza di risorse ci ritarda nel completare. Certo, i trasporti non sono sufficienti. Ma è al corrente Saviano dei tagli nazionali e regionali intervenuti in modo orizzontale e massiccio ? Certo, la raccolta porta a porta dovrebbe crescere e gli impianti di compostaggio dovrebbero essere già attivi. Certo, le periferie dovrebbero vedere un intervento di riqualificazione e un piano di sviluppo radicali. Tutto questo lo faremo. Ma come può essere compiuto tutto questo, in un anno e mezzo, se una amministrazione governa di fatto in dissesto? Come può uno scrittore e un pensatore, che dice di amare la sua terra, non comprendere questo dato drammatico e non capire l'importanza di stringersi intorno alla sua città, per chiedere anche sul piano nazionale un sostegno che sia proporzionale al ruolo della capitale del Sud? Questo populismo critico compiuto da lontano, dunque senza avere il polso diretto e quotidiano della città, cioè senza viverla la città, non può consentire uno sguardo realistico su Napoli. Perché Saviano non ha mai offerto il suo aiuto, non ha mai avanzato un consiglio, non ha mai dato una idea o una proposta per contribuire allo sforzo di rendere Napoli più bella, più vivibile, più libera? Oggi che si scaldano i motori della campagna elettorale, con le più inquietanti convergenze parallele, mi piacerebbe vedere la città non usata politicamente come testa d'ariete, almeno dai quanti vi hanno vissuto e dicono di amarla. Soprattutto me lo aspetto da un intellettuale che, come Saviano, ha gli strumenti critici e culturali per capire e per "sapere", nel senso pasoliniano del termine. In particolare, poi, non usiamo l'immondizia e la camorra, perché superiamo un confine di non ritorno che offende e ferisce i cittadini. Mi colpisce il passaggio critico sui rifiuti in merito ai quali Saviano profetizza: "a breve, Sindaco, lei lo sa, il problema tornerà urgente come in passato". Come riconosce lo stesso Saviano, dunque, abbiamo avuto il merito di essere riusciti a non cadere nell'emergenza per un anno e mezzo: non credo sia un dettaglio, credo sia una rivoluzione ambientale e un messaggio fortissimo di legalità. Come riconosce lo stesso Saviano, dunque, la partita dei rifiuti è giocata contro sistemi criminali potenti e crudeli, rispetto a cui si deve compiere un grande sforzo da parte nostra. Eppure mi ferisce e preoccupa quel passaggio sul loro possibile e prossimo ritornare in strada durante la campagna elettorale: Saviano dimostra di sapere bene come il tema dei rifiuti possa essere agitato e brandito per finalità politiche, per mezzo della camorra, con conseguenze devastanti per la città, ma in modo poco responsabile non si spende ad ammonire chi dovrebbe. Il suo peso nell'opinione pubblica, la sua capacità di accendere l'attenzione e il dibattito, anche internazionali, dovrebbero essere al servizio di Napoli, lanciando un monito perché certi poteri non giochino elettoralmente sui rifiuti o sulle aree difficili. Saviano dovrebbe fare asse, stringersi intorno a questa amministrazione e a Napoli, per aiutarci a proteggerla da quanti hanno tutto l'interesse a far tornare i sacchetti per strada a ridosso del voto. Per proteggerla da quei poteri e da quel sistema, che coinvolge trasversalmente tutta la politica, che questa amministrazione ha cercato di estromettere e che sempre cercherà di estirpare lavorando senza sosta. Invito dunque Saviano a Napoli, lo invito a darci una mano con suggerimenti ed idee, lo invito a difendere la città anche agli occhi del mondo, perché le cittadine e i cittadini di questa terra non sono la periferia etico-politica del pianeta e vorrebbero essere raccontati per quel che sono realmente: cittadine e cittadini "normali" che ogni giorno si confrontano con le tante difficoltà esistenti - e che nessuno vuole negare o nascondere-animati però da "quell'ottimismo della volontà" che trasforma la critica, quando è onesta e sincera, in proposta e azione positiva. Ho deciso di dedicare per i prossimi anni la mia vita esclusivamente a Napoli con tutta la passione che sento. Voglio rassicurare Saviano: solo la passione può animarti in questa sfida difficilissima di governo cittadino poiché non c'è ambizione politica nazionale che può motivare o giustificare, lo assicuro, il sacrificio quotidiano, a tratti anche drammatico, che questa amministrazione sta mettendo in atto. Solo la passione e il sogno, infatti, ci consentono e ci animano quotidianamente in questa sfida.

Tra Saviano e De Magistris, Scampia sceglie… i corsi di difesa personale, scrive Antonella Ambrosioni sul “Secolo D’Italia”. Ma quale Saviano e quale De Magistris. Ecco come ti risolvo il problema della criminalità a Scampia: corsi di difesa personale per tutti nelle scuole. Ragazzi, difendetevi come meglio potete, perché se aspettate le promesse che in campagna elettorale vi ha fatto De Magistris, non siete messi bene. E se aspettate che qualche ricaduta positiva, qualche soluzione, possa venire dalle spettacolarizzazione del vostro quartiere di Roberto Saviano, state messi ancora peggio. Rassegnarsi all’inerzia delle cose mai. E allora ecco un corso, organizzato in collaborazione con il Coni, che prevede una lezione teorico- pratica di autodifesa dedicata soprattutto alle ragazze. A fare da apripista è l’istituto tecnico “Galileo Ferraris”, che con i suoi 1500 studenti da anni è impegnato sul terreno della legalità. L’intento è quello di offrire soprattutto alle studentesse le tecniche base per difendersi e non perdere il controllo, in caso di aggressione o di pericolo, per farle sentire più sicure in un contesto così difficile e abbandonato a se stesso. Chi fa da sé fa per tre. Chissà con quale cuore i genitori osservano i loro figli mentre vanno a scuola come a una guerriglia quotidiana, consapevoli che tornare a casa può diventare un terno alla lotteria. Tuttavia non solo i prof, ma anche i papà e le mamme, hanno approvato con gioia l’inizio di questa esperienza, assicura Vincenzo Ciotola, da diciassette anni preside dell’istituto. «Scampia è un quartiere senza servizi, un dormitorio dove i ragazzi spesso non trovano nuovi orizzonti. Ecco, noi cerchiamo di proporre loro nuove opportunità di conoscere e di vivere nuove esperienze aiutandoli a vivere meglio». Dobbiamo rassegnarci a considerare Scampia come il Bronx? Vengono i brividi a pensarci, visto che anche altre scuole del quartiere stanno ricorrendo all’educazione all’autodifesa personale, sulle orme del “Ferraris”. Era il 1955 quando Il seme della violenza, diretto da Richard Brooks, apriva la lista di una lunga serie di film sul mondo dei college di un quartiere considerato “terra di nessuno”, dove i professori vanno a scuola armati e gli studenti pure. Non vogliamo rassegnarci che, al di là delle iniziative lodevoli di tante scuole, anche Scampia rimanga ancora a lungo terra di nessuno. O peggio terra di promesse mai mantenute.

Intanto a Scampia non vogliono Saviano, scrive Simona Brandolini su “Il Corriere della Sera”. Sul caso Scampia — negate le riprese alla fiction mentre spunta uno striscione contro l'autore di Gomorra durante l'assemblea che ha confermato il veto alle cineprese tra le Vele — è sceso in campo lo stesso Roberto Saviano che al Tg Uno ha espresso «grande sofferenza e senso di straniamento» per quegli slogan contro di lui. «Il problema è proprio che chi racconta il male diventa il male — ha aggiunto ai microfoni Rai lo scrittore — non credo che bloccare un tema, una riflessione, un argomento, un film, un libro, tuteli una comunità. Soltanto in maniera miope si può pensare che quello è un racconto che diffama. È un racconto invece che dà forza, che deve dare il coraggio di trasformare il territorio». E del fatto che a Scampia non sono mai stati affissi, invece, striscioni contro i boss della camorra, ha affermato: «Credo che il problema sia proprio questo, che chi racconta il male diventa il male». Infine, della sua lettera scritta al sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha detto: «Non mi ha risposto ai punti che avevo tematizzato nella lettera ma sul piano personale. La città non sta compiendo un percorso di riforme. So che è difficilissimo e per questo ho cercato di continuare a dare fiducia alla città di Napoli. Sono convinto che Napoli sia un grande talento». Poco prima che Saviano parlasse al TgUno, Fabio Fazio aveva lasciato su Twitter il suo disappunto per lo striscione contro l'amico Roberto. «Scampia(moci) da Saviano», non proprio un gesto distensivo. Tra l'altro già censurato da molti cittadini di quella periferia abbandonata. «Non ci accodiamo alla crociata contro lo scrittore Saviano. Il problema non è lui, ma la camorra a Scampia», così il commissario regionale dei Verdi Ecologisti Francesco Emilio Borrelli che ha partecipato all'assemblea convocata nell'auditorium del quartiere dal presidente della Municipalità Angelo Pisani. «Abbiamo sempre sostenuto che l'ennesima fiction piena di luoghi comuni su quel territorio non fosse una cosa buona ma non è certo Saviano il responsabile del degrado e abbandono del territorio. Bene ha fatto Sky a rinviare l'inizio delle riprese di Gomorra 2 e a mostrarsi disponibile alla modifica della sceneggiatura della fiction per mettere in evidenza anche gli aspetti positivi del quartiere — argomenta sempre Borrelli —. Ci colpisce che però nella sala dell'assemblea di Scampia c'era uno striscione contro l'autore di Gomorra ma nessuno contro la camorra. Come ci colpisce il fatto che il maggior avversario della camorra degli ultimi 15 anni a Scampia e cioè Don Aniello Manganiello continui ad essere esiliato dal quartiere senza che la Chiesa ne spieghi le ragioni». Infine nella tarda serata la replica di Angelo Pisani, presidente della municipalità di Scampia: «Chi è in trincea ogni giorno a combattere contro la camorra non ha bisogno di esporre striscioni e di vendere libri o film sul crimine: lo fa nei fatti come faccio io senza gli strumenti dei poteri mediatici e senza scorta».

Stop alla fiction: Scampia esulta, scrive il TG1. E spunta anche uno striscione anti Saviano. L'assemblea cittadina ha espresso parere negativo e la fiction, che avrebbe trasformato il quartiere in un set, è stata ritirata. Il presidente del municipio Pisani: "Se realizzato avrebbe lanciato messaggi diseducativi". Oggi era apparsa la scritta: "Scampiamoci da Saviano". "Ritirato il film del male. Scampia come New York. L'assemblea del popolo cui hanno preso parte cittadini, associazioni, studenti, comitati, registi, giornalisti, istituzioni e parroci anticamorra hanno scelto di dire di no al film 'Gomorra', ispirato al libro dello scrittore Roberto Saviano e prodotto da Sky". Lo ha annunciato esultante il presidente dell'ottava municipalità di Napoli, Angelo Pisani, che per primo nei giorni scorsi aveva espresso un parere negativo sulla fiction 'Gomorra'. Davanti al tavolo dov'era riunita l'assemblea di cittadini organizzati dal municipio era apparso uno striscione con la scritta: "Scampiamoci da Saviano". "Ho tutelato il futuro dei giovani, la gente democraticamente ha espresso la propria opinione. Un film di questo tipo se fosse stato realizzato avrebbe lanciato messaggi diseducativi. La società di produzione del film - ha spiegato Pisani - intervenuta al dibattito ha preso atto del no pronunciato dal popolo e ha rinunciato all'inizio delle riprese previste per il 28 e 29 gennaio promettendo un momento di riflessione per un film migliore su Scampia". Alfredo Giacometti, imprenditore del settore pubblicitario e presidente del movimento lavoratore italiano è l'autore dello striscione: "Scampia è diventata capitale di tutta la criminalità del mondo per colpa di un romanzo e della speculazione che ne è stata fatta. Saviano è stato un danno con quel suo romanzo". I cittadini, in verità non molti, lo hanno applaudito mentre il gruppo di persone della Rete Commons ha lasciato l'auditorium in segno di protesta. Subito dopo Pisani prova a riportare la calma e toglie lo striscione. "Nessuno crede che Saviano sia il male assoluto".

Scampia si ribella: «Saviano ci sfrutta», scrive Carmine Spadafora su “Il Giornale”. NapoliScampia contro Sky e Roberto Saviano. Il quartiere che «ben» rappresenta tutti i mali di Napoli, dalla camorra, alla povertà, dalla criminalità comune al dramma della casa, dalla questione sanità alle strade «scassate» ma, dove comunque vivono decine di migliaia di persone perbene, si ribella alla fiction che una società di produzione sta preparando per conto di Sky. A capeggiare la protesta dei suoi concittadini è il presidente di Scampia, Angelo Pisani che ha negato l'autorizzazione alle riprese del film. Una decisione durissima, che non ha precedenti e per certi versi anche molto coraggiosa. In serata, anche il sindaco, Luigi De Magistris, attraverso Facebook si è schierato contro la produzione del film. Un duplice brutto colpo per Sky e per lo scrittore di Gomorra. I diretti interessati replicano con il produttore di Cattleya, Riccardo Tozzi, che con Sky comincerà tra un mese circa le riprese della serie tratta dal libro di Roberto Saviano, che collabora alla preparazione della fiction: «Non c'è una identificazione cosi precisa di Scampia, che nell'ambito della serie rappresenterà al massimo un 5 per cento. C'è una grande varietà di ambienti e situazioni». E anche Saviano replica a muso duro: «La censura non salverà Scampia». Ma, Pisani è insorto contro la fiction che non solo «getta altro fango sul mio quartiere ma, sicuramente non aiuta la mia gente a migliorare le sue condizioni di vita. Scampia non può essere il palcoscenico per una tv di miliardari, che viene qui, sfrutta le nostre strade per incrementare i propri business e poi va via. Stiamo cercando di rivalutare questo territorio, con iniziative culturali e sociali ma un film tra le vele, per spettacolarizzare vicende che per noi sono luttuose e basta, non vuol dire fare cultura». Pisani ha poi rivelato al Giornale che il proprietario di un bar «mi ha detto che per finzione il suo locale dovrebbe subire un attentato ma con dei veri ordigni. L'organizzazione poi glielo ricostruirebbe. Io invece dico che il mio no è irrevocabile e non ci saranno né riprese né esplosioni vere, anche se per finzione». Antonella Maffella della «Associazione giovani donne di Scampia», si è schierata con Pisani. «Far rivivere a un intero quartiere situazioni che normalmente accadono nella realtà è allucinante. È come portare al cinema una donna che ha subito delle violenze, a vedere un film tipo Arancia meccanica». Intanto, il quartiere si prepara alla protesta. Pisani ha raccontato che la protesta sarà visibile. Striscioni contro le riprese saranno esposti ai balconi di viale della Resistenza, Rione Don Guanella, via Labriola. «Per scelta non ho visto nemmeno il film Gomorra di Garrone. Sono contrario alla spettacolarizzazione della camorra, quindi dico no a questa nuova pellicola, che non porterà benefici nelle zone a nord di Napoli, tanto bistrattate e dimenticate dalle istituzioni» dice al Giornale, il parroco anticamorra, don Francesco Minervino, Decano delle parrocchie di Scampia, Miano, Piscinola, Marianella e Chiaiano. E, De Magistris, che viene continuamente criticato dai quartieri a nord di Napoli, per non essersi mai fatto vedere da quelle parti, nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, attraverso Facebook dice che «non appartiene a questa amministrazione il diniego di autorizzazioni che riguardano le varie attività culturali e comunicative, ma siamo stanchi di vedere Scampia ridotta, anche sul piano dell'immagine e non solo nazionale, a territorio di conquista della camorra in lotta, come se a Scampia non esistesse altro al di fuori delle piazze di spaccio e della faida dei clan».

Quel prete anticamorra che smaschera Saviano: "Non sa di cosa parla". In un libro l’accusa di padre Manganiello, per 16 anni nel quartiere di Gomorra: «Ha buttato fango su Scampia ma lì non s’è mai visto», scrive Gian Marco Chiocci  su “Il Giornale. Per raccontare l’orrore e il dolore di Scampia, uno dei troppi luoghi devastati dal cemento, dal sangue, dall’indifferenza della sinistra politica napoletana, non serve scomodare San Tommaso, l’apostolo di Cristo che per credere voleva toccare. Basta recarsi in libreria e chiedere delle memorie di padre Aniello Manganiello, parroco del quartiere simbolo dello spaccio e dei morti ammazzati all’ombra delle Vele, set scontato del film Gomorra ispirato al libro di Roberto Saviano. Già, Saviano. «Uno che non ha abitato nemmeno per un giorno nel quartiere né vi ha sostato a lungo, lo avrei saputo, ci saremmo incontrati, me ne avrebbero parlato i miei parrocchiani o i conoscenti e non c’è persona da quelle parti che io non conosca », spiega don Aniello nell’incipit del sedicesimo capitolo del libro Gesù è più forte della Camorra (edito da Rizzoli) scritto insieme al giornalista Andrea Manzi. Proprio su Roberto Saviano, il tuttologo che senza aver mai messo piede a Scampia spara a zero sui residenti che sparano davvero, verte una parte significativa di questo crudo pamphlet girato nelle viscere del rione maledetto dove oltre a Roberto anche la polizia, e Cristo, non entrano. Qui il sacerdote scomodo ha trascorso sedici anni (un anno fa tra le proteste generali è stato trasferito a Roma) senza mai chinare il capo, tra attentati, minacce, ritorsioni, furti e oltraggi in sacrestia, fedeli assassinati sul sagrato, conversioni di criminali, drogati e moribondi di Aids coccolati come fossero figli suoi. Ha portato la Croce per radicare un po’ di speranza in peccatori irriducibili. Leggere tutte d’un fiato queste 242 pagine serve a capire la differenza tra chi rischia davvero e chi per Mondadori. L’aver osato criticare in tv l’epopea di Gomorra («Saviano ha gettato fango su Scampia e su Napoli, dandone al mondo un’immagine negativa. Un’operazione da cassetta che non ha avuto rispetto per nessuno degli 80mila abitanti») gli è costata un’imputazione di lesa maestà da Massimo Giletti, Klaus Davi e quant’altri presenti in trasmissione. Poco esperto dei tempi televisivi, il Nostro voleva solo far capire che la lotta alla mafia non dev’essere ideologica ma concreta. Ci torna nel libro: «Bisogna sporcarsi le mani, entrare nel degrado, portare via chi è rimasto prigioniero. Se ci sono le fiamme in un cinema zeppo di persone, cerchi di mettere in salvo gli spettatori oppure organizzi un convegno sulla sicurezza nelle sale?». La risposta non è scontata, posto che d’anticamorra abbondano i meeting, i libri, gli articoli, le fiction. «È una funzione importante la cultura, che non voglio minimizzare. Ovviamente questi messaggi possono però scadere nell’enfasi, nell’autoreferenzialità, nell’iperpresenzialismo di chi li pronuncia (…). Tali attività, sostenute da una funzione per così dire oracolare, non salvano alcuna vita». Il parroco mette in guardia anche dalle manifestazioni contro i clan «che non raggiungono né il cuore né la mente dei malavitosi che spesso non hanno proprio gli strumenti per capire». Lui, i boss, li ha affrontati di petto. Ci ha parlato. Li ha ascoltati. Una missione apostolica avara di successi, comunque utile perché «solo quando si prospetta loro una nuova dimensione esistenziale è possibile rinsavirli». Quando assassini e spacciatori gli hanno chiesto un futuro diverso per i loro figli, «io non ho mai mandato quei ragazzi ai cortei anticamorra, con una bandiera in mano, un paio di slogan e tanta voglia di urlare. Perché io devo trovare soluzioni, i soldi per farli mangiare, per impedire che le ragazze si sentano obbligate ad abortire, per comprare i pannolini e pagare le bollette», magari attingendo al sacchetto delle offerte. «Se mi occupo della pancia vuota della mia gente – insiste don Aniello - vorrei poter dire un giorno a Saviano: come faccio a parlare di ideali, di moralità e non violenza? Potrei anche farlo ma non mi crederebbero. Questa è la mia anticamorra, quella delle opere, del contagio dell’esempio, dell’intervento concreto. Un’anticamorra discreta che ha più effetto di una grande campagna mediatica perché nel suo Dna c’è il potere, seduttivo, della verità». Occorre dunque lavorare «lontano dalla ribalte, dai pulpiti e dalle inconcludenti ritualità accademiche che sommano il niente al nulla aumentando la redditività della moda culturale e il prestigio dei suoi simbolici protagonisti ». A dirla tutta il prete di Scampia ci ha provato a incontrare il guru di Repubblica. Erano entrambi a un convegno in Abruzzo, nel quale Saviano, come sempre, incarnava la figura dell’ospite d’onore. Prese il premio e scappo’ via. «Ormai la sua presenza è diventata talmente simbolica da non appartenere più al piano della realtà. Le sue sono apparizioni fugacissime. Ho chiesto a un organizzatore di poterlo incontrare, mi ha risposto con un sorriso beffardo: “Ma lo sai di chi stiamo parlando?”». Nel tentativo di far parlare i fatti invece delle parole, il Salvatore in clergyman le ha tentate tutte per convincere le amministrazioni rosse «ad avere la stessa attenzione e la stessa cura riservata a piazza Plebiscito o al centro storico anche per le aree periferiche». Così, un bel giorno, lui e altri quattro preti di frontiera decisero di ribellarsi «alle modalità di gestione del Comune da parte del sindaco Antonio Bassolino, concentrato unicamente sulla città­vetrina e sul suo tanto celebrato rinascimento napoletano ». Attaccarono frontalmente quella politica «che gli consentiva di far veicolare al mondo, grazie a un’informazione piegata ai suoi voleri, l’immagine artificiale di una città in salute e senza problemi. Un vero e proprio con­trabbando ideologico». Stilarono un documento durissimo. Poco abituato alle critiche, Bassolino corse a incontrare i religiosi, fece promesse a cui non dette seguito, forse perché disturbato dall’affronto di un altro ecclesiastico, don Franco Esposito, che gli chiese di chiedere scusa ai napoletani per il degrado e l’assenza del Comune. «Non mi sento responsabile di niente e quindi non devo chiedere scusa a nessuno», ribattè Bassolino. Che quando lesse sui giornali delle critiche dei religiosi alzò il telefono e «mi apostrofò dicendomi che ero un emerito mascalzone. Non feci in tempo a ribattere perché dopo le contumelie, attaccò». Per certi versi, anni dopo, gli andò peggio con Rosa Russo Iervolino. «Non s’è mai degnata di incontrarci, nonostante le nostre ripetute richieste e le denunce anche pubbliche sui ritardi comunali». Poi successe che il religioso fu invitato da An a dire la sua sulle collusioni tra politica e criminalità. L’antica­morra di professione lo etichettò come «il prete di destra » e la Iervolino annunciò querela aggiungendo «che i soldi del risarcimento del danno che avrebbe certamente ottenuto da me li avrebbe girati a un altro dei parroci di Scampia. Un modo sottile per metterci contro, per impedire che si consolidasse il fronte anticamorra », chiosa il prete. La sindachessa venne però attaccata trasversalmente. Per uscire dall’impasse fu costretta a un gesto di pace: «Inviò una dichiarazione ai giornali assicurando che mi avrebbe invitato a palazzo San Giacomo per un incontro chiarificatore». Sono passati più di quattro anni. Don Aniello aspetta ancora.

SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME

DISASTRO PD

Quarantatrè milioni per una bonifica che non c'è: indagato Bassolino. Inchiesta sulla più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa, scrive “Libero Quotidiano”. L'ex governatore della Campania si era assunto degli obblighi cui sapeva fin dall’inizio di non poter far fronte sprecando di fatto il denaro. Assunzioni senza concorso pubblico, segretarie di partito che lavorano a Montecitorio continuando a essere pagate dalla Regione, e ancora governatori sospettati di loschi affari nella sanità regionale. Non c'è giorno che la cronaca giudiziaria non associ i nomi di illustri personaggi del centro sinistra a reati quali l'abuso di ufficio o lo spreco di denaro pubblico. Zaia Veronesi, segretaria storica di Pierluigi Bersani, era dipendente in regione Emilia Romagna fino al 2010, ma aveva ricevuto un incarico per tenere i rapporti con le istituzioni centrali e con il Parlamento: secondo l'ipotesi accusatoria non vi sarebbero prove delle prestazioni lavorative per la Regione da parte della donna per circa un anno e mezzo nel periodo compreso tra il 2008 e il 2009. L'ex sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino è stata indagata per 215 assunzioni senza pubblico concorso nella società in house del Comune "Napoli Sociale". Il Pm ha chiesto oggi 20 mesi di carcere per Vendola che sarebbe intervenuto, in qualità di presidente della Puglia, sulla dirigente della Asl premendo per la riapertura dei termini di un concorso a primario ospedaliero. Ultima in ordine cronologico la notizia che anche l'ex governatore Antonio Bassolino è indagato per danni per le casse dello Stato per complessivi 43 milioni di euro. Tanto è costata ai cittadini la più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa. L’operazione "Nimby" - acronimo inglese a significare "non nel mio giardino" - ha portato alla luce un caso di spreco di denaro pubblico legato al contratto stipulato nel 2002 tra la società Jacorossi, Regione e il Commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque della Regione Campania per la realizzazione del progetto "piano per la gestione degli interventi di bonifica e rinaturalizzazione dei siti inquinati del litorale domizio-flegreo e agro versano". Il vice procuratore generale della Corte dei Conti campana Pierpaolo Grasso ha potuto rilevare che l’affidamento dell’appalto era intervenuto non solo senza gara pubblica e in assenza della prevista certificazione Soa - necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico - ma anche senza tener conto dei pareri negativi espressi dai competenti uffici ministeriali e dall’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, per i quali il progetto presentato dalla Jacorossi risultava carente di informazioni necessarie. L'appalto del valore complessivo di oltre 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l'impiego di 380 lavoratori socialmente utili fu comunque affidato a questa società. Inoltre Commissariato di Governo e Regione, committenti del contratto, secondo l’indagine della procura della Corte dei Conti regionale si erano assunti obblighi cui sapevano fin dall’inizio di non poter far fronte, sia per i tempi di esecuzione troppo stretti, sia per le proteste delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il mancato rispetto degli obblighi contrattuali ha comportato conseguenze negative per i profili finanziari, costringendo il committente a sostenere costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e a non utilizzare i lavoratori socialmente utili, ai quali, tuttavia, ha continuato a erogare retribuzioni. Diversi contenziosi sorti in sede civile tra Jacorossi Spa, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario, nel quale, oltre a dover riconoscere, per le proprie inadempienze, la somma di 21,8 milioni di euro quale risarcimento dei danni subiti dalla Spa, è stato inspiegabilmente disposto un ulteriore affidamento alla stessa società dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Nel danno erariale quantificato, dalla procura contabile, circa 22 milioni di euro sono proprio il corrispettivo del risarcimento danni riconosciuto alla Jacorossi Spa, 17 milioni circa i maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti presso terzi e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica.

La Faccenda vista da sinistra.

Nei guai in tutto 17 tra politici e tecnici: tra questi anche l'ex ministro Bordon e l'intera giunta dell'epoca. L'inchiesta della Corte dei Conti ha fatto emergere alcune irregolarità nelle procedure per la bonifica del litorale domizio ed agro. Così scrive "Il Fatto Quotidiano". Ci sono anche l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, l’ex ministro dell’Ambiente Willer Bordon e l’ex sottosegretario al Lavoro Raffaele Morese tra i 17 politici e tecnici ai quali la Corte dei conti della Campania chiede la restituzione di oltre 43 milioni di euro di danno erariale. La vicenda è quella delle bonifiche del litorale domizio ed agro aversano affidate nel 2002 alla Jacorossi Imprese spa attraverso un accordo stipulato tra l’azienda, la Regione Campania ed il commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque. L’invito a dedurre della Corte dei Conti è stato inviato anche agli ex sub commissari per l’emergenza rifiuti Angelo Vanoli e Arcangelo Cesarano e all’intera giunta all’epoca dei fatti: l’ex vice presidente della Regione Campania Antonio Valiante e gli ex assessori Adriana Buffardi, Vincenzo Aita, Gianfranco Alois, Luigi Gesù Anzalone, Teresa Armato (attualmente parlamentare del Pd), Ennio Cascetta, Maria Fortuna Incostante (anche lei parlamentare del Pd), Federico Simoncelli, Marco Di Lello, Luigi Nicolais (oggi presidente del Cnr) e Rosalba Tufano. Le indagini condotte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli, confluite nel procedimento del vice procuratore generale della Corte dei conti Pierpaolo Grasso, hanno fatto emergere anomalie e incongruenze nei contratti, nelle liquidazioni economiche, nell’impiego degli ex lavoratori socialmente utili. Irregolarità che si sarebbero tradotte in un salasso per le casse pubbliche. L’affidamento dell’appalto avvenne senza gara pubblica e in assenza della certificazione Soa, necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico. Inoltre il contratto sarebbe stato concluso nonostante i pareri negativi degli uffici ministeriali e dell’Anpa (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente), perplessa sulle carenze del progetto. Alla Jacorossi venne affidato un appalto di 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l’impiego di 380 lavoratori socialmente utili. Ma secondo gli inquirenti era lampante sin dal momento della sottoscrizione che le condizioni del contratto erano impossibili da rispettare: tempi di esecuzione troppo ristretti, forti opposizioni delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il commissariato contestava all’impresa i continui ritardi, l’impresa li imputava al mancato reperimento da parte del commissariato delle discariche necessarie allo smaltimento dei rifiuti speciali. Così sono stati sostenuti costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e non sono stati utilizzati gli “lsu”, che però hanno continuato a riscuotere gli stipendi. Prima di finire in cassa integrazione. I contenzioni sorti in sede civile tra la Jacorossi, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario. La Jacorossi ha riscosso un risarcimento danni di quasi 22 milioni di euro e persino un ulteriore affidamento dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Alla cifra di 43 milioni di danno erariale si arriva sommando a questi 22 milioni di euro, altri 17 milioni circa quali maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti in altre aziende e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica. Negli anni scorsi la vicenda Jacorossi fu oggetto anche di un’inchiesta della Procura di Napoli che accese un faro sulle infiltrazioni camorristiche nei subappalti delle bonifiche. Il 12 ottobre 2009 i carabinieri del Noe guidati da Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo” che catturò Toto Riina, sentirono a Napoli il pentito Gaetano Vassallo, l’imprenditore che dal 1987 al 2005 ha smaltito scorie tossiche sul territorio campano per conto dei clan. Il “ministro dei rifiuti” del boss Francesco Bidognetti affermò di sapere “che la Jacorossi aveva ottenuto la grande commessa pubblica grazie ad aderenze politiche. Di suo so per certo che non effettuava alcun lavoro ma si limitava a distribuire i lavori tra più ditte. In sede locale (omissis) la distribuzione avveniva sulla scorta delle conoscenze e del vincolo camorristico”. L’inchiesta penale, che coinvolse tra gli altri Bassolino e l’ex prefetto di Napoli Alessandro Pansa, entrambi in qualità di ex commissari all’emergenza rifiuti, oltre ai vertici romani della Jacorossi, si concluse con l’archiviazione. Mentre quella contabile, che ha toccato altri soggetti e ha contestato altri tipi di responsabilità, è andata avanti sino alla citazione in giudizio per 43 milioni di euro.

Bassolino. Non è la prima volta che succede.

Inchiesta rifiuti a Napoli, indagato Bassolino. Arrestati prefetto ed ex vice di Bertolaso. Le misure cautelari sono state prescritte per 14 persone, tra cui Marta Di Gennaro, ex vice del capo della Protezione Civile e il prefetto Corrado Catenacci. L'accusa è di aver consentito lo sversamento di percolato in mare scrive “ Il Fatto Quotidiano Sono nomi di spicco quelli coinvolti nell’inchiesta sui rifiuti a Napoli che in mattinata ha portato all’arresto di Marta Di Gennaro, ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, e del prefetto Corrado Catenacci, ex commissario ai rifiuti della Regione Campania. E tra le 38 persone indagate risultano pure l’ ex presidente della Regione Antonio Bassolino, l’ex assessore regionale Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi. L’operazione per reati ambientali è stata eseguita in varie zone d’Italia dai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) e dalla Guardia di Finanza di Napoli, coordinata dalla procura della Repubblica di Napoli. A Di Gennaro e Catenacci è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari. Nella stessa operazione sono state arrestate altre 12 persone. Le accuse sono di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali. Sequestri di documentazione sono stati messi in atto in diverse sedi istituzionali, come la Prefettura di Napoli, la Regione Campania ma anche la Protezione civile di Roma e in sedi di aziende di rilievo nazionale. Nel corso delle indagini è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato (rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani), in violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano. Le ordinanze di custodia cautelare (otto in carcere e sei ai domiciliari) sono state eseguite a Napoli, Roma, Caserta e Parma. L’indagine, durata fino al luglio 2010 e prosecuzione di quella conclusa nel maggio 2008 (nota con il nome di ‘Operazione Rompiballe’, che ha portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti) è stata sviluppata mediante attività tecniche, nonché riscontri documentali, che hanno permesso di acquisire gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008.

SONO TANTI, TROPPI PREFETTI COINVOLTI IN INCHIESTE GIUDIZIARIE. E POI, COME SI VEDRA' DOPO, PRETENDONO RISPETTO.

Fondi Regione Campania, ai consiglieri rimborsi pure per le sigarette. L'indagine sui fondi erogati dalla Regione ai gruppi consiliari continua. Dopo il modulo prestampato di 13 righe senza indicare alcuna causale, spuntano i rimborsi per le sigarette, scrive Nico Di Giuseppe  su “Il Giornale L'indagine sul presunto uso illecito di fondi erogati dalla Regione Campania per i gruppi consiliari continua.  Dopo l’acquisizione dei documenti relativi ai bilanci del consiglio regionale nel periodo 2008-2012, si riscontrano le prime irregolarità dall’esame degli atti. Irregolarità che hanno dell'incredibile. Infatti, tra le somme rimborsate ai politici della Campania figurano anche i soldi per le sigarette. Ciò è emerso dai primi accertamenti della Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta del pm Giancarlo Novelli sul presunto uso illecito del denaro pubblico. Pochi giorni fa agli atti dell’inchiesta è finito anche un modulo prestampato di 13 righe per ottenere i rimborsi spese senza indicare alcuna causale: a compilarlo sono i consiglieri regionali della Campania che beneficiano dei fondi messi a disposizione dei gruppi e dei consiglieri stessi.

AUTO BLU AL MARE CON I FINANZIERI COME AUTISTI. Auto blu al deputato Papa, indagati ufficiali Finanza. Avvisi di garanzia nei confronti di ufficiali della Finanza per le auto messe a disposizione del parlamentare del Pdl Alfonso Papa, scrive “La Repubblica”. Avvisi di garanzia nei confronti di ufficiali della Guardia di Finanza sono stati emessi dal pm di Napoli Henry John Woodcock nell'ambito di una inchiesta sulle auto della Finanza messe a disposizione del parlamentare del Pdl Alfonso Papa. Le ipotesi vanno dal peculato al falso ideologico e falso commesso da pubblico ufficiale. Nell'inchiesta risultano indagati anche Papa e la moglie Tiziana Rodà. Inviti a presentarsi sono stati emessi nei confronti degli ufficiali della Finanza che hanno ricevuto gli avvisi: Ernesto Mottola, Alfonso Tuccini, Fernando Capezzuto, Paolo Poletti, Giovanni Mainolfi. Poletti, ex capo di stato maggiore delle Fiamme gialle, è attuale vicedirettore dell'Aisi, il servizio segreto che si occupa di sicurezza interna. Sono indagati inoltre i sottufficiali Santolo Federico e Andrea Grimaldi. Al centro dell'inchiesta l'impiego di auto e uomini "per scopi privati e estranei a quelli di istituto ovvero espressione di attività istituzionale". Autovetture e militari della Finanza sono stati usati tra l'altro, secondo l'ipotesi di accusa formulata dalla Procura, per accompagnare Papa e la sua famiglia alla casa al mare, in provincia di Latina, tra il 2005 e il 2008; per accompagnare la moglie del parlamentare, Tiziana Rodà, che è avvocato, a Roma e nei Tribunali in cui andava per motivi di lavoro, come Napoli e Santa Maria Capua Vetere (Caserta); per accompagnare i due figli della coppia a scuola, in piscina o a giocare a calcetto; per accompagnare Ludmyla Spornik, amica ucraina di Papa, a Ischia, in giro per Roma o all'aeroporto di Fiumicino. Gli itinerari e le date in cui le vetture e il personale della Guardia di Finanza sono stati messi a disposizione del parlamentare sono ricostruiti nell'invito a comparire notificato agli indagati. I fatti al centro dell'indagine si riferiscono a un arco di tempo che va dal febbraio 2002 al febbraio 2011. Gli ufficiali indagati avrebbero disposto indebitamente il servizio di accompagnamento per Papa (magistrato in servizio fino al 2001 alla Procura di Napoli, dal 2001 al 2008 distaccato al ministero della Giustizia e dal 2008 deputato eletto nelle liste del Pdl). E ciò "senza che ne avesse alcun titolo", espletando inoltre "sovente e in modo non saltuario il servizio di accompagnamento di componenti della famiglia di Papa nonchè delle amiche dello stesso, in luoghi e per fini esclusivamente privati". Le indagini sono condotte dalle stesse Fiamme gialle. La Finanza, viene sottolineato, ha fornito la massima collaborazione all'autorità giudiziaria.

È l'ora di un'inchiesta sull'auto blu del pm. Perché la scorta di Woodcock è motivata e giustificabile, anche dopo tante inchieste fallimentari? A quale reale pericolo è esposto? E in cosa si differenzia da Alfonso Papa, che ne ha "abusato"? Così scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Il rispetto per i morti non giustifica l'idiozia. Non c'è nessun «coraggio» nella sentenza sconvolgente e violenta che condanna i sette componenti della Commissione Grandi Rischi per le previsioni sbagliate sull'attività sismica all'Aquila. Nessuna leggerezza, nessuna abdicazione ai «doveri di valutazione del rischio connessi alla loro qualità e alla loro funzione». Chi fa previsioni non è un mago, e nessuna scienza può dare indicazioni certe su un terremoto. Ma non è possibile condannare un uomo intelligente e capace come Enzo Boschi che, in premessa, ha sempre dichiarato l'impossibilità di previsioni, che prescindano da un programmatico catastrofismo, in materia di terremoti. Per scagionarlo è sufficiente la documentata dichiarazione dello stesso Boschi, in quella circostanza: «Improbabile ci sia a breve una scossa come quella del 1703, pur se non si può escludere in maniera assoluta». Ma, nonostante questo, gli scienziati sono accusati di non avere, a loro stessa tutela, viste le conseguenze, manifestato allarmismo in mancanza di dati certi. La condanna demagogica è un'intollerabile manifestazione di oscurantismo, espressione di una cultura giuridica aberrante e medievale. Dovere del presidente della Repubblica è eccezionalmente sanzionare questa inaccettabile sentenza con un provvedimento di grazia, a tutela della scienza, contro ogni rigurgito di inquisizione. Ma si può configurare l'azione giudiziaria come ritorsione personale? Henry John Woodcock e Alfonso Papa erano magistrati colleghi, probabilmente dello stesso concorso. Hanno avuto carriere diverse. Ma in che cosa la condotta del secondo è più reprensibile di quella del primo? Per insanabile conflitto di natura psicologica, e non per oggettivi riscontri, Woodcock ha ottenuto l'arresto di Alfonso Papa, magistrato in aspettativa e poi deputato, immolato da un Parlamento vile per fumose ipotesi di reato, configurate in una inesistente P4. Ha fatto per questo più di 100 giorni di galera. Adesso che ogni accusa è stata smontata e, quale che fosse, non giustificava comunque la detenzione, dopo l'ennesima inchiesta sbagliata, con capriccioso puntiglio, Woodcock ha aperto un altro fascicolo contro il nemico, con l'accusa di uso improprio e abuso di una ingiustificata macchina di servizio. Un piccolo reato odioso tipico della casta, ma risalente a dieci anni fa e, almeno da allora, noto a Woodcock. Perché, allora, apre oggi l'inchiesta? In che cosa Woodcock si differenzia dal collega reprobo? Non abbiamo visto anche lui, per processi inutili, accompagnato dalla macchina di servizio e con scorta? E perché la scorta di Woodcock è motivata e giustificabile? Papa ha abusato dell'auto di servizio? E perché Woodcock ne è dotato dopo tante inchieste fallimentari? A quale reale pericolo è esposto? E se la P4 non è mai esistita, e Papa è stato arrestato senza presupposti, perché a Woodcock non toccano sanzioni disciplinari e penali per avere stabilito una ingiusta detenzione e per avere sprecato denaro pubblico per cervellotiche inchieste? Non è uno spreco intercettare personaggi celebri che risultano estranei alle accuse? Mi rivolgo a Myrta Merlino che, nella sua «L'aria che tira», ha denunciato, confidando nell'impianto accusatorio di Woodcock, l'uso dell'auto di servizio di Papa, con severo disappunto e facendo intervistare vicini di casa perplessi. Ma perché non fa un'inchiesta sull'auto di servizio di Woodcock, e sulla reale necessità che abbia una scorta? E magari anche sui costi delle sue inchieste sbagliate che paga lo Stato? Le risulterà forse che Papa è costato allo Stato infinitamente meno di Woodcock, che ha denunciato persone acclaratamente innocenti. E non dimentichiamo che Woodcock è anche quello che, circonvenendo il vecchio procuratore Lepore, pretendeva di interrogare su questioni di sesso Berlusconi a Palazzo Chigi, senza averne la competenza. Non è un abuso essere «incompetenti»? E l'incompetenza non comporta uno spreco peggiore di un'auto blu? Troverà Woodcock, un giorno, un magistrato che, non per motivi personali ma per oggettivi riscontri di reato, aprirà un'inchiesta su di lui? In Italia si può processare una persona per bene come il generale Mori, incolpare un giurista come Giovanni Conso e tollerare che un magistrato pervicacemente sbagli e agisca per protagonismo. Chi ripagherà Papa del carcere ingiustamente subito? Non Woodcock, ma lo Stato. Un altro, evidente, spreco, cara Merlino.

A NAPOLI VITTIME INNOCENTI. SI MUORE PER NIENTE, NELL’INDIFFERENZA E SENZA OTTENERE GIUSTIZIA.

La lettera di Pasquale Scherillo: "Mio fratello e altre 160 vittime innocenti. Napoli è in guerra, non fate finta di nulla ". L'episodio: un trentenne ucciso per errore da killer dei clan. Pasquale Scherillo, fratello di un ragazzo ammazzato quasi allo stesso modo otto anni fa, ha scritto a Repubblica.it: "Ribelliamoci alla paura e al coprifuoco imposti nei nostri quartieri". Il resoconto è di Claudia Morgoglione. L'ultima vittima innocente dell'infinita guerra di camorra partenopea si chiama Pasquale Romano: studente trentenne ucciso a Marianella - zona nord della città - alle 22 di lunedì scorso. Bersaglio incolpevole di un errore di persona, commesso da killer che solitamente vanno in giro ad ammazzare i rivali, su ordine dei clan, con armi in pugno e tanta cocaina in corpo. Una tragedia, la sua, che non colpisce solo la famiglia, gli amici, i residenti del comune limitrofo di Cardito in cui risiedeva. Perché Pasquale "è solo l'ultimo agnello sacrificale di una lunga serie. Prima di lui, in Campania, altre 160 persone sono morte in maniera analoga: gente perbene freddata per sbaglio, o caduta nel fuoco incrociato di bande che sul territorio agiscono indisturbate. Molti non se ne rendono conto, ma da queste parti, anche se in teoria siamo in tempo di pace, si vive in trincea. Ed è ora di dire basta, di ribellarsi, di uscire dall'assuefazione e dire 'no'". A lanciare - attraverso una lettera a Repubblica.it - questo appello ai suoi concittadini e all'intera società civile del Paese, è Pasquale Scherillo. Ha trentotto anni e vive e lavora a Casavatore, uno dei quartieri ai margini della città investiti, dal 2004 in poi, da quella i giornali definiscono "la guerra di Scampia". Il conflitto tra cosche camorriste concorrenti, per il controllo del territorio e della zona di spaccio di droga più redditizia d'Europa. Lui, questa mattanza, l'ha vissuta sulla pelle. Visto che suo fratello Dario, ventiseienne, fu la vittima casuale di un regolamento di conti dalla dinamica molto simile a quella di Romano: "Erano circa le 20,30 del 6 dicembre di otto anni fa, stava uscendo dalla scuola guida che gestivamo insieme (e di cui continuo ad occuparmi io). Parlava con un amico, discutevano di quando l'altro avrebbe dovuto sostenere l'esame per la patente. Era accanto al suo motorino, quando si avvicinano due pusher e sicari degli Scissionisti, che gli sparano alle spalle. Secondo gli investigatori il suo scooter era identico, per modello e colore, a quello della vittima designata, che era lì pochi secondi prima. Gli assassini, però, non sono mai stati individuati e catturati". Otto anni senza giustizia, per la famiglia Scherillo. E a ogni nuovo agguato simile - ce ne sono stati tanti, a cadenza quasi regolare, concentrati proprio in quella zona di Napoli - il dolore che si riaccende. All'allungarsi di questo lungo elenco di morti ammazzati senza colpa, ciascuno con una sua storia tragica: "Ai tempi di mio fratello, o poco dopo, caddero innocentemente Antonio Landieri, finito in mezzo a una sparatoria; Gelsomina Verde, freddata perché ex ragazza della persona sbagliata; Attilio Romanò, dipendente di un negozio di telefoni il cui titolare era il vero obiettivo". Tra gli episodi più recenti il caso di Andrea Nollino, ucciso per sbaglio lo scorso giugno a Casoria, mentre apriva il suo bar. Il suo fu uno di quei casi che, almeno per un attimo, provocò un risveglio di coscienze, con una fiaccolata per dire basta alla violenza. Malgrado la sofferenza risvegliata da ognuno di questi episodi, Pasquale Scherillo è riuscito a non farsi travolgere. A utilizzare la rabbia come molla per non arrendersi: "Ho fondato un'associazione a nome di mio fratello, che fa parte del Coordinamento campano delle vittime innocenti della criminalità, presieduto dal marito di Silvia Ruotolo (la donna uccisa nel 1997 nel quartiere Vomero, ndr). Centosessanta persone, civili caduti in una guerra assurda che nessuno vuole riconoscere come tale. Io da anni vado a dire queste cose nelle scuole, per cercare di educare alla legalità: elementari, medie, superiori. I bambini e i ragazzini ascoltano le mie parole, capiscono quando dico che non bisogna accettare la mentalità camorrista, che nessuno può dirsi al sicuro. I liceali, invece, hanno già troppa malizia, quella che qui a Napoli in gergo si chiama cazzimma: dicono che se uno si fa i fatti propri va tutto bene, che io parlo così solo perché ho avuto un lutto". Atteggiamenti che fanno riflettere. Perché, al di là delle istituzioni "che devono garantire la sicurezza per il territorio e soprattutto la certezza della pena per i camorristi", il problema - a suo giudizio - investe in primo luogo "la tanta brava gente che vive in queste zone della città, e che di fatto è la grande maggioranza. Ma che si adegua troppo allo stato delle cose. Ad esempio, in quartieri come il mio esiste un coprifuoco non dichiarato: non si può uscire la sera tardi, e se lo si fa mai da soli: se un ragazzo va fuori si infila subito in una macchina con almeno altri tre ragazzi. Le persone si sono abituate a vivere così. Le leggi del territorio sono imposte dalla minoranza di delinquenti, che sfruttano la paura". Da qui il suo appello a non arrendersi, a reagire: "Non tanto scendendo in piazza - conclude Pasquale - quanto dicendo no ogni giorno ai ditkat di quella gente, sfidandoli con le parole e i comportamenti, come Roberto Saviano ci ha insegnato. Denunciandoli, ogni volta che si può. A me non hanno mai chiesto il pizzo, se lo facessero chiuderei subito e andrei dalla polizia. Al di là delle questioni politiche i napoletani hanno votato sindaco un magistrato, il che è un buon segnale: ma adesso bisogna cambiare anche la nostra vita quotidiana". In altre parole: noi stessi.

Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Pasquale Romano, detto Lino, era innocente. È stato massacrato dai clan e ignorato dal governo, che non si è presentato ai suoi funerali, in un'Italia che non si indigna più. Mi chiedo che Paese siamo diventati. Che Paese è quello in cui un ragazzo va a salutare la propria fidanzata prima di una partita a calcetto, scende di casa e viene massacrato da una sventagliata di mitra. Che Paese è quello in cui i media considerano questa, tutto sommato, una notizia che può esser data in coda alle altre, e non la notizia principale, da dare per prima. Una delle tante. Quel ragazzo si chiamava Pasquale Romano: lo chiamavano Lino, ma nessuno ricorda già più il suo nome. Come è stato possibile assuefarsi a tutto questo? Forse si pensa che se accade lì, in terre di clan, è "normale"? È così? La democrazia nel mezzogiorno italiano è morta il 15 ottobre 2012, insieme a Lino Romano, e insieme a lui è stata seppellita ieri, dopo i funerali. Ed è morta non solo perché Lino è caduto innocente, ma perché per urlare che si trattava dell'ennesimo ragazzo innocente ucciso a sangue freddo e senza motivo, si è aspettato di capire a che famiglia appartenesse, chi fossero i suoi parenti. Ma perché - mi domando - se avesse avuto un lontano parente affiliato o coinvolto in fatti di camorra, sarebbe stato forse meno innocente? Ma è così che vincono le mafie: facendo credere che nessuno è innocente. Il messaggio che i clan vogliono far passare è che tutto appartiene a loro in maniera diretta o indiretta. Tutti fanno parte della loro logica, nessuno può dirsi immacolato. Tutti hanno un parente, un concittadino, un vicino di casa, tutti hanno fatto un lavoro per loro o hanno un amico che fa parte del Sistema. E allora magari nascere a Cardito, crescere a Secondigliano, andare a casa della propria fidanzata a Marianella, tutto sommato, diventa, nella coscienza nazionale, una sorta di colpa. Il retropensiero è: "Beh, però è normale che se vivi lì queste cose possano accadere". E invece non è così, non è naturale ed è un'aberrazione ragionare in questo modo. Lino Romano era una persona per bene. Era un lavoratore e veniva da una famiglia per bene. La maggior parte delle persone che vivono in questi territori sono persone per bene. Per bene potrà sembrare un'espressione superficiale, fin troppo semplice, ma non lo è. Per bene significa che si tratta di persone che lavorano duramente, che vivono con disciplina e soprattutto che resistono in territori dove è molto facile poter cedere a corruzioni e illegalità. Quindi per bene, lavorare per il bene, è l'espressione più appropriata per queste famiglie che si credono normali, ma che in realtà hanno una singolare tempra. Che Paese è quello che non ha sentito il bisogno di andare in massa alla fiaccolata per Lino Romano? E il governo, perché non è andato ai funerali? Avrebbe dato un segnale fondamentale. In questi territori manca giustizia, istruzione, ordine pubblico, lavoro, impresa, l'ambiente è a pezzi: tutti i ministri avrebbero trovato cose da dire e, soprattutto, avrebbero avuto molto, moltissimo da ascoltare. Non si trattava di fare visita o di ricevere i genitori di Lino Romano, si trattava di essere lì presenti perché in quelle terre, dalla prima grande faida che ha fatto centinaia di morti, nulla è cambiato. Nelle piazze di spaccio si sparava otto anni fa, nelle stesse piazze di spaccio si torna a sparare ora. Clan Di Lauro contro "scissionisti" otto anni fa, "scissionisti" contro i "girati" alleati ai Di Lauro ora. Quattro governi dalla prima faida a oggi e nessuno ha avviato alcun tipo di riflessione sul mercato delle droghe, sul narcotraffico, su come strapparlo ai cartelli criminali. Tutti si sono sottratti sino a ora anche ai dibattiti avviati in altri Paesi. L'Italia in questo è latitante. Al massimo c'è stata militarizzazione, che nulla ha risolto. Bisogna esserci, invece, su quel territorio che sembra totalmente abbandonato. La crisi sta regalando ai cartelli criminali l'intero mezzogiorno italiano e si affaccia sulla totalità del paese. E non si può demandare tutto solo al coraggio e alla creatività delle associazioni di volontari. Ripeto: che Paese siamo diventati? Che Paese è un Paese che non riesce nemmeno più a esprimere indignazione collettiva? Qualche mese fa, giugno, era successo lo stesso. A Casoria, un barista pulisce la strada davanti al suo bar. C'è una sparatoria e un proiettile lo colpisce. L'intero paese scende in piazza per dire che Andrea Nollino era una brava persona, che non c'entrava nulla. Un intero paese di lavoratori, disoccupati, persone normali, persone umili scende in piazza. C'era "Libera", l'associazione di Don Ciotti, ma non politici, nessuno che si assumesse la responsabilità di dire: "Mai più". Così come c'era "Libera" a fianco della famiglia Romano. Come per Andrea Nollino, ora per Lino Romano valgono le stesse considerazioni. Nulla di più forte contro la crisi, per arginarla, esiste che ridare fiducia a un territorio e a chi lo abita. Nulla di peggio può essere fatto in tempo di crisi che nutrire la sensazione, che diventa certezza, che tutto sia inutile o per dirla con Corrado Alvaro, che "vivere onestamente sia inutile". Mi sono trovato a scrivere queste parole molte volte. Quando hanno ucciso Attilio Romanò, quando hanno ucciso Dario Scherillo, quando hanno ucciso Andrea Nollino e adesso che hanno ucciso Lino Romano. Quei territori sono di nuovo in guerra, la faida è riesplosa e terribili possono essere le conseguenze. Flussi di coca, eroina, hashish si stanno riassestando e diffondendo come sempre da Scampia, ma ce ne accorgeremo quando i morti cadranno a decine, come la prima volta. È facile in Italia essere profetici quando dici cose che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno (o quasi) vuole vedere. Dalla prima faida a oggi si sono inserite le associazioni di volontariato uniche a denunciare negli anni cosa stava ancora accadendo ma nulla di davvero nuovo è iniziato. Quindi che si inizi ad ascoltare chi in quelle zone ci lavora e ne conosce i problemi. Tutti, ma proprio tutti, parlano della necessità di ripartire dalla scuola; sarebbe importante capire cosa è stato realmente fatto, e con quali fondi. L'attuale sottosegretario all'istruzione Marco Rossi Doria è stato il fondatore della Onlus "Maestri di strada", chi più di lui in questo momento può fare da ponte tra la periferie di Napoli e questo governo in tema di istruzione? Ma soprattutto, com'è possibile che a distanza di otto anni dalla faida in alcun modo si sia affrontato il discorso sul proibizionismo in materia di droghe? Scampia è il più grande mercato a cielo aperto del mondo occidentale. Camorra e 'ndrangheta si spartiscono il bottino del narcotraffico divenendo interlocutrici dei più importanti cartelli sudamericani, ma nel corso di questi anni non è stato fatto nulla per affrontare il problema dello spaccio, sperando, cinicamente, che la pax tra cartelli continuasse. O pensando, ancora più cinicamente, davanti alle stragi: bene che si ammazzino tra loro. Pensieri banali e qualunquisti. La pax mafiosa li rende più forti. E anche la guerra li rende più forti: per ogni morto di mafia se ne affilieranno altrettanti. Uno Stato che offre solo repressione favorisce, ignorandone le cause, situazioni che portano, come in questo caso, alla morte di un innocente. L'omicidio di Lino Romano ha degli esecutori materiali che devono esse trovati, processati e se ritenuti colpevoli condannati; ma il responsabile occulto di questo omicidio è una tirannica indifferenza sul sud e sul potere criminale. Il sud è il problema principale della nostra democrazia ma è anche la grande occasione e risorsa del nostro paese. Gli uffici del Comune di Napoli dovrebbero essere spostati a Scampia. Le sedi attuali, eleganti, centrali, pompose, non rispecchiano più l'anima della città. Il cuore di Napoli ora è nelle sue periferie, è lì che la città pulsa e muore. Anni fa uccisero un ragazzo innocente vicino Napoli. Portarono via il corpo, rimase il sangue a terra. Ricordo che un uomo, forse un prete, si inginocchiò dinanzi a quel sangue, mischiato alla segatura. Come a cercare di chiedere scusa a quella vita che voleva scorrere e che invece era stata costretta a seccarsi nei trucioli. Poi arrivò un'auto. Diede un colpo di clacson. L'uomo fu costretto ad alzarsi. L'auto parcheggiò lì, sul sangue. Tutto finito.

Già. E poi ti ritrovi le istituzioni che pretendono rispetto.

PREFETTI, IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE. ANCHE A NAPOLI!!!

Il prefetto De Martino infuriato con don Maurizio Patriciello: «Inaudito, chiama la mia collega casertana "signora"». La scena si è svolta il 18 ottobre 2012. Ospite in prefettura a Napoli è il prete di Caivano don Maurizio Patriciello, noto come il sacerdote anti-roghi tossici, scrive “Il Corriere della Sera”. Il parroco esplicita la condizione di assoluto allarme delle terre dell'hinterland partenopeo e casertano infestate da roghi tossici. E lo fa rivolgendosi al prefetto di Napoli De Martino e all'omologo di Caserta, Carmela Pagano. Commette però un errore, giudicato gravissimo: chiama "signora" la dottoressa Pagano e non "prefetto" come vorrebbe il bon ton istituzionale. De Martino vede rosso e redarguisce, in modo palesemente alterato, il reverendo. «Lei chiamerebbe mai "signore" un sindaco? Dov'è il rispetto per le istituzioni?». Poi, nella foga, il prefetto scivola sull'italiano: «Se io la chiamarei 'signore' invece di reverendo, lei che direbbe?». Don Maurizio resta in silenzio, poi si scusa: «Non era mia intenzione mancare di rispetto» e prosegue il suo discorso sull'aumento di tumori e sulle esalazioni da diossina, roba da far accapponare la pelle. Nel corso del piccolo diverbio - ripreso con un cellulare - il commento più efficace si alza dal pubblico: "Signori si nasce" dice un esponente del comitato anti-roghi all'indirizzo del prefetto ferito nell'etichetta. In una nota, diffusa sabato 20 ottobre, il prefetto De Martino definisce la vicenda un «incidente di lavoro spiacevole» e poi aggiunge: «Al contrario di quanto è stato evidenziato, al di là dei toni anche accesi – e dei quali mi dolgo – dettati dalla forte partecipazione di tutti alla problematica, nell’occasione non si è registrata alcuna distanza tra istituzioni e cittadini ma un clima di intensa e proficua collaborazione. Quanto all’episodio tengo a precisare che il parroco don Maurizio Patriciello conosceva il prefetto Carmela Pagano e il suo ruolo perché era stato ricevuto in più occasioni presso la prefettura di Caserta. Pertanto dopo averla chiamata per ben tre volte "signora" in presenza dei rappresentanti di altre istituzioni – più di 20 sindaci, il questore, i comandanti dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e dei Vigili del Fuoco, i rappresentanti della Regione, della Provincia e delle Asl – ho ritenuto doveroso invitare don Patriciello a rivolgersi al responsabile della prefettura di Caserta utilizzando il titolo di prefetto, perché riconoscesse nel suo interlocutore, agli occhi di tutti, il ruolo e le responsabilità che sono affidate al rappresentante del Governo. Il rispetto dei ruoli ancor più se di livello istituzionale e connessi a incarichi di elevata responsabilità è la prima regola per aver un confronto costruttivo.... Se qualcuno si fosse rivolto a don Patriciello, appellandolo come signore, avrei chiesto ugualmente il rispetto per l’istituzione che rappresenta e per le funzioni che svolge e sono certo che nessuno avrebbe avuto nulla da ridire». «Il prefetto di Napoli Andrea De Martino si scusi con don Maurizio Patriciello o bisognerà chiedere le sue dimissioni immediate». A sostenerlo è Roberto Saviano in una dichiarazione all'Ansa. «Da anni don Maurizio è presidio di legalità e umanità in terre difficilissime. Don Maurizio - conclude Saviano - è lo Stato in quel territorio». Intanto a sostegno del prete si è costituito un gruppo su Facebook che chiede al prefetto De Martino di scusarsi pubblicamente. Un gruppo che in poche ore ha fatto già oltre 350 iscritti. Intanto gli aderenti al «Coordinamento Comitato Fuochi» annuncia iniziative clamorose per i prossimi giorni e si scaglia contro il ministro della Salute Balduzzi che avrebbe sottovalutato la vicenda.

Chiama "signora" il prefetto, prete rimproverato in pubblico, scrive Antonio Tricomi su “La Repubblica”. Durante un incontro sull'allarme rifiuti tossici, il sacerdote anticamorra (e antidiscarica) don Maurizio Patriciello si rivolge a Carmela Pagano, prefetto di Caserta, chiamandola "signora". Scatenando l'ira del prefetto di Napoli Andrea De Martino. Carmela Pagano quando era a Taranto ha negato il porto d’armi al dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Inoltre mai la "signora" ha sentito il dovere di interloquire e rapportarsi con lo stesso Giangrande e la sua Associazione. Ha preferito "Libera" di Don Ciotti.

Comunque, da una parte un prete anticamorra, don Maurizio Patriciello. Dall'altra ben due prefetti: quello di Napoli, Andrea De Martino (che il 30 ottobre lascerà la sua poltrona), e quello di Caserta, Carmela Pagano. Si tratta in tutta evidenza di una signora. Ed è infatti in questi termini che don Patriciello si rivolge a lei, durante un incontro in Prefettura, a Napoli. Don Patriciello è in piedi, atteggiamento mite e rispettoso, ma aria combattiva. Dall'altra parte del tavolo, seduti, i due prefetti e altre autorità. Il tema dell'incontro è l'allarme rifiuti in Campania. "Una mattina sono andato dalla signora - esordisce il prete - la signora è stata così gentile da ricevermi ...". Veramente troppo per il prefetto De Martino, che sbotta, interrompendo il prete: "Ma quale signora, è un prefetto della Repubblica Italiana. Abbia più rispetto per le istituzioni". Stupore del sacerdote, che quasi balbetta: "Ma non era mia intenzione offendere, se vuole posso anche andarmene". De Martino alza ulteriormente i toni. "Può anche andarsene, ma prima cerchi di capire cosa sto dicendo. Chiamandola signora l'ha offesa e ha offeso anche me". Mentre il prefetto inveisce contro il prete, insistendo nei suoi argomenti (grosso modo: non si può chiamare "signore" o "signora" chi rappresenta le istituzioni, è un modo per sminuirle) monta l'indignazione tra il pubblico e tra gli accompagnatori del sempre più sconcertato Patriciello. "Signori si nasce", esclama una donna, anzi una signora, citando inevitabilmente l'antica saggezza di Totò. E ancora, rivolgendosi direttamente a De Martino: "Lei è prima di tutto un cittadino, abbiate voi piuttosto rispetto per i cittadini". Ma il prefetto, sentito da Repubblica.it, rimane fermo sulle sue posizioni: "Stimo don Maurizio, ma la sua era una mancanza di rispetto".

Ho appena visto un video in cui un sedicente “signor” Andrea De Martino scrive Piergiorgio Odifreddi che in realtà è soltanto un maleducato “signorotto” d’altri tempi, ha interrotto con urla e strepiti una dichiarazione di don Maurizio Patricello, un prete anticamorra che pacatamente stava parlando di rifiuti tossici. Evidentemente sentendosi tirato in campo per l’argomento, il novello don Rodrigo ha inveito contro l’attonito sacerdote, che ha faticato un po’ a capire quale fosse stato il suo sgarro. Il gravissimo reato in cui era incorso, è poi stato spiegato, era di aver chiamato il prefetto di Caserta “signora”, invece che “signor prefetto”. E per buona misura, il signor De Martino ha precisato urlando che chiamare “signora” un prefetto offendeva non soltanto colei alla quale il sacerdote si riferiva, ma anche lui. Perché sì, apparentemente questo energumeno è pure lui un prefetto, di Napoli per la precisione, e pretende rispetto! E non gli viene in mente che già chiamarlo anche solo “signore” sarebbe un’esagerazione, visto il suo stile tutt’altro che signorile! In una successiva dichiarazione il malcapitato funzionario pubblico ha ribadito che la sua maleducazione era un “doveroso” richiamo al rispetto “delle istituzioni”. Secondo lui, sullo stesso piano delle lezioni di legalità che si fanno ai giovani. E ha aggiunto che “certe cose bisogna viverle, per capirle”. Ma in questo, almeno, il signor De Martino ha ragione. Perché bisogna vedere e sentire le registrazioni del suo comportamento, per capire che quei modi sono più consoni a un bulletto di periferia che a un prefetto di una grande città. E che effettivamente non fanno onore alle istituzioni, e nemmeno a lui.

Signore e signori, buonanotte (al cittadino) scrive Michele Smargiassi. Ma il signor Andrea De Martino, al quale capita di essere temporaneamente un funzionario al servizio dei cittadini della Repubblica Italiana in qualità di prefetto di Napoli, avrà chiesto scusa a don Maurizio Patriciello? E assieme a don Maurizio avrà chiesto scusa anche a tutti i cittadini italiani? Perché nella persona del parroco di Caivano ha umiliato tutti quanti noi, ricordandoci che siamo solo dei sudditi e che dobbiamo presentarci davanti al Potere col cappello in mano, ossequienti e deferenti e timorati, rispettando le barocche formule di genuflessione verbale che solo un Potere arrogante e sordo potrebbe ormai pensare di pretendere come una formula di “rispetto”. Ho cercato quelle scuse sui giornali e non le ho trovate. Ho aspettato ventiquattr’ore, dopo aver visto su RepubblicaTv questo sconcertante video, girato e diffuso in Rete dagli attivisti presenti all’incontro, in attesa appunto che succedesse qualcosa. Non è successo, anzi il signor De Martino sembra ancora convinto che il sacerdote con quell’appellativo civile ed educato abbia mancato di rispetto alle istituzioni, queste le sue conclusioni quasi surreali: “Se cominciamo tutti ad essere signori, dove lo troviamo più il prefetto?”. Se non conoscete l’episodio della sconcertante umiliazione verbale da parte di un prefetto nei confronti di un cittadino che ha osato impiegare, per rivolgersi a una delle Loro Maestà, solo l’appellativo civile e cortese di “signora” invece del titolo sacralmente protocollare di “Signora Prefetto”, allora andatelo a vedere subito, quel video, poi ne parliamo. Ecco, cominciamo da quel che si vede, visto che questo è un blog sulla cultura dell’immagine. Guardate, allora, come il rapporto verticale e diseguale fra sovrani e sudditi è plasticamente rappresentato nella distribuzione delle relazioni spaziali, in quell’incontro fra un gruppo di cittadini e i civil servants che dovrebbero essere al loro servizio. Guardate l’altare del Potere: con i prefetti asserragliati dietro l’iconostasi invalicabile e severa del tavolo di noce, picchettati da bandiere senza vento usate qui come stampelle della sovranità più che come simboli di democrazia, sormontati da un dipinto (che potrebbe anche essere un paesaggio del mio avo Gabriele Smargiassi…) che nessuno guarderà mai perché è lì solo come connotazione di sfarzo e prestigio; guardateli, schierati frontalmente, spalla a spalla, nessuna interazione con gli astanti, ieratici solenni e freddi, lo sguardo nel vuoto come i mosaici imperiali di Giustiniano e Teodora in San Vitale a Ravenna. E poi guardate il Cittadino, lontano, ai margini della sala, neppure di fronte all’altare ma di sghimbescio, che si alza in piedi di fronte a loro che restano ovviamente seduti, che protende il busto quasi per scavalcare i dieci metri di fossato che lo separano dai funzionari pubblici ai quali lui, come tutti noi, paga lo stipendio. Basterebbe questa disposizione coreografica per capire quanto poco la democrazia italiana sia riuscita a liberarsi dalla messinscena borbonica dell’autorità, quanto ci tenga ancora a rappresentare fisicamente la siderale distanza che separa chi comanda da chi deve ubbidire, come la descrisse Ignazio Silone in una pagina indimenticabile: In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il Principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del Principe. Poi vengono i cani delle guardie del Principe. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ma il video ha anche un sonoro, e qui non riesco a restare nei panni del Fotocrate che osserva solo le figure, chiedo venia se questa volta Fotocrazia andrà un po’ fuori delle sue competenze, ma di fronte a questa sequenza il disagio diventa davvero sconcerto e rasenta il disgusto. Un cittadino, che sia prete o no conta poco, denuncia con tono civile e fermo cose drammatiche, parla di scorie tossiche, di roghi pestilenziali, di amianto non bonificato, ma l’espressione annoiata sul viso del Potere si scuote solo quando quel cittadino dice “signora” rivolgendosi al prefetto di Caserta, Carmela Pagano (che a onor del vero sembra l’unica che sta ascoltando, e fa pure sì sì con la testa, e non pare turbata dalla qualifica di “signora” ); e allora il Potere interrompe brutalmente il Cittadino, indifferente a quel che sta dicendo, lo intimidisce col dito alzato ammonitore come uno scettro, “A chi dice signora?”, lo investe di tutto il maestoso disprezzo del potentato offeso dall’irriverenza del cafone, lo apostrofa in mirabile italiano: “Se io lo chiamerei signore, lei cosa penserebbe?” Fosse anche stata detta in un signor italiano, quella frase resterebbe assurda e ridicola. Sembra presa di peso da uno sketch di Totò. Ma quello di Totò è il mondo dell’ironia sapiente che beffeggia i poteri, è la sacrosanta irriverenza di Bertoldo e Cacasenno. Invece l’intemerata del prefetto offeso nella sua aura viene da un altro mondo, il mondo delle forme vuote, degli orpelli di gesso dorato, delle formule più importanti dei fatti, un mondo ancora più antico e decrepito dell’italico “lei non sa chi sono io”. Chissà se il signor De Martino ha mai ascoltato un’opera lirica, assistito a un balletto classico. Chissà se gli hanno detto che le incantevoli stelle del firmamento teatrale, le dive che sono la più riuscita approssimazione borghese al divino, vengono rispettosamente e devotamente chiamate “signora Maria Callas”, “signora Carla Fracci”. Apostrofate cioè con quello che il signor De Martino ritiene un insulto vergognoso se rivolto a un semplice dipendente dello Stato. Continuo a chiedermi se questo episodio passerà come acqua fresca, e vorrei chiederlo alla signora Anna Maria Cancellieri che ora, per incarico dei cittadini, ricopre il ruolo di ministro degli Interni e che, posso dirlo per averla conosciuta di persona, è una autentica signora e lo sarà anche quando non avrà un potere da esercitare.

A PROPOSITO DI PREFETTI, PARLIAMO DI CARLO FERRIGNO.

Arrestato il prefetto Carlo Ferrigno, scrive “Il Corriere della Sera”. Il suo nome era spuntato in un’intercettazione del caso Ruby. L’ex commissario antiracket avrebbe sfruttato la sua posizione per ottenere favori sessuali da giovani donne. È stato prefetto di Napoli, poi commissario nazionale antiracket. Uno dei più alti funzionari di Stato, in prima fila nella lotta alla mafia. L'ex prefetto Carlo Ferrigno, 72 anni, è stato arrestato con l'accusa di millantato credito ed è adesso agli arresti domiciliari. È indagato anche per prostituzione minorile per due casi segnalati nell'inchiesta. Secondo la Procura di Milano, dal 2005 a pochi mesi fa avrebbe fatto avance e ottenuto favori sessuali, promettendo in cambio il suo autorevole intervento nella pubblica amministrazione. Nell'ambito dell'indagine, è finito in carcere anche l'imprenditore Massimo Abissino, titolare di un negozio di moda in via Farini a Milano, che avrebbe tra le altre cose favorito la prostituzione di una delle due minorenni che avrebbero avuto rapporti con Ferrigno. Ad Abissino vengono contestati anche fatti di droga. Una delle giovani lavorava proprio nel negozio di Abissino come commessa. In totale, le parti lese, che riguardano condotte sessuali di Ferrigno per i reati di millantato credito e prostituzione minorile, sono 4: le due minorenni e due donne maggiorenni. In particolare, l'ex Prefetto, chiedendo prestazioni sessuali, millantava agevolazioni per le donne come la possibilità in un caso di far entrare una giovane in Polizia e, in un altro caso, di risolvere la questione di un permesso di soggiorno per un'altra ragazza. L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Stefano Civardi, è nata dalla denuncia del presidente di Sos racket e usura Frediano Manzi, che aveva raccolto le testimonianze di alcune vittime di usura ed estorsione, secondo le quali Ferrigno avrebbe promesso di «accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura, farle passare in commissione, se avesse ottenuto in cambio prestazioni sessuali». In merito Frediano Manzi era stato sentito come persona informata sui fatti, ma il pm aveva poi secretato gli atti. «Da tempo circolavano le voci nel nostro ambiente di prestazioni sessuali che erano richieste soprattutto alle vittime di usura che presso la sede del Comitato Nazionale Antiracket a Roma, in Via Cesare Balbo 37, entravano in contatto con il Prefetto Carlo Ferrigno». Così si apre la lunga nota pubblicata sul sito dell'associazione antiracket già nel febbraio del 2010. All'epoca risalgono anche le testimonianze video registrate nella sede dell'associazione. Le presunte vittime di Ferrigno raccontavano la disavventura con il funzionario che era arrivato a molestarle pesantemente. «Queste voci riferivano di una prassi consolidata e perpetrata negli anni dal Prefetto: accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura. Nel caso fossero stati uomini a far domanda al fondo, era loro richiesto esplicitamente se avessero avuto una "amica" da presentargli». Secondo quanto Manzi scriveva sul sito dell’associazione «era abitudine del commissario antiracket inviare un autista (...) con la macchina in dotazione del ministero a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni, per fare orge e festini presso l’abitazione del Prefetto a Roma». Il nome di Ferrigno è poi spuntato in un’intercettazione svolta nell’ambito dell’inchiesta sul caso Ruby il 29 settembre scorso, in cui Ferrigno dice a un uomo parlando delle feste del presidente del Consiglio: «C’erano orge lì dentro non con droga, non mi risulta. Ma bevevano tutte mezze discinte. Berlusconi si è messo a cantare e a raccontare barzellette. Loro tre (Berlusconi, Mora e Fede) e 28 ragazze. Tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto solo le mutandine strette...». Un racconto che all'alto funzionario era stato fatto da Maria Makdoum, ventenne danzatrice del ventre in un caso ospite a Villa San Martino. Per tenerla costantemente sotto controllo, il prefetto avrebbe anche violato il sistema informatico del Ministero dell'Interno. Da quanto si è saputo, Ferrigno controllava i contatti telefonici della Makdoum, anche grazie all'aiuto di altre persone indagate. In particolare, aveva l'accesso ad alcuni account e a delle password per spiare il traffico telefonico della ragazza. Il presidente dell'associazione Sos-Racket e Usura, che ha dato il la all'inchiesta, Frediano Manzi commenta così l'arresto: «Noi siamo stati gli unici tra tutte le associazioni antiracket a denunciare questo fenomeno. Ora pretendiamo che vengano verificate le posizioni di tutti coloro che hanno ricevuto i finanziamenti disposti dal prefetto Ferrigno dal 2003 al 2006 periodo in cui è stato commissario Antiracket». «Ferrigno è pronto a chiarire tutto e a dimostrare che si tratta di accuse infondate». Lo ha spiegato uno dei suoi legali, l'avvocato Maurizio Messuri. L'interrogatorio dell'ex prefetto di Napoli ed ex commissario nazionale antiusura dovrebbe tenersi tra venerdì 15 e sabato 16 aprile, mentre l'imprenditore Massimiliano Abissino, finito in carcere perchè avrebbe indotto alla prostituzione una minorenne, dovrebbe essere sentito dal giudice giovedì. «In questa vicenda - ha spiegato l'avvocato - si è inserita una situazione mediatica che non ha attinenza con i fatti contestati». Il nome di Ferrigno era comparso infatti anche in alcune intercettazioni dell'inchiesta sul caso Ruby. «Nella mia carriera poi - ha aggiunto il legale - non ho mai sentito di una misura d'arresto per millantato credito». Inoltre, secondo l'avvocato, i presunti reati contestati sarebbero di competenza della Procura di Roma, perchè «nel periodo dei fatti contestati Ferrigno svolgeva la funzione di commissario antiusura». Dopo aver spiegato che «ricorreremo al Riesame», l'avvocato ha aggiunto che «presto faremo partire le denunce per calunnia nei confronti dell'associazione» Sos Racket e Usura, quella che consegnò mesi fa ai pm dei video con le testimonianze di alcune donne, dando il via all'inchiesta.

Come si vede, a Napoli non è solo la Camorra a vessare il cittadino. Vi sono anche le istituzioni a fare la loro parte.

VIGILI URBANI. PARLIAMO DI VIOLENZA DELLE ISTITUZIONI, OMERTA' ED IMPUNITA'.

In riferimento al comportamento tenuto dal comandante dei vigili urbani nei confronti di un giornalista, di seguito si propongono alcune esemplari note stampa pubblicate sul sito del giornalista di Milano Franco Abruzzo.

Dobbiamo riflettere sul comportamento di alcuni giornalisti napoletani di fronte al collega schiaffeggiato dal comandante dei VVUU.

Alessandro Migliaccio: “Lo schiaffo dei colleghi e il silenzio delle Istituzioni. Le disavventure di un giovane giornalista professionista”. Il collega Alessandro Migliaccio, che nella sua incredibile vicenda è stato assistito da Unione Cronisti Campani e dall’Assostampa Campania, ha mandato all’Unci questo intervento: "Se è vero, come è vero, che ho denunciato il capo dei vigili di Napoli perché ha osato darmi uno schiaffo per un mio articolo che non gli è piaciuto, allora è pur vero che non resterò zitto di fronte all'attacco che sto subendo da alcuni colleghi napoletani. Bugie sull'articolo "incriminato", assurdi collegamenti tra la vicenda dello schiaffo (reale) e quella (presunta) di una busta con proiettile recapitata al comando della Polizia municipale di Napoli, ma perfino articoli in cui, in maniera velata, si giustifica l'assurdo gesto violento del capo dei vigili. Insomma, sono stanco di questo attacco portato avanti da diversi colleghi amici, evidentemente, del comandante della Polizia municipale. Quelli stessi colleghi che per una settimana hanno ignorato l'accaduto, dandone poi risalto solo dopo che la notizia è stata data da "Tg3-Lineanotte", e quindi da un'emittente nazionale. Il mio legale, Elena Coccia, si è vista costretta ad inviare alle redazioni di diversi giornali locali una richiesta di rettifica in merito ad articoli in cui chiaramente si affermava che io avrei indicato l'indirizzo di casa del comandante della Polizia municipale mettendo a rischio la sua incolumità. Non solo nell'articolo non c'è nessun indirizzo ed il capo dei vigili non rischia nulla, ma perché spostare l'attenzione sull'articolo piuttosto che condannare lo schiaffo, ovvero il gesto violento ed inaccettabile? Spero che, almeno Voi, vogliate intervenire in questa incresciosa vicenda che mi vede vittima di due schiaffi. Inutile dirVi che il secondo è quello dei miei stessi colleghi napoletani, che non hanno capito che se ho intrapreso una battaglia legale denunciando il capo dei vigili di Napoli, l'ho fatto solo per difendere la libertà di stampa di tutti i giornalisti e quindi anche la loro. La stessa libertà di stampa che, come ho avuto modo di dire ad alcuni miei colleghi, vale molto di più rispetto agli "equilibri da mantenere" delle loro redazioni o rispetto alle loro stesse amicizie con gli "alti in grado". Sappiate che, col silenzio dei colleghi e con le bugie di alcuni giornali, la nostra categoria sta facendo una pessima figura a livello nazionale e questo lo potrete riscontrare su moltissimi siti internet in cui ancora si commenta la vicenda. Spazi di libertà in cui ognuno dice la sua e in tanti mi invitano a non mollare e a non deludere chi lotta per una giusta causa: l'articolo 21. RingraziandoVi per quanto avete già fatto, porgo cordiali saluti". Alessandro Migliaccio, semplicemente un giovane giornalista professionista.

Caso Migliaccio: Sementa è al suo posto. Iacopino: "Il sindaco non fa nulla". Il segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, in relazione a quanto accaduto a Napoli il 5 dicembre ha dichiarato: “Sono più di due settimane da quando il comandante dei vigili urbani di Napoli ha fatto convocare nel suo ufficio il giornalista Alessandro Migliaccio, lo ha fatto identificare e lo ha schiaffeggiato. Che cosa è accaduto? Nulla. Autorevoli esponenti della giunta del sindaco Rosa Russo Iervolino hanno assicurato provvedimenti, che non sono arrivati, invitando l’Ordine dei giornalisti a non prestarsi a strumentalizzazioni. Le uniche che fin qui ci sono state sono risultate quelle di chi ha tentato di accreditare la voce che il collega Migliaccio ha pubblicato l’indirizzo di casa del comandante Luigi Sementa, nel patetico tentativo di giustificare la gravità del gesto di un pubblico ufficiale. Senza trascurare un particolare: quella notizia è falsa, Migliaccio non ha pubblicato quell’indirizzo. E’ vero, invece, che sindaco e giunta – per quanto distratti dai molti affanni che li hanno colpiti – continuano a non fare nulla. Un comportamento davvero significativo”. (www.odg.it)

NAPOLI. CRONISTA SCHIAFFEGGIATO: IMMAGINI IN TV, DIVENTA UN CASO. SINDACO: RISPETTARE LA LIBERTÀ di STAMPA. Un giornalista «convocato» nell'ufficio del comandante della polizia municipale che, incurante anche della presenza di due rappresentanti dei cronisti, lo ha schiaffeggiato non avendo gradito il contenuto di un articolo. L'episodio risale ad alcuni giorni fa, ma ha ottenuto una grande risonanza grazie alle immagini trasmesse ieri sera da Tg3 Linea Notte, la trasmissione di approfondimento del telegiornale di Rai3. Sì, perchè il cronista, Carlo Migliaccio di E Polis, aveva una telecamera nascosta con la quale ha ripreso tutte le fasi di questa brutta storia, che ha suscitato oggi nuove e più vibrate reazioni sia da parte dei rappresentanti della stampa sia dei politici locali, tra cui il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. Il filmato mostra il capo della polizia municipale di Napoli, Luigi Sementa, prendere a schiaffi e apostrofare violentemente Migliaccio. «Tu hai messo in pericolo me e la mia famiglia per le cose che ha scritto» dice Sementa dopo aver assestato uno schiaffone al giornalista. Il comandante si era risentito del fatto che nell'articolo, dove venivano mosse critiche al comportamento dei vigili, vi sarebbe stata l'indicazione della sua abitazione privata. Un'accusa respinta dal giornalista. «Pur comprendendo la preoccupazione del Comandante della Polizia Municipale di voler garantire la sicurezza dei propri congiunti - ha detto Iervolino - il sindaco ha espresso il più vivo disappunto per quanto accaduto nei rapporti con il giornalista Alessandro Migliaccio e per le modalità in cui l'episodio si è verificato». «Uno schiaffo dato ad un giornalista - dice la Fnsi - da parte di chi deve, più di altri, rispettare le regole ed il lavoro altrui è uno schiaffo inaccettabile che non può essere derubricato come semplice sfogo. Suona, invece, come uno schiaffo che si può dare al giornalista il cui lavoro non è stato gradito». Migliaccio è amareggiato anche dal comportamento dei colleghi: «Molti mi hanno chiesto di tacere sulla vicenda, di lasciar correre. Quando poi hanno saputo che avevo ripreso tutto con una telecamera, improvvisamente mi si è fatto il vuoto attorno. I colleghi campani, tranne quelli di E polis, mi hanno tradito tutti. Si sono limitati ad un comunicato di solidarietà ma al di là di questo nessuno spazio sulla stampa locale» ha affermato in un'intervista rilasciata a www.articolo21.info. E Beppe Giulietti, portavoce dell'Associazione, giudica il gesto di Sementa incompatibile con qualsiasi funzione pubblica. Intanto la polizia municipale ha reso noto che oggi una busta contenente un proiettile calibro 38 special è stata recapitata a Sementa presso il comando della polizia municipale. Nella busta, oltre al proiettile, c'era una fotocopia dell'articolo del quotidiano Il Napoli intitolato Gran bazar d'illegalità nel rione del comandante: sulla fotocopia sono state tracciate due croci, sul nome di Sementa e su quello della strada dove abita il generale. L'assessore alla Polizia urbana Luigi Scotti convocherà nei prossimi giorni il comandante: «Anche la convocazione del giornalista al comando della polizia municipale mi sembra insolita» ha detto Scotti. (ANSA)

CRONISTA SCHIAFFEGGIATO. MIGLIACCIO: TRADITO DA COLLEGHI. «Che l'articolo 21 venga rispettato. Questo il motivo per cui ho denunciato la vicenda e non sono stato zitto. Che vengano rispettate le leggi e che il giornalismo rispetti a sua volta la sua missione: informare e denunciare, altrimenti si riduce a insignificante velina». Così Alessandro Migliaccio, giornalista di E Polis, schiaffeggiato dal Comandante della polizia municipale di Napoli Luigi Sementa, chiude l'intervista rilasciata a www.articolo21.info. E Beppe Giulietti, portavoce dell'Associazione, giudica il gesto di Sementa incompatibile con qualsiasi funzione pubblica. Migliaccio è amareggiato dal comportamento dei colleghi: «... Molti colleghi mi hanno chiesto di tacere sulla vicenda, di lasciar correre. Quando poi hanno saputo che avevo ripreso tutto con una telecamera improvvisamente mi si è fatto il vuoto attorno.». «I colleghi campani, tranne quelli di E polis - prosegue - mi hanno tradito tutti. Si sono limitati ad un comunicato di solidarietà ma al di là di questo nessuno spazio sulla stampa locale», «Un gesto di tale natura è incompatibile con qualsiasi funzione pubblica», sostiene il portavoce di Articolo21, Giuseppe Giulietti. « Non ci interessa sapere quali siano le motivazioni che hanno provocato una reazione simile, la cosa certa è che è inaccettabile, inaccettabile nei confronti di un cronista, ma inaccettabile in generale nei confronti di qualsiasi cittadino». «Rivolgiamo dunque un invito all'amministrazione di Napoli affinchè non solo chiarisca al più presto la vicenda, ma prenda anche adeguati provvedimenti in merito».(ANSA).

CRONISTA SCHIAFFEGGIATO: FNSI, SIAMO VICINI AL COLLEGA. «La Fnsi, con l'Associazione napoletana della stampa, resta vicina al collega Alessandro Migliaccio e chiede che fatti del genere non si debbano mai più ripetere», si legge in una nota della Federazione nazionale della Stampa riguardo alla vicenda del cronista di E Polis Alessandro Migliaccio schiaffeggiato dal capo dei vigili urbani di Napoli Luigi Sementa. «Il clamore suscitato dall'aggressione subita dal collega di E-polis a Napoli da parte di un ufficiale dei vigili urbani - dice la Fnsi - ripropone l'esigenza di una cultura di rispetto per gli organi di informazione ed i loro operatori da parte di chi è incaricato di funzioni di polizia. Uno schiaffo dato ad un giornalista da parte di chi deve, più di altri, rispettare le regole ed il lavoro altrui è uno schiaffo inaccettabile che non può essere derubricato come semplice sfogo. Suona, invece, come uno schiaffo che si può dare al giornalista il cui lavoro non è stato gradito. Ma nessun giornalista ha nel proprio dna quello di essere accondiscendente e cortigiano verso chicchessia. Nello specifico - conclude la nota - va sottolineato che a Napoli ed in Campania già troppi giornalisti sono sotto tiro della criminalità. Per i tutori dell'ordine non è accettabile perdere la testa al di là di ogni considerazione». (ANSA).

CRONISTA SCHIAFFEGGIATO. ODG CAMPANIA ACCANTO A MIGLIACCIO. L'Ordine dei Giornalisti della Campania «sarà al fianco del collega Alessandro Migliaccio, il cronista del quotidiano schiaffeggiato dal comandante dei vigili urbani Luigi Sementa, in sede legale». Lo ha stabilito il Consiglio dell'Ordine, fanno sapere i vertici dell'Ordine, nella riunione del 10 dicembre confermando la linea di «essere accanto a tutti i colleghi vittime di soprusi». (ANSA).

CRONISTA SCHIAFFEGGIATO. ODG: IERVOLINO SOSPENDA CAPO VIGILI. «È sconcertante che il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, non abbia ancora sospeso dal servizio il capo della locale Polizia municipale, Luigi Sementa, il quale ha ritenuto di poter convocare nel suo ufficio un cronista di E Polis, Alessandro Migliaccio, e di schiaffeggiarlo perchè era l'autore di un servizio che non risultava gradito non si capisce bene a chi e a quanti». È il monito del segretario nazionale dell'Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino. Nei giorni scorsi l'Ordine dei giornalisti della Campania, l'Assostampa Campania, l'Unione cronisti della Campania e il comitato di redazione di E Polis avevano già protestato per l'episodio, denunciato dallo stesso Migliaccio, e avevano chiesto l'intervento del sindaco. «Ogni ulteriore ritardo nell'adozione di un provvedimento che allontani dal servizio Sementa, in attesa delle conclusioni di una rapida indagine - afferma Iacopino in una nota - potrà essere letto come la condivisione di un gesto insopportabile se commesso da chiunque e nei confronti di qualsiasi cittadino, ma estremamente più grave se compiuto da un pubblico ufficiale che con comportamenti di quel tipo non onora il ruolo che ricopre. Decida liberamente il sindaco se continuare a restare nella linea che ha portato lei stessa a definire "sciacalli" i giornalisti durante il funerale di Giorgio Nugnes». (ANSA).

NAPOLI  MASSONICA. MASSONERIA CONTRO NAPOLI

Così scrive sul suo portale web il movimento neoborbonico. CONTRO I MASSONI DI IERI E DI OGGI… Convegno a Napoli a cura della Gran Loggia d’Italia su “La rivoluzione e l’albero della libertà a 210 anni dalla Primavera Napoletana”. La sede, ovviamente, quella dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, luogo-simbolo del giacobinismo locale. Il convegno organizzato dalla massoneria con conferenza stampa all’Excelsior, cene e gite di rito, dimostra la verità che da anni cerchiamo di divulgare: la rivoluzione anti-napoletana, anti-cristiana e anti-borbonica del 1799, i successivi moti e l’unificazione italiana fino all’attuale cultura ufficiale, furono progettati e realizzati dalla massoneria internazionale con la complicità dei massoni locali e, viste le conseguenze in termini di massacri, di saccheggi e di colonizzazioni, a danno della nostra antica Patria e delle Popolazioni delle Due Sicilie. L’orgoglio con cui i massoni di oggi rivendicano l’origine di quelle vicende (dal massone-traditore del Regno di Napoli ammiraglio Caracciolo al massone-conquistatore Garibaldi) ne è l’ennesima e chiara dimostrazione ed è la dimostrazione di quanti e quali siano i nostri “nemici” di oggi e di quante difficoltà ancora incontriamo (e incontreremo) nella nostra necessaria e preziosa battaglia per la verità storica… Segue comunicato della “gran loggia” (granloggia.it) con antiche e inquietanti simbologie (tra numeri, solstizi e primavere varie…), con troppe dimenticanze storiche e i necessari commenti neoborbonici… “Nella seconda metà del XVIII secolo Napoli conobbe un periodo di notevole risveglio economico, sociale e culturale. La Capitale del Regno meridionale era allora uno dei più importanti porti del Mediterraneo ed un centro produttivo di rilevanza internazionale. In città e nel suo vastissimo hinterland prosperavano, insieme ad un artigianato raffinato improntato sulla lavorazione dell’argento, della seta, del corallo, della madreperla, fabbriche ad altissima specializzazione. Le ceramiche di Capodimonte sono ancora celebri, ma pochi ricordano che il cordame e le vele fabbricate a Napoli erano nel Settecento fra le migliori del mondo come pure erano rinomati i cantieri navali, capaci di varare possenti fregate e temibili vascelli. [E tutto grazie ai Borbone che dal 1734 erano diventati Re di Napoli e stavano affermando la loro volontà di creare uno stato autonomo e indipendente e radicato nei valori popolari e autenticamente tradizionali e cristiani]. Questo fervore di pensiero si trasformò in desiderio di cambiamento, in sete di libertà, in voglia di abbattere oscurantismo, pregiudizi, ignoranza [e “oscurantismo, pregiudizi e ignoranza” come potevano mai ottenere quei risultati che lo stesso articolista riconosce all’inizio del testo?] Quando nel 1798 giunsero a Roma le truppe francesi, la parola “rivoluzione” serpeggiò nei palazzi e per le vie di Napoli ed esplose il 17 Gennaio del 1799, allorché i [poche decine, come riconosciuto anche dalla storiografia ufficiale] patrioti occuparono Castel Sant’Elmo che dall’alto di un colle domina la città. Quattro giorni più tardi nacque ufficialmente la Repubblica Napoletana e il 21 Gennaio con un decreto del generale Championnet venne costituito e insediato il Governo Provvisorio [Omissione grave: in quei 4 giorni i francesi, con la collaborazione dei giacobini locali, massacrarono, come riferisce il generale Thiebault nelle sue memorie, “non meno di ottomila napoletani”. Senza l’aiuto dei giacobini collaborazionisti che cannoneggiarono da Sant’Elmo il popolo che resisteva, come riconobbe lo stesso Championnet, il potentissimo esercito francese non avrebbe mai sconfitto quegli “eroici lazzaroni”]. Furono momenti di grande commozione, nelle piazze vennero piantati gli alberi della libertà, la parola “cittadino” sostituì i titoli nobiliari, furono promulgate leggi sulle libertà individuali e i privilegi feudali vennero abrogati [Furono emanate anche oltre 1500 condanne a morte contro coloro che si opponevano a quella conquista e all’offesa quotidiana dei valori tradizionali popolari e cristiani di cui quegli alberi- abbattuti decine di volte- rappresentavano il simbolo più odiato; intanto il commissario repubblicano francese Faypoult timbrava le nostre opere d’arte e le spediva a Parigi…]. Fu quella la primavera napoletana, una stagione breve giacché gli eventi presero quasi subito un indirizzo sfavorevole [Altra omissione grave: sempre il generale francese Thiebault ci fa sapere che in tutta la “campagna napoletana furono passati a fil di spada –e in meno di cinque mesi- oltre sessantamila napoletani”… bella primavera]. A quel punto il Cardinale Ruffo, a capo di bande sanfediste marciò su Napoli ed annientò, con la conquista di Castel Sant’Elmo, l’ultima sacca di resistenza repubblicana. Era il 13 Giugno, quel giorno l’albero della libertà fu sradicato e al suo posto crebbero ovunque le forche [100, complessivamente, le condanne a morte eseguite dopo il ritorno dei Borbone: per i massacri e i saccheggi compiuti dai franco-giacobini, in nessun posto del mondo in quel momento storico, purtroppo, si poteva reagire in modo differente]…Pochi giorni più tardi, difatti, fu impiccato ai pennoni de “La Minerva”, l’ammiraglio, Fr. Francesco Caracciolo membro della loggia “Perfetta Unione”. Lo seguirono in estate Domenico Cirillo, Michele Natale vescovo di Vico Equense e Gennaro Serra duca di Cassano, tutti patrioti appartenenti all’Officina “Vittoria” di Napoli [massoni, allora, in gran parte, gli artefici della repubblica; l’ammiraglio Caracciolo tradì il suo giuramento di fedeltà alla sua patria napoletana e al suo re e qualsiasi altro codice militare penale non solo di quel tempo lo avrebbe condannato a morte]. Il sogno della breve primavera napoletana terminò così in un bagno di sangue e questa strage di intellettuali, artisti, pensatori, giuristi, riformatori incise non poco sulla storia della Penisola e in particolare del Meridione [luogo comune tra i più diffusi e per niente credibile: su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti è mai possibile che la morte di circa 100 persone abbia avuto una conseguenza di qualsiasi natura da allora addirittura fino ad oggi? E tutti i primati in tutti i settori che riuscimmo a conquistare dal 1799 al 1860?]. D’altra parte la Rivoluzione Napoletana e la sua Repubblica rappresentarono l’incipit del riscatto nazionale. L’albero della Libertà era stato divelto con bestiale furore, ma di lì a poco il suo seme si diffuse in ogni angolo del Paese” [ovvio collegamento giacobino-massonico-liberale a dimostrazione della complessità degli ostacoli messi di fronte ai Borbone e alle Popolazioni Duosiciliane da allora ad oggi...].

Mariano Iodice, studioso della storia e della dottrina massonica, ha portato alla luce un’altra utile testimonianza che rafforza la sua teoria di una Loggia di rito unificato massonico-egizio-rosacruciano a Napoli. Il tentativo di costituire la Loggia fu opera, secondo lo storico della massoneria Iodice, del conte Cagliostro che dimorò nel centro partenopeo per alcuni anni. Del resto, non mancano riferimenti notevoli in tal senso. Nel 1663 si costituisce a Napoli, sul modello della Royal Society inglese, l'Accademia degli Investiganti (con Leonardo di Capua, Alfonso Borrelli, Tommaso Cornelio, Francesco d'Andrea ed il benedettino Caramuel) con l'intento di ricercare la verità nascosta nel Libro della Natura ed ispirandosi al pensiero di Galileo, Gassendio e Cartesio, ma collegandosi idealmente soprattutto a Bruno e Campanella: sapendo quanto fosse stata decisiva nella costituzione della Società inglese l'influsso rosacrociano, anche se vogliamo prescindere dall'effettiva presenza a Napoli di un gruppo di Rosacroce, si può tuttavia ammettere l'esistenza di un collegamento, almeno ideale, con tale corrente iniziatica. Comunque, nel corso del '600, va ricordata anche la presenza a Napoli del Marchese Francesco Maria Santinelli di Pesaro, autore di un'importante raccolta di poesie alchemiche, la Lux Obnubilata, che, insieme al Novum Lumen Chimicum del Cosmopolita, costituisce un punto di riferimento della letteratura alchemica seicentesca rosacrociana. Ed è a questa corrente di pensiero che il Principe di San Severo, senz'altro il più famoso degli "esoterici" napoletani, era ben verosimilmente collegato; d'altra parte, il suo interesse per i Rosacroce è dimostrato dal fatto che fece pubblicare la traduzione di due opere, che a tale corrente si riferiscono, per quanto in chiave scherzosa: il Conte di Gabalis dell'Abate Montfaucon de Villars ed il Riccio Rapito di Alexander Pope .

Il re Ferdinando IV il 12 settembre 1775 firmava un nuovo editto contro la massoneria, a conferma di quello del 1751. Il 1° gennaio 1776 il ministro Bernardo Tanucci ordinò una perquisizione e nelle mani della polizia rimasero alcuni borghesi, tra i quali il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi, membri della G. L. Provinciale “inglese”. I lavori massonici furono ufficialmente sospesi e il gran maestro principe di Caramanico fu costretto a una pubblica abiura. Ma il processo agli arrestati, grazie alle pressioni esercitate sulla Regina Maria Carolina dallo stesso principe di Caramanico e da Diego Naselli, si concluse con la loro liberazione e con l’inaspettato pensionamento del ministro Tanucci. Nel giugno 1776 i membri della G. L. Nazionale elessero Diego Naselli gran maestro. Nel 1777 quest’ultimo aderì al Rito della Stretta Osservanza Templare, coinvolgendovi per intero la G. L. Nazionale. Nel 1779, a seguito degli sviluppi verificatisi in seno al Regime della Stretta Osservanza mediante il Convento di Lione e la riforma elaborata dal Willermoz con la trasformazione del Regime medesimo in quello Scozzese Rettificato, il Naselli e la sua Gran Loggia Nazionale aderirono alla riforma. Dal 1783, a causa della forzata rinunzia da parte del conte di Bernezzo, il Naselli assunse anche la carica di gran maestro provinciale. Nel frattempo continuava pur sempre a sopravvivere la Gran Loggia Provinciale “inglese” diretta dal duca di San Demetrio, tra i cui aderenti si devono ricordare, oltre al già citato Pasquale Baffi, il giurista Mario Pagano, l’ammiraglio Francesco Caracciolo, il medico Domenico Cirillo, l’ufficiale Giuseppe Albanese. Nel 1784, nel piedilista dell’aristocratica loggia La Vittoria, alle dipendenze del Rito Scozzese Rettificato, troviamo anche il poeta Aurelio Bertòla de Giorgi ed il conte Vittorio Alfieri, iniziato probabilmente tra il 1774 ed il 1775. Alle soglie della rivoluzione francese, tuttavia, la G. L. Nazionale era in piena regressione numerica. Il 3 novembre 1789 Ferdinando IV rinnovò la proibizione delle attività massoniche ed il gran maestro Naselli dette ordine alle logge di sospendere i propri lavori. È certo che i nascenti clubs giacobini, che avrebbero entusiasticamente sostenuto la repubblica partenopea, reclutarono a preferenza tra i fratelli massoni. Molte delle vittime della restaurazione borbonica, in effetti, erano transitate nelle logge della G. L. Nazionale od in quelle della G. L. Provinciale inglese. (Fonte Goi – Loggia Acacia).

NAPOLI MAFIOSA.

MA NON E’ TUTTO CAMORRA.

I pm ammettono l'errore: "Non è lui il killer". Ma De Luise resta in cella. Condannato a ventidue anni, da otto è detenuto e chissà quando uscirà. Eppure la stessa procura di Napoli ha chiesto la revisione del processo scrive Giovanni Terzi su “Il Giornale”. Questa è una storia drammatica che parla di vicende legate alla criminalità organizzata, alla camorra, al traffico di stupefacenti e alle guerre tra faide a Napoli. Una storia che ha come sfondo il profilo peggiore di questa nostra Italia incorniciato nell'incantevole paesaggio partenopeo. Questa è anche la storia di un uomo, Giovanni De Luise difeso dall'avvocato Carlo Fabbozzo, prima accusato di essere l'omicida di Massimo Marino e poi scagionato dalla stessa procura della Repubblica di Napoli con i pubblici ministeri Lepore e Castaldi ed ancora oggi dopo otto anni in carcere a Lecce. La faida vedeva coinvolti alcuni clan camorristici facenti riferimento ai gruppi dei Di Lauro di via Cupa dell'Arco a Secondigliano e degli scissionisti capeggiati dal boss Raffaele Amato. Era la faida di Scampia che da ottobre del 2004 a febbraio 2005 vide lo svolgersi di una vera e propria mattanza quotidiana a ogni ora del giorno, tra folle terrorizzate, con l'obiettivo del controllo del traffico di droga. Centinaia di vittime insanguinarono le strade di Scampia; uomini dei clan, familiari in parte vicini alle cosche ma anche vittime innocenti. Colpire gli innocenti faceva parte di una strategia ben precisa già adottata dalla «Nuova camorra organizzata » di Raffaele Cutolo tesa a costringere gli avversari ad uscire allo scoperto. La faida di Scampia ha inizio il 28 ottobre del 2004 e ha come vittime Fulvio Montanino e Claudio Salerno uccisi dagli scissionisti. Poi quotidianamente si spara e si uccide per strada, nelle piazze; cadono tre marescialli dei carabinieri che camminavano in borghese nelle vie di Scampia e che furono scambiati per membri di un gruppo rivale. Clamoroso fu il 7 dicembre del 2004, quando alle quattro del mattino circa mille uomini delle forze dell'ordine circondarono Scampia e Secondigliano catturando con cinquantun ordini di custo­dia cautelare decine di malavitosi. In quell'occasione le donne del rione «terzo mondo» scesero in piazza aggredendo i poliziotti. Pochi giorni dopo, l'11 dicembre alle 16.44 nella Strada Casavatore, fu ucciso Massimo Marino, innocente cugino di Gennaro Marino, ras degli scissionisti. L'omicidio di Massimo Marino per gli investigatori era la risposta dei Di Lauro all'uccisione, avvenuta tre ore prima di Antonio De Luise finito nel mirino degli scissionisti. La svolta per queste indagini avviene attraverso le intercettazioni telefoniche. Infatti i carabinieri della Dda mettono cimici ovunque per combattere la drammatica faida camorristica. Ed è grazie ad una intercettazione fatta alla sorella di Massimo Marino, Cinzia, che i carabinieri arrestano Giovanni De Luise incensurato fratello di Antonio anche lui vittima della mattanza quotidiana. Cinzia Marino, disperata all'obitorio di fronte alla salma del fratello, rivolgendosi a un'amica vede la sagoma di Giovanni De Luise e lo riconosce come il killer del fratello. Giovanni De Luise, fino a quel momento incensurato spedizioniere di ventitré anni fu arrestato; movente e testimonianze non lasciavano spazio ad interpretazioni, era lui l'assassino di Massimo Marino. Giovanni De Luise viene condannato a 22 anni di carcere in via definitiva. Anche durante il processo le dichiarazioni testimoniali di Cinzia Marino, sorella della vittima, sono drammatiche e inconsuete. Infatti durante il dibattimento la donna, nell'aula della Corte d'Assise, guardando negli occhi Giovanni De Luise lo accusa dell'omicidio del fratello. Cinzia Marino diventa una teste protetta e, in un mondo fatto di omertà, le sue dichiarazioni a viso scoperto appaiono coraggiose e di esempio. Da quel dicembre del 2004 De Luise passa sei anni in carcere, dichiarando sempre la propria innocenza, fino a quando, all'inizio del 2010, spuntano altri due collaboratori di giustizia; Antonio Prestieri e Antonio Pica. Questi, durante un interrogatorio coperto da omissis, scagionano Giovanni De Luise dall'omicidio di Massimo Marino. Le dichiarazioni sono così attendibili che è la stessa Procura di Napoli nel nome del procuratore Giandomenico Lepore e Stefania Castoldi, a firmare l'istanza di revisione del processo. Un fatto storico, importante e di grande civiltà il mea culpa della Procura che riconoscendo un errore cerca di porne rimedio. Tutto questo avveniva nell'aprile del 2010. A due anni e mezzo da quell'ammissione di errore Giovanni De Luise è ancora detenuto nel carcere di Lecce in attesa di giudizio. Non mi sento di esprimere alcun giudizio se non quello positivo nei confronti di quei pubblici ministeri che cercano di porre rimedio a un errore giudiziario. Lasciatemi però la possibilità di rimanere perplesso su un andamento giudiziario che vede, a due anni e mezzo dalla richiesta di revisione del processo fatta dalla procura di Napoli, una persona ancora detenuta.

Scampia criminale. I miei 100 giorni da camorrista. Nel quartiere napoletano un cronista di «Panorama», Carlo Puca, ha vissuto per più di tre mesi da infiltrato. Un viaggio all’inferno, andata e ritorno. Qui racconta la sua esperienza. «La verità non esiste, si può solo cercarla. A Scampia il metodo è uno solo: fare la vita del camorrista. Per potermi infiltrare cento giorni nella manovalanza dei clan (vitto, alloggio e reati compresi), al mio ospite nelle Vele non basta garantire la nostra presunta amicizia. Bisogna superare un esame. Il 7 gennaio, al primo incontro, i commissari sono due: l’uno biondo e l’altro moro, sbarbati e depilati, il baffetto alla Clark Gable, un lieve ciuffetto al centro della testa rasata, l’abbronzatura artificiale, i vestiti attillati. Poco più che liceali, ti guardano gelidi e crudeli. Il Moro mi perquisisce sulla scala che porta ai sotterranei. Trova lo zaino pulito e non fiuta che i documenti sono regolarmente falsi: a Napoli qualsiasi documento è commerciabile. Poi vengo interrogato. Mi aiuta la lingua locale, lo Scampia’s slang, un vernacolo misto di veracità partenopea e dialetti regionali. Chiede il Biondo: «Che vuo’?», che vuoi? Divento apprensivo. Mi ero preparato una storia, ma un conto è la teoria, un altro la pratica: «Mia moglie mi ha cacciato di casa, suo padre mi ha buttato fuori dalla fabbrica di scarpe, facevo il ragioniere a nero e ora sto per strada. Ho bisogno di un letto e basta». Silenzio. «Tieni i precedenti?», (sei incensurato?), fa improvviso il Biondo. «No, per carità» rispondo stupidamente, da poliziotto. «Ti piace guidare?» aggiunge. «Mi piace assai» replico. Una porta sbatte pesante in lontananza. Tremo, ma forse questo è un bene: a uno sbirro non capiterebbe. Il Biondo si fa accudente, mi porge una sigaretta accesa. La prendo e la fumo. È la prima dopo quattro anni. «Vabbuò, puoi rimanere» dice «però non ci rompere mai il cazzo. Hai capito?». Sì, ho capito. Crime Scampia investigation. Bisogna studiare il Codice per accedere alle Vele. Lo impone ’o Sistema, il sistema criminale, che qui vigila su ogni caseggiato, ballatoio, persona. L’insegnante è il mio Ospite, ha bisogno di soldi e in cambio mi accoglie. Già l’ingresso nei parcheggi prevede una certa cura. Se si arriva in moto o motorino, di mettere il casco naturalmente non si parla nemmeno: lo usano i killer per coprirsi il volto. A scanso di multe, l’utilizzo è consentito soltanto sui vialoni principali del quartiere, zona franca, trafficata da auto e contrabbandieri di sigarette che offrono «tutti i panini 2 euro e 50». Panini farciti di tabacco. Se invece si arriva in macchina, meglio tenere le mani in vista sul volante e, di sera, la luce di cortesia accesa. Gli androni sono sempre controllati. Perciò, nonostante l’esame superato, il primo giorno da residente viene battezzato da altre tre perquisizioni, a seconda dei turni da otto ore dei «pali», gli addetti alla sicurezza dello spaccio. Poi, col tempo, la mia presenza, la presenza del Divorziato, si farà anonima e potrò portare con me macchine fotografiche e telecamere nascoste. Anche perché rispetto alla perfezione il Codice, così sintetizzato dall’Ospite: «Le mani sempre libere. E il volto pure. Mai mettere il cappello: potrebbe servire a nascondere il viso. Quanto al cellulare, fa’ sempre attenzione: a impugnarlo si rischia di farlo scambiare per un’arma da fuoco». Il berretto della camorra è invece consigliato per gli spacciatori, tutti a rischio riconoscimento durante i blitz delle «guardie», poliziotti e carabinieri. È una specie di passamontagna troncato sul davanti, ma lungo dietro. Basta farlo scivolare in avanti dal collo per coprire la faccia. Sono ingegnosi, i camorristi. Nelle Vele c’è una cultura da polizia scientifica. Molti sanno di dna, intercettazioni, balistica. La fiction più vista è Csi, nella versione Crime Scampia investigation. È propedeutica al mestiere di assassino. Magari la studiano anche i killer di Raffaele Stanchi, alias «Lelluccio Bastone». La sera tra il 7 e l’8 gennaio Lelluccio era tra i vialoni di Secondigliano insieme al suo autista, Luigi «Giggino» Montò. Sono stati catturati e portati a Melito, un paesone diventato la periferia di Scampia. Qui li hanno uccisi con una calibro 7,65 e poi bruciati dentro un’auto rubata. A cena nelle Vele, davanti alla pasta e patate, raccontano un’altra dinamica. «Lelluccio è stato legato, seviziato, torturato. Poi con un coltello da macellaio lo hanno scuoiato mentre le tronchesi lavoravano sui suoi polsi, fino a strappargli le mani. E mentre il sangue zampillava dai monconi e lui stramazzava dal dolore è arrivato il tempo di morire. Bruciato vivo». È un racconto dell’orrore, celebrato davanti a bambini per nulla scossi e nemmeno divertiti. Sono indifferenti e basta. La loro fame di pasta resta inalterata, la mia svanisce. Le Vele sono l’arca di Noè del XXI secolo. Appaiono come barche di cemento primitivo che galleggiano sulla melma. Le fogne sono un rottame da anni e la pioggia si miscela a merda e rifiuti. Le siringhe degli «zombie», i drogati di eroina, sono gondole smilze. Nei sotterranei della mia Vela ci sono un’auto vandalizzata, una stanza del buco e la carogna di un meticcio ammazzato a pistolettate. Lo scopro con il primo tour, l’8 febbraio. Mi accompagnano quattro ragazzini dai 12 ai 14 anni. Li avevo avvicinati giorni prima grazie al resoconto di un incontro fortuito con Edinson Cavani, il calciatore eroe delle Vele. Sia chiaro: si può fare perché la polizia ha appena compiuto un blitz e le sentinelle sono ancora lontane. Non è comunque una passeggiata di salute. Amplifico ogni piccolo rumore. Però mi rincuora la disinvoltura delle mie giovani guide, ragazzi della via Pal contemporanei, che svelano gli accessi più riservati. Hanno pure il loro Boka, il capo che ti si rivolge con il voi: «Ma poi ce lo fate un regalo?». Certo che sì, «non appena mi sistemo e faccio due soldi». Le Vele-arca sono inadatte agli uomini, però perfette per la fauna animale. Due terzi delle case sono abbandonate. Molte sono diventate stalle fantasma, nascoste all’accesso degli sbirri, dove vivono soggetti esotici (pitoni, merli indiani, tartarughe, scimmie) e da allevamento (conigli e galline). Poi ci sono gli animali da compagnia, cardellini, cani e gatti, utili pure a cacciare i topi, che certo non mancano. Dai ballatoi decollano a centinaia i piccioni selvatici, mentre sulla cima planano i gabbiani attirati dalla discarica di Chiaiano. «Fino a 3 anni fa sul tetto c’erano le gabbie dei falchi dei boss» ricorda Boka «poi gli sbirri li liberarono (i falchi, non i boss, ndr) ma loro tornano ogni anno a nidificare». Portare i cavalli al quindicesimo piano senza ascensore era un po’ complicato e allora si è risolta la questione impiantando un piccolo maneggio abusivo nel parcheggio dei Sette palazzi, giusto di fronte alle Vele. Lo hanno sequestrato il 9 febbraio 2012. E tutti a chiedersi perché. Lo status-symbol più autentico è però un cane «serio»: un pitbull, un rottweiler o un dogo argentino. Il Mingherlino è il boss dei cani. Sulla cinquantina, esile, barba sfatta, apparentemente inaffidabile, è invece padrone assoluto della materia. Parla tedesco, inglese e scampiese. Prendo un appuntamento per chiedergli di ammaestrare un mio cane, «lo vorrei feroce». Mi spiega che lui, per ogni bestia, prende 1.000 euro più bonus. Sostiene che l’addestratore deve sempre essere affiancato dal proprietario: «Il cane seguito dal padrone morsica meglio di quello istruito in una scuola; diventano un’anima e un corpo». Meglio, un’anima e un colpo: «La pistola non è niente rispetto a un pitbull». Lo spazio aperto più usato per l’addestramento dista 5 chilometri dalle Vele, è lo splendido bosco di Capodimonte. Prima della seduta, m’insegna il Mingherlino, «vado lì, lego un manichino a un albero e gli sistemo una collana di polpette intorno al collo. Poi torno con cane e padrone, che gli deve ordinare l’attacco. Istintivamente l’animale è portato ad aggredire la gola e a spappolarla». Ripetuta l’esercitazione tre o quattro volte, la bestia sarà pronta a replicare «con gli uomini di carne e sangue». E senza polpette. Jessica e Samantha spiegano lo splendore delle femmine meridionali. L’ambra colora la pelle, il latte i sorrisi e la notte occhi e capelli. Il vento corre sui loro corpi, c’è sempre vento nelle Vele, ma non altera la loro allegria. A 18 anni, poi, la leggerezza vince le malinconie. Pure a Scampia. Jessica e Samantha indossano griffe di lusso. Replicano quelle di parioline romane, sancarline milanesi e «chiattille» napoletane. Parenti dell’Ospite, sono venute a fare visita a sua moglie. La butto lì: «Spendete tanto per i vestiti, eh?». Confessano: la prima fa shopping al Vomero, la seconda è «pezzottata», porta abiti contraffatti. Funziona così: i cinesi producono, la camorra distribuisce. Nello Zhejiang la mano d’opera «in chiaro» costa meno di quella «a nero» del Vesuvio. La globalizzazione ha fottuto pure le fabbriche napoletane di pezzotti. Jessica e Samantha hanno nomi esotici, classici per i giovani velisti. Ascoltano i Linkin Park, Eminem e Fabri Fibra. Adorano il rap. È una generazione per nulla oleografica, la loro. Contesta i cliché, com’è quello sui cantanti neomelodici. «È musica per anziani che la impongono ai matrimoni dei figli» dicono. Certo: in una collettività dove a 20 anni si è adulti e a 30 uomini, si è vecchi (e nonni) a 40. Qui la vita è anticipata. E anche la morte. Jessica è single, nuota veloce e mangia sano. Samantha fa la mamma, la mammabambina, come altre centinaia. Jessica lavora. Gestisce una stanza del buco e vende il kit sanitario ai drogati: siringa (che chiama «pompa»), laccio emostatico, carta stagnola, cucchiaino, insulina, limoni, acqua distillata, ampolle. Guadagna 1.200 euro al mese: «Ma li prendo ’a semmana (divisi in settimane, ndr); mio cugino spaccia e cresce di stipendio: 2 mila euro più bonus» dice. «Scusa, ma la camorra fa lavorare pure le donne?» chiedo. E scopro che a differenza delle dame di mafia, massaie per statuto, quelle di camorra sono parte del Sistema, hanno diritto al posto lasciato vacante dal parente prossimo «sfortunato». Cioè ucciso o arrestato. Samantha invece è casalinga: «Ho due figli, i suoceri e un compagno disoccupato. E meno male che c’è il nonno». Non è un affetto disinteressato. «Ha la pensione d’invalidità». A Scampia non si conoscono ospizi, i vitalizi di anziani e disabili garantiscono lo stomaco pieno. Jessica e Samantha stabiliscono visivamente che la gente delle Vele appartiene a due grandi categorie: chi sta con il Sistema, la minoranza, e chi no, la maggioranza, domestica e parsimoniosa. Fa nulla, per esempio, che il cibo povero abbia geneticamente mutato i corpi delle donne, splendide e «inquartate», cioè abbondanti dalla vita in giù. È un cibo che rifiuto con cortesia: «Ho il colesterolo alto, grazie». Mi nutro appena, nelle Vele, e fumo tanto. Conta anche la tensione, naturalmente, ma alla fine di questa avventura avrò perso 9 chili. Loro, invece, mangiano tutto finché c’è, quasi sempre grassi e carboidrati, ché costano poco e sfamano. Non è un piacere. È puro istinto di sopravvivenza. L’affiliato segue un Codice speciale. Primo comandamento: «Nella vita bisogna essere in grado d’inseguire e di scappare». Per uccidere e per evitare di venire uccisi. O, perlomeno, arrestati. È una scoperta che subisco, questa. Il 2 febbraio piombano a casa il Biondo e un altro Moro, quarantenne però e assai basso di statura. M’impongono di seguirli. «Perché? Me ne devo andare dalle Vele?». Il timore è che qualcuno, forse i ragazzini della via Pal, abbia scoperto e riferito di macchina fotografica e telecamera. «Vieni, non ti preoccupare e non rompere il cazzo» ordina il Biondo. Nel parcheggio trovo due utilitarie, una Punto e una Lancia Y. In una ci sono due persone, nell’altra, sul sedile posteriore, il Bruno alto. Il Biondo sale nella Punto, a me tocca guidare la Y in compagnia dei due Bruni. Il senno di poi mi farà ridere di me e delle mie paure. Ma ripenso a Lelluccio Bastone e alla sua fine. Sono certo che toccherà anche a me. La testa mi scoppia, parla da sola: «Il più cattivo di tutti sarà il Bruno alto, mi brucerà vivo». Arrivo sul crinale della confessione e, proprio quando sto per chiedergli la cortesia di uccidermi con un colpo secco alla nuca, mi salva il Bruno piccolo. Rompe il silenzio e annuncia il tragitto per Benevento. Noi siamo davanti, la Punto rimarrà permanentemente a 1 chilometro di distanza da noi. Se trovassimo un posto di blocco, dovrei in qualche modo attirare l’attenzione e poi scappare per lasciare campo libero alla Y. Catturati, la versione ufficiale sarebbe: «Sono senza assicurazione, per questo scappavo, loro non c’entrano». Sto per commettere un reato. Ma sono rilassato. È chiaro che a Scampia un incensurato disperato fa sempre comodo. Alla notizia rinasco. In 10 minuti catturo le chiacchiere del Piccolo. È loquace, il ragazzo. A un certo punto mi lancio: «Se volessi affiliarmi, cosa mi aspetta?». Sono parole preziose le sue. Spiegano ’o Sistema: «Chi scenn’ ’a faticà, chi lavora per i clan, sta in una paranza», cioè nei gruppi più esposti, quelli che sorvegliano la piazza di spaccio. «Quando sei in servizio alla paranza è vietato l’uso di droghe che riducono la reattività. È autorizzata soltanto la cocaina» perché enfatizza caratteri ed emozioni. Lo spacciatore, insomma, deve mantenersi in forma e vestirsi adeguato. «Tute sportive anzitutto, poi bomber e scarpette». Raramente i pusher si allenano in palestre ufficiali. I più benestanti hanno gli attrezzi nelle case fantasma attigue alle loro, gli altri dispongono di una palestra collettiva, «ricavata in una cantina». I culturisti «sono gli stessi che perlustrano i palazzoni giorno e notte, con turni di 8 ore a rotazione. E niente più ostentazioni, auto e moto veloci, collane d’oro alla Scarface. Tutto abolito». I boss hanno stabilito che il vero criminale non deve sembrare un criminale. Faccia il borghese, piuttosto. La grande sorpresa, poi, è che al tempo di eBay, Groupon e dei corrieri espresso, la vendita su piazza si è fatta anacronistica. La camorra è giovane d’età e veloce di pensiero, sa stare nella contemporaneità. Quindi consegna la droga a domicilio. Il telefono cellulare è interdetto, per gli ordini impiega i social network. Usa inoltre una cautela ulteriore: grazie ai soliti documenti falsi, si usano connessioni irrintracciabili. Naturalmente decidere di spacciare fuori dal Sistema è vietato, si rischia seriamente la vita. Per chi vende molto c’è però un premio di produzione. Poiché i boss mantengono un calendario dei turni, il sabato è «litigato» (conteso) perché gli ordini aumentano e di sicuro ci scappa il bonus. Dato che i pusher fidati vengono utilizzati come pony-express, molti spacciatori su piazza, talvolta ultraminorenni, altre disoccupati e cassintegrati (incensurati, va da sé), vengono da fuori Scampia. Ma non è generosità. Siccome i piazzisti sono facilmente arrestabili, così come gli autisti di Punto, diventano «utili idioti» controllati dai pali, l’appendice più avanzata dei boss. I sorveglianti dello Stato. E della normale gente di Scampia. Farsi sequestrare dalle guardie un pacco di droga («Ho avuto ’na perdita») equivale a indebitarsi per sempre. Perché il suddetto pacco, ovvio, bisogna rimborsarlo. E siccome lo stipendio è relativamente basso, lo spacciatore diventa schiavo del boss di riferimento prima di «fare» i soldi necessari al riscatto di se stesso. A meno che nel frattempo non esegua un ordine particolare. Tipo commettere un omicidio. Non mi trattengo: «Tu hai mai ucciso?» domando. «Non sono io l’esperto, chiedi a quello dietro» ride il Piccolo. Dallo specchietto retrovisore percepisco un lieve movimento della palpebra del Grande. Capisco che è il caso di tacere. E che l’unica intuizione realistica sul mio assassinio avrebbe potuto riguardare il suo esecutore materiale. Arrivati a Benevento, vengo depositato nei pressi di piazza Duomo. Il Piccolo si mette alla guida della Lancia Y e dal finestrino della Punto il Biondo brontola: «Non rompere il cazzo, fatti una camminata, ci vediamo qui tra 2 ore». Ma la mia prima corsa è verso una toilette. Poi vado a un internet point per scrivere (e descrivere) fatti, luoghi e personaggi. Spedisco tutto a una persona di fiducia: non si sa mai. Invece il ritorno verso Scampia sarà simile, solo più silenzioso: nei Bruni c’è tensione. All’arrivo mi vengono consegnati 300 euro. Scendo a due isolati dalle Vele e torno a piedi a casa. Ripeterò altri viaggi brevi, a Giugliano e sul monte Faito, con la stessa dinamica. Il Piccolo parlerà ancora solo all’andata. Solo che ogni volta cambieranno le macchine. E al ritorno il bagagliaio sarà pieno. Col tempo ho acquistato una buona confidenza tra le paranze. Ci sono persino uscito a cena, seduto ai tavoli dei migliori ristoranti di Posillipo, mangiando cose da ricchi. Pagano loro, io sono ufficialmente un poveraccio. È sorprendente la confidenza che gli uomini di camorra hanno con la Napoli bene: è sicuramente maggiore della mia, che pure napoletano sono. Si conoscono bene, aristocratici e mafiosetti. Parlano di viaggi e gioielli. «I soldi uniscono i ricchi, la povertà divide i poveri» declamo dopo avere bevuto un po’. È una frase troppo a effetto per uno spiantato. Però hanno bevuto tutti. Il Piccolo e i suoi mi guardano come un extraterrestre, poi ridono a crepapelle e avverto piena la scivolosità di un’affermazione: «Divorzia’, tu è troppo tempo che non chiavi. Mo’ ci pensiamo noi a procurarti una femmina, vediamo come te la cavi». Stavolta la risposta è giusta: «Guaglio’, forse il problema è che io chiavo troppo. Sono proprio le femmine che mi riempiono la testa di chiacchiere». Un altro incidente, potenzialmente letale, è datato 4 febbraio. A Scampia s’inaugura «Il raggio di sole», una bella struttura sportiva di quartiere. La mia paranza da viaggio ci va tutta. Invitano anche me. Non lo sapevo, sennò mai avrei rischiato, ma oltre al sindaco Luigi De Magistris c’è Raffaele Cantone, il magistrato che ha incastrato i Casalesi (e non solo), odiatissimo da tutti i camorristi. Ci conosciamo da molti anni. Raffaele mi vede da lontano, sorride e si avvicina. Non so come, riesco a fargli un cenno disperato. Lui, sveglio, capisce che qualcosa non torna, finge di non conoscermi e mi volta le spalle. La mia fortuna è che in quel momento la paranza si sta facendo fotografare sottobraccio con De Magistris, amato a Scampia e ignaro di tutto. È una lezione definitiva. Da ragazzo pensavo che le foto fossero una prova evidente della collusione tra politici e mafiosi. Non è così, punto e basta. Invece è certo che qui, sul mercato, ci sono sette prodotti: cocaina, eroina, kobret (più o meno eroina che si fuma), hascisc, marijuana, amnésia (marijuana trattata chimicamente), acidi. Gran parte delle droghe arriva dal Marocco via Spagna. Gli acidi sono invece fatti in casa. Lo deduco dai miei diari di viaggio: «Abbiamo due fabbriche, una nel Sannio e l’altra nel Basso Lazio, vicino Fondi». Quanto alla marijuana, è difficile da importare: troppo ingombrante. «La pianta viene coltivata direttamente in Campania, il clima lo consente. Alcuni campi di erba allucinogena sono sul monte Faito e verso il mare di Giugliano», a nord di Scampia. L’inverno del 2012 è stato gelido, però: il gran freddo ha devastato le piantagioni. Così in autunno è atteso un parallelo aumento dei prezzi. Per contenerli non basterà aumentare il dosaggio con nuove sostanze sintetiche, che ne accrescono la potenza ma anche i rischi per gli acquirenti. Per i padroni dello spaccio gli utili sono enormi. Il Biondo ormai si fida, ma nemmeno lui conosce il tariffario all’origine: «Che cazzo ne so? All’ingrosso 1 chilo di cocaina si paga 43 mila euro, con in più l’omaggio di un centinaio di grammi». La polvere viene poi trattata chimicamente. Siccome il trattamento aumenta il peso del 30 per cento, «si arriva a circa un chilo e 330 grammi». Al dettaglio, a Scampia un grammo di cocaina costa 70 euro, 85 se consegnata a domicilio. Quindi con un investimento iniziale di 43 mila euro se ne incassano 93 mila. E pensare che i guadagni si sono parzialmente ridotti. La coca, prima della faida del 2004, «costava appena 37 mila euro al chilo». Leggenda vuole che la Vela rossa contenga il più grande deposito per l’ingrosso di droga a Scampia. La quasi certezza è che lì sarebbe sistemato pure un arsenale di guerra: pistole automatiche, kalashnikov, persino bombe a mano, buone per potenziali stragi. Negli ultimi giorni ho tentato due volte di entrare nella Rossa, ma non c’è stato verso, nonostante la frequentazione con i «pali» in servizio. Ai quali sono persino affezionato. Ecco, credo di averli smarriti. Ma forse, cercando, potrei ancora trovare qualche filmato delle nostre gite fuori porta. Così, per ricordo personale.»

I PRECARI DELLA CAMORRA.

La Repubblica”, con Attilio Bolzoni, Antonio Di Costanzo, Carlo Bonini e Giovanni Tizian raccontano come la Camorra si evolve al passo coi tempi e con le crisi economiche.

Spacciatori co.co.co, sentinelle pagate a ore, la guerra tra faide sgretola "o Sistema". Recessione e depressione stanno colpendo anche le piazze dello spaccio di Scampia. Crolla il welfare della Camorra voluto da Raffaele Cutolo e inizia a svanire la fiducia nei boss: chi non assicura la 'campata' perde consenso. Sullo sfondo la rappresaglia, con morti e feriti, tra "scissionisti" e "girati". Sulle piazze di Scampia non si erano mai visti giorni così grami. Le vedette non ce la fanno più a portare a casa una paga sicura, in carcere non entrano più "le settimane" per i detenuti, il popolo della droga è quasi alla fame. Per colpa della faida, la camorra taglia stipendi e arruola precari. E' arrivata la spending review anche per il crimine napoletano. In questa fine estate di guerra e di morti in quella città nella città che è la dannata Scampia si vende eroina a cottimo, le sentinelle sono pagate a ore, il "posto fisso" nel clan ormai non ce l'ha più nessuno. Sono tutti a tempo determinato al servizio di questo o di quell'altro boss, fra le fila dei Vanella Grassi o nel gruppo degli Abete Abbinante, nell'esercito dei Di Lauro e fra gli Amato Pagano, veri e presunti camorristi doc, "scissionisti" o quegli altri che chiamano "girati" perché si sono rivoltati ai loro ultimi alleati accordandosi con i vecchi nemici, tutte le varietà e le razze della malavita più stracciona e violenta di Napoli. È recessione e depressione sulle piazze di spaccio della più famigerata capitale italiana dei narcotici. Dopo sette omicidi nel territorio e uno fuori zona - sulla spiaggia di Terracina, il 23 agosto - e dopo l'assedio di poliziotti e carabinieri, fra le mostruosità architettoniche delle Vele e le Case dei Puffi sta crollando all'improvviso quel sistema che resisteva da una vita, il welfare voluto da Raffaele Cutolo alla fine degli Anni Settanta con la sua Nuova Camorra Organizzata. Affiliati tutti garantiti, coperti e mantenuti, compresi fratelli e cugini e padri carcerati. E' finita la festa nella Scampia del commercio all'ingrosso e della bustina porta a porta. E' finita la giostra della droga smerciata alla luce del sole e consumata nelle "sale del buco" allestite fra capannoni deserti e scuole abbandonate, un tavolino per la compravendita e l'assaggio, nel locale dietro le coperte e i lettini, gli attaccapanni, gli specchi, a terra tappeti di siringhe e bottiglie di plastica bucate dove i più disperati tirano fumo di kobret, lo scarto dell'eroina. È crisi nera dentro quella che viene ancora definita camorra ma che in realtà è un arcipelago banditesco, ottanta o forse anche cento fazioni che si mischiano e si fronteggiano per conquistare spaventose periferie e ammazzano per niente. I primi "salari" a saltare sono stati quelli dei detenuti. "Non bisogna dare nulla perché non si sta facendo nulla, non ci sono più soldi e non ci si può rimettere di tasca propria", diceva ai suoi qualche settimana fa Arcangelo Abete. Poi è toccato ai pali e ai sorveglianti delle piazze di Scampia, fino a qualche mese regolarmente stipendiati dalle loro organizzazioni e adesso pagati a giornata o anche a turno. Più ore di sorveglianza e più euro, meno ore di sorveglianza e meno euro. Chi fa la guardia di notte o all'alba raccatta gli straordinari. Una rivoluzione nel mondo del crimine. Con i pusher assoldati anche in altri quartieri o in altri paesi. A Casoria, ad Arzano, a Casandrino, a San Pietro a Patierno. Più fanno la spola fra un deposito e un cliente e più guadagnano, più producono delitto e più intascano. Una teppaglia usa e getta che sta segnando la fine di un'epoca, quella della "gente di fiducia", seguaci fedeli, custodi di segreti e conti correnti, soci capaci di far girare con la droga 100 milioni di euro l'anno solo di coca e solo a Scampia. L'anno scorso hanno arrestato un "ragioniere" di un clan, Pasquale Russo. In tasca aveva il suo libro mastro: un giro di 8 milioni al mese. L'altro ieri i carabinieri ne hanno fermato un altro di contabile, Pasquale S. Addosso aveva cinque block notes con tutti i numeri: 27 mila 120 euro di incassi da giugno fino ai primi di settembre. Erano segnate anche le uscite per i pasti dei pusher. Basta pranzi e cene ordinate al ristorante e consegnate a domicilio, solo pizze e panini da mangiare al volo. A Scampia è l'ora degli avventizi, degli spacciatori co.co.co, c'è perfino la comparsa degli extracomunitari chiamati a fare da staffetta per scortare un piccolo carico o accompagnare i clienti su per le scale di qualche palazzaccio covo. "Il mercato si è parcellizzato e si sta registrando anche un calo di simpatia popolare nei confronti dei capiclan", racconta Antonio D'Amore, uno della comunità "Il Pioppo", lavoro di strada per strappare i ragazzi alla droga e i tossici alla morte. Chi non assicura la "campata" perde consenso, chi non paga puntuale ci rimette la faccia. Allo sportello anticamorra che ha aperto qualche mese fa da Ciro Corona, un ragazzo di "Resistenza", cominciano ad arrivare denunce sugli spacciatori. Nove a giugno, nove a luglio, nove ad agosto. Un piccolo miracolo, un altro segno che qualcosa lentamente sta cambiando anche qui nella Scampia dimenticata da tutti i sindaci di Napoli. Si aspetta l'esercito a intanto quasi duecento uomini in divisa tengono nella morsa questo "blocco" della città, pattugliamenti, inseguimenti, perquisizioni. Da alcune settimane hanno buttato giù tre o quattro "narco sale" dove i ragazzi si facevano in tranquillità, stanze pulite, lo spacciatore che regalava una siringa monouso, qualcuno lì vicino pronto con il Narkan per iniettarlo in caso di overdose. Una era nel rione dei Fiori che qui tutti conoscono come "Terzo Mondo", l'altra era "la valle dei sogni" alle spalle delle Case dei Puffi. E' rimasta popolata da adolescenti ormai solo l'Istituto professionale artigianale, una scuola che è diventata proprietà di un gruppo piccoli trafficanti. I ragazzi scavalcano la cancellata, s'inoltrano nel giardino, spariscono nelle aule e poi si strafanno di kobret. Una nuova mappa dello spaccio per trovare "roba buona" adesso è su Facebook. I clienti li contattano in Rete. Messaggi cifrati, luoghi e prezzi. Sui social network si combatte anche una guerra virtuale, è la faida per via telematica. Con minacce, sfottò, avvertimenti. Alcuni ricordano su Facebok anche i loro morti. È un'altra Scampia ed è sempre la stessa Scampia. Da quando hanno ricominciato a sparare i ragazzini del quartiere non vanno più a scuola. Il 41 per cento in meno del 2011 in quest'inizio di settembre. "Si nascondono, hanno paura, non li mandano in classe per paura di ritorsioni", spiega Ciro Corona che da anni con la sua associazione va in giro fra Le Vele e quei vialoni spettrali per buttare giù dal letto i tredicenni e i quindicenni figli dei boss e convincerli a entrare a scuola. Fino all'anno scorso Ciro e i suoi compagni riuscivano a portarne sui banchi sette su dieci puntuali alle 8,30, al suono della campanella. In questi giorni i figli della camorra stanno rintanati nelle loro case bunker, terrorizzati. I loro padri spostano le centrali del traffico verso Melito di Napoli, i pusher si inventano "basi mobili" per lo spaccio, smerciano droga in movimento su motorini per sfuggire ai controlli. Corrono verso Chiaiano, là dove qualche anno fa volevano costruire un'enorme discarica. E neanche si accorgono che passano in un altro mondo. Dentro tredici ettari di terra bellissima che una volta era dei Nuvoletta, mafia di alto rango. Oggi gli amici di Ciro in quella campagna raccolgono pesche. E poi fanno marmellate.

I "Girati" contro gli "Scissionisti", giovani all'assalto dei vecchi capi. L'assassinio è una probabile risposta al delitto di Terracina: equilibri criminali in frantumi. Ucciso per vendetta o forse per ricacciare indietro "quelli di Secondigliano". L'omicidio di Gennaro Ricci riapre gli scenari da brivido della faida. Gli investigatori esperti lo sanno bene: a Scampia, Secondigliano e zone limitrofe è ripresa la guerra per la droga. Ricci potrebbe essere stato ucciso per vendicare la morte di Gaetano Marino. Il vecchio boss ucciso nei giorni scorsi a Terracina. Marino, conosciuto come 'o moncherino perché aveva perso l'uso delle mani a causa dell'esplosione di un ordigno, secondo gli investigatori gestiva la piazza di spaccio delle "Case celesti" a Secondigliano per conto del fratello Gennaro, il cosiddetto "Mc Kay", detenuto, e ritenuto un boss di primo piano degli "Scissionisti". Marino sarebbe stato ucciso proprio dai cosiddetti "Girati" della Vanella Grassi, giovanissimi aspiranti boss desiderosi di conquistare fette di territorio. Desiderosi di strappare agli "Scissionisti" piazze importanti come già avvenuto con la Vela Celeste, proprio dove è stato ucciso Ricci. Oltre alla vendetta, dietro all'agguato ci potrebbe essere anche la decisione dei vecchi clan, quelli usciti vincitori dalla faida con i Di Lauro, nati attorno ai gruppi Abete-Abbinante-Notturno-Aprea, di rispondere alle velleità dei "Girati". E così sono riprese le ostilità. Anticipate da altri agguati e da killer che non hanno avuto scrupoli a sparare anche contro polizia e carabinieri. Tra l'altro, la nuova faida potrebbe essere anche più vasta. Dietro a quelli della Vanella Grassi, gruppo colpito dalle operazioni delle forze dell'ordine, potrebbero esserci anche gli eredi di Paolo Di Lauro. Gli uomini rimasti fedeli al figlio di "Ciruzzo 'o milionario": quel Marco Di Lauro, latitante da oltre otto anni, inserito nella lista dei primi trenta ricercati italiani. Marco Di Lauro è ritenuto alleato, anche se parlare di alleanze è forse troppo in un scenario che muta ogni giorno, con quelli della Vanella. Anche il rampollo di Paolo Di Lauro potrebbe avere due obiettivi da perseguire: vendicarsi degli Scissionisti, ma soprattutto, riconquistare Scampia: il più grande supermercato della droga d'Europa. Infine, c'è anche un'altra ipotesi. Ricci, ritenuto legato al gruppo Leonardi, a sua volta vicino ai Di Lauro, potrebbe anche essere stato punito per uno sgarro dagli stessi gruppi di Secondigliano. Da Latina a Formia, le mani dei clan sul Basso Lazio. Saltati gli equilibri sul traffico di droga. L'allarme degli investigatori: a Napoli la tregua è finita, il sangue di Scampia chiamerà altro sangue. Il sangue di Scampia chiamerà altro sangue. E l'aria greve di questa estate di resa dei conti cominciata il pomeriggio del 24 luglio con 7 colpi di calibro 9 in piazza Regina Margherita a Nettuno ora ammorba la striscia di 170 chilometri tra Roma e Formia. Perché tre cadaveri di camorra in poco più di sei settimane (Modestino Pellino, Gaetano Marino, Raffaele Abete) promettono di rimescolare antiche alleanze. Offrire "opportunità" e dunque sollecitare nuovi appetiti. Seminare rancori, utili a diventare presupposto di nuove vendette. Soprattutto, di rimettere in discussione quegli equilibri che tengono ormai Roma annodata a Napoli e Caserta con la forza della gomena di una nave. Il potere della droga. In tutta la provincia di Latina, la torta del traffico di stupefacenti - cocaina, eroina, hashish - tiene insieme, e non certo da ieri, la "storia" dei clan camorristici campani e famiglie calabresi di 'ndrangheta come i "Tripodo-Romeo" e i "La Rosa" di Reggio, i "Bellocco" di Rosarno e gli "Alvaro" di Sinopoli. Nei più recenti rapporti dell'Arma, della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza e della Dia, si scorre un interminabile elenco anagrafico che tra latitanti, detenuti, "obbligati al soggiorno" e morti ammazzati, segnala che i padroni di questa terra sono da anni i "Moccia" (di cui Pellino era il luogotenente) di Afragola, Caivano e Casoria; i "Casalesi" di Casal di Principe; i "Bardellino" di san Cipriano d'Aversa; i "Venosa" di Aversa; i "Pianese" dell'hinterland a nord di Napoli; i "Beneduce-Longobardi" dell'area flegrea di Pozzuoli; i "Di Lauro" di Secondigliano, che, per altro, in questa nuova guerra dentro gli "Scissionisti" si ipotizza abbiano deciso di prendere parte. Sono seduti su una montagna di denaro. Perché la "roba" che arriva da Napoli a Latina è tanta. E serve almeno quattro mercati. Quello pontino, ovviamente, ma anche quelli di Roma, Milano, Catanzaro. E se sono una spia i sequestri di beni mobili e immobili che del traffico di stupefacenti sono lo strumento di riciclaggio (soltanto tra febbraio e marzo di quest'anno sono stati congelati ricchezze sul litorale pontino per oltre 150 milioni di euro), parliamo di cifre a sette, otto zeri. Il cui reimpiego intossica gli appalti pubblici, stringe in un monopolio gli affari dei mercati ortofrutticoli (Fondi su tutti) e ha consegnato ai clan il monopolio sia del traffico pesante su gomma che del movimento terra nei cantieri tra Aprilia e Minturno. Nuove alleanze. È un'immensa liquidità che divora quel che resta di un'economia legale in ginocchio perché asfissiata dalla crisi, e modella alleanze altrimenti impensabili. Per dirne una, nel novembre dello scorso anno, la Guardia di Finanza e la Polizia, lavorando sul giro di estorsioni con cui il clan "Bardellino" tiene stretto in una morsa il golfo di Gaeta ("Operazione Golfo"), finiscono con lo scoprire i nuovi equilibri interni ai Casalesi. Si legge nelle carte che documentano l'operazione: "Le indagini hanno potuto accertare che, una volta appianati i vecchi contrasti con il clan Schiavone, i Bardellino, riorganizzatisi a Formia, sono diventati il punto di riferimento dei "Casalesi", di cui di fatto ormai operano come articolazione nel sud pontino, e cui assicurano il reimpiego di capitali illeciti nel tessuto imprenditoriale locale ". Ma c'è di più. Nel laboratorio pontino, così come per la 'ndrangheta a Roma (come ha documentato un'inchiesta di "Repubblica" la scorsa settimana) anche il vincolo di appartenenza ai clan non è più un presupposto necessario per sedersi al tavolo delle famiglie. Il "knowhow" premia sui quarti di nobiltà criminale. Il "franchising" dello spaccio tiene lontani i pezzi importanti delle famiglie dai marciapiedi, senza privarli del controllo. Coca ai vivi racket sui morti. È la storia di Vincenzo Marciello e Mirko Cascarino. Sono due ragazzi di Formia. Ventisette anni il primo, 21 il secondo. La scorsa primavera, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli e l'Arma li scopre padroni dello spaccio sulla piazza di Terracina per conto del clan "Fragnoli-Pagliuca" (Mondragone). Ma il denaro che alzano con cocaina e hashish, viene reinvestito in quote societarie di imprese di pompe funebri con cui puntano al monopolio del "caro estinto" da Terracina in giù. Un segnale - annota un rapporto dell'Arma - che "testimonia la capacità di evoluzione della criminalità locale in un contesto di crimine organizzato ". E forse neppure l'unico, se è vero che a Latina due famiglie nomadi come i Ciarelli" e i "Di Silvio" trafficano ormai in ogni tipo di illecito (a cominciare dalle estorsioni) e, dunque, con la benedizione dei clan. Frosinone come Latina. La metastasi di camorra che si è mangiata metà del Lazio non sembra conoscere argine. Peggio, appare ed è percepita ormai come una parte del paesaggio. Come il sole e la mozzarella di bufala. E nella sua "ovvietà" annegano nel silenzio le notizie che segnalano come anche la provincia di Frosinone, al pari di quella di Latina, sia ormai roccaforte dei clan. I "Casalesi" e i "Mallardo" di Giugliano, come, non più tardi del giugno scorso, ha documentato l'ennesima operazione anti-camorra ("Lilium") della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e del Ros dei carabinieri che di indagati in carcere ne ha trascinati 47. Il "format" è lo stesso. Il traffico di stupefacenti che arriva dal litorale pontino assicura una liquidità capace di intossicare la regolarità degli appalti e moltiplicare i monopoli. E non sempre è necessario sparare. Quasi sempre funziona la forza dell'intimidazione, che nel frusinate spesso viene esercitata in franchising da quella stessa famiglia nomade dei "Di Silvio" padrone delle estorsioni nella piazza di Latina. L'attesa. "Otto anni fa - osserva un investigatore dell'Arma - l'ultima guerra di Camorra fissò degli equilibri che hanno segnato anche la geografia criminale del basso Lazio. Quegli equilibri sono saltati ed è ragionevole pensare che il paesaggio del sud pontino ne sarà investito. Non c'è foglia che si muova a Napoli di cui non si senta immediatamente il rumore a Latina o a Formia ". E del resto, in questa che è una guerra di droga, di tre cadaveri, due sono stati raccolti a sud di Roma. Non per caso.

"Così ho vissuto otto mesi da 'infame'": l'imprenditore italiano infiltrato nei clan. È il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nelle mani del clan dei casalesi. Lui ha denunciato i tentativi di estorsione. Da allora, d'accordo con le autorità, ha finto di essere un impresario "amico" dei Casalesi. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e sui adepti mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell'usura. Lo incontriamo in una località segreta, con gli uomini della scorta a proteggerlo da vicino. È una giornata primaverile, sole e vento che profumano di libertà. Una giornata ideale per incontrare Antonio. Antonio la sua libertà l'ha difesa con i denti. Antonio non è il suo vero nome, ma quello di un'identità in prestito, utile a tutelarlo dai criminali che lo ritengono un infame. La sua primavera è iniziata due anni fa, quando ha trovato la forza di denunciare i camorristi che volevano impossessarsi della sua azienda. Ha coraggio da vendere Antonio, origini meridionali e viso sorridente nonostante la vita blindata che gli è stata imposta: è il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nella mani del clan dei casalesi. Gli altri imprenditori hanno accettato passivamente gli ordini dei boss che tra Padova, Treviso, Rimini e Milano, gestivano un giro di usura camuffato dalla società finanziaria "Aspide". Lui invece, non solo è corso dai magistrati appena intuito che il prestito concessogli era solo una scusa per acquisire l'azienda, ma è stato infiltrato nelle file del clan. E così ogni sera, per otto lunghi mesi, dopo la giornata vissuta al fianco dei boss, scriveva il rapporto su affari, pestaggi, donne, droga e umiliazioni a cui aveva assistito. Un teatro dell'orrore in cui Antonio recitava la parte dell'impresario amico dei Casalesi, diventando il punto di riferimento economico del clan. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e suoi uomini mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell'usura. "Utilizzavano il marchio del clan in franchising", scherza in tono amaro Antonio che del Veneto ha visto il benessere ma anche la crisi economica che spinge molti imprenditori togliersi la vita e a tuffarsi nelle mani degli strozzini mafiosi. "Le due cose non sono slegate", fa notare. A mettere in contatto l'imprenditore infiltrato con la società dei camorristi è un suo collega, già debitore del clan. "Sapeva che stavo cercando un prestito, e mi suggerì di andare all'Aspide, che senza troppe domande e garanzie mi avrebbe concesso tutti i soldi che chiedevo". Dopo qualche giorno Antonio viene adescato da un certo Jonny. Accento veneto, persona distinta: le voci girano e all'orecchio dei boss era già arrivata notizia di quell'imprenditore in cerca di denari. "Il mio primo approccio è con questo veneto, che mi propone il prestito. Ci mettiamo d'accordo per incontrarci all'Aspide. Quando entrai nell'ufficio, in centro a Padova, ad attendermi c'era il capo, Mario Crisci. E quando vidi le pistole appoggiate sul tavolo capì subito l'ambiente in cui ero finito". Antonio aveva comunque necessità di quei soldi. Progetti da portare a termine, operai da pagare, la famiglia da mantenere: o costruisce o fallisce. "Chiesi 20mila euro e quello volle una serie di assegni firmati a nome mio. Pochi giorni e smascherai le loro intenzioni: volevano la mia azienda, mi diceva espressamente di intestargli tutto. Così decisi di rivolgermi ai magistrati, alla Dia. Insieme stabilimmo che avrei continuato a stare al gioco. Diventai così l'imprenditore infiltrato nelle fila della camorra. Supervisionato dall'Antimafia a cui ogni sera facevo rapporto". Seguiva ogni loro mossa, era diventato "amico" e di lui Mario Crisci si fidava. Botte, sangue, violenza, minacce, soldi, sesso e droga: erano elementi ricorrenti della routine quotidiana di una Camorra arricchita acquisendo aziende in difficoltà. "Entravano con sei macchinoni all'interno della mia ditta, e iniziavano il giro di telefonate per recuperare crediti dai clienti di Aspide. Titolari di aziende che venivano 'invitati' a venire nel cantiere. Li facevano mettere in ginocchio, obbligati a stare fermi, e con calci e pugni li umiliavano. Una ferocia assurda contro obiettivi immobili. Ho temuto più di una volta che la "lezione" finisse con la morte dell'imprenditore". Ma la banda che si fregiava del marchio del Clan di Schiavone "Sandokan" requisiva anche il materiale dai magazzini dei debitori che non saldavano. "Il più delle volte piazzavano nei depositi gente di fiducia, così da controllare il flusso di denaro in entrata e in uscita". Senza via di scampo, insomma. E neppure una denuncia. Tranne quella presentata da Antonio. Dall'alba al tramonto botte, minacce e recupero crediti. A seguire, festini, night, ristoranti. Donne e droga. "Ostentavano l'appartenenza ai Casalesi e il loro atteggiamento mafioso. A un giovane del gruppo dissero che senza di loro non poteva permettersi di spendere il nome del clan. A metà serata abbandonavo la cricca e tornavo in famiglia, il più delle volte crollavo, piangevo in silenzio per l'orrore a cui ero costretto ad assistere". Impressa nella memoria gli resta una scena. "C'era questo ragazzo tredicenne, figlio di uno dei capi. Il papà che lo incitava all'aggressività, lo invitava a unirsi ai pestaggi di gruppo. Quando riuscivo lo tenevo con me, ma era bombardato, gli mostravano i filmini della camorra, videoclip sui boss". Giovani cresciuti con un deviato senso dell'onore e del rispetto. "Ripetevano sempre: 'c'abbiamo il rispetto'. Ma picchiare un anziano di 80 anni per punire il figlio che non paga significa essere gente di rispetto? Stringono lacci intorno al collo degli imprenditori, e li umiliano bastonandoli con le stampelle: è questo l'onore?". La storia di Antonio descrive un Veneto impaurito, tra omertà e imprenditori smarriti che affrontano in solitudine le difficoltà. "Un giorno portarono nel mio ufficio un ragazzo, titolare di un'azienda. Lo fecero inginocchiare e iniziarono a schiaffeggiarlo. A un certo punto intervenni per bloccare la furia dei boss. Il pestaggio si concluse con uno schiaffo e una frase rivolta al giovane: "Non vali niente". Dopo chiamarono la moglie per chiederle di firmare le cambiali. Lei rispose: "Non vengo a firmare niente", ma non andò neppure a denunciare. Ecco, questo è il lato B del Veneto". Una regione dove i clan "sversano" denari nel silenzio. "Controllavano oltre 100 aziende: nella maggior parte dei casi non si limitavano a prestare soldi, ma imponevano personale di loro fiducia. Mi dissero che se stavo con loro sarei diventato sindaco". Perché l'importante è non farsi troppe domande. Come quel fornitore di Antonio, che un giorno si è trovato a trattare con con Crisci e compari, bypassando Antonio, senza chiedersi troppi perché. E non tutti i professionisti del nord est dicono di no alle richieste dei clan. "Mi chiamò un notaio amico loro per concludere il passaggio delle quote, da come parlava era del "sistema". C'è anche un commercialista finito in mezzo all'indagine. E lo stesso boss si vantava del proprio soprannome: O dottò". Poi ci sono i simboli, vitali per chi ostenta mafiosità. Come un cementificio. "Lo volevano a tutti i costi, per poter dire in Campania di avere, tra le varie imprese, anche un cementificio di proprietà. È uno status symbol da camorrista, come la villa e il Suv. Quando arrivavano gli operai dall'agro aversano esibivano le loro ricchezze, 'vedete come stiamo bene e quanto lavoro vi diamo'". Ma la camorra vista dall'interno, vissuta nelle sue perversioni peggiori, segna per sempre. "Ho fatto solo il mio dovere, certo mi aspettavo maggiore attenzione da parte delle istituzioni. La vita del testimone di giustizia è stretta tra attese interminabili e burocrazia disumana. Con l'azienda ferma da due anni, i risparmi finiscono in fretta. Abbiamo avuto accesso al fondo per le vittime del racket e dell'usura, ma ancora non abbiamo visto un soldo. Per i primi tempi gli investigatori mi portavano da mangiare e le sigarette. Dopo due mesi ci hanno mandato via dal Veneto. Ma la vita di prima nessuno te la ridà. E ora eccomi qui: nascosto, isolato, senza lavoro, abbandonato. Quando entri negli uffici della Procura sei un eroe, quando vai alla sezione civile ti trattano come un ladro per i debiti accumulati dopo la denuncia. I commercialisti ci hanno scaricato e in Veneto non riusciremo più a lavorare". È marchiato a vita, Antonio, per avere denunciato la prepotenza del clan. Un gesto normale che in Italia diventa eccezionale. Al processo contro l'Aspide ci sono solo 8 parti civili. Perché "giù al nord est" i clan fanno paura. "Ma io rifarei tutto, dall'inizio alla fine", dice infine Antonio. Per lui la libertà è più forte della burocrazia, del pericolo, dell'indifferenza di tanti suoi colleghi che a testa bassa preferiscono non sentire, non vedere e non parlare di quel mostro criminale che divora pezzi interi di economia.

Ha chiamato una cartomante forse per sapere qualcosa su amore e lavoro. In tanti (migliaia) chiedono lumi ai tarocchi. Ma se a farlo è un magistrato, e col cellulare di servizio, allora la cosa cambia, scrive “Il Corriere della Sera”. Rischia infatti una sanzione disciplinare Claudia De Luca, pm di Napoli, perché avrebbe effettuato 65 chiamate con il cellulare di servizio, dirette ad un'utenza «899» riferibile a servizi di cartomanzia, astrologia e previsioni del lotto. I fatti risalgono al periodo tra maggio e ottobre 2003 quando De Luca svolgeva funzioni di pm alla procura di Potenza. Come riporta anche l'Agi, la pm sarà sottoposta a procedimento disciplinare. Il pg di Cassazione ne ha infatti chiesto il rinvio a giudizio sottolineando che «per effetto di tale condotta realizzata in violazione delle prescrizioni generali e relative all'uso dei sistemi telefonici dell'ufficio e fonte di danno erariale è stato disposto dal gestore della rete telefonica il blocco dell'utenza di servizio per traffico anomalo ed esubero di spesa, con pregiudizio per la reperibilità del magistrato di turno». Per questi stessi fatti è già stata sottoposta a processo penale, con l'accusa di peculato, a Catanzaro.

Avrebbe compiuto sessantacinque telefonate a un servizio di cartomanzia, astrologia e previsioni del lotto con il cellulare che veniva utilizzato nel suo ufficio per il turno di reperibilità; un traffico giudicato «anomalo» dal gestore della rete che perciò bloccato quell’utenza. Per questo comportamento il pm di Napoli Claudia De Luca, all’epoca dei fatti sostituto procuratore a Potenza, finirà sotto processo davanti alla sezione disciplinare del Csm, nonostante un’assoluzione in Appello, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La montagna di telefonate sarebbe stata fatta in pochi mesi: tra il maggio e l’ottobre del 2003, come riporta il capo di incolpazione a carico del magistrato, formulato dalla procura generale della Cassazione. Destinatario sempre lo stesso numero a tariffazione speciale, che appunto corrispondeva a quello del servizio di cartomanzia e astrologia. Un «uso improprio» del cellulare di servizio, che è stato anche «fonte di danno erariale», scrive la procura generale della Cassazione, che evidenzia anche il «pregiudizio per la reperibilità del magistrato di turno», che si è avuto in conseguenza della decisione del gestore della rete di bloccare quel numero. La vicenda è già costata al magistrato un procedimento penale per peculato, scaturito dall’inchiesta Toghe lucane dell’allora pm e oggi sindaco di Napoli Luigi De Magistris (che avviò l’indagine sulle toghe lucane ma non la portò a termine perché il Csm lo trasferì sia di sede che di funzioni). La pm De Luca però, nel 2012, è stata assolta dalla Corte di Appello di Catanzaro con formula piena. Le si contestava di aver utilizzato il telefono di servizio per scopi personali: dai tabulati acquisiti, i magistrati di Catanzaro sottolinearono come nei 732 giorni oggetto della rilevazione (tra il 2005 e il 2007) dal telefono di servizio di De Luca fossero partite 65 telefonate a un «899» di cartomanzia e ancora una serie di telefonate «non aventi carattere di ufficio». La posizione di De Luca, su sua stessa richiesta, fu stralciata dal processo «Toghe lucane (che poi si è concluso con la quasi totalità di archiviazioni e assoluzioni)». In primo grado la pm è stata condannata a un anno e sei mesi, mentre in Appello, i giudici l’hanno assolta «perché il fatto non sussiste». Il caso è approdato al Csm su segnalazione del procuratore generale della Corte di cassazione. Il Csm dovrà verificare se la condotta segnalata dal procuratore generale abbia in qualche modo messo in cattiva luce l’immagine della magistratura.

Da Potenza a Napoli: una storia di ordinaria stupidità tutta italiana. Magistrati "contro" che lasciano la sede giudiziaria di Potenza per ritrovarsi tutti a Napoli. Claudia De Luca, ex sostituto procuratore della Repubblica di Potenza e poi in servizio nella sede sede giudiziaria di Napoli, è stata condannata a un anno e sei mesi di reclusione per l'accusa di peculato, che gli era stata mossa nell'ambito dell'inchiesta conosciuta come "Toghe lucane". La sentenza – scrive l’Agi e tutta la stampa - è stata emessa dal giudice dell'udienza preliminare di Catanzaro, Antonio Rizzuti, al termine del giudizio abbreviato che è valso alla De Luca lo sconto di pena di un terzo, e nell'ambito del quale il pubblico ministero Gerardo Dominijanni aveva chiesto una condanna ad un anno e quattro mesi. La contestazione di peculato fu mossa all'imputata dall'allora sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris, titolare di "Toghe lucane", perché lei avrebbe utilizzato il telefono di servizio per scopi personali. La De Luca, in particolare, secondo le accuse - del 2009 la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vincenzo Capomolla che ha ereditato Toghe lucane dal collega de Magistris - avrebbe effettuato con il cellulare di servizio 65 telefonate, nel periodo tra maggio e ottobre del 2003, al numero telefonico 899 a pagamento per un servizio di cartomanzia. Nell'inchiesta sarebbero emerse anche diverse telefonate effettuate dal magistrato allora in servizio a Potenza, sempre con il telefono del turno, su numeri strettamente personali e, in particolare, oltre 16.000 contatti nel periodo tra il 20 aprile 2005 e il 22 aprile 2007 sul numero di cellulare del marito. A queste, si aggiungerebbero altre telefonate, effettuate sempre con il cellulare del turno, ad altre persone vicine all'imputata. La De Luca è attualmente tra le persone indagate nell'inchiesta denominata "Toghe lucane bis", e destinataria di uno degli avvisi a comparire emessi dalla Procura di Catanzaro che sta conducendo l'inchiesta, relativa a presunti gravi illeciti commessi tra gli altri da alcuni magistrati in servizio in Basilicata. Nell'inchiesta "Toghe lucane bis" sono ipotizzati, complessivamente, la violazione della legge sulle associazioni segrete, l'associazione a delinquere, la corruzione in atti giudiziari, l'abuso di ufficio. "Toghe lucane bis" ha preso le mosse da un presunto complotto finalizzato a calunniare l'allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock (poi pm a Napoli) che, insieme al suo collega Vincenzo Montemurro, ora in servizio alla Procura di Salerno, indagavano sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

A tal proposito dalla stampa (Il Domani della Calabria) si viene a sapere che la Procura di Catanzaro ha notificato 13 avvisi di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di magistrati, carabinieri, poliziotti e di un ex agente segreto del Sisde, indagati nell’ambito dell’inchiesta "Toghe lucane bis". I magistrati calabresi - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - ipotizzano che negli uffici della Procura generale di Potenza si era costituita e operava una società segreta, in violazione della legge Anselmi, finalizzata a delegittimare il lavoro dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock (poi in servizio alla Procura di Napoli) e di altri magistrati del capoluogo lucano. I promotori della società segreta, secondo l’accusa, sono l’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano e i sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca. Con l’aiuto del colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, e del vice questore aggiunto Luisa Fasano, reperivano notizie riservate sui magistrati della Procura che poi venivano usate per delegittimarli. Nell’inchiesta sono coinvolti anche l’ex sostituto procuratore Claudia De Luca (poi in servizio a Napoli), l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, poi divenuto cancelliere al tribunale di Melfi (Potenza), quattro ufficiali di polizia giudiziaria (Antonio Cristiano, Consolato Roma, Leonardo Campagna e Angelo Morello), l’imprenditore Ugo Barchiesi e l’autista della Procura generale di Potenza, Marco D’Andrea. Le indagini hanno avuto inizio dopo una lettera di calunnia ai danni di Woodcock e del suo braccio destro, l’ispettore di Polizia Pasquale Di Tolla. Ad organizzare il presunto complotto, secondo l’accusa, sarebbe stato Bonomi con la complicità degli altri magistrati della Procura generale di Potenza. Nel febbraio del 2009 fu preparato un esposto anonimo con i tabulati telefonici di Woodcock e quelli dei giornalisti Federica Sciarelli e di Michele Santoro. Il tutto era finalizzato, secondo la Procura di Catanzaro, ad avviare verifiche disciplinari nei confronti di Woodcock. Già in passato la Procura calabrese, con l’ex pm Luigi De Magistris (poi sindaco di Napoli), aveva indagato su un presunto comitato d’affari del quale avrebbero fatto parte magistrati, politici ed imprenditori. I trenta indagati di quell’inchiesta chiamata Toghe Lucane, sono stati prosciolti il 19 marzo scorso.

Insomma tutti a Napoli, appassionatamente.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. Arrestati sedici giudici: aiutavano i camorristi. Per gli inquirenti hanno venduto sentenze su decine di contenziosi tributari. Sono almeno 16 i giudici tributari, otto tra funzionari e impiegati presso Commissioni tributarie, un noto avvocato e docente universitario e commercialista, ad essere finiti in manette nel napoletano in un blitz anticamorra. La magistratura partenopea ha disposto per tre dei 16 giudici tributari la detenzione in carcere; gli altri 13 vanno ai domiciliari. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti e dai finanzieri nel corso delle indagini, decine di contenziosi tributari sarebbero stati falsati dalla corruzione, risolvendosi a favore dei ricorrenti, spesso vicini alla camorra. Le accuse: associazione camorristica e riciclaggio. E soprattutto impunità grazie alla complicità dei giudici tributari. Nella notte tra il 18 e 19 marzo 2012 eseguite sessanta ordinanze di custodia cautelare: ventidue persone in carcere, venticinque ai domiciliari, tredici divieti di dimora. Sono ben sedici i giudici tributari coinvolti (tre in carcere e tredici ai domiciliari), otto tra funzionari e impiegati delle commissioni tributarie.

Coinvolti anche un garante del contribuente della Campania (ai domiciliari) e un funzionario dell’agenzia delle entrate (divieto di dimora). Sequestro preventivo di beni per ben un miliardo di euro. E le intercettazioni svelavano il fronte della corruzione con una sorta di “mercato delle sentenze”. Giudici tributari che aggiustavano le sentenze in cambio di favori, permettendo addirittura ai privati di redigere personalmente le sentenze.

In pratica con la complicità dei giudici il denaro sfuggito allo Stato e rintracciato dalla Guardia di Finanza non rientrava in cassa grazie alle sentenze truccate.

Napoli, tra orgoglio e rancore. Un affresco di Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”.

Napoli si è ribellata e si è inorgoglita. Si è ribellata al Pd e al Pdl, a Bassolino e a Berlusconi, affidandosi a un magistrato fascinoso e controverso. E ha ritrovato un orgoglio che può prendere accenti rancorosi, come il risentimento verso il Nord «invasore e colonizzatore», embrione di una Lega Sud prossima ventura; ma può prendere anche direzioni costruttive. Se la colpa dei mali di Napoli è altrove, Napoli non può farci nulla. Ma a un numero crescente di napoletani la loro città, cosi com'era diventata, non va più bene. La amano molto, ma proprio per questo cominciano a cambiarla, partendo dai rifiuti, che non sono più per strada: non si potranno mandare per sempre in Olanda, ma intanto lo scandalo più nero è servito a scuotere la coscienza della città. Inorgoglita per due altri motivi: l'uomo che sta salvando l'Italia, profondamente napoletano, fin dal nome; e una squadra di calcio passata dalla serie C alla Champions, dove batte squadre di sceicchi e oligarchi.

L'estate in cui Aurelio De Laurentiis comprò il Napoli, mancavano pure i palloni e le maglie per gli allenamenti: il capitano Francesco Montervino andò a comprarli in un negozio di articoli sportivi a Paestum. Era il 2004, e il Napoli giocava con il Sora e la Vis Pesaro. Martedì 21 febbraio 2012, eliminato il Manchester City, toccava al Chelsea. I primi tifosi a entrare al San Paolo vi trovano trecento persone infreddolite avvolte nel sacco a pelo. Sono lì dalla notte prima. Lo stadio è presidiato per ordine del presidente, da quando si scoprì che un impiegato del Comune vi nascondeva una santabarbara. Lo spettacolo della curva B è impressionante, gli striscioni dei Napoli Club ricordano che questa non è una città ma, con Milano, l'unica megalopoli italiana, che va da Pozzuoli a Castellammare passando per Casoria, Pomigliano, Giugliano, Torre del Greco, Afragola, e spinge la sua influenza nel Lazio a Terracina, in Molise a Isernia, in Puglia a Foggia, in Basilicata a Potenza, in Calabria a Cosenza, in Abruzzo ad Avezzano: insomma, il vecchio Regno, Sicilia esclusa. Ai cancelli non si sente una parola in italiano, parlano tutti dialetto. Per il resto pare di essere a Wembley: erba verde, pioggia sottile, atmosfera solenne; chi si alza in piedi sui sedili viene ripreso dagli steward, « prego assettatevi », e proprio non si vedono i boss che entrerebbero mostrando non il biglietto ma la pistola. In realtà la pressione della violenza, forse anche della camorra sul calcio esiste, l'ha testimoniato l'inchiesta del pm Melillo che ha incriminato gli undici picchiatori dei «Bronx», drappello avanzato di una tifoseria in guerra con gli ultras del Nord: odiatissimi i veronesi, detestati i milanesi e ora anche i romani, amici solo genoani e catanesi. Allo stadio si vede male, la pista d'atletica allontana il campo e infatti si parla di spostarlo, per il sollievo degli abitanti di Fuorigrotta e per la preoccupazione dei tifosi della tribuna: «Se lo fanno a Ponticelli, a inizio partita nel parcheggio ci stanno ventimila macchine, alla fine ne restano diecimila». La tribuna autorità non è meno colorata della curva B. Avvocati e primari elegantissimi con vestiti di sartoria - «domani la porto dal mio sarto, ai Quartieri Spagnoli: una giacca 150 euro» - e il foulard nel taschino, ed energumeni con berrettino biancazzurro e sciarpa «Napoli-Chelsea io c'ero». Accolte da invocazioni le stelle locali: Gigi D'Alessio - « Giggi aviv'a vincere tu Sanremo! » -, Biagio Izzo l'attore che fa il napoletano nei cinepanettoni, il sindaco de Magistris che scatta foto coi tifosi; ma il più acclamato è Lapo Elkann, la cui popolarità a Napoli è impressionante. Al fischio d'inizio, per ultimo come le spose, arriva direttamente dagli spogliatoi De Laurentiis, «'o presidente», napoletano di ritorno, nato a Roma ma sudista d'elezione. La partita riesce spettacolare, nell'intervallo si ascolta «Tu vuo' fa' l'americano» in versione rock, alla fine curve e tribuna cantano insieme 'O surdato 'nnammurato - Oje vita, oje vita mia... -, l'allenatore sconfitto Villas Boas dichiara: «Avevamo contro lo spirito di una città, e contro una città non si può vincere». All'uscita tutti si protendono a toccare De Laurentiis ed Elkann: « Lapo vuje purtat bbuono, Lapo vuje avit'a turna' per i quarti 'e finale! ».

Puoi spegnere la sirena, i lampeggianti, anche i fari. Ma appena l'auto della polizia si affaccia, si sentono le grida: «Mariaaa! Mariaaa!». Non sono richiami d'amore. È la vedetta che avverte gli spacciatori. L'assistente Giuseppe Esposito, alla guida della volante Alfa05, e il commissario capo Lorenzo Gentile indicano il muro di lamiera tra le case, dietro cui la vedetta è appostata. In un attimo non c'è più nessuno. Tranne sei ragazzi. Sanno che la polizia non può far loro nulla. E sono talmente persi nel loro viaggio verso il nulla che non si muovono neppure. Uno si guarda il collo nello specchietto di un furgone, alla ricerca della vena giusta. A guardare la situazione economica e quella criminale, non è che i motivi di orgoglio siano tanti. Racconta il questore Luigi Merolla che, quand'era ragazzo, nella sua Bagnoli la criminalità non esisteva: lavoravano tutti all'Italsider. Ora della fabbrica sono rimaste mura sinistre e una spiaggia di detriti; e ci si deve arrangiare. Con un impiego pubblico: Napoli - tra Comune, Provincia, Regione - ha più dipendenti dell'Unione Europea. Con una bottega artigiana: l'antica economia dei bassi si è riprodotta a Secondigliano, ovunque laboratori che fanno abiti da sposa, cioccolato, borse, scarpe, ovunque insegne sgargianti di centri massaggi, «compro oro», negozi di uccelli esotici e centri per l'abbronzatura che si chiamano «Tropicana» e «Inferno giallo». Non mancano certo le storie di imprenditori di successo, anche se molti se ne vanno altrove: Luciano Cimmino della Yamamay a Gallarate, l'armatore Gianluigi Aponte della Msc in Svizzera. Ma, dopo la burocrazia, la prima fonte di manodopera e di welfare è la malavita. Spiega l'ex procuratore capo Giandomenico Lepore - incontrato nelle scuderie di Palazzo Sansevero mentre compra un Pulcinella dell'artista Lello Esposito - che i capi storici della camorra sono tutti morti o in galera, anche se qualcuno continua a comandare da Poggioreale. Contro il racket e l'usura si è fatto molto. «Il vero carburante delle mafie è la droga». La situazione, aggiunge il questore, in teoria è pessima; in realtà quel che c'era da perdere è già stato perso, quel che c'era da rubare, rubato. Scippi e rapine in periferia sono rari; i delinquenti colpiscono al Vomero o in centro: metà Napoli rapina l'altra metà. Merolla guida una macchina da 4.300 poliziotti. La questura di Napoli è da sempre una punta d'eccellenza, questori di Napoli sono stati l'attuale capo della polizia Manganelli e un personaggio leggendario come Arnaldo La Barbera. Anche Merolla è un personaggio: molto amato dai suoi uomini, melomane - habitué del San Carlo, il teatro con la migliore acustica al mondo -, gastronomo - il maître di Ciro a Santa Brigida gli propone a colpo sicuro il sartù appena sfornato -, spiega che i dati della criminalità sono in miglioramento. Il 1982, l'anno dei 200 omicidi, è lontano. Ancora nel 2006 ci furono 14 mila rapine. Ora sono 8 mila. Le altre si fanno altrove: «Napoli è una Tortuga che esporta rapinatori». La microcriminalità è più diffusa che a Palermo: la mafia stabilizza, la camorra destabilizza. Moltissimi i reati non denunciati, in particolare furti d'auto, che il derubato spera di riavere pagando al ladro il 10% del valore. Non è una notte di sparatorie, sono anni che i camorristi non sparano ai poliziotti, «sanno che sarebbero spazzati via» dicono loro con orgoglio. È una notte in cui però si sente il respiro e il dolore di una grande città. È morta una bambina cingalese di 4 mesi, bisogna verificare che non sia stata uccisa dai genitori, ma il loro strazio dice tutto, non ci sono segni di strangolamento, è stato un rigurgito. A una ragazza hanno strappato l iPhone di mano, in corso Umberto. In piazza Mercato tre marocchini sono sorpresi mentre caricano su un furgone nove ruote rubate, vengono interrogati e portati via. Si va sui luoghi dello spaccio. In via Tertulliano a Soccavo, dove si allenava il Napoli di Maradona. Poi alle Vele, ormai semideserte, abitate abusivamente dalle ultime famiglie. Le loro gemelle di Nizza sono condomini di lusso; queste saranno abbattute, due sono già sparite, ne resterà soltanto una, in memoria di un esperimento fallito. L'assistente Esposito è in servizio da 14 anni, Gentile è appena arrivato da Roma per amore ed è contento, dice che i napoletani sono più gentili, la moglie incinta non riesce a fare un passo senza che i vicini la riempiano di premure. I commissari sono tutti laureati, parlano come giuristi, dicono «porre in essere» e «fattispecie di reato». «La gente sostiene che non facciamo nulla contro lo spaccio, ma non è vero. Meglio di noi possono lavorare quelli della Mobile, che non portano la divisa. Ma per filmare gli spacciatori ci vuole tempo. Poi devi rivolgerti al pm, che deve avere l'autorizzazione del gip. Capita di aspettare un anno per un mandato d'arresto». Dal carcere lo spacciatore uscirà molto prima. Ci avviciniamo al ragazzo che si droga davanti allo specchietto del furgone. Avrà trent'anni, ma ha un volto da vecchina. Indossa i pantaloni della tuta e un giubbotto con il cappuccio, attorno alla gamba destra ha un ferro che sostiene una frattura mai guarita. È buio, tira vento, la prima sensazione è di paura e impotenza, poi in un attimo pensi che potrebbe essere tuo figlio o tuo fratello e ti prende una pena infinita, vorresti abbracciarlo e portarlo via; ma lui ha uno scatto, in mano ha una siringa piena di sangue, i poliziotti devono aver avuto l'ordine di evitare rischi inutili, ci portano a prendere un caffè in uno dei bar di Scampia aperti la notte; ma anche il commissario capo Gentile e l'assistente Esposito hanno cambiato umore, non sono ancora diventati cinici, si sentono impotenti, non rassegnati.

Lo scandalo dei malati in barella a Napoli non ha indignato più di tanto. Al Cardarelli il «reparto barelle» esiste da tempo e resterà almeno per tre mesi. Secondo piano del padiglione C, ex reparto di oncologia. Decine di barelle, sia pure su ruote e con un materasso più spesso di quelle delle ambulanze. Altre sono nei corridoi dell'Osservazione breve intensiva e del Dea, Dipartimento emergenza accettazione. Scene consuete in molti ospedali italiani. Colpisce però l'incredibile numero di parenti, distesi sui materassini, accampati con biscotti e bottiglioni di aranciata: le guardie provano a mandare via qualcuno, ma dopo un po' tornano, accolti con sollievo dai ricoverati. A Napoli nessuno o quasi muore da solo. Chi dispone di un comodino ha portato i libri da casa. Grisham e Faletti, naturalmente. Ma anche testi di storia e filosofia. Si riflette, ci si prepara a tornare alla vita o ad affrontare l'ignoto. Vista anche una copia di Borges: «Altre inquisizioni». Pure nei Quartieri Spagnoli c'è un ospedale, la Confraternita dei Pellegrini. «Ti mando ai Pellegrini», detto nei vicoli, è una minaccia grave. «Ti faccio scolare» è una minaccia di morte, i cadaveri attendevano a lungo prima di essere inumati nella terra santa di Gerusalemme. La compenetrazione tra vita e morte è continua, mai viste tante mummie e tanti teschi come nelle chiese di Napoli. Quando c'erano i confratelli, fino a trent'anni fa, i posti letto erano 400. Ora comanda la Regione e sono 99, più qualche decina di barelle: cinque nel corridoio di cardiologia, tre in quello di chirurgia generale; è l'ora di pranzo, i malati mangiano dentro scatole di alluminio, distesi sul fianco come su un triclinio. Qualche metro più in giù, Spaccanapoli, con la casa di Benedetto Croce. Quando il filosofo morì, il 20 novembre 1952, Orio Vergani annotò in un memorabile articolo che le prime firme sul registro erano quelle incerte degli abitanti dei bassi. Quando fu sepolto Mario Merola, il 14 novembre 2006, Giuseppe D'Avanzo denunciò l'omaggio reso da Bassolino e Russo Iervolino alla «napoletaneria»: «La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle spoglie di Merola per trovare ragione di se stessa, e la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi». Oggi la città vive una fase paragonabile al '93, quando era crollato il sistema Dc dei Cirino Pomicino - tutt'ora presidente della Tangenziale - e le illusioni del bassolinismo erano intere. Anche adesso c'è un nuovo sindaco, ma i denari pubblici sono finiti, anzi il Comune fatica a trovare i soldi per gli stipendi, anche se spende per ospitare l'America's Cup. Però c'è un fervore di giovani, di volontari, di associazioni dai nomi immaginifici - Friarielli Ribelli, Fuorigrotta Moving, La Paranza - che riaprono il tunnel borbonico, gestiscono le catacombe, piantano fiori e piante. Ci sono soprattutto sempre più napoletani che non si rassegnano alla crisi, alla camorra, al degrado. Ci sono persino più motociclisti con il casco. I cantieri della metro sembrano eterni, ma ogni tanto partoriscono una stazione capolavoro dell'arte contemporanea, ieri piazza Dante, oggi piazza Borsa.

Croce amava citare un'antica definizione di Napoli: «Un paradiso abitato da diavoli». Di questa città oggi si potrebbe ripetere quel che disse Umberto Eco di Torino: «Senza l'Italia Napoli sarebbe più o meno la stessa; ma senza Napoli l'Italia non ci sarebbe». Se Torino ha fatto l'Italia a San Martino e a Mirafiori, con il Risorgimento e con l'industria, Napoli all'Italia ha dato un'identità. All'estero pensano il nostro Paese come un'immensa Napoli, il sole il mare la pizza gli spaghetti. Noi possiamo pensare a Totò, a Eduardo, a Di Giacomo, a Mimmo Paladino. Il principe di San Severo, quello del Cristo velato e degli esperimenti alchemici, ha lasciato scritto che «non è data all'umana debolezza l'esistenza di grandi virtù senza grandi vizi». A Napoli le virtù e i vizi d'Italia sono elevati a potenza. Come aveva intuito Goethe, «dov'è più forte la luce, l'ombra è più nera».

POLITICA, ISTITUZIONI E CAMORRA

Ma dove siamo???

Un reportage dalla stampa nazionale, fa inorridire coloro i quali pensavano che il marcio viene dal basso e che la mafia non è insita nelle istituzioni. La contestazione specifica del favoreggiamento esterno al sistema mafioso è interpretabile in base ai soggetti in campo, ecco perchè la disparità di trattamento. Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, è in carcere per aver divulgato notizie segrete, nel processo "talpe alla Dda di Palermo".

Le notizie sull'inchiesta della P4 "dall'interno del corpo della Guardia di Finanza sono state portate all'esterno". Lo ha detto il Procuratore di Napoli, Giandomenico Lepore, nel corso di un'intervista al programma di La7 'Otto e mezzo'. La posizione del generale Adinolfi è isolata? è stato chiesto al procuratore: "Per quanto riguarda i generali senz'altro - ha risposto - ma che ci siano state fughe di notizie, e molte, è un dato di fatto. Abbiamo capito che ci sono state comunicazioni". Era nelle cose, nelle contestazioni annotate sul registro del modello 21 - quello dove si iscrivono le notizie di reato e i nomi degli indagati - e nei capi d’imputazione che riguardano Luigi Bisignani e Alfonso Papa. Era nei verbali dei testimoni, tanti, che hanno fatto i nomi di talpe e gole profonde. Era addirittura scontato, ormai, vista l’accelerata data all’inchiesta sulla P4 quando erano ancora in corso accertamenti e interrogatori. Lo ha confermato il capo della Procura di Napoli, Giovandomenico Lepore: «Le notizie sull’inchiesta dall’interno del corpo della Guardia di Finanza sono state portate all’esterno». E non si è riferito alla posizione del generale Adinolfi. Non solo: «Che ci siano state fughe di notizie, e molte, è un dato di fatto. A un certo punto, molti telefoni che erano intercettati sono andati sotto silenzio tutti insieme. E abbiamo capito che ci sono state comunicazioni, anche secondo quanto hanno dichiarato i diretti interessati». Dunque, l’iscrizione dei generali Bardi e Adinolfi, ma la ricerca delle talpe non è ancora finita. Chiarimenti e spiegazioni sono arrivati attraverso le telecamere di «Otto e mezzo». Lepore non si è sottratto alla domande, e ha aggiunto che «Bisignani ha detto quello che gli interessava dire, non ha collaborato pienamente e non ha chiarito tanti aspetti che sono ancora oscuri». Quanto a Marco Milanese, il consigliere di Tremonti che si è dimesso, «non è sospettato di aver collaborato alla fuga di notizie. Ma lui poteva sapere qualcosa che è venuto fuori nel confronto, abbastanza vivace, con il generale Adinolfi». Il quale, ha aggiunto il procuratore di Napoli, «ha respinto le accuse». Quanto ad Alfonso Papa e alla qualità complessiva dell’indagine, ha ribadito: «È un’inchiesta seria». E centrale appare la posizione del magistrato fuori ruolo, oggi parlamentare del Pdl, al quale sono contestati reati ben più gravi della rivelazione di notizie segrete e del favoreggiamento. Nell’ordinanza cautelare a suo carico sono inseriti, infatti, anche alcuni episodi di concussione. E pende l’appello, presentato dalla Procura, per ciò che riguarda la contestazione di associazione per delinquere, esclusa invece dal gip a causa dell’inutilizzabilità di una parte delle intercettazioni telefoniche. Tutti i colleghi giornalisti che io interpellai mi dissero che la notizia riferita al Milanese il 15 dicembre 2010 era uscita dalla Guardia di Finanza». Tra i testimoni chiave sul filone dell’inchiesta P4 che riguarda la fuga di notizie, cioè chi ha spifferrato l’esistenza di un’inchiesta sul lobbista Luigi Bisignani quando doveva restare segreta, c’è Manuela Bravi, portavoce del ministro Tremonti. E’ lei la prima ad indicare quanto le aveva riferito il suo compagno, l’onorevole Marco Milanese, a sua volta ex GdiF e collaboratore stretto del ministro Tremonti: e cioè che dietro la soffiata Bisignani c’è una catena che parte da ufficiali locali, passa dal generale Vito Bardi (comandante interregionale per l’Italia meridionale ndr), arriva al generale Michele Adinolfi (capo di Stato maggiore, ndr) e utilizza il presidente dell’Adn-Kronos Pippo Marra come messaggero finale che a fine novembre, ma forse anche prima, avverte Bisignani di «tacere al telefono». Il filone d’indagine sulla fuga di notizie è un pezzo importante dell’inchiesta P4 perchè ricostruisce un tassello strategico della presunta rete di riferimento del lobbista Bisignani, quel circuito di uomini in divisa, dei servizi segreti e della magistratura che erano di casa in piazza Mignanelli. Sono tre al momento gli indagati per la fuga di notizie: il generale Vito Bardi, Michele Adinolfi e Pippo Marra, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Ma è assai probabile che anche altri ufficiali siano già coinvolti: nei sei verbali di Bisignani disponibili, compreso l’ultimo, quello di garanzia reso al gip Giordano, ci sono pagine intere di omissis, elementi che pm e investigatori vogliono tenere segreti. La svolta è arrivata quando il generale Adinolfi è stato messo a confronto con l’onorevole Milanese. Un confronto drammatico, in cui il consigliere di Tremonti conferma quanto aveva già detto - le talpe sono Bravi e Adinolfi - e che il capo di Stato Maggiore smentisce categoricamente con un durissimo invito al suo accusatore a ritrattare. Milanese però non ha fatto mezzo passo indietro. E ieri, già indagato a dicembre sempre a Napoli per una storia di frodi assicurative, ha lasciato l’incarico al ministero dell’Economia. «Per salvaguardare l'importante ufficio - spiega in una nota - dalle polemiche sollevate da una doverosa testimonianza, in un momento così delicato per la stabilità economica e politica del Paese».

E non basta. 

VITTORIO PISANI. L’ANTI SAVIANO ASSOLTO DOPO ANNI DI FANGO.

Chi ha torto? Chi ha ragione? I magistrati che lo hanno processato o i magistrati che lo hanno giudicato?

Insabbiamento o gogna giudiziaria e mediatica? Assolto da tutte le accuse l'ex capo della squadra mobile Vittorio Pisani nel processo sul riciclaggio nei locali del lungomare. Pisani è stato assolto "perché il fatto non sussiste". La sentenza è stata emessa dalla VII sezione del Tribunale di Napoli presieduta da Rosa Romano. Secondo i pubblici ministeri del processo, Enrica Parascandolo e Sergio Amato, Pisani avrebbe informato un imprenditore nel settore della ristorazione, suo amico, di indagini in corso sul suo conto. Nella requisitoria i pm avevano chiesto quattro anni. Pisani, dopo aver subito il divieto di dimora a Napoli, attualmente è a Roma, nell'ufficio immigrazione del Viminale.

L'anti-Saviano assolto dopo due anni di fango. Per l'ex capo della Mobile di Napoli Vittorio Pisani cade l'accusa di riciclaggio. I suoi guai iniziarono quando criticò la scorta allo scrittore, scrive Carmine Spadafora su “Il Giornale”. Per due anni e mezzo è rimasto sulla graticola della malata giustizia italiana. Per la Procura di Napoli, l'ex capo della Squadra mobile, Vittorio Pisani, il superpoliziotto che ha arrestato centinaia di camorristi, aveva tradito la sua missione, rivelando informazioni riservate a un imprenditore finito sotto inchiesta e presunto colluso con la camorra. Tutto falso. Il 18 dicembre 2013, nel pomeriggio, poco prima delle ore 15, il Presidente della Settima Sezione del Tribunale di Napoli, Rosa Romano ha assolto Pisani «perchè il fatto non sussiste». I cronisti che lo conoscono fin da quando ha mosso i suoi primi passi da commissario lo hanno visto per la prima volta commuoversi. Con i lucciconi agli occhi, l'uomo di ghiaccio ha abbracciato i suoi avvocati, Rino Nugnes e Vanni Cerino, stretto tante mani e ricevuto pacche sulle spalle. Commosso ma con le labbra cucite. Il senso di questo processo, di questa mastodontica indagine che ha gettato fango sulla dignità di un uomo onesto è racchiuso nelle parole dell'avvocato Nugnes: «Era un processo che per quanto riguarda la posizione di Pisani poteva anche non essere celebrato». Pisani, che osò dire che lo scrittore Roberto Saviano non meritava la scorta perchè nella sostanza non esistevano giustificati motivi di sicurezza per assegnargliela, ha lasciato l'aula 318 del Tribunale per fare ritorno a Roma, dove lavora presso l'Ufficio immigrazione del Viminale. Ma, fino a pochi mesi fa non aveva potuto nemmeno vivere sulla sua città di adozione, Napoli, accanto alla moglie e ai figli, per un obbligo di divieto di dimora impostogli dal gip. Lui, lo «sbirro» che aveva messo le manette ai polsi ai due numeri uno della camorra, casalese, Antonio Iovine e Michele Zagaria, stanati entrambi dopo 15 anni di latitanza, costretto a stare lontano dalla «sua» città. Dal 30 giugno del 2011 fino a ieri pomeriggio ha vissuto con una macchia addosso, l'accusa di avere favorito un imprenditore accusato di avere riciclato in ristoranti della Napoli bene, i denari della camorra di Secondigliano, del clan Lo Russo. Una cosca storica, capeggiata da Salvatore «o capitone» poi pentitosi ma in passato informatore di Pisani. Si, un informatore, come si conviene per un vero poliziotto. Da collaboratore Lo Russo ha versato palate di fango sul superpoliziotto. Fango vero, accuse fasulle. La sentenza pronunciata dal Presidente Romano rappresenta una gravissima sconfitta per la Procura napoletana. La Settima Sezione del Tribunale ha infatti demolito il castello di accuse costruito dai pm contro Pisani e, in parte, anche per gli altri imputati. Undici assoluzioni ma per i sei condannati è caduta l'accusa più grave, ovvero, l'articolo 7, cioè «avere agito con finalità» mafiose. Il Tribunale ha disposto il dissequestro di tutti i locali. Sarà anche la sfortuna ma i guai per Vittorio Pisani sono iniziati all'indomani di una intervista rilasciata al Corriere della sera Magazine, nella quale rivelava che «a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sulla scorta». Onestà intellettuale di un poliziotto di Calabria non abituato a calcoli di convenienza ma rigoroso nel suo lavoro. Pisani «osò» anche dire: «Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tanti poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni».

Il capo della Mobile di Napoli “non ha indagato per anni su capitali illeciti” prodotti dal riciclaggio e l'usura praticati dal clan Lo Russo. Lo affermano il procuratore di Napoli Lepore e l'aggiunto Pennasilico. Pisani rivelò all'imprenditore Iorio, referente per il riciclaggio del clan Lo Russo, notizie sull'indagine. Ed era “in comprovata amicizia” con Iorio e in quotidiani rapporti con il boss Salvatore Lo Russo, suo confidente. “Mi dispiace, Pisani era anche un amico”, ha detto Lepore. Il questore di Napoli Luigi Merolla, ha messo a capo della Squadra Mobile il vice Pietro Morelli. Vittorio Pisani verrà, invece, trasferito a Roma. Questo mentre lo stesso ormai ex Capo della Mobile napoletana, Pisani, risulta indagato per favoreggiamento nell'ambito di un'inchiesta su riciclaggio e usura. A confermarlo il procuratore di Napoli, Lepore. Il reato di favoreggiamento si configura nei confronti di esponenti del clan Lo Russo (attivo nel quartiere di Miano). Oltre ad essere indagato, Pisani ha ricevuto il divieto di dimora.

Le accuse della Procura al capo della Mobile.

"Il dottor Vittorio Pisani, legato con solidi e comprovati rapporti di amicizia con Marco Iorio ed in rapporti con Salvatore Lo Russo, sui confidente, non ha esitato a rivelare a Iorio l'avvio dell'indagine da parte di questo ufficio, informandolo al contempo del contenuto di alcune annotazioni di servizio redatte dal suo stesso ufficio". Questo un brano centrale di un durissimo comunicato firmato dal procuratore di Napoli Giandomenico Lepore e dall'aggiunto Alessandro Pennasilico distribuito ai giornalisti nel corso della conferenza stampa alla Procura di Napoli sul sequestro di ristoranti e locali pubblici a Napoli nell'ambito di un'inchiesta su usura e riciclaggio del clan Lo Russo. "Cio' - prosegue il comunicato della Procura - inevitabilmente ha arrecato un serio pregiudizio alle indagini, specialmente sotto il profilo della compiuta individuazione ed acquisizione dei beni da sequestrare, essendosi sia Marco Iorio che Bruno Potenza,a sua volta informato da Iorio, immediatamente attivati per occultare i capitali, parte dei quali effettivamente già trasferiti all'estero, programmando in queste ultime settimane addirittura la vendita a prestanome delle stesse attività di ristorazione". "Ma si è anche accertato - prosegue il testo - che il dottor Vittorio Pisani era da anni a conoscenza del reimpiego dei capitali illeciti da parte di Marco Iorio e non solo non ha mai effettuato alcuna indagine, nè redatto alcuna comunicazione di notizie di reato, ma ha intrattenuto quotidiani rapporti amicali con questo ultimo, frequentando il ristorante "Regina Margherita". "Ma le indagini - prosegue il testo - hanno rivelato anche qualcosa di più grave, che attiene al comportamento tenuto proprio in relazione alle indagini in corso, da parte del dirigente della Mobile, il quale si è fortemente speso in difesa dell'amico Iorio, tenendo comportamenti decisamente contrari ai doveri connessi con l'alto ruolo ancora oggi rivestito. E mentre trasferiscono i soldi in Svizzera gli indagati cominciano anche a immaginare una strategia difensiva e - come rivelato dalle intercettazioni ambientali - si dovrebbe concretizzare nell'attribuzione delle quote occulte al nero accumulato negli anni per effetto di una mera evasione fiscale". " Diventa allora inevitabile che appaia quasi come un'anticipazione delle linea difensiva degli indagati - conclude il comunicato dei vertici della Procura di Napoli - l'intervista che lo stesso Pisani rilascia alla fine del mese di marzo 2011 dal titolo 'I professionisti evadono il fisco e riciclano i soldi in bar e ristoranti". L'opinione manifestata dal dirigente della Mobile è infatti che nel riciclaggio sono coinvolti sopratutto i medici, gli avvocati, i notai, ed i commercialisti. Non una parola sulla camorra nè su altre e reali fonti illecite". 

Una bella gazzarra chiude il pasticcio delle primarie napoletane: poco dopo le 21 della sera di martedì 25 gennaio 2011 i bassoliniani pro Cozzolino hanno occupato la sede della federazione provinciale del PD di Napoli inveendo contro il segretario Nicola Tremante. I sostenitori di Cozzolino sono molto arrabbiati per le dichiarazioni rilasciate che potrebbero causare l’annullamento del voto nei seggi sospetti di compravendita di voti invalidando così la vittoria del delfino di Bassolino. I cozzoliniani hanno insultato il segretario per le dichiarazioni rilasciate.

Questo pochi giorni prima della raffica di arresti in tutto il Paese nell’ambito di un’operazione per reati ambientali. Da tutta la stampa nomi e fatti. La ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, Marta Di Gennaro, e il prefetto Corrado Catenacci, ex commissario ai rifiuti della Regione Campania, sono stati arrestati dai carabinieri nel blitz coordinato dalla procura della Repubblica di Napoli. I due, ai quali è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari, sono accusati di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali. Nella stessa operazione che ha portato in manette altre dodici persone, sono anche indagate l’ex governatore Antonio Bassolino, l’ex assessore regionale Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi. Nel corso dell'operazione, coordinata dalla procura di Napoli e portata avanti dai carabinieri del Noe e dalla Guardia di Finanza, è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani. Un accordo che ha consentito, per svariati anni, lo sversamento in mare del percolato (il rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani) in violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Secondo gli inquirenti, infatti, il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano. Agli arresti domiciliari è finito anche Gianfranco Mascazzini, ex direttore generale del ministero dell’Ambiente. Sono invece in carcere Lionello Serva, ex sub-commissario per i rifiuti della Regione Campania; Claudio Di Biasio, tecnico degli impianti del Commissariato; Generoso Schiavone, responsabile della Gestione acque per i depuratori della Regione Campania e Mario Lupacchini, dirigente del settore Ecologia della Regione. Sequestri di documentazione sono stati messi in atto in diverse sedi istituzionali, come la prefettura di Napoli, la Regione Campania, ma anche la Protezione civile di Roma e in sedi di aziende di rilievo nazionale. L’indagine, durata fino al luglio 2010, ripartiva da quella conclusa nel maggio 2008 e nota con il nome di "Operazione Rompiballe" che aveva portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti. E' stata sviluppata mediante attività tecniche, nonchè riscontri documentali, che hanno permesso di acquisire gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008.

Questa è una considerazione. Poi ne segue un'altra.

E il giustizialista Saviano ha il padre alla sbarra. Articolo di Gian Marco Chiocci - Luca Rocca su “Il Giornale”

Processo per truffa e corruzione: come medico avrebbe danneggiato l'Asl. La difesa: vittima di raggiri altrui.

L’imbarazzo dell’autore di Gomorra. Roberto Saviano, neo-icona della sinistra italiana, per qualcuno addirittura il suo prossimo leader, purtroppo per lui è alle prese coi guai giudiziari di suo padre, Luigi, medico di base alla Asl di Napoli, sotto processo per un storia di prestazioni inesistenti, prescrizioni e ricette fasulle, rimborsi non dovuti.

I fatti risalgono al periodo 2000-2004, ma il 19 maggio prossimo il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (presidente Raffaello Magi, l’estensore della sentenza Spartacus al clan dei casalesi) dovrà decidere se accorpare al procedimento riguardante il papà dello scrittore un secondo filone, nel quale vengono contestati reati che sarebbero stati commessi fino al 2006 e che vede alla sbarra gli stesi imputati per gli stessi reati. Luigi Saviano è imputato, insieme ad altri medici e professionisti, con l’accusa di truffa, ricettazione, corruzione e concussione ai danni dell’Asl. La vicenda, là dove si parla del ruolo dei medici di base, viene così descritta dalla procura che si è battuta per il rinvio a giudizio del genitore dell’illustre figlio e di altri coindagati: «Avevano il ruolo di stilare ricette riportanti prescrizioni fittizie di esami di laboratorio, con l’inserimento di nominativi, corrispondenti a propri ignari assistiti (che non hanno riconosciuto le prescrizioni loro attribuite) su ricettari loro assegnati». L’aggravante sta nel danno patrimoniale, «di rilevante quantità», subito dalle aziende sanitarie locali che, sempre secondo i pubblici ministeri campani, «hanno provveduto alla liquidazione di quanto richiesto». Nelle carte in mano ai magistrati si parla anche dell’esistenza di un vero e proprio «mercato di notevoli dimensioni, ad oggetto la falsificazione e la spedizione di ricette mediche che vengono scambiate con assoluta semplicità da persone che non tengono minimamente conto dei gravi danni arrecati all’Erario».
Nelle contestazioni mosse a Luigi Saviano, nero su bianco si parla del «suo ruolo in seno all’organizzazione, in particolare quello di assicurare ai gestori di tali centri un ingiusto profitto derivante da una serie cospicua di ricette riportanti prescrizioni fittizie di analisi cliniche». Su 54 pazienti interrogati «solo 9 hanno asserito di aver eseguito le diagnostiche loro prescritte, il dato è significativo per dimostrare l’intera percentuale (85 per cento) di incidenza delle false prescrizioni redatte da Saviano Luigi e portate in liquidazione» in centri riconducibili a un altro indagato. I pm hanno ascoltato anche le pazienti del «nonno di Gomorra», che hanno negato di aver mai fatto gli esami clinici che invece risultano realizzati a loro nome.
Un primo esempio. Gli accertamenti ormonali e gli esami allergici di Carmela A. non sarebbero mai stati eseguiti. La stessa donna rivela che «nel 2002 non mi sono nemmeno recata a Caserta per effettuare né prestazioni specialistiche». C’è poi Rosario A. e il suo presunto problema al ginocchio: «Io godo di buona salute in genere – dice il primo - non soffro di particolari patologie per cui debba sottopormi con frequenza a cure o ad indagini diagnostiche». Una seconda donna, Vincenza C., smentisce di aver mai effettuato «indagini ormonali» nel 2002: «Confermo che il mio medico di base è il dottor Saviano Luigi – dice a verbale -, nel corso del 2002 non solo non sono andata a Caserta per fare prestazioni specialistiche» ma «non ho effettuato alcun prelievo di sangue negli ultimi 4 anni in alcun centro della Campania». Nel 2006 l’allora legale di Saviano padre, Marina Di Siena, aveva commentato così l’iscrizione del suo assistito nel registro degli indagati: «Il dottor Saviano è stato in realtà vittima di una truffa, per un episodio che risale a un periodo a cavallo fra il terzo e il quarto trimestre del 2004». Secondo la tesi difensiva, insomma, il padre di Roberto sarebbe una parte lesa di altrui raggiri, essendo all’oscuro di tutto perché ricoverato in un ospedale di Napoli dov’era in cura per problemi infettivi. La parola passa ora al tribunale, anche se il processo sembra destinato a finire in prescrizione. Giuridica, non medica.

POLITICA E CAMORRA

La lotta alla camorra ed alla illegalità non deve essere, né sembrare, lotta di parte o di facciata.

Nè deve mirare a criminalizzare una intera classe politica o a denigrare l’immagine di una regione, forte della sua storia, cultura e tradizione. I media nel nord vanno a nozze nel creare un solco incolmabile con la loro Padania.

La sinistra non si deve appropriare di una battaglia di civiltà, per il sol fatto di essere capace di fare corpo unico nella difesa della sue fazioni, delle sue posizioni, delle sue bandiere.

Ognuno di noi ha scheletri nell’armadio. Nessuno viene da Marte.

L’onestà intellettuale pretende che nessuno si erga a paladino della legalità e della ragione, sbandierando la sua presunta superiorità morale.

Noi, “Associazione Contro Tutte le Mafie”, unico sodalizio nazionale pluritematico, ben conosciamo tutte le realtà: dall'Alto Adige alla Sicilia. In loco abbiamo denunciato infiltrazioni camorristiche nella vicina provincia di Latina, con conseguente sospensione delle giunte comunali interessate.

Abbiamo scritto un libro che parla delle nefandezze italiane, taciute dai media ed impunite dalle istituzioni.

Di contro abbiamo avuto attacchi dalla mafia e dall’antimafia.

Purtroppo, a ragion veduta, non siamo di sinistra, né santifichiamo i magistrati. E questo ci penalizza.

Ma la realtà deve essere conosciuta da tutti, pur pagando, noi, un prezzo altissimo per le nostre esistenze.

Sul Magazine del  Corriere della Sera del 15 ottobre 2009, pag 78, vi è «L’intervista » di Vittorio Zincone a Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli.

Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare controcorrente sul tema Saviano è impegnativo.

Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: "A noi della squadra mobile fu data la delega per riscontrare quel che Roberto Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull'assegnazione della scorta. Ho arrestato centinaia di delinquenti - ha aggiunto il capo della squadra mobile - Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. Resto perplesso quando vedo scortate persone, che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti, che combattono la camorra da anni. 'Gomorra' ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori". Secondo il capo della squadra mobile per rapportarsi alla criminalità organizzata bisogna rispettare "delle regole deontologiche" e soprattutto cercare di non dare "un'immagine eroica della lotta alla criminalità" perché "la lotta alla criminalità è una cosa normale. A cui tutti possono partecipare".

All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times.

Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?

E per finire una domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don Ciotti, presidente di "Libera", non fosse appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di sinistra, avrebbe avuto tanta visibilità e sostegno ?

A tal proposito vi è l’intervento di Vittorio Sgarbi, critico d’arte, opinionista Tv, già parlamentare e sindaco di Salemi, in Sicilia: “sono anche uomo di parola, e di denuncia, ma senza accettare regole e senza essere iscritto al club dei professionisti dell’antimafia.

Cosicché senza avere il sostegno di Repubblica, di Annozero, di Marco Travaglio, di Rita Borsellino, di Sonia Alfano, quando io ho denunciato gli interessi della mafia della schifosa impresa dei parchi eolici, improvvisamente cresciuti nella provincia di Trapani, nessuno, dico nessuno, dei sopra citati professionisti dell’antimafia (diversamente da quanto è accaduto in Sardegna) mi ha seguito e sostenuto, con l’eccezione del sindaco di Gela, Rosario Crocetta. E sarei stato ancora più solo se un’indagine della magistratura non avesse portato all’arresto di tredici persone, tra imprenditori, politici e mafiosi, sotto il controllo di Messina Denaro, a conferma delle mie posizioni. La lotta continua e nel frattempo ho ricevuto buste con pallottole, teste mozze di maiale, cani morti e innumerevoli, quotidiane, telefonate anonime.

La premessa era necessaria per dire che anch’io, come Saviano, sono sotto scorta, nella forma più lieve della cosiddetta «tutela», assegnatami dopo le minacce e con l’obiettivo di prevenire rischi per rivendicazioni annunciate perché io sono in una posizione singolare: sono minacciato anche dall’antimafia, o sedicente tale che non mi perdona le critiche alla magistratura e in particolare a Caselli e si apposta, con evidente intenzione provocatoria e inevitabili telecamere a ogni mio incontro pubblico, non per sostenere la mia azione contro la mafia, ma per denunciare le mie critiche all’antimafia. Basterà ricordare la mia presa di posizione rispetto al suicidio del giudice Lombardini dopo essere stato interrogato nel suo ufficio a Cagliari dai magistrati di Palermo e sull’arresto di un prete, padre Frititta, mostrato in manette perché accusato di avere confessato un mafioso, e poi, naturalmente, assolto perché il fatto non sussisteva nell’indifferenza generale. Ma non è consentito criticare gli intoccabili, indicare le loro distrazioni, l’impegno straordinario su falsi obiettivi, i veri obiettivi mancanti.

Ne consegue che io mi sono trovato paradossalmente minacciato dalla mafia e dall’antimafia, non essendo, come Roberto Saviano, politicamente corretto, e cioè da una parte sola. “Gomorra”. Un libro Mondadori, una pubblicità Mondatori (la Mondadori dell’odiato Berlusconi, ndr). Niente di male ma, mentre si invoca la libertà di parola per sé, eroe minacciato, si indicano i nemici in altri, che hanno o dovrebbero avere diritto di legittima critica, o per lo meno di dubbio, e che sono accusati di non difendere il minacciato Saviano, di abbandonarlo, di far mancare «l’impegno unitario» di stare con lui, dalla sua parte e di proteggerlo.

Chi lo critica non ha nome, non merita di essere citato, è «un funzionario». Saviano scrive «Mi ha difeso l’Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero de Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario». Toccherà a me dire che il «funzionario» è Vittorio Pisani. Un uomo che rischia la vita. Mi sia consentito dargli parola per rispondere a Saviano: «Io faccio anticamorra dal 1991. Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato… Be’, giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta». Che ragioni ha Pisani di esporsi, mettersi contro tutti e dire quello che ha detto? Non c’è antipatia nella sua intervista e non c’è neppure contrapposizione politica. Semplicemente la consapevolezza che le cose che ha scritto Saviano le hanno scritte altri giornalisti, senza pubblicare libri fortunati e reclamizzati, senza fare le vittime e senza avere scorte. Il fatto è che, come alcuni, come i magistrati di Palermo, come il presidente della Repubblica, Saviano appartiene alla categoria degli intoccabili. Io invece a quella dei toccabili. Faccio e ricevo critiche e non esalto la mafia descrivendomi come un eroe minacciato dall’antimafia. Non riesco a dividere il mondo in buoni e cattivi. Non sono fiero, ma sono incazzato contro chi vede distruggere la Sicilia, la Campania, la Puglia e tace raccontando di essere minacciato. Ma Saviano ha mai visto la distruzione del paesaggio fatta nelle regioni meridionali dagli speculatori dell’eolico, crocefiggendo montagne, solo per cupidigia di denaro?

E perché ha taciuto? E perché tace? E con lui tutti gli amici di Beppe Grillo, di Travaglio, di Di Pietro, di Santoro pronti a esprimere solidarietà e a firmare appelli. Io sto con Vittorio Pisani e credo alla sua parola e al suo impegno di poliziotto. Saviano ricorderà che Montanelli fu gambizzato, che Costanzo sfuggì a un attentato, e che altri giornalisti come Walter Tobagi, o Peppino Impastato (non solo magistrati) sono stati uccisi. I giornalisti che dicono la verità sono a rischio, siamo a rischio, ma nessuno può pretendere di essere intoccabile, nessuno ha diritto di indignarsi o di fare emozioni degli affetti per una critica, né Saviano, né il presidente della Repubblica.

A meno che non aspirino e non glielo vorrei augurare a diventare come padre Pio, e a pretendere non ragionamenti, valutazioni, discussioni, ma atti di fede. Con questa logica, come chi critica il capo dello Stato, anche chi critica Saviano rischierà di essere processato per vilipendio a «professionista dell’antimafia». Sciascia laico e irriverente, resterebbe senza parole. Lui, non «intoccabile», ma toccabilissimo (dalla sinistra, ndr).”

QUANDO LA QUESTIONE MORALE E’ BIPARTIZAN.

Antonio Giangrande: “La presente inchiesta coordina varie fonti pubbliche, in calce citate, che da sole non sarebbero state esaustive della realtà dei fatti. Le contrapposizioni ideologiche delle fonti, o il mancato intervento della magistratura, ha imposto il coordinamento e  l’aggiunta delle posizioni di alcuni esponenti politici, che non risultano indagati, ma che meritano di essere conosciute.

Giusto per fare un quadro politico completo ed imparziale e per svelare improbabili superiorità morali. In questo modo nessuno si sentirà discriminato.

Siamo garantisti, per questo diamo la parola prima  ai protagonisti”.

Per tutti parla Mario Landolfi su "Napoli On Line": «In Campania sono inquisiti Bassolino, Mastella, Pecoraro Scanio, Bocchino e sono inquisito anch’io. O c’è un’epidemia o c’è un certo protagonismo giudiziario. Protagonismo che meriterebbe maggiore attenzione».

C’è il politico che prende voti grazie al sostegno della camorra e quello che cambia in continuazione casacca, c’è l’ex ministro della giustizia e i suoi intrecci familiari e l’assessore comunale, che trucca atti pubblici per entrare nelle grazie dell’imprenditore di turno. E’ una fotografia impietosa della situazione politica di Napoli e della Campania quella scattata da Bruno De Stefano e Vincenzo Iurillo, autori de La casta della mondezza. Ma la nostra inchiesta va molto oltre, per non essere tacciati di parzialità.

Oltre 50 politici coinvolti nelle inchieste. Da Bassolino a Landolfi, il fronte bipartisan. I più importanti in ordine alfabetico.

Politici di grande rilievo, anche nazionale, sotto inchiesta per i reati più gravi. Ecco la classe dirigente della Campania. Parlamentari, amministratori, consiglieri regionali di sinistra, di centro e di destra, in una terra attraversata da una questione morale bipartisan.

I leader di una regione che dal 2000 ha speso 13 miliardi di fondi europei e sta per investirne altri 15. Una regione caduta nel baratro dell’emergenza spazzatura, la più grave catastrofe ambientale dai tempi del colera. Una regione in cui intere aree sono soggiogate da una camorra sanguinaria, che la politica ha combattuto con risultati altalenanti, oppure, nei casi peggiori, ha sfruttato scendendo a patti coi clan,. Secondo stime prudenziali sono almeno una cinquantina i politici indagati in Campania. In una regione ad alta densità criminale, la politica avrebbe dovuto produrre anticorpi più resistenti al rischio di infiltrazioni e degenerazioni nella gestione della cosa pubblica. Invece a Napoli e dintorni è accaduto esattamente il contrario, scrive Vincenzo Iurillo. C’ è chi è accusato di truccare appalti, chi di associazione per delinquere. C’è l’imputato di omicidio colposo per non esserci accorto di una situazione di pericolo e c’è l’indagato di riciclaggio.

Luigi Anzalone.  Ex presidente della Provincia di Avellino, consigliere regionale del Pd, Anzalone è imputato in Appello per omicidio colposo plurimo in seguito alla frana della montagna di Pizzo Alvano, a Quindici, del 5 maggio ’98. Undici le vittime. In primo grado è stato condannato a tre anni di reclusione. Stamane potrebbe uscire la sentenza di secondo grado.

Antonio Bassolino. Governatore della Campania, membro dell’assemblea nazionale del Pd. È imputato per truffa aggravata e frode in pubbliche forniture nell’ambito del processo sul disastro rifiuti. In uno stralcio del procedimento, relativo alle consulenze del commissariato di governo per l’emergenza spazzatura, deve difendersi da una richiesta di rinvio a giudizio per peculato e falso. Un altro procedimento, relativo alle spese dei lavori di un casale in Toscana, è stato trasferito alla Procura di Arezzo. La Corte dei conti lo ha condannato due volte in primo grado per risarcire gli sprechi della sua gestione commissariale: dovrebbe versare più di 3 milioni di euro. Su entrambe le sentenze pende un ricorso. Il presidente della Regione Campania è stato imputato con altri 25, tra cui i vertici della Impregilo nel processo sui rifiuti in qualità di commissario straordinario per abuso d'ufficio, frode in forniture pubbliche, violazioni ambientali e truffa aggravata. Il processo è da un anno nella fase dibattimentale. Ha fatto discutere non poco la lista che annovera ben 536 testimoni e che rallenta di fatto l'arrivo di una sentenza, facilitando il sopraggiungere della prescrizione. I numerosi rinvii delle udienze si sono avuti nella prima fase del dibattimento anche per i continui cambi alla presidenza del collegio giudicante ora guidato da Adele Scaramella. Bassolino risulta indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle bonifiche ambientali. La Corte dei Conti ha invece stabilito in primo grado la responsabilità del governatore, in qualità di commissario ai rifiuti, per il progetto Sirenetta. La sentenza è stata impugnata in appello di fronte alle sezioni centrali. Giudicata eccessiva la spesa di 47mila euro per la commissione di gara per la realizzazione del call center (da molti definito fantasma) nell'ambito del progetto PanProtezione Ambiente e Natura.

Italo Bocchino. Vice capogruppo del Pdl alla Camera, candidato sconfitto da Bassolino alle regionali del 2005 in quota An, Bocchino è inquisito in Magnanapoli, l’inchiesta sul sistema Romeo per il controllo degli appalti del Comune di Napoli.

Ciro Borriello. Sindaco di Torre del Greco noto per numerosi cambi di casacca: indagato dalla Corte dei Conti per i danni derivati dalla mancata raccolta differenziata nell'ambito dell'emergenza rifiuti.

Angelo Brancaccio. Consigliere regionale dell’Udeur, ex Ds, nel 2007 è stato arrestato e in seguito rinviato a giudizio per una sfilza di reati contro la pubblica amministrazione, relativi al periodo in cui è stato sindaco di Orta d’Atella, nel casertano.

Enrico Cardillo. Ex assessore al Bilancio di Napoli, Pd. E’ in corso nei suoi confronti un processo con rito abbreviato per Magnanapoli, l’inchiesta sui presunti appalti truccati e telecomandati dall’immobiliarista Alfredo Romeo. Il pm ha chiesto una condanna a sei anni.

Luigi Cesaro. presidente Pdl della provincia di Napoli, è chiamato in causa dal pentito Gaetano Vassallo, uno degli accusatori di Cosentino. Vassallo lo ha definito “uomo vicino al clan Bidognetti” e racconta l’esistenza di un patto tra Cesaro e la camorra casalese per la realizzazione dei lavori di riconversione degli stabilimenti Texas di Aversa.

Aniello Cimatile. Il presidente della Provincia di Benevento, Pd, docente universitario, è indagato nell’ambito di un’inchiesta sui rifiuti e sui collaudi degli impianti di Cdr. Per un breve periodo a giugno 2009 è stato sottoposto agli arresti domiciliari.

Carmelo Conte. Già ministro Psi del governo Andreotti e candidato alle politiche con Berlusconi, oggi è un leader del Pd salernitano. E’ imputato in Corte d’Appello per concorso esterno in associazione camorristica, per presunte collusioni con il clan Maiale, attivo nella piana del Sele. In primo grado è stato assolto con formula piena, ma il sostituto pg ha presentato ricorso. E’ stato invece condannato in primo grado a quattro anni e dieci mesi per aver estorto negli anni Ottanta finanziamenti per il Giornale di Napoli.

Roberto Conte. Ex consigliere regionale del Pd, a giugno 2009 è stato condannato in primo grado a due anni e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe versato nelle mani di due galoppini del boss Giuseppe Misso 120 milioni di lire in cambio del sostegno del clan della Sanità alle elezioni regionali del 2000. All’epoca militava nei Verdi.

Nicola Cosentino Il deputato di Casal di Principe, sottosegretario Pdl all’economia. Il Gip di Napoli ne ha disposto l’arresto per concorso esterno in associazione camorristica. Cosentino è accusato di collusioni con i clan Bidognetti e Schiavone, dai quali avrebbe ricevuto sostegno elettorale sin dagli anni ‘90.

Andrea Cozzolino Europarlamentare Pd, molto vicino a Bassolino, il potentissimo ex assessore regionale all’Agricoltura è sotto inchiesta a Santa Maria Capua Vetere nell’ambito delle indagini sulla realizzazione di una centrale a biomasse a Pignataro Maggiore.

Rosetta D'Amelio. Ex sindaco di Lioni in provincia di Avellino attuale assessore alle politiche sociali della regione Campania Pd: condannata a sei mesi di reclusione per abuso d'ufficio.

Vincenzo De Luca. Sindaco di Salerno, Bersani lo ha cooptato nella direzione nazionale Pd. Due volte rinviato a giudizio nell’ambito delle inchieste sull’assegnazione dei suoli industriali liberati in seguito alla dismissione della Ideal Standard e sulla delocalizzazione dell’ex Mcm. In questa seconda tranche condivide lo status di imputato con Gianni Lettieri, presidente degli industriali di Napoli.

Ugo De Flaviis. E’ stato assessore campano all’Ambiente fino al 2004. Dopo alcune vicissitudini è tornato nell’Udeur e si è seduto affianco a Mastella in una recente conferenza stampa a Napoli. Sul versante giudiziario, De Flaviis è imputato per l’alluvione  di Nocera Inferiore insieme con Luigi Nocera. Nel settembre 2008 Sandra Mastella lo ha nominato nello staff della presidenza del consiglio regionale come responsabile dei rapporti con le istituzioni locali.

Sergio De Gregorio. Il senatore “transfugo” da Di Pietro a Berlusconi è indagato per riciclaggio. L’inchiesta si riferisce ai rapporti economici intercorsi nel periodo 2004-2005 tra il politico e il presunto contrabbandiere Rocco Cafiero. La procura ha fatto ricorso al Riesame contro il rigetto della richiesta di arresto da parte del gip, rendendo così pubblica la partita giudiziaria in corso.

Ferdinando Di Mezza. Ex assessore al Patrimonio Pd: imputato nel processo Global Service per abuso d'ufficio e associazione per delinquere.

Fernando Errico. Il consigliere regionale del beneventano divide con Clemente e Sandra Mastella alcune accuse nell’inchiesta sull’Udeur connection. Dall’Abruzzo, dove si è rifugiato causa divieto di dimora in Campania, ha annunciato le dimissioni da capogruppo del Campanile.

Antonio Fantini. Ex segretario regionale Udeur. condannato a due mesi e dieci mesi di reclusione nell'ambito della ricostruzione post-terremoto.

Nicola Ferraro. Consigliere regionale Udeur, presidente della commissione Affari Istituzionali. È sotto processo insieme alla Mastella per tentata concussione. Secondo un pentito di camorra, Michele Froncillo, Ferraro è stato eletto grazie al sostegno interessato del clan Belforte di Marcianise. Froncillo rivela che Ferraro, per ingraziarsi Mastella, avrebbe regalato un Porsche Cayenne al figlio dell’ex Guardasigilli, acquistato presso la concessionaria di un parente del boss. Mastella respinge con fermezza questa ricostruzione e annuncia azioni legali.

Marco Fiorentino. Sindaco di Sorrento, azzurro, poi Udeur, poi di nuovo berlusconiano. E’ imputato di omissione d’atti d’ufficio e omicidio colposo per la tragedia del 1 maggio 2007, quando una gru che si muoveva sopra un’area non transennata, di fronte al municipio, precipitò al suolo uccidendo due donne. E’ accusato di non aver emesso un’ordinanza di tutela dell’incolumità pubblica nei confronti della ditta che stava montando le luminarie.

Corrado Gabriele. Assessore regionale al Lavoro per Rifondazione: imputato per molestie sessuali.

Giuseppe Gambale. Ex assessore a Napoli del Partito democratico: imputato nel processo Global Service per associazione per delinquere.

Alberico Gambino. Esponente di spicco del Pdl salerninato, già sindaco di Scafati e assessore provinciale della giunta Cirielli. È stato sospeso da primo cittadino e si è dimesso da assessore in seguito a una condanna in primo grado a un anno e sei mesi per peculato: gli si contesta l’uso improprio della carta di credito dell’amministrazione comunale. Cirielli lo ha ‘ripescato’ assumendolo nel suo staff.

Amedeo Labocetta. Deputato Pdl, è considerato dai pm un sodale di Romeo e divide con l’immobiliarista alcune accuse dell’inchiesta sugli appalti truccati a Napoli. Ha preferito non aderire al rito abbreviato.

Mario Landolfi Deputato e vice coordinatore regionale del Pdl, è coinvolto in un’inchiesta della Dda sui rapporti tra politica, imprenditoria e camorra e relativa allo smaltimento dei rifiuti a Mondragone e in provincia di Caserta attraverso l’Eco 4 dei fratelli Orsi. Gli inquirenti gli contestano il reato di corruzione e truffa con l’aggravante di aver favorito il clan La Torre.

Felice Laudario. Ex assessore all'Edilizia in quota Sdi: imputato nel processo Global Service per abuso d'ufficio e associazione per delinquere.

Renzo Lusetti. Parlamentare del Partito democratico. Nel filone Global Service figura con Italo Bocchino. Per loro la Procura avanzò richiesta di autorizzazione a procedere. Sulla questione però è stata sollevata un'eccezione di costituzionalità. Secondo la difesa il Gip non avrebbe potuto mandare gli atti direttamente alla Camera dei Deputati.

Sandra Lonardo Mastella. La presidente del consiglio regionale della Campania è stata rinviato a giudizio per tentata concussione per aver provato a imporre, senza successo, la nomina di tre primari all’ospedale di Caserta. Nell’inchiesta-bis sull’Udeur connection, appalti e raccomandazioni all’Arpac, le è stata inflitta la misura del divieto di dimora in Campania.

Clemente Mastella. L’ex ministro della Giustizia di Prodi, europarlamentare del Pdl in quota Udeur, è accusato dai pm di Napoli di essere il leader di un’associazione per delinquere finalizzata a spartirsi nomine e appalti con criteri clientelari nell’Arpac e negli altri enti controllati dal Campanile. Per lui pende una richiesta di rinvio a giudizio per concussione ai danni di Bassolino. Insieme a due ex assessori regionali avrebbe minacciato una crisi in giunta per ottenere la nomina di un suo uomo all’Asi di Benevento.

Gianfranco Nappi. Ex capo della segreteria di Bassolino, sotto inchiesta a Santa Maria Capua Vetere nell’ambito delle indagini sulla realizzazione di una centrale a biomasse a Pignataro Maggiore.

Luigi Nocera. Ex mastelliano, candidato dell’Udc alle ultime Europee, è stato a lungo assessore regionale all’Ambiente. In questa veste ha segnalato 100 assunzioni all’Arpac, l’agenzia per la protezione ambientale, ed è finito sotto inchiesta per una raffica di reati contro la Pubblica amministrazione. Gli inquirenti lo ritengono uno dei perni del sistema Mastella, almeno fino a quando ha militato nel Campanile. Imputato di concussione per la nomina all’Asi di Benevento estorta a Bassolino, indagato per associazione a delinquere e altre accuse nell’inchiesta – bis sull’Udeur connection, deve difendersi anche da una richiesta di rinvio a giudizio per l’alluvione dell’area di Sant’Anna e Villanova, a Nocera Inferiore, nell’ottobre del 2007: 90 parti offese, 1,2 milioni di euro di danni alle strutture pubbliche, 4,5 milioni di euro di danni per i privati.

Marco Nonno. Di Alleanza nazionale ma sospeso dalla carica di consigliere comunale a Napoli : imputato nel processo sugli scontri per la discarica di Pianura per devastazione e associazione per delinquere.

Alfonso Pecoraro Scanio. L’ex ministro verde dell’Ambiente è indagato con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri reati contro la pubblica amministrazione. Avrebbe promesso e compiuto favori di vario tipo in cambio di viaggi e soggiorni gratis in Italia e all’estero. Sentenzierà il Tribunale dei Ministri. È indagato anche a Crotone nell’inchiesta sulle mazzette per la realizzazione di centrali elettriche a turbogas della Calabria.

Gaetano Pesce Fino a giugno l’esponente di An è stato vice presidente del consiglio provinciale di Napoli. E’ stato condannato in primo grado a tre anni e sei mesi per abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la camorra. La vicenda risale al periodo in cui Pesce era sindaco di S. Gennaro Vesuviano: l’amministrazione, poi sciolta, avrebbe avuto un occhio di riguardo per le aziende e gli affari del clan di Mario Fabbrocino.

Giuseppe Petrella. Ex deputato dei Democratici di sinistra: condannato a sei mesi con pena sospesa per minacce.

Salvatore Perrotta. Sindaco di Marano: indagato per discarica abusiva a Marano.

Americo Porfidia. Indagato per camorra in qualità di sindaco di Recale per l'Italia dei valori.

Antonio Pugliese. Ex vicepresidente della provincia di Napoli nel centrosinistra, si è poi candidato nella tornata successiva nel centrodestra. E’ imputato nell’affaire Romeo per un appalto di competenza provinciale: il pm ha chiesto 6 anni e otto mesi di condanna.

Dario Rotondo. L’ex sindaco di Pietravairano (Caserta), di Alleanza nazionale, a maggio è stato arrestato assieme  all’assessore ai Lavori pubblici e ad altre sette persone, nell’ambito di un’inchiesta sulla spartizione degli appalti comunali in cambio di tangenti. L’operazione è scattata due settimane prima delle elezioni comunali, vinte dall’opposizione.

Domenico Zinzi Il parlamentare dell’Udc è sotto processo con Anzalone e altri imputati per la frana di Quindici. Tre anni di condanna in primo grado, per una storia che risale al periodo in cui era assessore regionale alla Protezione Civile.

Italia Dei Valori. Scrive Fabrizio Geremicca su "Il Corriere della Sera". Partito dell’anticasta, se lo si osserva da lontano; gabbiano con le ali appesantite dalla zavorra di esponenti dal dubbio passato e dai molteplici cambi di casacca, se si avvicina il punto di osservazione. Ecco Italia dei valori secondo MicroMega, la rivista che, nel numero, quello dedicato a Teresa Strada, di Emergency, riserva un’in­chiesta approfondita alla creatura dell’ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. La firma Marco Zerbino, che scrive più di una pagina sulla «Campania infelix» e sugli esponenti di Italia dei valori all’ombra del Vesuvio.

Di Nello Formisano, il segretario regionale del partito, riferisce l’iscrizione alla Massoneria, citando un’inchiesta pubblicata tempo fa dal mensile la Voce della Campania. Racconta che rappresenta l’ala 'pragmatica' del partito e gli attribuisce il demerito di avere candidato nel 2006 al senato Sergio De Gregorio. «Il quale — scrive ancora Zerbino — dirigerà poi il quotidiano del partito, Italia dei valori, nella cui redazione Formisano aveva piazzato il figlio come praticante». «Il segretario regionale di Idv — si legge ancora su MicroMega — ha inoltre traghettato nel partito Mimmo Porfidia e Nicola Marrazzo». Riguardo al primo, sostiene la rivista: «Il suo nome compariva, insieme a quello di altre sedici persone, in una informativa del 2005 che la Squadra Mobile di Caserta aveva successivamente trasmesso alla Direzione investigativa antimafia. Negli ultimi giorni del 2008 la notizia, appresa dai giornali, di essere indagato per 416 bis mandò a Porfidia di traverso il panettone».

Quanto a Marrazzo, rileva Zerbino: «Ex Dc poi passato ai Democratici, alla Margherita, a Rinnovamento italiano e infine a Idv. Già consigliere regionale. La sua famiglia possiede diverse imprese impegnate nel settore dei rifiuti, quattro delle quali si sono viste ritirare dalla Prefettura il certificato antimafia. Marrazzo è stato uno dei protagonisti dello scandalo che, nell’ottobre 1991, portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose dell’amministrazione comunale di Casandrino». La rivista passa in rassegna anche la vicenda di Cosimo Silvestro, ex consigliere regionale di Idv, che aveva tra i collaboratori un imprenditore pomiglianese del settore della ristorazione più volte fermato dai carabinieri in compagnia di pregiudicati. Un’inchiesta, quella di MicroMega, che non è passata naturalmente inosservata. La Stampa, ad esempio, l’ha ripresa in un ampio servizio e c’è già chi ritorna a parlare, come aveva scritto il Corriere della Sera, di un caso campano nel partito di Di Pietro.

Certo è che dalle informative contenute negli atti depositati emerge una figura, quella di Mautone, «al centro di un sistema di potere molto forte... volàno di una serie di raccomandazioni in tutti i settori pubblici». Un sistema che vede l'ex provveditore come punto di riferimento anche per 5 esponenti dell'Italia dei valori, compreso il figlio del leader del partito, Cristiano Di Pietro. Nessuno di loro risulta tra gli indagati, come a proposito di Di Pietro jr sottolineava un comunicato dell'Idv. Nelle carte dell'inchiesta-Romeo emergono però richieste precise avanzate da parlamentari in carica, come il deputato Nello Formisano e il senatore Aniello Di Nardo. Quest'ultimo in una telefonata ricorda a Mautone di un suo amico «che doveva essere chiamato» e non è stato più convocato per dei lavori di impiantistica di una galleria a Vico Equense. In un'altra conversazione segnala due architetti amici di Cristiano Di Pietro «ai quali non bisogna far prendere collera».

Americo Porfidia, deputato dell'Idv e sindaco di Recale, in provincia di Caserta, poi, è inserito tra le persone che hanno rapporti istituzionali con Mautone, e l'informativa degli investigatori precisa anche che a suo carico la Squadra mobile di Caserta ha aperto un procedimento penale per un'ipotesi di reato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Cardiologo, deputato in carica, a Mautone si è rivolto per chiedere consiglio per investimenti pubblici nel casertano.

L'intreccio di richieste che dalla Campania provava ad incidere su Roma sfocia anche in un emendamento da inserire in Finanziaria. Nell'ottobre 2007 Mautone chiede a Formisano una modifica per favorire un contributo a favore della "casa degli anziani" cui è interessato Francesco Manzi, consigliere regionale della Campania che fa riferimento al partito di Di Pietro. Spicca, infine, una telefonata tra Mautone e Cristiano Di Pietro sul tema forniture pubbliche: per l'impresa che realizza l'impianto elettrico di una caserma a Termoli e per dove va a rifornirsi del materiale. I due parlano delle percentuali di ribasso per la gara d'appalto: percentuali ritoccate "al rialzo" su suggerimento di Mautone, avallato da Di Pietro junior. Dal Pdl attacco di Maurizio Gasparri al leader dell'Idv: «Come ha fatto il babbo a sapere che erano intercettate le telefonate tra il pargolo e Mautone?

MAGISTROPOLI

L’ira degli avvocati di sinistra: "A Napoli sparite le garanzie", ma il risalto mediatico alla denuncia viene solo dai giornali di destra, come “Il Giornale”.

La denuncia degli avvocati: "C’è una casta di giovani magistrati insensibili alla presunzione d’innocenza". Perfino loro non ne possono più delle inchieste-spettacolo che mandano a ramengo le garanzie processuali mettendo nel tritacarne mediatico-giudiziario la vita e la reputazione. Ecco come viene violata la privacy di chi dovrebbe essere considerato innocente fino a sentenza definitiva di condanna.

Contro lo strapotere dei pm napoletani l’arringa degli avvocati, rigorosamente di sinistra. Perfino loro non ne possono più delle inchieste-spettacolo che mandano a ramengo le garanzie processuali mettendo nel tritacarne mediatico-giudiziario la vita, la reputazione, la privacy di chi dovrebbe essere considerato innocente fino a sentenza definitiva di condanna. E di chi, non essendo indagato, è sputtanato a vita dalla divulgazione in edicola delle intercettazioni altrui. I legali partenopei non ce la fanno più neanche di un Pd a trazione giustizialista, che a Napoli s’è fatto sponsor di un pm diventato sindaco, che ha nominato assessore il pm del caso Cosentino, un partito che vive nel terrore di ritorsioni giudiziarie sul modello dell’unico politico eccellente di riferimento finito alla sbarra (Bassolino) nonostante decenni di governo di centrosinistra nella città e nella regione.

Gli sfoghi dei principi del foro son cominciati a rimbalzare dai primi di gennaio (dedicati all’apertura dell’anno giudiziario) ai giorni nostri con una raffica di dichiarazioni a effetto pubblicate sul Corriere del Mezzogiorno. Il neopresidente della Camera penale di Napoli, Domenico Ciruzzi, è lapidario: «C’è una parte della sinistra che non considera il processo come sistema di regole finalizzato ad accertare l’innocenza o la colpevolezza del cittadino inquisito, bensì come mero strumento di repressione. Esiste una deriva dell’insinuazione, l’indagine è diventata attacco aprioristico che non tiene conto della presunzione d’innocenza, non distingue il giudizio politico da quello di responsabilità. La sinistra mi aveva sempre insegnato che il processo era un percorso protetto dove si difendevano le garanzie, talvolta invece usa la denigrazione del nemico per attaccarlo strumentalmente». E, a proposito del cortocircuito tra media e giustizia, Ciruzzi aggiunge: «Nessuno vuole il bavaglio della stampa, ma servono regole. Il processo penale è un percorso protetto, che prevede momenti di segretezza che tali devono rimanere. Serve una presa di coscienza anche del mondo dell’informazione, perché c’è il rischio che il giornalista possa trasformarsi da cane da guardia della democrazia in “cagnolino da salotto delle Procure”. Non dimenticatevi che è la carta costituzionale a sancire che la persona dev’essere informata delle accuse a suo carico riservatamente. L'opinione dominante nelle Procure e nelle redazioni ignora tale ineludibile prescrizione costituzionale, perché appena notificato l’atto all’indagato, si ritiene, a torto, che sia lecito darne ampio risalto su tutti i media. E questo non è più tollerabile». Ma un aspetto Ciruzzi tiene a ribadirlo: «Le uniche riforme garantiste, grazie anche al contributo delle Camere penali italiane, sono state emanate dal governo di sinistra e non già da questo governo che, allo stato, ha invece promulgato soltanto una legislazione feroce nei confronti dei soggetti più deboli».

Per l’ex presidente delle Camere penali italiane, Claudio Botti, l’analisi è ancora più semplice: «Pur di schierarsi contro Berlusconi, il Pd ha perso di vista la cultura della garanzia. È vero che il premier agita la riforma della giustizia come una clava e che ci sono interessi personali dietro alcuni interventi previsti, ma è pur vero, però, che quella riforma prevede anche tantissimi aspetti condivisibili, solo che la sinistra non riesce più a scindere i piani, a valutare il contenuto». Soprattutto se i pm diventano il «riferimento culturale del Pd, partito che ormai ritiene tempo perso interloquire con gli avvocati. Le nostre battaglie vengono viste come difesa di interessi di bottega. E, in questo, il Pd ha scavato un solco col passato del Pci».

Anche Ugo Raja, avvocato con 10 anni di consiglio comunale alle spalle sotto la bandiera dei Ds, è d’accordo: «Oggi è difficile tenere posizioni di garantismo, perché si rischia di passare per protettori della casta. Però è innegabile una sovraesposizione delle Procure, complici anche i mass media, e una strumentalizzazione distorta dell’avviso di garanzia, che oggi è diventato quasi una sentenza di condanna. Sono patologie che vanno eliminate, ma consentendo nello stesso tempo ai magistrati di continuare a esercitare il controllo di legalità». Un discorso a parte meritano le inchieste napoletane che hanno riguardato parlamentari del Pdl (Papa e Milanese). «Purtroppo accade - spiega l’avvocato Riccardo Polidoro, presidente dell’associazione Il Carcere possibile - che una decisione sull’autorizzazione all’arresto non segua principi fissi, ma la contingenza del momento. Senza entrare nel merito delle vicende, ma secondo voi qualcuno in Italia ha capito perché Alfonso Papa è in carcere mentre il suo collega di partito Marco Milanese e il senatore del Pd Alberto Tedesco sono liberi? Il garantismo è smarrito, si cavalca l’idea dell’opinione pubblica». Bruno Spezia, decano degli avvocati partenopei, taglia corto: «Oggi esiste una generazione di giovani magistrati che si sente una casta. Gente lontana anni luce dal modello di magistrato-galantuomo rappresentato ad esempio da Lepore. Basterebbe guardare quante volte un pm, dopo aver interrogato un indagato a inchiesta conclusa, si sia convinto della sua non colpevolezza. Esiste una insensibilità alla protesta d’innocenza degli indagati». Che fare, dunque? «Mantenere una posizione di coraggio e ricordare sempre l’altezza della funzione di un difensore. In una parola: resistere, resistere, resistere».

Anche gli avvocati di Bari contro i magistrati di Napoli. Lo scontro tra toghe non risparmia nessuno. Ad insorgere però sono adesso i penalisti pugliesi. Non ci stanno alla forzatura fatta dai pm campani per sollevare dal segreto professionale il legale difensore dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini. All'avvocato Nicola Quaranta, interrogato come testimone a Napoli dai sostituti procuratori Francesco Curcio, Henry Woodcock e Vincenzo Piscitelli, è stato imposto di rispondere alle domande dei pm attraverso un decreto d'urgenza firmato dagli stessi magistrati. "Una palese violazione del codice penale" protestano gli avvocati della Camera Penale. Alla protesta ieri si è unito anche l'Ordine degli Avvocati di Bari. Insieme i legali hanno convocato un'assemblea straordinaria per il 5 ottobre 2011.

"Il fatto che i pm napoletani che indagano sul presunto ricatto al premier Berlusconi, dinanzi al segreto professionale opposto dall'avvocato di Gianpaolo Tarantini, Nicola Quaranta, hanno emesso un autonomo decreto con il quale lo hanno sollevato dal segreto professionale imponendogli di rispondere alle loro domande - spiega il presidente della Camera Penale di Bari Egidio Sarno - è un episodio gravissimo che vulnera il sistema delle garanzie del segreto professionale poste a tutela del diritto della difesa". I penalisti baresi vanno giù pesante. L'iniziativa dei tre sostituti procuratori napoletani è "abnorme" e "costituisce una gravissima violazione dei diritti di difesa". I magistrati infatti hanno sollevato l'avvocato Quaranta dal segreto professionale emettendo un decreto che, stando al codice penale, potrebbe essere fatto soltanto da un giudice e a seguito di approfonditi accertamenti. "Così viene meno l'istituto del segreto professionale - continuano i penalisti - gli avvocati, lo dice la legge forense e il codice penale, non possono essere obbligati a deporre su quanto sia stato loro confidato in virtù del mandato difensivo". L'unica eccezione può sollevarla solo il giudice ed è prevista per la sola testimonianza nel dibattimento. Non dunque nel corso delle indagini preliminari.

La Camera Penale esprime poi, con un documento ufficiale approvato dal direttivo "solidarietà e apprezzamento" all'avvocato Quaranta per aver "correttamente e dignitosamente opposto il segreto, mantenendo, nella delicata situazione, un comportamento ineccepibile sul piano deontologico". L'Ordine degli avvocati di Bari sta inoltre valutando se inviare un esposto al Guardasigilli e al procuratore generale della Cassazione per l'eventuale esercizio dell'azione disciplinare a carico dei tre pm partenopei. È insomma guerra totale.

La Giustizia vista da un alto Magistrato con l’intervista rilasciata al "Corriere del Mezzogiorno".

Martedì 13 ottobre 2009, nuovo palazzo di giustizia, «Torre C», dodicesimo piano, le cinque del pomeriggio. Vincenzo Galgano — procuratore generale della Repubblica, la più alta carica della magistratura inquirente nel distretto di corte d’appello di Napoli — siede sulla stessa sedia che occupava esattamente sei mesi prima, quando una sua dichiarazione («Ci sono pm che perseguono interessi personali») scatenò un terremoto all’interno della Procura e portò all’apertura di un'indagine del Csm. Correva il 14 aprile 2009. E, a dispetto del nome del santo del giorno (Abbondio), il Pg decise di intervenire direttamente nello scontro tra alcuni sostituti e il capo dei pm.

Procuratore generale, iniziamo dalla fine. Cominciamo da quel documento di Magistratura democratica, l’ala di sinistra delle toghe, che ha parla di «anomala situazione processuale scaturita da determinazioni adottate in contrasto con quelle già espresse dalla Procura in relazione ad altre persone attualmente imputate nel dibattimento ». L’ha letto?
«Sì. Toni irritanti. Dichiarazione irragionevole. Fossi in loro lascerei perdere, non gli conviene...».

La sostanza, procuratore. La sostanza, non la forma.
«La sostanza è che i colleghi di Md hanno trascurato di considerare che chi esercita la funzione giudiziaria deve obbedire alla propria professionalità e alla propria coscienza».

Qualcuno sostiene che i magistrati dovrebbero giudicare senza farsi condizionare dalla realtà...
«Qui il ragionamento va sganciato da questo o quel processo, dai singoli magistrati. Ciò premesso, è ora di iniziare a chiarire alcuni punti una volta per tutte». Chiarisca... «La ricerca astratta della perfetta osservanza delle leggi dà luogo a soluzioni dolorose e insoddisfacenti per coloro che ne subiscono le conseguenze, siano essi individui o collettività».

La «perfetta osservanza delle leggi» però è impegno che dovrebbe esser preteso, no?
«Certo, ma se si esaminassero bene le norme, e soprattutto se si applicassero correttamente le regole di interpretazione, queste conseguenze dannose non si dovrebbero verificare». Usa il condizionale... «La ricerca della perfezione spesso si traduce in un errore».

Vuol dire che c’è qualche pm che sbaglia ad applicare le norme?
«Ci sono casi in cui la certezza delle proprie idee diventa fanatismo. E uno degli effetti di questa eccessiva sicurezza è quello di non percepire le opinioni degli altri, di entrare in un meccanismo di irrealtà e di errore, insistendovi».

E come si difende il cittadino da questi pm?
«Il nostro sistema giudiziario è costruito in modo che gli errori vengano corretti, che questi magistrati si scontrino sempre con un muro che li riconduce a ragione. O, almeno, quasi sempre».

È quel «quasi» che preoccupa...
«Il lavoro della Procura costituisce la fase iniziale del procedimento, non quella finale. Ciò non esclude, però, che in questa fase certi magistrati possano creare problemi».

Quali?
«C’è il rischio che il fanatismo di alcuni pm venga strumentalizzato dall’esterno per lotte politiche, campagne di stampa, trame cui la magistratura dovrebbe rimanere estranea. La conseguenza è un enorme danno all’ufficio del pubblico ministero».

Rischiano anche i cittadini?
«Il fanatismo di questi magistrati provoca sofferenze alla gente e alla collettività. È un costo che i cittadini devono pagare all’autonomia della funzione giurisdizionale ».

Scusi, ma il compito di vigilare sull’operato dei pm non spetta a lei?
«Sì».

E che fa?
«Tutto quello che posso, cioè solo segnalare certe condotte al Csm».

E poi?
«Bah. La sezione disciplinare funziona male. Il collegio è troppo numeroso, gravato da un carico eccessivo. E poi subisce gli effetti inevitabili connessi a un sistema organizzativo che ne trascura la terzietà».

Cioè?
«Cioè lì c’è sempre un collega che giudica su un altro collega. Insomma, è gente che fa lo stesso lavoro. E non voglio pensare alla lunghezza delle istruttorie ».

E alla lunghezza dei processi ci vuole pensare?
«Le lungaggini giudiziarie si protraggono al di là di ogni possibile tollerabilità. Colpa dell’indifferenza di chi dovrebbe investire nei servizi giudiziari».

Ci risiamo. Piove, governo ladro?
«No. È anche colpa degli uomini se il sistema non funziona, ed è ora che coloro che vi operano inizino ad assumersi le loro responsabilità».

Ci sarebbero anche i tanti «imputati qualunque» che avrebbero diritto a tempi celeri. Le loro attese sono addebitabili solo al sistema inceppato?
«No. È intollerabile anche l’indifferenza mostrata da gran parte dei magistrati per i tempi della loro attività. Questo è un aspetto della professionalità che trovo peggiorato».

Ingegni a parte, pensa che i magistrati di oggi siano meno bravi di quelli di ieri?
«Il calo di qualità non è né inferiore né superiore a quello di tutti gli ambienti professionali. Però c’è stato, anche se compensato da alcune eccellenze. È la storia del nostro Paese, del Sud in particolare. Gli altri hanno cento cavallucci. Noi dieci stalloni di razza, ma 90 asini».

Ma non mancano i precedenti.

Il procuratore della Repubblica in commissione antimafia: pronto a rimettere il suo mandato.

Questo ha detto Agostino Cordova durante l'audizione nella quale ha fatto un bilancio, disastroso, dell'amministrazione giudiziaria nel capoluogo campano.

Non manca di chiamare in causa le polemiche seguite agli arresti degli otto poliziotti, Agostino Cordova. Il procuratore di Napoli parla davanti alla commissione antimafia, fa un bilancio della situazione in cui versa l'amministrazione giudiziaria del capoluogo partenopeo, assai difficile stando ai numeri, e ribadisce le 'strumentalizzazioni' attorno alla vicenda degli arresti 'per speculazioni di destra o di sinistra'. "Tutto ciò - ha detto- mi distoglie dalla mia attività principale ossia di ripristinare la legalità attraverso la lotta alla criminalità organizzata. Visto che non mi viene consentito, comincio a coltivare l'idea di chiedere un'altra sede".

La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Questo, sembra, la bufera che si è abbattuta sulla questura di Napoli per le presunte violenze sui manifestanti no-global nel marzo 2001. Un vaso colmo di tante, troppe cose che secondo il procuratore non vanno da quelle parti. Incomincia snocciolando una serie di elementi che rendono assai difficile lavorare negli uffici giudiziari napoletani, malati di carenza di organici e di mezzi, schiacciati da tempi lunghissimi nei procedimenti, gravati dallo spaventoso arretrato ereditato all'atto dell'unificazione delle procure (circondariale e del tribunale).

Sta proprio in questo, secondo Cordova, "l'origine di tutti i problemi", nell'unificazione delle due procure dal primo gennaio 2000. "Prima di quella data avevamo 16 mila fascicoli, il primo gennaio l'ex Circondariale ce ne portò circa 690 mila, una cifra mai riscontrata credo in nessun'altra procura italiana". Di questi 690 mila fascicoli "ben 200 mila non erano nemmeno iscritti nel registro delle notizie di reato". E nel conto vanno messi anche "due milioni e trecentomila seguiti di informativa ammonticchiati sul pavimento e mai visionati da nessuno e oltre novemila esecuzioni pendenti, di cui diverse prescritte, cioè risalenti a dieci anni prima".

E c'è l'insufficienza degli organici che riguardano "non solo i nostri uffici (i Gip sono 26-27 su 106-107 sostituti) ma anche le forze dell'ordine. Si parla tanto di controllo sul territorio, ma ad esempio per le dodici nuove stazioni di carabinieri che il Comando generale aveva stabilito di aprire a Napoli e in provincia di Caserta in due anni non è stato ancora possibile reperire dei locali dove alloggiare il personale". Non meno preoccupante il numero di richieste di misure cautelari pendenti davanti al Gip: "Sono circa una quarantina, ma una risale addirittura al luglio del 2000, e ce ne sono altre anche a carico di responsabili di crimini efferati vecchie di otto mesi".

In questo quadro preoccupante, non poteva mancare, infine, il riferimento alla vicenda degli otto poliziotti e alla richiesta di arresto. Cordova torna a respingere alcune accuse che gli sono state rivolte. Innanzitutto la possibilità che il procuratore di Napoli avrebbe potuto avere di avocare a sé l'inchiesta, non condividendo le opinioni dei sostituti che hanno firmato la richiesta d'arresto di agenti e funzionari di polizia: "Non devo vistare richieste del genere, in quanto la mia firma deve essere presente negli atti della Dda e in quelli che riguardano la Pubblica Amministrazione- ha detto Cordova- inoltre, in caso di divergenza di opinione perfino il Csm dice che non si può avocare il fascicolo. Ma Cordova è entrato anche nel merito del perchè non condividesse totalmente la richiesta di misure cautelari sottoposte al gip.

"Mi fu trasmessa in visione la richiesta del provvedimento cautelare. La restituii manifestando perplessità riguardo alla genuinità delle fonti di prova". In particolare, chiedeva ai suoi sostituti di verificare il perchè coloro che avrebbero subito abusi da parte dei poliziotti non avessero denunciato i fatti. 

Nel Maggio 2002, il procuratore della repubblica di Napoli accusò alcuni gip del distretto partenopeo di tenere nei cassetti richieste d'arresto per 700 camorristi.

Ottocento magistrati del distretto di Napoli, tutti chiamati a palazzo di giustizia dall'Anm. E per parlare di una cosa sola: le dichiarazioni esplosive del procuratore della Repubblica Agostino Cordova davanti alla commissione Antimafia, qualche giorno fa. E' proprio lui, oggi, a salire simbolicamente sul banco degli imputati. Mentre il ministro della Giustizia Roberto Castelli manda gli ispettori negli uffici giudiziari. Pm contro pm, giudici accusati di abbandonare nei cassetti richieste di arresto per 700 camorristi.

Questa è stata la denuncia a freddo di Agostino Cordova, lui che qualche mese fa vide consegnare al Consiglio superiore della Magistratura un documento con le firme di 64 sostituti, più della metà, nel quale veniva contestata la sua gestione e l'organizzazione degli uffici giudiziari partenopei.

MALAGIUSTIZIA

Custodia cautelare: richiesta del PM e verifica di sussistenza delle esigenze e controllo di legittimità da parte del GIP ?!?

La riprova che il GIP non è altro che la longa manus del PM la dà “Il Corriere della Sera”. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». Gaetano Riina rimane in carcere perchè arrestato nel luglio 2011 per associazione mafiosa in quanto considerato nuovo capo del mandamento di Corleone. I magistrati della Dda partenopea stanno esaminando gli atti relativi all'inchiesta per valutare una eventuale nuova richiesta di misure cautelari dopo l'annullamento dei provvedimenti restrittivi. Il Riesame di Napoli (presieduto da Angela Paolelli) ha infatti annullato le ordinanze nei confronti non solo di Gaetano Riina, ma di altri otto indagati (tra cui Nicola Schiavone, fratello del capo del clan Casalesi Francesco Schiavone detto Sandokan) motivando la scarcerazione col fatto che il gip di Napoli Pasqualina Paola Laviano, che aveva emesso le ordinanza di custodia cautelare, si era limitato a copiare o riassumere la tesi accusatoria della procura. L'indagine della procura di Napoli - coordinata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho e dai pm della Dda Francesco Curcio e Cesare Sirignano - ha accertato l'esistenza di una spartizione degli affari all'interno dei mercati ortofrutticoli da parte delle principali organizzazioni criminose del nostro Paese e il monopolio del settore dei trasporti su gomma da parte del clan dei Casalesi, alleato con la mafia siciliana.

"Totale testuale trasposizione del richiesta del pubblico ministero" e carenza di "qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari": con questa motivazione il Tribunale del Riesame di Napoli ha annullato l'ordinanza di custodia cautelare a carico di Gaetano Riina, fratello del padrino di Cosa nostra, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip campano, sostiene il Riesame, si sarebbe limitato a riproporre la richiesta d'arresto della procura, non sostituendo neanche le parole "questo pm" con "questo gip". Il provvedimento annullato risale al 14 novembre scorso: secondo la Procura di Napoli Gaetano Riina avrebbe preso accordi con il clan dei Casalesi per la gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia. Un'ordinanza successiva all'arresto eseguito il primo luglio a Mazara del Vallo, su richiesta della procura di Palermo che aveva portato in carcere Riina con l'accusa di essere il boss di Corleone.

Il Commento di Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un episodio imbarazzante. Un gip appiattito, come si dice in questi casi, sulle tesi del pm tanto da copiare in buona sostanza la sua richiesta di arresto e trasformarla paro paro in un ordine di custodia. Sembra di essere tornati ai tempi di Mani pulite: allora alcuni gip dicevano sempre sì, senza se e senza ma, a tutto quello che le procure volevano. Invece siamo a Napoli e lo scivolone tocca incidentalmente una delle famiglie più note dell'Italia criminale: quella dei Riina. Il tribunale del riesame ha infatti annullato l'ordine d'arresto-fotocopia che riguardava Gaetano Riina, il fratello di Totò, il capo dei capi seppellito in cella sotto una valanga di condanne. Gaetano Riina, meno celebre di Totò, avrebbe fatto affari con i Casalesi mettendo insieme due business: quello dei mercati ortofrutticoli e quello del trasporto su gomma. Ora si dà il caso che il gip valuti le prove raccolte dal pm e decida, se il ragionamento dell'accusa gli è parso convincente, l'arresto, ma qui il gip di Napoli non avrebbe raggiunto nemmeno il minimo sindacale. Il tribunale del riesame, impietoso, parla di «totale, testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero» e carenza di «qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari, omettendo», così, «ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari». Addirittura, secondo il riesame il giudice si sarebbe dimenticato perfino di sostituire le parole, «questo pm» con «questo gip». Risultato: l'ordine di arresto per concorso esterno in associazione camorristica è finito nel cestino. Gaetano Riina non è stato scarcerato perchè a luglio era già stato ammanettato: questa volta su input della procura di Palermo che lo considera il nuovo boss di Corleone. Dunque, l'aspirante padrino resta dentro. Ma questo nulla toglie alla gravità dell'episodio che conferma un vecchio vizio di parte della magistratura italiana: la sciatteria e insieme la sudditanza culturale dei gip ai pm. Non è sempre così, naturalmente, ma da Mani pulite in poi l'allarmante fenomeno è stato denunciato infine volte dagli avvocati che dovrebbero essere sullo stesso piano dei pm e invece si trovano spesso spalle al muro. Incalzati dai pm e anche dai gip che sembrano ufficiali di complemento dell'accusa. È questa una delle ragioni da pesare a favore della separazione delle carriere, argomento di cui si parla a vuoto da quasi vent'anni. Ma la prima rivoluzione è quella che dovrebbe avvenire nelle teste dei giudici, non di tutti, ci mancherebbe, perchè proprio l'epilogo della vicenda napoletana insegna che molti giudici fanno, e bene, il loro mestiere. Il riesame esclude addirittura che il gip «abbia realmente preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm». Un disastro. I giudici hanno annullato l'arresto di Riina ma anche quelli di altri otto indagati, compreso il fratello di un altro celebre padrino: Nicola Schiavone che sta a Francesco detto Sandokan come Gaetano sta a Totò Riina. La girandola si è chiusa con la giustizia rossa di vergogna, ma in concreto poco è cambiato: solo tre indagati, quelli con le posizioni meno pesanti, sono stati scarcerati. Gli altri restano in cella, raggiunti da altri provvedimenti. E la procura corre ai ripari: la Direzione distrettuale antimafia di Napoli sta valutando se chiedere un nuovo arresto per Riina. L'indagine ha scoperchiato un accordo fra Cosa nostra e i Casalesi: alleati di ferro nel riscuotere il pizzo sul commercio di frutta e verdura fra la Sicilia e il resto d'Italia.

Va giù pesante anche Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Si è comportato come lo studente scansafatiche che copia il compito in classe del secchione di turno. Ma il gip del tribunale di Napoli ha fatto di più: ha pure copiato male, facendosi beccare. Il tema in aula non aveva come oggetto la vacanza estiva, bensì l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica nei confronti di Gaetano Riina, fratello del capo dei capi di Cosa nostra, Totò. Insomma, un cognome di quelli che pesano e che enfatizza la scarsa attenzione posta dal giudice per le indagini preliminari, il quale si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto formulata dai pm della procura napoletana. Ma più che riassumere, il tribunale del Riesame parla di un vero e proprio copia e incolla, di errori grossolani e clamorosi. Un esempio? Nello scritto il gip non ha sostituito nemmeno le parole "questo pm" con "questo gip", mantenendo inoltre l'espressione "presente richiesta di misura cautelare". Come riporta il Giornale di Sicilia, "il mandato di cattura era stato emesso a novembre 2011 e il gip riteneva Gaetano Riina in combutta con i clan dei Casalesi nella gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia". Provvedimento annullato, appunto, dal Riesame campano per "inesistenza della motivazione". La decisione che ha portato al rigetto delle richieste del gip è spiegata molto chiaramente: "Il provvedimento impugnato consiste nella totale testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero, con il solo inserimento di una breve parte introduttiva di carattere meramente giuridico", si legge sul quotidiano siciliano. E come se non bastasse i giudici del Riesame continuano: "Manca il riferimento espresso al provvedimento o all'atto richiamato...così come è del tutto carente qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari". Non è farina del suo sacco, sentenzierebbe un insegnante. La sentenza nei confronti dello stesso gip l'hanno fornita gli stessi giudici del Riesame: "Ha dimostrato di essere venuto meno al suo ruolo, omettendo ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari, si esclude che abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm". Una bocciatura senza appello. Chiamatela negligenza o imperizia. Magari il gip sarà stato oberato di lavoro da non potere dedicare tanto tempo al fratello del boss mafioso. Oppure la sua fiducia nel lavoro del pm di turno era tale da non rendere opportuna nessuna valutazione nel merito. Comunque sia ha copiato (pure male) e si è anche fatto beccare. E non siamo a scuola, ma in un'aula di tribunale. 

L’incursione delle Iene ha riguardato il furto di un fascicolo in una sezione del Tribunale Civile, scrive Fabrizio Cattaneo su "Napoli.com".

La cosa, peraltro facilissima, raramente capita sul serio, tanto è vero che nonostante le centinaia di migliaia di processi civili, i fascicoli che spariscono sono veramente una percentuale irrilevante. Generalmente ciò viene causato più dal disordine che da dolo.

Gli avvocati infatti, non fidandosi dello stato delle cancellerie e soprattutto in vista del drammatico trasloco, hanno generalmente effettuato le copie dei fascicoli e dei verbali, per cui la sparizione del fascicolo ritarda semmai il processo, ma non comporta un vantaggio per una parte o per l’altra, ben potendosi ricorrere alla ricostruzione del fascicolo stesso.

Il tribunale di Napoli, già assurto alla cronaca televisiva per i cronici disservizi documentati da "Report" su RAI 3 presenterà al grande pubblico le sue disfunzioni e la sua grande disorganizzazione.

Contro questo degrado l’Ordine degli Avvocati di Napoli ha più volte proclamato lo stato di agitazione e l’astensione dalle udienze. Gli alti gradi della Magistratura hanno contestato tale forme di protesta, e molti magistrati accusano gli avvocati di catastrofismo.

Certo, dal calduccio di una stanza, seppur faticosamente raggiunta, è facile accusare gli avvocati di lamentarsi troppo per un po’ di disagi. Loro, sono fermi al piano, gli altri, gli avvocati, mediamente fra una sezione e l’altra percorrono decine di piani per passare da una udienza all’altra, all’aperto lungo le scale esterne.

La cosa più grave è che fra l'indifferenza totale, del Ministero di Grazia e Giustizia e della Procura della Repubblica, che avrebbero il compito di vigilare sulla osservanza delle leggi, salvo poi quando ci scappa il morto, la frequentazione del… “Nuovo Palazzo di Giustizia", presenta palesi violazioni delle più elementari norme di sicurezza.
In osservanza delle legge 46/90 e di altre innumerevoli norme, negli studi privati, anche di pochi metri quadri, a volte con effetti esilaranti, gli avvocati sono stati costretti ad installare cartelli con su scritto uscita, estintori, lampade di emergenza, cassette di pronto soccorso e poi quanto altro indispensabile, secondo il legislatore, per garantire la privacy.

Per il Tribunale di Napoli, nessuna legge è invocabile né applicata.

Operai al lavoro senza casco fra la gente, zone transennate fra il pubblico, scale d’emergenza già vecchie ed arrugginite utilizzate come scale normali, ascensori lenti, spesso guasti, montacarichi utilizzati come ascensori, nessuna indicazione utile per il pubblico, cavedi di sgombero aperti a tutti, ponti sospesi fra una torre e l’altra di dubbia consistenza, niente cassette di pronto soccorso, nessun addetto alla sicurezza ai piani.

Un qualsiasi ispettore dell’ASL o dell’ufficio prevenzione infortuni potrebbe trascorre giornate intere a scrivere verbali di contestazioni.

Partendo ovviamente dalle toilettes che se non sono chiuse per manutenzione, sono prive di qualsiasi accessorio, anche della carta, insomma, 28 piani di inefficienza.

Tutto ciò che di peggio ci può essere in un edificio pubblico viene collezionato in una serie sorprendente di records dal “Tribunale più alto d’Italia”. 

Non solo. Il ministero risarcisce gli avvocati per stress da "inefficienza del sistema giudiziario", scrive "La Repubblica". Accade a Napoli dove il giudice di pace ha condannato il dicastero della Giustizia a rimborsare cento euro per ciascuno degli ottanta legali che lo hanno citato in giudizio.

Il contenzioso nasce da una causa promossa dall'avvocato Angelo Pisani, alla quale poi si sono accodati altri suoi colleghi iniziata il 28 ottobre del 2005 contro, si legge nell'esposto, "l'inefficiente sistema giudiziario napoletano caratterizzato da gravi e ingiustificati disagi, gravi violazioni del diritto di difesa, delle regole processuali come illegittimi ed inspiegabili rinvii delle prime udienze, lunghe file per la verifica dell'assegnazione delle cause, ingiusticate condizioni di lavoro, inspiegabili ritardi anche di otto/nove mesi per il rilascio di copie esecutive di sentenze relative a procedimenti tenuti presso l'ufficio del giudice di pace".

Insomma, in poche righe, una descrizione esaustiva dei mali che affliggono questa come altre sezioni del tribunale partenopeo. Dopo un anno e mezzo, la sentenza emessa dal giudice di pace della prima sezione civile Renato Marzano che dà ragione agli avvocati e condanna il ministero a una equa riparazione dei "danni esistenziali conseguenti allo stress derivante dai disagi subiti". Oltre ai cento euro, via Arenula dovrà accollarsi anche il pagamento delle spese di giudizio liquidate in 70 euro per le spese, 125 euro per i diritti, 75 per gli onorari oltre l'Iva, il 12,50% a titolo di rimborso spese generali.

Il giudice di pace ha però accolto solo in parte le richieste dei legali, che avanzavano anche l'ipotesi di una applicazione della legge Pinto, individuando gli elementi per ritenere di dover essere risarciti per una ingiustificata durata dei processi.

Tutti i testi hanno riferito al giudice di Pace che mentre sino a qualche tempo fa una causa iscritta a ruolo veniva chiamata dopo sette giorni rispetto la data indicata in citazione, questo termine nel tempo si è dilatato fino ad arrivare a 60 giorni; senza contare le file lunghissime, per circa una ora, per iscrivere una causa a ruolo, e i quattro mesi che occorrono per ottenere copie urgenti di una sentenza, pagando il triplo dei diritti previsti, mentre per le vie ordinarie ci vogliono anche 12 mesi per quelle stesse copie.

Una situazione per la quale gli avvocati si trovano coinvolti in discussioni continue con i loro clienti esasperati. Da qui lo stress. E il risarcimento.

INGIUSTIZIOPOLI. IL CASO TORTORA.

Era un presentatore televisivo molto noto, molto quotato, un conduttore - come si dice oggi - da 28 milioni di telespettatori. Incarnava un certo perbenismo borghese e faceva un uso piuttosto lacrimevole – alla Raffaella Carrà dei giorni nostri, se vogliamo - del più potente mezzo di comunicazione. La sua figura pubblica, certamente, non era a tutti gradita.

Finì, all’improvviso, in un tritacarne allestito dalla procura di Napoli sulla base di un manipolo di "pentiti" che prese ad accusarlo di reati ignobili: traffico di droga ed associazione mafiosa. Con lui – prima che quell’operazione si sgonfiasse come un palloncino – finiranno nel tritacarne altre 855 persone.

Il suo arresto fu un evento mediatico. Prima di trasferirlo in carcere i carabinieri lo ammanettano come il peggiore dei criminali e gli allestiscono una sorta di passerella davanti a fotografi ed operatori televisivi.

L’Italia si spacca letteralmente in due tra innocentisti e colpevolisti. E la stampa, dichiaratamente forcaiola, riesce a dare il peggio di sé.

E’ la quasi estate del 1983. Comincia il "caso di Enzo Tortora", vittima sacrificale degli isterismi e dei pressappochismi dell’antimafia.

Con Tortora la giustizia italiana fa un salto indietro di qualche secolo, coprendosi letteralmente di vergogna.

Un gruppo di magistrati mostra i suoi lati più bui. Il presentatore televisivo viene tenuto in carcere per sette mesi, ottenendo appena tre colloqui con i suoi inquirenti. Gli indizi che lo accusavano sono debolissimi, praticamente inesistenti: oltre alle parole dei "pentiti", soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista. Un nome scritto a penna e un numero telefonico. Solo dopo lungo tempo si saprà che quel nome non era "Tortora", ma "Tortosa" e che il recapito del telefono non era quello del presentatore.

Nel giugno del 1984 Enzo Tortora – nel frattempo divenuto il simbolo delle tragedie della giustizia italiana – viene eletto deputato europeo nelle liste dei radicali che ne sosterranno sempre le battaglie libertarie.

Il 17 settembre 1985 (ad oltre due anni dall’arresto) Tortora viene condannato a dieci anni di galera. Nonostante l’evidenza, le accuse degli 11 "pentiti" (definiti da un giornale "la nazionale della menzogna") hanno retto al dibattimento.

Con un gesto nobile, l’ormai ex divo della TV – protetto dall’immunità parlamentare - si consegna. Resterà agli arresti domiciliari.

Il 15 settembre 1986 (a più di tre anni dall’inizio del suo dramma) Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla corte d’Appello di Napoli.

Il 20 febbraio 1987 torna sugli schermi televisivi.

Il 17 marzo 1988 Tortora viene definitivamente assolto dalla Cassazione.

Il 18 maggio 1988, stroncato da un tumore, Enzo Tortora muore.

Resterà per sempre il simbolo di una giustizia ingiusta. Che di macroscopici errori, dopo di lui ne commetterà – purtroppo – ancora molti.

USI ED ABUSI MUNICIPALI

Il 17 marzo del 2001, quello degli scontri in occasione del Global Forum e dei successivi terribili pestaggi nella caserma «Raniero Virgilio», fu per Napoli (e non solo) un dies horribilis, scrive Titti Beneduce su "Il Corriere Della Sera". E’ scritto nelle motivazioni della sentenza con cui, il 22 gennaio 2010, la V sezione del Tribunale (presidente Clara Donzelli, a latere Alfredo Guardiano e Rossella Tammaro) ha condannato dieci dei poliziotti che trattennero un’ottantina di ragazzi nella «sala benessere» della caserma, sottoponendoli a ogni genere di soprusi e umiliazioni. Tra i condannati, come avevano chiesto i pm Marco Del Gaudio e Fabio De Cristofaro, anche due funzionari, Fabio Ciccimarra e Carlo Solimene, cui è stata inflitta la pena di due anni e otto mesi per sequestro di persona: l’unico reato, questo, non prescritto. Ciò che avvenne dopo la manifestazione, scrive il giudice Donzelli, estensore della sentenza, fu, di fatto, un rastrellamento: «Nessuna disposizione normativa poteva giustificare l’arresto dei giovani trattenuti all’interno della sala benessere della caserma Virgilio al fine di essere identificati e, prima ancora, oggetto di quello che può essere agevolmente definito come un vero e proprio rastrellamento.

Decine i casi eclatanti e odiosi di abuso di potere citati nelle 112 pagine depositati. C’è, per esempio, quello di un giovane ipovedente, Stefano C.: «Visibilmente ferito e portatore di handicap, deriso per la sua andatura precaria e trattato con modi bruschi, vide ammorbidire l’atteggiamento violento nei suoi confronti solo allorquando gli venne trovata indosso la tessera dell’Associazione italiana ciechi e venne poi ricondotto in ospedale». Sconcertante anche la vicenda di Andrea C., giovane procuratore legale: la sua esperienza «è ricordata peraltro da molti altri ragazzi, colpiti dal trattamento violento e derisorio riservato al giovane procuratore definito con spregio l’avvocatino. Questi, proprio in quanto assertore del suo diritto di essere informato dello status giuridico che aveva al momento (non risultando nè arrestato nè fermato ed essendo già stato documentalmente identificato presso il drappello ospedaliero) si vide riservato un trattamento molto violento. Ebbe addirittura due perquisizioni, oltre a varie percosse, e ad un certo punto si determinò a non protestare più, ossia a rinunciare all’esercizio dei propri diritti fondamentali. Tanto, com’è ovvio, risulta particolarmente inaccettabile per chi del diritto e del primato di esso sulla barbarie della violenza ha scelto di fare la propria ragione di vita». Parole molto dure, che certamente faranno discutere. Per i giudici, insomma, i ragazzi portati in caserma subirono un trattamento «inumano e degradante». «L’elenco delle condotte criminose in danno delle persone transitate nella caserma consente di concludere, senza alcun dubbio, come ci si trovi dinanzi a comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante. Tali condotte, seppure materialmente commesse da un numero limitato di autori e in una particolare situazione ambientale, hanno comunque inferto un vulnus gravissimo, oltre che a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze di polizia di Stato e soprattutto alla fiducia della quale detta istituzione deve godere, in virtù della meritoria attività quotidiana svolta dalla stragrande maggioranza dei loro appartenenti, nella comunità dei cittadini». I giudici criticano, in particolare, il comportamento dei due funzionari, Ciccimarra e Solimene, i più alti in grado quel giorno nella caserma: «che essendo presenti ai fatti e potendolo evitare, in quanto dotati di titolo e competenza, da tanto si sono astenuti, consentendo che altri infliggessero a inermi cittadini (nei cui confronti nulla risultava allora e non è risultato in seguito alcun addebito di colpa) violenze e minacce assolutamente ingiustificate».

Ma non finisce qui. Si tratta di un episodio sconcertante quello che ha coinvolto il comandante della Polizia Municipale del Comune di Napoli, Luigi Sementa. L’episodio risale al 5 dicembre 2008, quando un cronista del «free press» «Il Napoli», Alessandro Migliaccio, subì un’aggressione fisica proprio da parte di Sementa. Migliaccio, recatosi presso la sede dei vigili urbani, a seguito di informale convocazione del comandante e in presenza di due colleghi, ha successivamente denunciato in Questura di aver ricevuto uno schiaffo sul viso dal comandante Sementa. La reazione sarebbe scaturita dalla contestazione di un articolo a sua firma, pubblicato sul free press dal titolo «Gran bazar d’illegalità nel rione del comandante».

L’aggressione è testimoniata da un video, mandato in onda nel corso della trasmissione di Raitre «Linea Notte» e poi da “Striscia la Notizia” e “da Le Iene”. Nel filmato, dopo che al cronista viene intimato più volte di consegnare un documento di identità, si vede l’ex ufficiale dei carabinieri (oggi generale dei vigili) che si avvicina a Migliaccio e gli dà uno schiaffo in pieno volto. Solo l’intervento degli altri due giornalisti presenti evita una nuova aggressione ai danni del cronista. Otto minuti di filmato: dall’ingresso al comando al colpo proibito.

«È sconcertante che il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, non abbia sospeso dal servizio il capo della locale Polizia municipale, Luigi Sementa, il quale ha ritenuto di poter convocare nel suo ufficio un cronista di E Polis, Alessandro Migliaccio, e di schiaffeggiarlo perchè era l’autore di un servizio che non risultava gradito non si capisce bene a chi e a quanti». È il monito del segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino.

E poi siamo al paradosso. Undici agenti di polizia in servizio nella sezione «falchi» presso la squadra mobile della questura di Napoli sono stati arrestati dalla polizia. Sono accusati di peculato e falso in atto pubblico. Avrebbero redatto un falso verbale in occasione dell'arresto di cinque rapinatori di generi alimentari. L'arresto dei rapinatori avvenne in flagranza.

Indagini della Procura di Napoli. Le indagini sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli. I provvedimenti richiesti dai pm Paolo Sirleo e Maria Sepe sono stati emessi dal gip Claudia Picciotti.

Falsi verbali per prendersi dei prosciutti. Il 20 febbraio 2010 una pattuglia dei Falchi della Squadra Mobile della Questura di Napoli intervenne nel porto in seguito alla segnalazione di una rapina di un camion carico di prosciutti ed altri generi alimentari. Gli agenti chiamarono in ausilio altri colleghi e compilando un verbale che si è poi rivelato falso. In particolare, i poliziotti, secondo l'accusa, trattennero per loro una parte del carico. Indagini sono in corso da parte della Procura per verificare se si siano verificati altri episodi analoghi.

E POI SIAMO ALL'INVEROSIMILE. QUANDO I FURBI A NAPOLI HANNO SEMPRE RAGIONE.

Il Comune non stampa i verbali e vanno in fumo sei milioni di incasso per violazione del codice della strada.

Oltre al solito timore di un intervento della Corte dei Conti il cui principale obiettivo, come è noto, è quello di verificare i mancati incassi degli enti locali, c’è chi addirittura avanza l’ipotesi di fare scendere in campo la magistratura ordinaria per capire come è stato possibile perdere tanti soldi per la mancata stampa dei verbali.

È certo invece che è scattata l’inchiesta interna all’amministrazione che cercherà di far luce sui ritardi che hanno portato all’ammanco di soldi freschi che a Palazzo San Giacomo avrebbero fatto molto comodo. Il problema è quello storico che in passato ha fatto perdere già altri soldi, vale a dire la mancata lavorazione delle multe perché la ditta incaricata di imbustarli e spedirli a destinazione non ha avuto assegnato il lavoro.

Giova ricordare che l’attuale comandante dei vigili urbani Luigi Sementa ha denunciato già un episodio simile alla Procura che ha aperto un’inchiesta.

AFFITTOPOLI.

Affittopoli napoletana, immobili comunali a partiti politici che però non pagano i canoni .

Da  “Il Fatto quotidiano”: Lo denuncia un'inchiesta del quotidiano locale Cronache di Napoli. Gli articoli sono stati ripresi dall'assessore al Patrimonio che ha iniziato le verifiche. Ad oggi sono 31 gli immobili finiti nel mirino Il cronista scopre l’inghippo e denuncia lo spreco. L’assessore si abbevera alla fonte dei suoi articoli e agisce. Ed è stato così che, leggendo i puntuali reportage del giornalista di Cronache di Napoli, Ciro Crescentini, l’assessore al Patrimonio, Bernardino Tuccillo (Idv) si è accorto che almeno 31 immobili di proprietà del Comune sono stati assegnati a partiti politici che non sborsano i canoni di locazione. “Il danno ammonta a circa un milione di euro”, precisa l’esponente della giunta del sindaco Luigi de Magistris. Ma i meriti della scoperta sono tutti di Crescentini e della sua campagna stampa di fine agosto sull’utilizzo infruttuoso del patrimonio comunale. Lo testimonia lo scambio di messaggi sulle bacheche delle rispettive pagine Facebook. Si legge Crescentini che linka i suoi articoli, e Tuccillo che gli chiede ragguagli e la cortesia di spedirgli la documentazione attinente alle notizie pubblicate affinché gli uffici facciano uno screening.

Detto, fatto. Peraltro, era tutto in rete, sul sito internet dell’amministrazione comunale. Crescentini ha incrociato i dati. “Lo scenario che emerge dai nostri controlli è estremamente grave – dichiara oggi Tuccillo, a tre giorni dalla pubblicazione del primo pezzo – ed il Comune si mobiliterà immediatamente per la riscossione dei crediti vantati. In una congiuntura di seria sofferenza finanziaria tale situazione non è più tollerabile. I partiti politici rappresentano uno strumento essenziale nella vita democratica del Paese e dovrebbero contribuire alla credibilità e al prestigio delle istituzioni, rappresentando esempi evidenti di rigore e di trasparenza”. “Per mettere finalmente a reddito il nostro patrimonio immobiliare – conclude l’assessore – completeremo la ricognizione dei fitti attivi e di tutti i crediti vantati dal Comune. Il nostro patrimonio immobiliare appartiene al Comune ed ai suoi cittadini e non può essere depauperato e svilito così come è avvenuto nel corso di questi anni”.

E non sono soltanto i partiti ad aver approfittato gratis di beni pubblici. Secondo le inchieste di Crescentini, l’amministrazione comunale di Napoli perde ogni anno 11 milioni di euro per il mancato incasso di canoni di locazione di case, negozi, scantinati e terranei concessi gratis o per importi irrisori. Gli evasori vanno cercati anche tra aziende, associazioni culturali, sindacati, enti sportivi e ricreativi. Diversi dei quali diretti da ex consiglieri comunali. La politica che approfitta del proprio potere per evadere ai propri doveri, e strappare ingiusti privilegi. Il sistema, scrive il giornalista di Cronache di Napoli, è quello del comodato d’uso. Per favorire gli amici degli amici. Un sistema proliferato a lungo grazie all’assenza di un’anagrafe degli immobili. Che però è stata infine disposta e preparata dalla Romeo Gestioni, e consegnata da tempo ai dirigenti. I dati ora sono pubblici. La giunta de Magistris sa da dove cominciare per iniziare a ripianare i conti.

ORMEGGIOPOLI

 La Camorra degli ormeggi: un’inchiesta di  “La Repubblica”

Fermarsi nelle acque del Golfo è quasi impossibile. I posti regolari sono pochissimi e questo incentiva il business dell'ormeggio in "nero". Un fenomeno annoso. Molti sono stati regolarizzati ma continuano a comportarsi illegalmente. L'ombra della camorra.

Se sei in barca e decidi di fermarti a Napoli in pieno agosto, è meglio che rinunci ad attraccare. Il posto regolare, pagato a prezzi di mercato, a meno di un colpo di fortuna, non c'è. "Qui non ci sarebbe posto nemmeno per un sandolino, una piccola barchetta a remi di 4 metri per 3 - dice Pippo Dalla Vecchia, patron del circolo Savoia al borgo Marinari, a due passi dal Castel dell'Ovo - quando arriva una barca dall'estero non è possibile nemmeno fargli mettere una cima a terra per fare rifornimento. Riusciamo ad ospitarli solo pochissime volte all'anno, a volte gli offriamo un posto lasciato libero temporaneamente dai nostri soci".

Se poi sei disposto a sborsare una cifra blu e a chiudere un occhio sui permessi e sulla legalità, ecco che le cose cambiano. Basta spendere 150 euro al giorno per una barca da 16 metri, 2.250 euro per due settimane, cinquemila per un mese intero e il gioco è fatto. Un salasso in cambio di un ormeggio abusivo. Poco importa che le imbarcazioni irregolari possano arrivare, in alta stagione, anche a 400. E che quel patrimonio investito per un mese nelle acque del golfo di Napoli possa valere un sequestro e una multa salatissima al proprietario, beffato due volte. "È assurdo, come si fa a sapere se l'ormeggiatore a cui ci si rivolge è in possesso di tutte le autorizzazioni? - si chiede Lino Ferrara, presidente dell'Unione armatori da diporto - nessuno arriva sul pontile con i documenti alla mano".

Ma quello che conta è che a Napoli l'ormeggio illegale è un vero e proprio business. Un affare contrastato dalla Capitaneria di Porto, che negli anni ha tampinato gli ormeggiatori abusivi con sequestri e multe. L'anno scorso, l'ultimo blitz, con tanto di sceneggiata: una lavoratrice tentò di tagliarsi le vene con un coltello proprio davanti ai carabinieri. Con il tempo, molti di quegli ormeggiatori sono stati regolarizzati, hanno ottenuto permessi stagionali proprio nelle aree che hanno occupato per decenni. Posti ambiti: Mergellina, via Caracciolo, Borgo Marinari, Bagnoli. Ma non si sono convertiti: l'illegalità resta nel loro dna. Sono decine le barche che forzano i confini della concessione, centinaia infilate in mezzo a quelle che lì ci stanno per legge. "Legalizzarli era il male minore - dice Luciano Dassatti, presidente dell'Autorità portuale di Napoli - ma purtroppo continuano gli abusi come quello di ormeggiare più barche di quello che è concesso". Sistemano i natanti in doppia e tripla fila, trasgrediscono il codice della navigazione, mettono in pericolo le manovre. Un rischio reale che a Mergellina può arrivare ad ostruire il passaggio degli aliscafi.

È un business di svariati milioni di euro, dove spesso giocano anche gli interessi oscuri della camorra, ma in realtà risolvono in modo criminale la carenza dei posti barca nel golfo. Sono 2.600 le barche bagnate dal mare di Napoli. Quelle ancorate a ormeggi concessi dall'Autorità Portuale di Napoli. Poche, pochissime se si contano le circa 20mila richieste non soddisfatte ogni stagione. Per la cronaca, ecco l'elenco degli ormeggiatori autorizzati, suddivisi per zone: a Nisida e Coroglio sono 5 i concessionari (902 posti), a Mergellina 10 (682), tre campi boa a via Caracciolo (450), un concessionario a via Caracciolo (7), 12 concessionari a Santa Lucia-Borgo Marinari (287), 2 circoli concessionari al Molosiglio (170), 1 circolo concessionario a Posillipo (100) per un totale di 2.598 posti. A questo numero vanno aggiunti 22 posti per le imbarcazioni a vela del charter velico presso la darsena Acton.

"Ma l'offerta dei posti barca è assolutamente inferiore alla richiesta - dice Dassatti - ne abbiamo circa 2.500 ma ne servirebbero almeno 20mila e naturalmente questo incentiva l'abusivismo".

Un'inchiesta del 2008 portò alla luce l'interesse della camorra (clan Alfano, Frizziero, Piccirillo) per il business degli attracchi. Ma ci sono gruppi storici radicati in questo mestiere che si sono guadagnati il soprannome di "rangetielli" perché lavorano sugli scogli.

Nel 2008 un'indagine coordinata dal magistrato Raffaele Marino, ora aggiunto alla Procura di Torre Annunziata, rivelò quanto i clan della camorra puntassero sulla gestione dei pontili. L'indagine si avvalse dalle confessioni di alcuni pentiti che rivelarono gli interessi sul racket dei moli delle famiglie Alfano, Frizziero e Piccirillo.

Ma, oltre alle parentele, contano i luoghi dove insistono le storiche famiglie di abusivi. Spesso in zone strategiche, e soprattutto geograficamente vicini ad avamposti della legalità. Ci sono gli ormeggiatori (ora legalizzati) che si trovano di fronte al consolato americano, in via Caracciolo, sul lungomare. Sono gli stessi che hanno un campo boa a pochi metri di distanza, attaccati alla biglietteria dell'Alilauro da dove partono gli aliscafi per le isole. A Santa Lucia ci sono le famiglie Bianco e Presutto, chiamate i "rangetielli" (granchietti).

Altri insistono sul lungomare di Bagnoli, la storica cittadina della fabbrica dismessa dell'Italsider: qui centinaia di barche sono ormeggiate proprio vicino alla Guardia di finanza. A pochi passi c'è "Manomozza", oggi ormeggiatore autorizzato. A Vigliena, il vecchio porto a san Giovanni a Teduccio, per anni ha lavorato Raffaele D'Orazio, si è convinto ad andare via solo con la promessa di avere un ruolo nella costruzione del nuovo porto turistico. Ma il progetto è fermo da anni.

Gli unici abusivi più resistenti alla legalità sono i più piccoli: a piazza Vittoria, nel mezzo del lungomare Caracciolo sostano una ventina di barche, a Riva Fiorita a Posillipo una cinquantina. Ogni anno i sequestri, ogni anno gli abusi.

"I troppi no favoriscono l'illegalità. Dobbiamo migliorare le strutture". Parla Massimo Luise, titolare di uno dei moli più importanti: "Non basta vietare. Vediamo di costruire qualcosa in positivo, migliorare l'esistente. Ogni idea si è arenata sui veti incrociati. E gli abusivi prosperano". Il tema dei lidi.

Qualsiasi intervento sulla costa richiede l'ok della Soprintendenza: la linea dell'affaccio di Napoli sul mare è vincolata perché riporta il vecchio disegno del molo borbonico. "Sono stati detti troppi no, soprattutto dalla Soprintendenza - dice Massimo Luise, titolare di uno dei moli più importanti della città - questo ha creato l'illegalità, ha frenato sviluppo e lavoro. No, per me l'abusivismo è un capitolo chiuso, regolarizzare è stato giusto ma ora basta parlare di illegalità. Parliamo di come migliorare le strutture esistenti e, per esempio, di come dare finalmente al porto di Mergellina una cabina di energia".

Negli anni precedenti, le proteste degli abusivi sulla questione pontili, avevano scatenato polemiche e inaugurato un dibattito con esperti del paesaggio di Italia Nostra e politici del tempo come l'ex assessore ai Trasporti Ennio Cascetta che proponeva un piano di ristrutturazione di quel pezzo di costa a Mergellina, con campi boa e pontili galleggianti. Ma alla fine, tutto naufragò, tra le polemiche degli ambientalisti, i diktat della Soprintendenza e la bocciatura del Tar.

Stesso discorso per i lidi. Interi stabilimenti vengono sequestrati una, due, tre volte. Ma dopo pochi giorni i gestori fuorilegge ritornano al loro posto. La Guardia costiera sequestra centinaia di sdraio, lettini e ombrelloni ma due giorni dopo lo stabilimento fuorilegge ricompare, come se niente fosse. Soltanto una settimana fa, la Guardia Costiera ha portato via due tir di ombrelloni e sdraio nella zona di Coroglio e Bagnoli. Ma i bagnanti sono ritornati sulle spiagge sequestrate. Così il meccanismo continua all'infinito. Nessuno vuole rinunciare al risparmio (due euro per un lettino, uno per una sdraio), così si finanzia l'abusivismo.

PARCHEGGIOPOLI

Napoli, dossier sui parcheggiatori abusivi: «Piazze e strade sotto il controllo dei clan».

Prosegue la campagna diretta dal generale Sementa al contrasto dell’azione dei parcheggiatori abusivi. È pronto un dossier, destinazione Procura della Repubblica, con il quale si fotografa lo stretto legame tra i parcheggiatori abusivi e i clan.  Una vera e propria «mappa del malaffare», che spiega anche l’arrogante resistenza che i parcheggiatori, identificati e denunciati, continuano ad opporre alle forze dell’ordine. Incuranti di tutto dopo pochissime ore riprendono il loro posto e tornano ad estorcere. In ogni zona l’abusivo o è stato sistemato direttamente dalla camorra e gira gli introiti al clan oppure, se occupava il posto da più tempo, è costretto a versare la percentuale sugli incassi.

E nel dossier che i vigili hanno presentato in Procura, si parla di un centro cittadino controllato dalle famiglie dei Misoo e dei Mazzarella, mentre le cosche di Secondigliano avrebbero sotto controllo la sosta selvaggia della zona ospedaliera.

MORTOPOLI

Napoli, dossier sui cimiteri comunali giro: infinito di affari sul «caro estinto».

I cimiteri di Napoli sotto la lente di una commissione comunale per otto mesi: vengono fuori loculi che crollano lasciando resti mortali a vista; la allarmante carenza delle fosse, e la generale difficoltà degli espropri; cappelle cedute in usufrutto per camuffarne la compravendita e aggirare l'amministrazione (unica che può vendere e comprare); la concorrenza sleale fra le ditte di trasporto. Mentre la cura del defunto, anche dopo dalla morte, cara all'usanza popolare, si presta a ogni sorta di speculazione. E la cremazione, nel capoluogo campano, è ancora oggi impossibile.

La commissione d'indagine presieduta da Andrea Santoro tira le somme del suo lavoro partendo dalla prima difficoltà incontrata: «In 6 mesi, sulla materia, si sono avvicendati ben tre assessori: prima Dolores Madaro, poi Giorgio Nugnes ora Sabatino Santangelo», spiega il consigliere di An. Domani consegnerà al sindaco la relazione che, approfondita, potrebbe diventare un «atto di indirizzo».

L'ultimo caso di «salma abusiva» venuto fuori nei giorni scorsi in una cappella privata non è affatto unico: «Ne ho denunciato uno analogo alla polizia cimiteriale. C'è gente che trascorre la vita dentro i cimiteri, e quando si sa che un loculo è vuoto da tempo c'è chi decide di destinarlo diversamente».

Un dettaglio nel mare di abusi e nel «giro di affari infinito che riguardano la morte» a Napoli, denunciato in un dossier di 30 pagine. Ci sono i furti a Chiaiano; le strutture fatiscenti di Barra, dove i loculi crollano lasciando i resti in vista; la carenza cronica di fosse a Soccavo; le peculiarità di Pianura che ha ospitato per anni «salme in appoggio» mentre vede una «fiorente produzione di marmi»: la copertura delle fosse ricade sul cittadino, laddove l'inumazione dovrebbe essere gratuita. Alla fine Santoro propone: «Il Comune non ce la fa a gestire i cimiteri: bisogna esternalizzare i servizi a privati o affidare tutto a una municipalizzata, come avviene a Roma». Non solo: «I cimiteri per il 90% appartengono alla Curia. Bisognerebbe costituire un soggetto unico, insieme: non tocca a me decidere chi dovrebbe essere il maggiore azionista».

Ecco alcuni punti che trapelano dal dossier.

Ditte di trasporto:  per la commissione andrebbe approfondito il radicamento di alcune ditte in alcuni cimiteri. I cartelli. Le procedure di autorizzazione sono frammentate, e rendono difficile appurare se le ditte - 43 quelle che hanno risposto alle verifiche del servizio cimiteri, «che però non dà alcun riscontro» - operino in regola. L'abolizione della tassa a carico delle ditte, per i sindacati, ha portato 2 milioni di euro in meno nelle casse del Comune.

Cremazione: chi voglia far cremare un proprio caro - le richieste a Napoli nel 2008 sono state 1000, di fronte alle 12 del 1991 - deve andare a Montecorvino Pugliano, nel Salernitano, e pagare una tassa di uscita per la salma e una tassa di rientro per le ceneri; la spesa è di 400 euro. Eppure da 10 anni è in costruzione l'impianto napoletano: bloccato in passato perchè non rispettava i vincoli della soprintendenza. Ora parte un nuovo appalto, con uno stanziamento dell'aprile 2008 di 2 milioni 880 mila euro. Per l'opera, ne sono già stati spesi 1 milione 200 mila.

Carenza nicchie e fosse: Un problema che si è amplificato con la nuova legge; dal 1 gennaio 2008 è previsto che le salme restino interrate per almeno 5 anni; prima bastavano 20 mesi, il che però dava adito a «procedure barbare»: i cadaveri non ancora mineralizzati venivano dissotterrati e rinterrati. Intanto chi vuole vendere la sua cappella, deve interfacciarsi col Comune, che poi rivende: sono moltissimi i casi di atti notarili di usufrutto ceduti a terzi, per camuffare le compravendite e aggirare la procedura legale.

Seppellitori: centinaia di soggetti ruotano attorno alle attività di seppellimenti, inumazione ed esumazione delle salme. Non si tratta dei dipendenti comunali però, in molti casi troppo anziani per queste mansioni: è ambigua la posizione dei seppellitori che lavorano in cooperative, e lavorano grazie alle regalie dei cittadini; «praticamente abusivi; si definiscono precari».

AMBIENTOPOLI

L'emergenza rifiuti in Campania ha permesso di costruire gigantesche fortune  politiche. Che condizionano le istituzioni a livello nazionale. La denuncia del giudice Raffaele Cantone in un libro-inchiesta.

Dalla convivenza alla connivenza, scrive Gianluca De Feo su "L'Espresso". Il rapporto tra ceti borghesi e mafie sta cambiando, dando vita a una nuova forma di collusione: una grande zona grigia in cui cosche e professionisti vivono in osmosi, nelle regioni del Sud e non solo in quelle. Perché la criminalità è così organizzata da risolvere tutti i problemi: non ha più bisogno di minacciare, oggi offre servizi apprezzati e competitivi. E medici, architetti, commercialisti formano i ranghi delle nuove famiglie: sono "I Gattopardi", le figure a cui le mafie si stanno affidando perchè - parafrasando il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - tutto cambi affinchè tutto rimanga com'è. È questa la realtà descritta ne "I Gattopardi", un libro-intervista che unisce l'esperienza di Raffaele Cantone, per un decennio pm impegnato nel contrasto alla camorra e autore delle indagini su molte delle vicende descritte in "Gomorra", e quella di Gianluca Di Feo, caporedattore de "L'espresso" che da vent'anni si occupa di inchieste sulle mafie. Ecco uno stralcio del capitolo dedicato al rapporto tra politica e clan.

«La vicenda da cui poter partire per illustrare il rapporto fra la politica campana e la criminalità organizzata è l'emergenza rifiuti; si è trattato, di sicuro, dell'affare più grande degli ultimi anni gestito direttamente o indirettamente dalla politica, che ha visto un ruolo centrale dei clan. Come accade in tutte le emergenze italiane è stato riversato un vero fiume di denaro pubblico; sono state create strutture speciali a cui è stato concesso di assumere personale in deroga alle norme che prevedono concorsi e selezioni, pescando nelle liste dei disoccupati napoletani e dei lavoratori socialmente utili. Quella stessa emergenza ha consentito pure di inventare consorzi e strutture miste pubblico-privato con consigli di amministrazione e organismi di controllo che si sono spesso trasformati in un modo per distribuire incarichi e prebende a uomini legati a doppio filo ai politici. Non credo di esagerare se affermo che il sistema dell'emergenza rifiuti in Campania per almeno un decennio è stato uno dei principali elementi su cui si sono costruite fortune imprenditoriali e politiche a livello regionale e nazionale».

E in tutto questo gioco di discariche, affari e partiti all'ombra dell'emergenza rifiuti, la camorra che cosa c'entra?
«La camorra, purtroppo, c'entra eccome! Per rendersene conto, basterebbe partire dal numero di ditte che si occupano di rifiuti, che sono diretta emanazione dei clan camorristici o pesantemente infiltrate dagli stessi. E la presenza criminale emerge anche da tante indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli; quelle di cui sono a diretta conoscenza vedono come attori chiave della partita camorristi, imprenditori che a loro fanno direttamente riferimento, politici e uomini delle istituzioni. Mi viene subito in mente un caso: i fratelli Orsi, Michele e Sergio, nativi di Casal di Principe, originariamente operanti nel settore edilizio, che alla fine degli anni Novanta cominciano a occuparsi di rifiuti e che in quel settore fanno grandi affari, finchè vengono arrestati per associazione camorristica e poi uno di essi viene persino ammazzato dai casalesi, quando inizia una timida collaborazione con la giustizia. I fratelli Orsi erano i titolari della società che riesce a vincere l'appalto per diventare partner privato del consorzio Ce4, ritenuto di riferimento del centrodestra: il presidente di questo consorzio ha riconosciuto senza mezzi termini di essere stato messo lì da Forza Italia ed è lui che ha preparato il bando che ha consentito agli Orsi di vincere l'appalto. Attorno a quell'appalto si accenderà poi una controversia, mediata dai casalesi, che vede protagonisti personaggi capaci di incidere sugli equilibri politici non solo locali".

Uno scontro in una società dei rifiuti della provincia casertana, infiltrata dalla camorra e gestita da figure imprenditoriali di secondo piano, sarebbe stato in grado di condizionare la politica nazionale?

«Per la scelta del partner imprenditoriale del consorzio si sfidano in pratica due società: alla ditta degli Orsi si oppone l'azienda di Nicola Ferraro, un altro soggetto di Casal di Principe che da sempre si occupa di rifiuti e di discariche, imparentato alla larga anche con il padrino Francesco "Sandokan" Schiavone. Dal punto di vista politico la famiglia Ferraro è sempre stata legata a Forza Italia: uno zio di Nicola è stato vicepresidente della Regione eletto nelle liste berlusconiane e vicino all'onorevole Cosentino. L'azienda guidata da Nicola Ferraro e dal fratello Luigi partecipa alla gara ma si trova davanti un appalto costruito per far vincere gli Orsi. Nicola Ferraro, che conosce bene il settore, si rivolge a un avvocato per predisporre il ricorso ma a quel punto subisce pesanti intimidazioni per spingerlo a rinunciare all'appello: intimidazioni che vengono direttamente da una parte dei casalesi, e in particolare da quella fazione più violenta che fa capo alla famiglia Bidognetti, i quali hanno evidente interesse a favorire gli Orsi. Di sicuro Ferraro attribuisce grande importanza a questo appalto e poco dopo la sua esclusione sceglie di impegnarsi in politica».

Quindi un imprenditore dei rifiuti, con legami a Casal di Principe, dopo essere stato escluso dall'appalto e in qualche modo intimidito dalla camorra, decide di fare politica in prima persona. E con quali effetti sulla situazione campana?
«Già nelle elezioni per la Provincia di Caserta del 2005 Nicola Ferraro, e tutto il blocco di consenso che rappresenta, sostiene l'Udeur e quindi il centrosinistra. La Provincia di Caserta era indicata come un feudo del centrodestra e persino la più azzurra d'Italia. In quella tornata, fra l'altro, in campo scende un pezzo da novanta di Forza Italia, l'onorevole Nicola Cosentino, proveniente da Casal di Principe e uomo di punta del partito. Il suo rivale è un esponente di rilievo della politica casertana, Sandro De Franciscis, già parlamentare della Margherita che in quel periodo era confluito proprio nell'Udeur di Clemente Mastella. I pronostici sembravano tutti a favore di Cosentino e invece il vincitore fu De Franciscis con un 7 per cento circa di voti in più. I voti dell'Udeur sono quindi determinanti e il peso di Nicola Ferraro certamente si avverte, quantomeno nella zona di Casal di Principe».

Quindi la decisione di Ferraro di schierarsi con l'Udeur, con il suo consenso personale di imprenditore e con l'aiuto della camorra casalese, ha avuto un ruolo significativo nelle elezioni provinciali e regionali. Ma che cosa c'entra la politica nazionale?
«Perchè non passa un anno e Nicola Ferraro riscende di nuovo in campo: siamo nel 2006 e Ferraro viene candidato al Senato in Campania. Leggere oggi quello che è accaduto in quel periodo, alla luce delle intercettazioni telefoniche e ambientali contenute nell'ordinanza cautelare che ha colpito Ferraro nel giugno 2010, è davvero istruttivo. Ferraro viene candidato in posizione alta della lista, insufficiente a farlo eleggere ma sufficiente comunque a fargli sfiorare il seggio di Palazzo Madama. È il primo dei non eletti e se la legislatura fosse proseguita probabilmente sarebbe riuscito a diventare parlamentare. Non ho un quadro completo dei risultati elettorali, ma la risicata maggioranza dell'Ulivo al Senato poteva contare sulla vittoria e il conseguente premio di maggioranza incassato dalla coalizione in Campania; in questa regione è indubitabile che il contributo dell'Udeur sia stato determinante e in questo abbia avuto un peso anche l'ottimo risultato ottenuto da quel partito in provincia di Caserta. Certo, guardando adesso i fatti di quel concitato momento, si può notare una stranezza: la provincia di Caserta, in genere non particolarmente importante nelle dinamiche nazionali, aveva assunto in quella fase un ruolo centrale. Tra l'altro, era stata l'ultima provincia d'Italia che aveva fornito i risultati elettorali che portarono alla vittoria del centrosinistra».

Stiamo parlando di un momento fondamentale nella storia del Paese. Nel 2006 la sorte del governo fu decisa da una manciata di schede: al centrosinistra di Romano Prodi andò il 49,81 per cento dei voti, allo schieramento berlusconiano il 49,74. Ogni singola scheda ha pesato per condizionare le sorti della nazione. Controllare la macchina dell'emergenza rifiuti permetteva di pilotare fondi e assunzioni, che in Campania si trasformano in voti. E allo stesso tempo offriva anche un ruolo politico, perche l'amministratore locale dimostrava alle autorità di Roma di sapere risolvere il problema principale della regione.
«Non credo di esagerare se affermo che la centralità della provincia di Caserta in quegli anni chiave dell'emergenza rifiuti sia legata a questo. C'è un dato emerso nelle indagini che lo conferma: quando nei periodi di massima crisi si cercano siti per accatastare milioni di ecoballe - che non potevano essere bruciate non solo perche non esisteva ancora un termovalorizzatore, ma perche erano state assemblate senza il rispetto delle regole tecniche - questi spazi vengono trovati in gran parte in un'area a cavallo tra Casertano e Napoletano ma sempre in provincia di Caserta. È un momento in cui, come in queste settimane, la realtà sociale ribolle di proteste dei cittadini che non vogliono saperne di ospitare siti per i rifiuti e invece in quella zona i depositi vengono allestiti senza problemi. È sorprendente notare come si siano trasformate quelle zone, in cui sono stati accumulati milioni di ecoballe: prima erano campi coltivati, adesso a guardarle dall'alto si vede questa mole sterminata di buste azzurre che somiglia a un fiume, un lungo fiume di spazzatura triturata avvolta nella plastica blu. Questa era la centralità della provincia di Caserta: nel momento in cui ci si ritrova in un meccanismo senza fine come quello dei rifiuti, chi e' in grado di darti soluzioni - anche mediando con tutta una serie di personaggi a dir poco discutibili - assume un potere rilevante dal punto di vista sociale, politico ed economico».

Anche contro l'onorevole Nicola Cosentino è stato emesso un mandato di cattura per concorso esterno in associazione camorristica, contestando il suo ruolo nell'emergenza spazzatura.
«Senza dubbio la parte più interessante di quel provvedimento riguarda il ruolo che Cosentino ha avuto nell'affaire rifiuti; il suo intervento nelle attività del consorzio Ce4, tanto che, secondo il pentito Vassallo, Cosentino avrebbe persino detto "Il consorzio Caserta 4 sono io". In base a quanto emerge dall'ordinanza, Cosentino avrebbe anche avuto un ruolo nell'individuare il luogo dove far sorgere il termovalorizzatore in provincia di Caserta. In quel provvedimento viene poi ricostruita un'altra vicenda molto importante; la creazione di un super consorzio, denominato Impregeco, che avrebbe messo insieme i consorzi di destra e di sinistra, per una gestione bipartisan dell'emergenza, che aveva evidentemente benedizioni ampie. La spazzatura è politicamente colorata e per gestirla al meglio si crea una struttura "arcobaleno" che accontenti tutti».

“Il problema vero dei rifiuti a Napoli sta nell’inadeguatezza di un ceto politico che non sa cosa fare, che non ha la preparazione tecnica e culturale per affrontare la situazione, che non ha mai fatto un giro nei paesi del Nord Europa per imparare come si fa, scrive Claudia Daconto su "Panorama". Chi governa qui è gente che a stento sa parlare in italiano”. A sostenerlo su “Panorama” è Francesco Durante, giornalista del Corriere del Mezzogiorno e autore del libro “Scuorno (vergogna)”, edito nel 2008 da Mondadori all’epoca della prima emergenza rifiuti.

Napoli è tornata a puzzare. La protesta è esplosa di nuovo come anni fa quando i cumuli di monnezza arrivarono a sfiorare i primi piani delle abitazioni mentre nessuno voleva che i rifiuti propri e degli altri finissero nelle discariche o negli inceneritori dietro casa loro. Allora il governo, fresco d’insediamento, mise in campo risorse straordinarie. Napoli fu addirittura scelta come sede del primo Consiglio dei ministri. Poi, una volta rimossi i cumuli di rifiuti, mentre qualcuno si illudeva che tutto fosse ormai a posto, la situazione ha ripreso a sfuggire di mano fino al caos con gli assalti ai camion, i poliziotti feriti, le minacce, i roghi, le proteste della popolazione e dei sindaci e il solito scaricabarile della politica. “La vergogna dei rifiuti che invadono la città sta anche negli occhi di chi ci guarda come spiando dal buco della serratura con una certa soddisfazione perché – dice Durante - è quasi rassicurante che tutto ciò succeda a Napoli”.

Perché rassicurante?
Perché Napoli è vissuta sempre come un’eccezione negativa, l’unico luogo dove è normale che succeda quello che succede anche se la stessa emergenza ha riguardato Palermo, Lecce e altre importanti città. Eppure né i giornali né la televisione hanno mai dedicato a queste realtà lo stesso spazio riservato a Napoli che, di fatto, fa più notizia per la dimensione teatrale che spesso assume la protesta.

Secondo l’ex commissario straordinario Bertolaso dietro a quelle degli ultimi giorni ci sarebbe la regia della camorra. Il procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore, però, non è d’accordo: “Non c’è nessuna evidenza di legami con i clan”, ha detto. Lei che ne pensa?
La camorra a Napoli c’è e c’è sempre stata. Le amministrazioni però, di centro-sinistra prima e di centro-destra poi, tendono a tirarla fuori quando più gli fa comodo.

A gennaio 2010 Bertolaso ha deciso che i tempi fossero maturi per una gestione autonoma da parte di Comuni e Province. Stanchezza dopo due lunghi anni di lavoro o grave errore di valutazione?
Senza dubbio il ritorno ad una gestione ordinaria dovrebbe essere sempre consigliato anche perché il commissariamento della Campania ha assunto una dimensione faraonica producendo l’ingigantimento di strutture che per funzionare al meglio dovrebbero essere il più agili possibile. A me pare che Bertolaso abbia fatto una specie di fuga alla pari di Bassolino quando rinunciò ai poteri commissariali. E’ stato sicuramente un gesto prematuro perché le province non erano ancora attrezzate per fare da sole.

Gli appalti e subappalti nel sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti, lo scarso funzionamento del termovalorizzatore di Acerra che da anni lavora al 30%, l’incapacità di fare la raccolta differenziata: qual è l’ostacolo più grande a una gestione efficace dei rifiuti in Campania?
Io penso che il problema più grande stia nella mancanza di impianti di compostaggio. Ce n’è uno solo a Salerno e sarebbe urgente costruirne altri. Sui termovalorizzatori ci sono sempre stati pareri discordi: tutti sanno che servono ma nessuno vuole che siano costruiti vicino a casa propria. Quello di Acerra funziona a singhiozzo. Dovrebbe essere continuamente alimentato e pur avendo 6 milioni di eco balle a Giuliano che servirebbero, appunto, ad alimentarlo, quelle restano a terra.

Perché il termovalorizzatore di Acerra non funziona ancora a regime?
Perché c’è stato un errore tecnico che l’azienda bresciana A2A si era incaricata di risolvere al più presto ma per cambiare i refrattari dei due forni, dove sta il problema, servono moltissimi soldi che ad oggi ancora non sono stati stanziati.

E per quanto riguarda la raccolta differenziata, perché a Napoli non si riesce a farla nemmeno nei piccoli centri?
Guardi, in Campania abbiamo alcuni comuni virtuosi con l’85% di differenziata. Faccio l’esempio del comune dove risiedo io: Anacapri. Ecco, tutto funziona al meglio finché non arriva l’estate quando i napoletani borghesi e benestanti, che hanno le seconde case al mare e vengono qua, fanno saltare tutto. E lo ripeto, non si tratta di gente di basso livello sociale, ma dell’alta borghesia napoletana.

Alta borghesia indisciplinata?
Alta borghesia ignorante e indisciplinata. Lei sa da noi come si fa a disfarsi di un materasso o di una televisione vecchia?

Posso immaginare…
Ecco, mentre in altre città si chiama l’azienda e si aspetta che passi a ritirare quello che bisogna buttare, qua il materasso lo lasciamo in mezzo alla strada, perché non abbiamo pazienza.

Forse anche perché nessuno si prende la briga di sanzionare questi comportamenti…
Esatto, bisognerebbe stroncare il malcostume alla radice. Un malcostume che è di tipo culturale e antropologico. Una cultura inadeguata alla modernità e che tutti continuano ad alimentare senza che nessuno ci corregga.

Perché nessuno lo fa?
Perché a chi ci governa interessa solo di restare al comando e per farlo ha bisogno di compiacere il proprio bacino elettorale, non di educarlo.

Cinque milioni di ecoballe fuori legge, un miliardo e mezzo di euro spesi in 11 anni dal commissariato di governo e altri 80 milioni stanziati a giugno 2008 dal governo: sono le cifre che segnano l’ennesima débâcle dello Stato in terra di Camorra. Quella che è stata chiamata “emergenza rifiuti” si sta rivelando sempre più una grande truffa di cui hanno beneficiato amministratori corrotti, malavitosi, imprenditori più o meno vicini agli uni e agli altri: lo sostengono i magistrati in una serie di inchieste intrecciate che, tassello dopo tassello, ne stanno ricostruendo la storia.

L’inizio della crisi. Tutto comincia nel 1994 quando, dichiarato lo “stato di emergenza”, il governo nomina il primo commissario che ha il compito di tamponare la crisi. È solo nel 1996 che i poteri si ampliano e passano al presidente della Regione che in quel momento in Campania è Antonio Rastrelli. Ed è la sua amministrazione che organizza il bando di gara per appaltare la gestione di un ciclo integrato dei rifiuti. Le procedure vanno avanti con il suo successore, Andrea Losco (Udeur) e vengono concluse da Antonio Bassolino (Ds) che affida il tutto a un consorzio di ditte formato da cinque imprese associate alla Impregilo (Impregilo International, Fibe, Fibe Campania, Fisia Impianti, Gestione Napoli). Le stesse che a giugno 2007 ricevono dal gip Rosanna Saraceno l’interdizione a stipulare contratti con la pubblica amministrazione per un anno in materia di smaltimento della spazzatura e il sequestro preventivo di 753 milioni di euro.

I pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo cominciano a indagare nel 2002 dopo una denuncia del senatore di Rifondazione comunista Tommaso Sodano. Cinque anni dopo arriva il primo provvedimento del gip con conclusioni durissime per le imprese, ma non solo. Per il magistrato le aziende «con artifici e raggiri» hanno eluso i contratti, falsificato i risultati delle analisi, bloccato gli impianti per far crescere l’emergenza. Il tutto «con la complicità, se non la connivenza, di chi aveva l’obbligo di intervenire». Non a caso le indagini, dalle quali si aspettano nuovi sviluppi, hanno coinvolto il governatore Bassolino e molti dirigenti della struttura commissariale.

Con l’alibi dell’emergenza. Nel 2000, infatti, il presidente della Regione firma con il consorzio un contratto, che non sarà mai rispettato dalle ditte né disdetto dal commissariato che, invece, sostiene la tesi dell’emergenza infinita inventata dall’impresa per giustificare le proprie inadempienze. Impregilo e soci avrebbero dovuto costruire sette impianti di produzione di Cdr, ovvero di combustibile derivato dai rifiuti (e lo hanno fatto), edificare due impianti per la termovalorizzazione del combustibile (ne hanno realizzato uno solo, quello contestatissimo di Acerra), gestire tutti i rifiuti prodotti in Campania. La spazzatura doveva diventare materiale da bruciare (32%), compost destinato al recupero ambientale (33%), scarti ferrosi (3%) e solo il 14% doveva finire in discarica. Sette anni dopo non solo la Campania brulica di buche piene d’immondizia, ma l’emergenza è diventata un enigma che non trova soluzione. Anche perché quella che esce dagli impianti di Cdr è spazzatura triturata. Tanto che il prefetto Pansa (che ha preso il posto del precedente commissario, il capo della protezione civile Guido Bertolaso) ha deciso di far trasportare parte dei rifiuti direttamente in discarica.

Tutti le trasportano, nessuno le brucia. Le ecoballe, lo dimostrano le indagini, di eco non hanno proprio nulla. Si tratta, invece, di immondizia chiusa in buste di plastica che non sarà mai possibile bruciare nel rispetto delle norme attuali. Il materiale prodotto dai Cdr doveva avere per contratto al massimo il 15% di umidità. Il decreto Ronchi prevede una percentuale del 25%. La spazzatura che esce dagli inceneritori supera il 30. E la quantità di rifiuti che esce dai sette inceneritori è maggiore di quella in entrata a causa degli additivi. Un disastro. In compenso solo per ospitare le cosiddette ecoballe bisogna occupare 40mila metri quadrati ogni mese. E così il commissariato ha dilapidato milioni di euro per inviare le balle al nord o addirittura all’estero, ma nessuno le ha volute perché bruciarle è impossibile. Eppure il contratto prevedeva, come ricorda il gip Saraceno «l’obbligo di assicurare, nelle more della realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, il recupero energetico mediante conferimento del Cdr in impianti esistenti». Insomma, in attesa di costruire l’impianto di Acerra il cartello Impregilo avrebbero dovuto smaltire le ecoballe a proprie spese, ma nessuno ha preteso il rispetto di questa clausola e la spazzatura impacchettata è diventata lo scoglio che fa naufragare ogni speranza di superare la crisi. Non basta. Il subappalto del trasporto di materiali prodotti dagli impianti era vietato, ma solo sulla carta. Le numerose emergenze hanno fatto proliferare le deroghe e il servizio è stato appaltato a una partecipata dei Comuni dell’area Nord (Impregeco), che non avendo, però, i mezzi necessari lo ha a sua volta subappaltato a una miriade di padroncini. E così davanti agli inceneritori restano per ore, ma a volte anche per giorni, camionisti pagati in nero.

Impianti fermi? È tutto programmato. A costituire l’inferno in cui si dibattono i napoletani hanno, sempre secondo i magistrati, collaborato i responsabili del commissariato. Sono stati loro a non vedere (o a non voler vedere) che le apparecchiature montate nei Cdr erano diverse da quelle progettate, che ai rifiuti veniva aggiunta plastica per renderli più secchi, che le analisi sui prodotti venivano falsificate. Tutto in nome dell’emergenza. Tanto che il sub-commissario Raffaele Vanoli nel 2002 in previsione dell’estate dispone un prolungamento dell’orario di apertura degli impianti e decide che le verifiche sul Cdr prodotto siano spostate al momento di incenerire le balle. Si domandano i giudici: come faceva Vanoli a sapere che i cumuli di rifiuti per le strade sarebbero cresciuti? Una risposta viene dalle intercettazioni sulle linee dei dipendenti della Fibe. Scrive Rosanna Saraceno nella sua ordinanza: «Dalle intercettazioni emerge che il fermo degli impianti e il blocco nella ricezione dei rifiuti era programmato e attuato quale strumento di pressione verso la struttura commissariale». Tra gennaio e giugno del 2007 l’inceneritore di Caivano si è bloccato 30 volte, venti perché non c’era possibilità di sversare i rifiuti, dieci per incidenti vari.

Intanto c’è chi, con i rifiuti, si ingrassa. L’emergenza, poi, giustifica fitti e subappalti senza gare: e i costi lievitano. Così finisce che la Campania sommersa dalla spazzatura paghi la tassa sui rifiuti più cara d’Italia. Né c’è da meravigliarsi visto che, tanto per fare un esempio, nei diciotto consorzi di bacino della regione sono stati assunti 2300 ex Lsu (lavoratori socialmente utili, ndr.) che dovevano lavorare alla differenziata mai decollata e che quindi hanno fatto poco e niente, ma sono stati sempre pagati costando circa 55 milioni di euro all’anno. E molti sono stati assunti perché iscritti in liste di disoccupazione compilate grazie a un accordo trasversale tra le forze politiche, come sostengono i giudici che hanno indagato su molti leader dei senza lavoro. Ben 367 di questi lavoratori fantasma dipendono dal bacino 5 che però non è mai stato costituito. E l’Asia, la società mista che raccoglie l’immondizia a Napoli, lavora senza aver mai firmato un contratto di servizi e subappalta la raccolta del centro città ad altre due società. Non va meglio in provincia dove molti Comuni sono stati sciolti (tra questi Crispano, Casoria, Tufino, Pozzuoli, Melito) per aver affidato il servizio di nettezza urbana a società ritenute dal Gia (Gruppo interforze antimafia) vicine alla Camorra. Il commissario di governo a Casoria ha dovuto azzerare i vertici della partecipata del Comune dopo l’informativa della prefettura che parla di possibili ingerenze della criminalità organizzata. Anche la Pomigliano Ambiente nel giugno 2006 è stata interdetta dal prefetto perché sospettata di servirsi di una società di servizi accusata di collusioni con associazioni camorristiche, ma a novembre il Tar ha accolto il ricorso della società, il provvedimento di interdizione è stato revocato e l’azienda ha ripreso l’attività come molte altre imprese finite nel mirino della prefettura e “riabilitate” dalla giustizia amministrativa. Ad aprile, però, la Dda ha aperto una nuova inchiesta. Il pubblico ministero Maria Antonietta Troncone indaga su una serie di lavori appaltati con il criterio della somma urgenza.

Favori a parenti e “amici”. Del resto, secondo la commissione parlamentare d’indagine sul ciclo dei rifiuti guidata dal senatore Roberto Barbieri (Gruppo misto), la stessa struttura commissariale non è stata impermeabile alla Camorra: «Gli elementi informativi assunti durante le audizioni, soprattutto quelle dei magistrati della procura della Repubblica di Napoli, nonché la documentazione acquisita con riferimento alle indagini che hanno interessato la struttura commissariale – è scritto nella relazione sulla Campania – hanno rappresentato un quadro nel quale la criminalità organizzata, soprattutto nella sua articolata dimensione imprenditoriale, ha assunto un ruolo che desta preoccupazione». Una preoccupazione più che fondata se si considera che a maggio è stato arrestato il sub-commissario Claudio De Biasio: insieme a Giuseppe Valente, presidente del Ce4 (in quota Forza Italia), fino al commissariamento del consorzio, avrebbe favorito imprese legate alla malavita. I due, secondo i pm della Dda di Napoli, Raffaele Cantone e Alessandro Milita, avrebbero favorito le ditte dei fratelli Sergio e Michele Orsi a loro volta finiti in manette e indicati da numerosi pentiti come vicini al clan dei Casalesi. Con queste imprese il consorzio di bacino ha costituito una società mista, la Eco 4, incaricata della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Alla Eco 4 non è stata concessa la certificazione antimafia perché l’amministratore delegato, Sergio Orsi, è ritenuto vicino ai clan. I giudici hanno ricostruito la vicenda passo passo a cominciare dal bando di gara che privilegiava le società formate da giovani e da donne. Una clausola che ha permesso agli Orsi di spiazzare l’altra impresa che aspirava all’appalto. Poco prima del bando, infatti, è stata formata una società, la Flora ambiente, amministrata dall’allora ventunenne Elisa Flora, figlia di Sergio Orsi. L’impresa, che non aveva alcuna attrezzatura, creò un’associazione temporanea con aziende che avevano, invece, i mezzi per operare e riuscì a vincere la gara e ad aggiudicarsi il servizio guadagnando (illecitamente secondo i giudici) più di dieci milioni di euro, nove solo vendendo al commissario un pacchetto azionario a un prezzo enormemente superiore al valore reale. Nell’inchiesta entra anche il camorrista Augusto La Torre. È lui a raccontare ai giudici di aver imposto ai fratelli Orsi una tangente di 15 mila euro al mese e di aver concordato la cifra grazie al comune amico Francesco Bidognetti, capo dell’omonimo clan.

Un impero all’ombra dei clan. Ma i fratelli non sono amici solo dei malavitosi. Nella loro agenda figura anche Angelo Brancaccio, dei quali erano anche compagni di sezione. I due, infatti, erano iscritti alla sezione dei Ds di Orta di Atella, paese di cui Brancaccio era stato a lungo sindaco prima di diventare consigliere regionale e segretario della presidenza del governatore Bassolino ed essere infine accusato di estorsione, peculato e corruzione.

E non finisce qui: 37 milioni di euro sono passati dal commissariato di governo direttamente nelle tasche di Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore candidato per Forza Italia alle elezioni nel 1994 e non eletto, proprietario della Resit, la società che ha venduto al commissariato di governo le cave X e Z, discariche abusive nei dintorni di Giugliano, durante l’emergenza del 2003 (cfr. «Narcomafie» n.2/06). Tre anni dopo, nel gennaio del 2006, Chianese finisce in galera. Pesantissima l’accusa: estorsione aggravata e continuata, concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati il suo impero economico sarebbe cresciuto all’ombra del clan dei Casalesi. I pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci chiesero anche l’arresto dell’ex sub commissario per l’emergenza rifiuti, Giulio Facchi, ma il gip non lo concesse per mancanza di esigenze cautelari (al momento della decisione non era più sub-commissario). La cosa sconcertante è che il commissario aveva stabilito rapporti con Chianese ben sapendo che era già stato al centro di numerose inchieste giudiziarie.

In questa situazione non c’è da meravigliarsi se in Campania ci sono, secondo Legambiente, 225 discariche abusive e la criminalità organizzata continua a incrementare i propri profitti gestendo un giro di affari che tocca i 23 miliardi di euro all’anno. E i cumuli di sacchetti per le strade della Regione continuano a crescere.

LAUREFICIOPOLI

L’università che «regala». Un anno agli iscritti della Uil.

Sessanta crediti per il triennio in legge alla Parthenope.

«Non c’è proprio niente di strano», scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera". Questo il commento del professor Federico Alvino quando, due anni fa, saltò fuori che nell’università con il record di docenti imparentati, la Parthenope di Napoli, anche lui, preside di giurisprudenza, poteva vantare una parentela coi fiocchi. Sua moglie Marilù Ferrara è infatti la figlia di Gennaro Ferrara, ininterrottamente da oltre un ventennio rettore dell’ateneo. Una parentela, inoltre, dalle spiccate venature politiche. Alvino è consigliere comunale di Napoli, capo­gruppo dell’Udc. Invece il suocero è vicepresidente della giunta provinciale. Deleghe: politiche scolastiche e diritto allo studio.

Proprio niente di strano, per come funziona l’università italiana. Che dire allora dell’ultima perla di cui si può fregiare il trentasettenne Alvino, uno dei presidi più giovani d’Italia? La Parthenope ha firmato con la Uil della Campania una convenzione che consentirà a chi ha in tasca la tessera del sindacato di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per il corso di laurea triennale in giurisprudenza. Uno sconto, secco, di un anno su tre.

Come ottenerlo? Sentite che cosa dice la convenzione: «In considerazione delle conoscenze e delle abilità che i la­voratori iscritti alla Uil potranno certificare in ragione delle funzioni e delle mansioni a loro attribuite verranno riconosciuti 60 crediti al personale impegnato in attività di tipo tecnico, gestionale o direttivo...50 crediti al personale impiegato in attività caratterizzato da conoscenze mono specialistiche...» . Ma sapete chi stabilisce i requisiti per avere diritto allo sconto? Ecco l’articolo 2 della convenzione: «La Uil segreteria regionale della Campania si impegna a collaborare con l’Università nell'individuazione dei requisiti nella fase istruttoria delle richieste degli iscritti». Cioè la decisione viene presa insieme al sindacato. E se un iscritto alla Uil ha magari già fatto qualche esame in quella università e vuole vederselo riconosciuto? Stropicciatevi gli occhi: «Il riconoscimento degli esami stessi — ha scritto Luciano Nazzaro della Uil Campania ai suoi colleghi — sarà curato dalla stessa Uil».

Ma per quanto possa sembrare inverosimile, convenzioni come quella appena stipulata dall’ateneo delle «dieci famiglie », come la definì nel giugno 2007 un articolo di Repubblica, nelle università italiane non sono affatto rare. Quando alla fine degli anni Novanta con la riforma voluta dal centrosinistra vennero istituite le lauree triennali, si decise di riconoscere crediti formativi accumulati con l’esperienza lavorativa. C’era una disposizione europea. Ma in Italia l’opportunità diventò ben presto occasione per i furbi. Da lì al malcostume vero e proprio il passo fu breve. E il malcostume dilagò. Si arrivò a regalare i pezzi di carta: c’erano convenzioni che consentivano di vedersi abbuonare anche tutti i crediti formativi del corso di laurea. Bastava discutere la tesi. E in qualche caso neanche quello.

Naturalmente dietro pagamento di rette profumate. A che cosa servivano le lauree prese in questo modo? Prevalentemente a passare di grado nella pubblica amministrazione. Da impiegato a funzionario, da sottufficiale a ufficiale, da pizzardone a graduato.

Con relativo incremento di stipendio. Quando Fabio Mussi arrivò al ministero dell’Università, trovò questo sfacelo e stabilì il limite tassativo di 60 crediti (che sono pur sempre un anno di studio), cercando pure di introdurre criteri rigorosi per concederli. Ma evitare che lo sconto tocchi anche a somari con il solo merito di avere un tesserino nel portafoglio si è in seguito rivelato pressoché impossibile. Il giro di vite ha appena intaccato l’andazzo. Chi si stupisce che due anni dopo la direttiva Mussi una università statale come la Parthenope di Napoli forse non sa che a metà 2007 l’Università statale di Messina ha fatto una convenzione simile con la Cisl: anche in quel caso 60 crediti. Bastava avere un diploma di scuola media superiore e un posto di lavoro alla regione, o in una Asl, oppure in un altro ente pubblico. Ma soprattutto essere iscritti al sindacato, dettaglio essenziale per accedere direttamente al secondo anno di Scienze politiche, giurisprudenza, statistica, economia. Ma è niente in confronto alle convenzioni che hanno firmato alcune uni­versità private «telematiche». Convenzioni con la Uil Poteri locali, la Ugl enti pubblici, la Rsu della Provincia di Agrigento, l’associazione romana vigili urbani, l’associazione dipendenti del ministero dell’Interno, il centro formazione professionale Enti padri Trinitari... Davvero niente di strano?

SFRUTTAMENTOPOLI

INSEGNARE GRATIS PER ANNI NELLE SCUOLE PRIVATE. LA TACITA REGOLA IMPOSTA AI DOCENTI. TUTTI SANNO, MA NESSUNO DENUNCIA.

Insegnare per anni gratuitamente nelle scuole private, scrive Francesco Tortora su "Il Corriere della Sera" . È il destino che accomuna centinaia di giovani docenti che lavorano in istituti paritari, senza ricevere compenso o al massimo ottenendo solo una piccola parte del salario. Esiste ormai da anni una regola tacita imposta dai dirigenti di tante scuole private ai docenti freschi di abilitazione all'insegnamento che entrano nel mondo della scuola attraverso il canale degli istituti privati: le scuole paritarie assumono con un regolare contratto i giovani insegnanti permettendo loro di accumulare punteggio e scalare le graduatorie provinciali d'insegnamento (condizione necessaria per lavorare un giorno nella scuola pubblica e ottenere il fatidico posto fisso). I docenti in cambio accettano di lavorare gratuitamente o per poche centinaia di euro nelle scuole private. È raro che un giovane insegnante si ribelli a questa prassi: nelle regioni meridionali il numero dei docenti precari è molto alto e le scuole private non hanno problemi a trovare insegnanti pronti a tutto pur di ottenere un incarico annuale.

STATISTICHE - Secondo i dati Istat, oltre il 20% delle scuole italiane sono private e dei 9 milioni di studenti italiani almeno uno su dieci frequenta un istituto privato. In Campania le scuole non statali riconosciute sono oltre 2 mila: la maggioranza sono istituti per l'infanzia o elementari, ma nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicati i licei e gli istituti tecnici. Con la legge del 2000 le scuole paritarie sono state equiparate in tutto e per tutto alle scuole pubbliche e ricevono sussidi e finanziamenti dallo Stato (la legge di bilancio 2008 ha stanziato oltre 530 milioni di euro a favore delle scuole private per l'anno 2008/2009). Ma, a differenza degli istituti pubblici, le scuole paritarie non assumono gli insegnanti prendendo in considerazione le graduatorie nazionali e provinciali, ma contrattando con il docente compenso e condizioni lavorative. L'unico obbligo che le scuole paritarie hanno è quello di assumere insegnanti che hanno superato il concorso di abilitazione all'insegnamento. Per tanti giovani alle prime armi che vivono nell'Italia meridionale è davvero difficile ottenere una supplenza in una scuola pubblica a causa del gran numero di insegnanti presenti nelle graduatorie provinciali: proprio per questo si rivolgono alle scuole paritarie. Tanti istituti paritari propongono ai docenti il medesimo accordo: punteggio annuale in cambio di lavoro gratis o sottopagato.

LA STORIA DI M. – M. è una trentenne che da quasi tre anni lavora in un istituto primario paritario che si trova nell'agro nocerino-sarnese, area a metà strada tra Salerno e Napoli. Non vuole che il nome della sua scuola sia divulgato perché teme di perdere il lavoro. «Come tanti giovani insegnanti meridionali per cominciare a lavorare ho dovuto fare una scelta», dichiara. «O emigravo al Nord con la speranza di ottenere qualche supplenza nella scuola pubblica oppure dovevo accettare di restare a casa e lavorare gratis per qualche istituto privato. Grazie alla raccomandazione di un mio parente (la maggioranza delle scuole paritarie locali assumono solo persone di cui si possono fidare) sono stata presentata alla preside di una scuola privata della zona e ho cominciato a insegnare. Già il primo giorno è stata chiara: mi ha detto che a fine mese avrei dovuto dichiarare di aver ricevuto il compenso ordinario firmando la busta paga, ma mi sarebbero stati concessi solo 300 euro. Sono costretta a firmare e a dichiarare il falso perché questa finta retribuzione garantisce il pagamento dei contributi previdenziali, condizione necessaria per l'attribuzione dei 12 punti annuali in graduatoria. I 300 euro mensili mi permettono di pagare la benzina e l'autostrada che ogni giorno prendo per raggiungere la scuola». Durante questi tre anni, M. non ha ottenuto nessun aumento salariale, mentre le ore a scuola sono aumentate e spesso la sua giornata lavorativa si conclude nel tardo pomeriggio. «Io amo insegnare e per me non è un peso passare intere giornate con i bambini. Certo se fossi pagata il giusto sarei più felice. Lavorare gratuitamente nelle scuole private può apparire uno scandalo ai più, ma qui in Campania è la regola. Nell'istituto dove insegno ci sono decine di giovani colleghe che si trovano nella mia stessa condizione. Con la riforma del maestro unico presentata dal ministro Gelmini, per gli insegnanti elementari la situazione è destinata a peggiorare: aumenteranno i maestri senza lavoro e diminuiranno i posti a disposizione. Non mi stupirei se fra qualche anno le scuole paritarie ci chiedessero di offrire un contributo simbolico per lavorare».

LA STORIA DI S. – C'è chi come S. dopo tanti anni di lavoro gratuito è riuscita a liberarsi dal ricatto del punteggio diventando un'insegnante di ruolo in una scuola pubblica. Oggi lavora in un liceo di Salerno, ma ricorda ancora con rancore e rabbia gli anni di docenza in un famoso istituto privato della città campana: «I primi anni insegnavo solo italiano e latino», dichiara S., che oggi ha poco più di 30 anni. «Poi ho cominciato a fare lezione anche di storia e geografia. Lavoravo fino a 30 ore alla settimana e a fine mese l'istituto mi pagava solo 200 euro. Questo calvario è durato ben sei anni». S. dichiara di non aver mai parlato di compenso con il preside del liceo, ma di aver sempre saputo che se voleva lavorare in quella scuola bisognava accettare la somma esigua che le offrivano: «La cosa più degradante avveniva a fine mese. Entravo nella stanza del preside e fingevo di volerlo salutare. Lui capiva e mi metteva in mano duecento euro. Anche altri insegnanti erano costretti a ripetere questa sceneggiata. Nella scuola vi erano oltre trenta docenti e la maggioranza si trovava nelle mie stesse condizioni. Poi ogni tanto ti chiamavano e ti facevano firmare in blocco le buste paga. Quando hai bisogno di lavoro e denaro fai mille compromessi, alla fine se penso a quegli anni mi sembra di aver rimosso tante cose spiacevoli e tristi». S. racconta che dopo aver passato sei anni in quella scuola privata finalmente tre anni fa ha ricevuto la chiamata per la prima supplenza in una scuola pubblica: «Avevo accumulato un buon punteggio e ho deciso di lasciare l'istituto privato. Dopo varie supplenze sono diventata di ruolo. Il giorno che ho ricevuto il primo stipendio regolare è stato indimenticabile». Tuttavia S. non rinnega il passato: «Mi dispiace dirlo, ma senza i compromessi accettati nella scuola privata, oggi non lavorerei in un istituto pubblico. Chi sfrutta giovani docenti dovrebbe vergognarsi. Ma ciò che più sconcerta è il fatto che dai sindacati agli insegnanti di ruolo tutti accettino questa realtà facendo finta di niente».

LA STORIA DI G. E IL SINDACATO LOCALE - G. ha 27 anni ed è alla sua seconda esperienza in una scuola privata del salernitano. L'anno scorso ha insegnato in un istituto alberghiero del Cilento, mentre quest'anno è stato chiamato come docente di materie letterarie in un liceo sociopsicopedagogico di Salerno. Non riceve alcun compenso (lavora 18 ore alla settimana) , ma naturalmente ogni mese firma la sua busta paga. «L'anno scorso ho lavorato l'intero anno e poi non mi hanno più chiamato. Non ricevevo nemmeno un euro come adesso, ma dovevo fare quasi 50 km in macchina per arrivare a scuola». G. non è ancora abilitato e ricevere questo incarico gli sembra una benedizione: «Prima di me numerosi professori, visto che la mia scuola non paga nulla, hanno rifiutato l'incarico. Sono stato fortunato: ho presentato la domanda e, dopo aver visto che accettavo le loro condizioni, mi hanno subito assunto. Mi rendo conto che non è il massimo, ma questo lavoro non remunerato mi permetterà, dopo un anno e mezzo di sacrifici, di fare il concorso all'abilitazione. Se riesco a superarlo, potrò cambiare scuola e almeno comincerò a guadagnare qualcosa». Il segretario provinciale Uil-scuola, Gerardo Pirone, conosce bene la situazione drammatica delle scuole private, ma afferma: «Sono nel sindacato scolastico di Salerno dal 1987 e in oltre vent'anni ho ricevuto solo due denunce da parte d'insegnanti di scuole private che si lamentavano della retribuzione offerta dai loro datori di lavoro. In queste due occasioni ci siamo mossi e siamo riusciti a ottenere dalle scuole che gli insegnanti ricevessero quello che gli spettava. Il nostro compito è far rispettare i contratti, ma se nessuno denuncia, noi non possiamo fare molto».

CONCORSOPOLI

BIDELLOPOLI E SUPPLENTOPOLI

Dopo quelle di Torino, anche a Napoli si scoprono graduatorie scolastiche truccate e manomesse per vie informatiche e - di conseguenza - supplenze, nomine e immissioni in ruolo del tutto arbitrarie, scrive Francesco Tortora su "Il Corriere della Sera". Qualcuno, dotato della password necessaria, è entrato nel sistema del Provveditorato e ha modificato il file relativo. Trecento, forse quattrocento tra insegnanti e bidelli, potrebbero non essere in regola.

La traccia del fenomeno è in una lettera-denuncia del segretario regionale della Cisl scuola, Vincenzo Brancaccio, al suo leader nazionale Francesco Scrima, «Caro segretario - dice la missiva del 12 maggio 2008  - sono costretto a chiederti un intervento urgente presso la Signora Ministro della Pubblica Istruzione per ripristinare legalità e certezza del diritto nella scuola campana. Sarai stato certamente informato sulle graduatorie falsate dei collaboratori scolastici (bidelli - ndr) dell'ufficio scolastico di Torino, secondo gli articoli apparsi su "La Stampa"  del 7 maggio 2008 - ricorda Brancaccio - Bene: in Campania la situazione è drasticamente più grave».

Nella provincia di Napoli, per esempio - secondo l’ipotesi su cui sta lavorando la magistratura allertata dall’Ufficio scolastico regionale - le graduatorie truccate sarebbero tre. O, almeno, tre sarebbero quelle su cui sono state rilevate delle manomissioni ma, forse, il fenomeno potrebbe essere ben più esteso e riguardare anche altre province. Occorre ricordare che, per sanare una volta per tutte il fenomeno del precariato e iniziare un nuovo sistema di reclutamento del personale, le graduatorie della scuola sono «ad esaurimento», e quindi bloccate da sette anni. Eventuali novità nei nomi o modifiche dei dati, quindi, sono facilmente rilevabili, anche se comportano l’oneroso lavoro di monitorare circa 90 mila nomi. Tuttavia le magagne sono venute a galla.

La prima, nella provincia di Napoli, ha riguardato i docenti inseriti negli elenchi delle «abilitazioni speciali». Spieghiamo: l’abilitazione all’insegnamento, oggi, si può ottenere in due modi: o frequentando le Siss (le scuole biennali di specializzazione) oppure dimostrando di aver insegnato per almeno 360 giorni nella scuola statale. Questo secondo canale consente l'immissione nella graduatoria definita, per l’appunto, delle «abilitazioni speciali».

Alcune denunce hanno consentito di rilevare che, all’interno di questa graduatoria, che costituisce un trampolino di lancio nell’insegnamento di ruolo, sono stati inseriti dei nomi di persone che non ne avrebbero avuto titolo e che avrebbero fornito «false certificazioni». Si parla di «decine» di nomi, ma il materiale ancora da esaminare è sterminato. Per intanto la Guardia di Finanza ha sequestrato gli atti.

Secondo filone. Nelle graduatorie della scuola d’infanzia ed elementare è stato appurato che «almeno» 42 docenti avrebbero visto il proprio punteggio lievitare repentinamente, da un minimo di otto a un massimo di 64 punti, come dire che a qualche docente sono stati attribuiti cinque anni di lavoro in più. L’esame della graduatoria non è ancora concluso e altri nomi potrebbero emergere.

E poi c’è la madre di tutte le truffe: la «bidellopoli» che, dopo quella torinese, ora è in salsa napoletana. Centinaia (il numero è in continuo aumento e non ancora definitivo) sarebbero gli aspiranti bidelli catapultati in graduatoria «non avendone neppure i titoli», cioè mancando perfino della licenza media. Anche qui ci sarebbero false certificazioni prodotte da diplomifici privati o da sedicenti scuole paritarie.

GIUGLIANO E LE ISTITUZIONI.

SESSO E MAZZETTE IN CAMBIO DI FAVORI IN MANETTE VENTITRÉ VIGILI CORROTTI

Invece di dirigere il traffico cittadino, preferivano dirigere il traffico delle mazzette, scrive Carmine Spadafora su "Il Giornale". Sicuramente più redditizio, per ventitrè vigili urbani di Giugliano (Napoli), incappati all'alba di ieri, in una retata della polizia, che ha ammanettato anche altre 16 persone. Gravissimi i capi di accusa, formulati dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli: associazione per delinquere, corruzione, concussione, falsità materiale ed ideologica, favoreggiamento personale, rivelazione di segreto d'ufficio, violazioni urbanistiche e violazioni di sigilli.

L'inchiesta è nata da un ricatto sessuale, avanzato da un vigile urbano, a una giovane imprenditrice, che aveva realizzato un’opera edilizia, pur non avendone le autorizzazioni. In cambio del silenzio, l'estortore, pretendeva dalla donna, un regalo in «natura». Ma, la vittima non c'è stata e si è rivolta alla polizia, al vicequestore Pasquale De Lorenzo, dirigente del commissariato di Giugliano. Tra la denunciante e gli investigatori, si è stabilito subito un rapporto di reciproca fiducia e cosi l'indagine è subito decollata.

L'inchiesta della polizia ha svelato ben altre situazioni, rispetto alla «semplice» estorsione a scopo sessuale. In poco tempo, gli investigatori hanno scoperto che, quasi un’intera sezione della polizia urbana, svolgeva ben altre attività rispetto a quelle previste dai doveri d’ufficio. Complici dei caschi bianchi, funzionari dell'ufficio tecnico e imprenditori. In sostanza sarebbe emerso che il presidio territoriale nel settore dell'antiabusivismo «non era finalizzato a ragioni di prevenzione - come sostengono i pm della Dda - quanto, piuttosto, a un radicale monitoraggio di tutte le attività edilizie al fine di trarre lauti guadagni».

Dalle attività di intercettazione telefonica e ambientale (persino due cimici collocate in un'auto del corpo) sarebbe emerso «un quadro allarmante di vicende corruttive realizzate nell'ambito di un ampio contesto associativo, costituito da vigili urbani - spiegano in Procura - funzionari dell'ufficio tecnico del Comune e imprenditori impegnati nel settore delle costruzioni abusive». La banda aveva addirittura messo a punto una sorta di tariffario (da 500 a 2.500 euro), stilato in base all'abuso sul quale chiudere entrambi gli occhi. Le tangenti finivano nel «calderone», ovvero la cassa comune del gruppo ed erano poi ripartite equamente, tra tutti i partecipanti all'associazione per delinquere.

Al blitz hanno preso parte duecento poliziotti: il commissariato è stato affiancato dalla Digos e dalla Squadra mobile della questura di Napoli. I vigili urbani di Giugliano sono recidivi: due anni fa, infatti, nell'ambito di un'altra indagine, fu decapitato il vertice del corpo.

AD ISCHIA: ARRESTATO IL SINDACO.

Tangenti, arrestato sindaco di Ischia. Giosi Ferrandino (Pd) accusato con altre 9 persone delle cooperative Cpl di aver intascato mazzette per la metanizzazione dei comuni dell’isola campana, scrive “Il “Corriere della Sera”.  Mazzette, coop e politica, un mix micidiale sull’isola verde. Il sindaco di Ischia,Giuseppe «Giosi» Ferrandino (Pd) ed altre nove persone tra cui dirigenti del colosso delle cooperative Cpl Concordia sono state arrestate stamane, lunedì, dai carabinieri del Comando Tutela Ambiente nell’ambito di una inchiesta della Procura di Napoli su tangenti pagate per la metanizzazione dei comuni dell’isola campana. Lo apprende l’Ansa da fonti investigative. I reati contestati, a vario titolo, vanno dall’associazione per delinquere alla corruzione (anche internazionale), dalla turbata libertà degli incanti al riciclaggio, all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. L’inchiesta coordinata dai pm Woodcock, Carrano e Loreto e condotta dai reparti speciali del Comando per la Tutela dell’Ambiente del colonnello Sergio De Caprio, il «Capitano Ultimo» ha preso le mosse nell’aprile 2013 ed ha portato alla luce, secondo l’accusa, un sistema di corruzione basato sulla costituzione di fondi neri in Tunisia da parte della Cpl Concordia con cui retribuire pubblici ufficiali per ottenerne i «favori» nell’aggiudicazione di appalti. In carcere, su disposizione del gip Amelia Primavera, sono finiti oltre al sindaco di Ischia il fratello di questi, Massimo Ferrandino, il responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo CPL Concordia Francesco Simone, l’ex presidente Roberto Casari (andato in pensione il 30 gennaio scorso, ma secondo l’accusa ancora «regista» degli affari della cooperativa), il responsabile commerciale dell’area Tirreno Nicola Verrini, il responsabile del nord Africa Bruno Santorelli, il presidente del consiglio di amministrazione della CPL distribuzione Maurizio Rinaldi e l’imprenditore casertano Massimiliano D’Errico. Arresti domiciliari, invece, per il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune di Ischia Silvano Arcamone, mentre per Massimo Continati e Giorgio Montali, rispettivamente direttore amministrativo e consulente esterno della CPL è stata disposta la misura cautelare dell'obbligo di dimora nel comune di residenza.

Ischia, arrestato il sindaco. L'accusa: tangenti dal colosso delle coop Cpl Concordia.  In manette Giuseppe Giosi Ferrandino, del Pd e altre nove persone. Per gli investigatori il primo cittadino avrebbe intascato una mazzetta da 330mila euro e altri benefit. I dirigenti del gruppo, una tra le più antiche cooperative rosse, avrebbero fatto accordi sottobanco con amministratori locali, pubblici funzionari, camorra casertana. L'inchiesta dei pm di Napoli Woodcock, Carrano e Loreto è stata condotta dai carabinieri del Comando per la Tutela dell'Ambiente del Capitano Ultimo, scrive “La Repubblica” il 30 marzo 2015. Il sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino Tangenti per 330 mila euro, l'assunzione come consulente del fratello e almeno un viaggio in Tunisia: sarebbe stato questo, secondo l'accusa, il prezzo pagato dal colosso delle coop Cpl Concordia, per la corruzione del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino del Pd, finito in manette nell'ambito dell'inchiesta della procura di Napoli su tangenti pagate per portare metano nei comuni dell'isola campana. Secondo l'accusa Ferrandino "era diventato una sorta di factotum al soldo del gruppo". Il primo cittadino è stato arrestato con altre nove persone, tra cui dirigenti della Cpl Concordia dai carabinieri del Comando tutela ambiente. Per gli investigatori i dirigenti della Cpl Concordia avrebbero fatto "sistematico ricorso ad un modello organizzativo ispirato alla corruzione che li ha portati ad accordarsi non solo con i sindaci, gli amministratori locali e i pubblici funzionari, ma anche con esponenti della criminalità organizzata casertana e con gli amministratori legali a tali ambienti criminali". I reati contestati, a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione (anche internazionale), dalla turbata libertà degli incanti al riciclaggio, all'emissione di fatture per operazioni inesistenti. L'inchiesta coordinata dai pm Woodcock, Carrano e Loreto e condotta dai reparti speciali del Comando per la Tutela dell'Ambiente del colonnello Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo ha preso le mosse nell'aprile 2013 ed ha portato alla luce, secondo l'accusa, un sistema di corruzione basato sulla costituzione di fondi neri in Tunisia da parte della Cpl Concordia con cui retribuire pubblici ufficiali per ottenerne i favori nell'aggiudicazione di appalti. In carcere, su disposizione del gip Amelia Primavera, sono finiti, oltre al sindaco di Ischia, il fratello di questi, Massimo Ferrandino, il responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo Cpl Concordia Francesco Simone, l'ex presidente Roberto Casari (andato in pensione il 30 gennaio scorso, ma secondo l'accusa ancora regista degli affari della cooperativa), il responsabile commerciale dell'area Tirreno Nicola Verrini, il responsabile del nord Africa Bruno Santorelli, il presidente del consiglio di amministrazione della CPL distribuzione Maurizio Rinaldi e l'imprenditore casertano Massimiliano D'Errico. Arresti domiciliari, invece, per il dirigente dell'Ufficio tecnico del Comune di Ischia Silvano Arcamone, mentre per Massimo Continati e Giorgio Montali, rispettivamente direttore amministrativo e consulente esterno della Cpl è stata disposta la misura cautelare dell'obbligo di dimora nel comune di residenza. In particolare, secondo l'accusa, il prezzo pagato dalla Cpl per la corruzione di Ferrandino consisterebbe nella stipula fittizia di due "fittizie convenzioni" con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della "messa a disposizione" di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, quale consulente della Cpl Concordia e almeno un viaggio tutto spesato in Tunisia. Secondo l'accusa sarebbe stato proprio grazie all'interessamento del sindaco ed alla complicità dell'architetto Silvano Arcamone, dirigente dell'ufficio tecnico di Ischia, che l'appalto di metanizzazione dello stesso Comune (capofila del progetto) e di quelli di Lacco Ameno e Casamicciola Terme è stato affidato alla Cpl. La cooperativa, dal canto suo, avrebbe provveduto al pagamento attingendo a dei fondi neri costituiti mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti con una società tunisina (la Tunita sarl) riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo, definito dagli inquirenti "personaggio chiave" della vicenda, con un ruolo di primo piano nella presunta associazione a delinquere attiva non solo nell'appalto di Ischia, ma in numerosi altri, soprattutto in Campania. È di un mese fa la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dell'ex presidente del gruppo, Roberto Casari, per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta sui lavori di metanizzazione compiuti tra il 1999 e il 2003 a Casal di Principe e in altri sei comuni del Casertano. Opere realizzate non a norma, con rischi per la sicurezza dei cittadini, sostiene la Dda di Napoli, dopo le dichiarazioni rilasciate nel giugno 2014 dal pentito Antonio Iovine. Secondo l'ipotesi accusatoria, la Cpl si sarebbe aggiudicata l'appalto con l'appoggio della fazione dei Casalesi guidata da Michele Zagaria; i subappalti sarebbero stati poi distribuiti alle ditte locali indicate dai boss. Zagaria ne ha fatto un elenco dettagliato, indicando anche le anomalie sullo svolgimento dei lavori. Anomalie che i magistrati hanno voluto verificare, inviando di recente le ruspe a Casal di Principe: dagli scavi, coordinati dai carabinieri del Noe di Caserta ed effettuati in corso Umberto, in pieno centro, è emerso che le tubature erano state interrate a 30 centimetri di profondità invece che ai 60 previsti dalla normativa, mettendo quindi a rischio la sicurezza della popolazione. Nell'ordinanza di custodia cautelare relativa alle tangenti che sarebbero state pagate per la metanizzazione di Ischia non si entra nel merito dei presunti collegamenti tra la Cpl e la criminalità organizzata, oggetto di altra indagine. Anche i brani delle intercettazioni, quando gli arrestati toccano questo argomento, sono coperti da omissis. La Cpl Concordia, con sede a Concordia sulla Secchia, nel Modenese  è una cooperativa storica, nata nel 1899. Negli atti dell'inchiesta viene definita una "tra le più antiche cosiddette 'cooperative rosse'".  Opera a livello internazionale, con 1.800 addetti e 70 società controllate e collegate in tutto il mondo e un fatturato consolidato di 461 milioni nel 2014. Si tratta di un gruppo cooperativo cosiddetto multiutility che si occupa di energia in tutti i suoi aspetti: dall'approvvigionamento e distribuzione alla vendita e contabilizzazione di gas ed elettricità, alla produzione mediante sistemi tradizionali o impianti rinnovabili. L'attuale presidente è Mario Guarnieri. Il precedente, Roberto Casari, arrestato stamani, era andato in pensione il 30 gennaio scorso.

Tangenti, arrestato sindaco Ischia e dirigenti coop Concordia. Nelle carte spunta il nome di D'Alema. Fermato Giuseppe Giosi Ferrandino, del Pd, e altre nove persone. Per gli investigatori il primo cittadino (presidente regionale Anci) avrebbe intascato una mazzetta da 330mila euro per la metanizzazione dell'isola. L'ex premier, tirato in ballo in una intercettazione, si difende: "Nessun illecito o beneficio", scrive “la Repubblica”. Tangenti per 330 mila euro, l'assunzione come consulente del fratello e almeno un viaggio in Tunisia: sarebbe stato questo, secondo l'accusa, il prezzo pagato dal colosso delle coop Cpl Concordia, per la corruzione del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino del Pd, arrestato nell'ambito dell'inchiesta della procura di Napoli su tangenti pagate per portare metano nei comuni dell'isola campana. Alla Coop modenese contestati anche legami con la criminalità organizzata casertana e con amministratori legati a tali ambienti criminali. Il sindaco è stato già sospeso dal partito con un provvedimento cautelare adottato dal presidente della commissione di garanzia provinciale di Napoli Massimo Carrano. Nelle intercettazioni spunta anche il nome di Massimo D'Alema, non indagato, in rapporti con i vertici della cooperativa. Immediata la replica dell'ex premier: "Rapporto del tutto trasparente, non ho avuto nessun beneficio personale". Il presidente di Legacoop, Mauro Lusetti, ha auspicato le rapida conclusione delle indagini: "Le responsabilità - ha affermato - , se mai venissero accertate, sono personali. Noi, se lo saranno, come sempre ci porremo sul versante della legalità e non proteggeremo nessuno". L'inchiesta agita il mondo politico campano e nazionale, con i Cinque Stelle all'attacco per l'ennesima inchiesta "che vede coinvolti esponenti Pd e cooperative rosse" e i democratici di Napoli che chiedono un chiarimento a Ferrandino. L'inchiesta coordinata dai pm Woodcock, Carrano e Loreto e condotta dai reparti speciali del Comando per la Tutela dell'Ambiente del colonnello Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo, ha preso le mosse nell'aprile 2013 ed ha portato alla luce, secondo l'accusa, un sistema di corruzione basato sulla costituzione di fondi neri in Tunisia da parte della Cpl Concordia con cui retribuire pubblici ufficiali per ottenerne i 'favori' nell'aggiudicazione di appalti. I reati contestati, a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione (anche internazionale), dalla turbata libertà degli incanti al riciclaggio, all'emissione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo l'accusa Ferrandino "era diventato una sorta di factotum al soldo del gruppo". Il sindaco è stato arrestato con altre nove persone: il fratello di questi, Massimo Ferrandino, il responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo Cpl Concordia Francesco Simone, l'ex presidente Roberto Casari, il responsabile commerciale dell'area Tirreno Nicola Verrini, il responsabile del nord Africa Bruno Santorelli, il presidente del consiglio di amministrazione della CPL distribuzione Maurizio Rinaldi e l'imprenditore casertano Massimiliano D'Errico. Arresti domiciliari, invece, per il dirigente dell'Ufficio tecnico del Comune di Ischia Silvano Arcamone, mentre per Massimo Continati e Giorgio Montali, rispettivamente direttore amministrativo e consulente esterno della Cpl, è stata disposta la misura cautelare dell'obbligo di dimora nel comune di residenza. La Cpl Concordia, con sede a Concordia sulla Secchia nel Modenese, è una cooperativa emiliana storica nata nel 1899. Negli atti dell'inchiesta viene definita una "tra le più antiche cosiddette 'cooperative rosse'". Opera a livello internazionale, con 1.800 addetti e 70 società controllate e collegate in tutto il mondo e un fatturato consolidato di 461 milioni nel 2014. Oggi esprime fiducia nella magistratura ed "è pronta a prendere i dovuti provvedimenti" qualora gli addebiti fossero confermati. La Legacoop Modena auspica che le indagini "non incidano sul regolare prosieguo di un'attività lavorativa così importante per tante famiglie dell'intero territorio". Alcuni dirigenti della CPL avrebbero anche corrotto dei funzionari tunisini, secondo gli inquirenti. Negli atti dell'inchiesta si fa riferimento alla corruzione del direttore di una banca ("ce l'ho a libro paga", dice Francesco Simone, della CPL) e del capo della dogana di Tunisi, che avrebbero favorito l'esportazione del denaro. Soldi in contante che, sempre Francesco Simone, in un caso, ha "occultato e fatto passare alla dogana di Fiumicino...nascondendoli nel passeggino della figlioletta", annota il gip. Questa l'intercettazione in cui lo stesso dirigente CPL parla della circostanza: "..infatti ho detto..metto sotto il passeggino..il passeggino cioè chi cazzo lo controlla hai capito...". Questa condotta, secondo il giudice, evidenzia "una non comune attitudine all'inquinamento probatorio ed una altrettanto spiccata pericolosità sociale, non solo di Simone ma di tutti i correi della Concordia coinvolti in tali loschi traffici e operazioni". Giosi Ferrandino, alla guida del comune isolano, era stato in precedenza sindaco di Casamicciola, altro comune dell'isola d'Ischia, eletto nelle fila di Forza Italia; successivamente è passato alla Margherita ed è poi transitato nel Pd. L'anno scorso Ferrandino è stato candidato al Parlamento europeo per il Pd risultando il primo dei non eletti nella circoscrizione meridionale con 80.000 preferenze. Oggi sono in molti a Ischia a difendere il primo cittadino, a partire dai consiglieri di maggioranza. Ma anche sulla campagna per le europee si addensano sospetti: dalle intercettazioni emerge che uno degli arrestati, Francesco Simone, si dà da fare per far ottenere voti alle Europee al sindaco di Ischia, coinvolgendo perfino l'ambasciatore albanese in Italia: la sua intermediazione, infatti, "potrebbe fruttare 10mila voti", che sono quelli degli albanesi con la cittadinanza italiana. In cambio ci sarebbe ovviamente, sostiene l'accusa, un soggiorno nell'hotel di Ischia del primo cittadino.

Ischia, spunta il nome di D'Alema nell'inchiesta sul sindaco. Giuseppe Ferrandino avrebbe ricevuto compensi dalla cooperativa Cpl, e nelle intercettazioni viene nominato anche il leader politico Pd, scrive “Panorama”. La stipula fittizia di due convenzioni nell'albergo della famiglia, per un totale di 330 mila euro; l'assunzione come consulente del fratello e almeno un viaggio in Tunisia: sarebbe stato questo, secondo l'accusa, il "prezzo" pagato dalla CPL per la corruzione del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, finito in manette nell'ambito dell'inchiesta della procura di Napoli condotta dai carabinieri del Comando Tutela Ambiente. Secondo l'accusa Ferrandino "era diventato una sorta di factotum al soldo della CPL Concordia, per gli appalti per le opere di metanizzazione sull'isola. In particolare, la CPL Concordia - in cambio dei "favori" di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori di metanizzazione, avrebbe stipulato due "fittizie convenzioni" (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della "messa a disposizione" di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Altre "utilità" ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, quale consulente della CPL Concordia e almeno un viaggio tutto spesato in Tunisia. Secondo l'accusa sarebbe stato proprio grazie all'interessamento del sindaco ed alla complicità dell'architetto Silvano Arcamone, dirigente dell'ufficio tecnico di Ischia, che l'appalto di metanizzazione dello stesso Comune (capofila del progetto) e di quelli di Lacco Ameno e Casamicciola Terme è stato affidato alla CPL. La cooperativa, dal canto suo, avrebbe provveduto al pagamento attingendo a dei fondi neri costituiti mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti con una società tunisina (la Tunita sarl) riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo CPL Concordia, definito dagli inquirenti "personaggio chiave" della vicenda, con un ruolo di primo piano nella presunta associazione a delinquere attiva non solo nell'appalto di Ischia, ma in numerosi altri, soprattutto in Campania. In una delle intercettazioni agli atti dell'inchiesta, Francesco Simone, dirigente della CPL arrestato, chiama in causa Massimo D'Alema sottolineando la necessità di "investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare Commissario Europeo" in quanto "...D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose". Nell'ordinanza di custodia cautelare il gip Amelia Primavera sottolinea, tra l'altro, che "per comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla CPL Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa CPL Concordia, che è tra le più antiche cosiddette 'cooperative rosse', ovvero l'On. Massimo D'Alema". L'intercettazione ambientale in cui Francesco Simone parla di D'Alema con Nicola Verrini, responsabile commerciale di area della CPL Concordia, risale all'11 marzo 2014. Per il gip questa conversazione "appare di estremo rilievo", "oltre che per il riferimento a D'Alema" e "ad alcuni appartenenti alle forze di polizia", anche "per il modo in cui gli interlocutori distinguono i politici e le Istituzioni loro referenti, operando la netta ma significativa distinzione tra quelli che al momento debito si sporcano le mani, 'mettono le mani nella merda' e quelli che non le mettono, distinzione che appunto dice tutto a proposito del modus operandi della CPL e dei suoi uomini". Secondo il giudice, il termine "investire" utilizzato da Simone ("...investire negli Italiani europei...") "rende piu' che mai l'idea dell'approccio di Simone e della Concordia rispetto a tale mondo". In un passaggio successivo e relativo ad un'altra vicenda Simone afferma, "in riferimento sempre alla quota associativa da pagare ad un'altra fondazione (della quale , per ragioni investigative, si omette la denominazione): '...dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento..'". "La diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napoli è scandalosa e offensiva" dichiara Massimo D'Alema. "Ho dato mandato all'avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede", annuncia. "Certamente ho rapporti con CPL Concordia, per cui tenni anche una conferenza in occasione della sua assemblea annuale. Ho rapporti con CPL come con altre cooperative e aziende private", dichiara D'Alema. "Dalla CPL non ho avuto alcun regalo ed è ridicolo definire l'acquisto di 2.000 bottiglie di vino in tre anni come un 'mega ordine', peraltro fatturato e pagato con bonifici a quattro mesi. Quanto ai libri - prosegue  - nessun beneficio personale, ma un'attività editoriale legittima, che rientra nel normale e quotidiano lavoro della Fondazione Italianieuropei. Inoltre, i libri furono acquistati per una manifestazione elettorale dedicata ai temi europei, alla quale fui invitato dal sindaco di Ischia, che era candidato del Pd". "Do mandato all'avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede", conclude. La CPL Concordia, con sede a Concordia sulla Secchia, nel Modenese, è una cooperativa storica, nata nel 1899. Negli atti dell'inchiesta viene definita una "tra le più antiche cosiddette 'cooperative rosse'". Opera a livello internazionale, con 1.800 addetti e 70 società controllate e collegate in tutto il mondo e un fatturato consolidato di 461 milioni nel 2014. Si tratta di un gruppo cooperativo cosiddetto "multiutility" che si occupa di energia in tutti i suoi aspetti: dall'approvvigionamento e distribuzione alla vendita e contabilizzazione di gas ed elettricità, alla produzione mediante sistemi tradizionali o impianti rinnovabili. L'attuale presidente è Mario Guarnieri. Il precedente, Roberto Casari, arrestato stamani, era andato in pensione il 30 gennaio scorso. È di un mese fa la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dell'ex presidente della CPL, Roberto Casari, per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta sui lavori di metanizzazione compiuti tra il 1999 e il 2003 a Casal di Principe e in altri sei comuni del Casertano. Opere realizzate non a norma, con rischi per la sicurezza dei cittadini, sostiene la Dda di Napoli, dopo le dichiarazioni rilasciate nel giugno 2014 dal pentito Antonio Iovine. Secondo l'ipotesi accusatoria, la Cpl si sarebbe aggiudicata l'appalto con l'appoggio della fazione dei Casalesi guidata da Michele Zagaria; i subappalti sarebbero stati poi distribuiti alle ditte locali indicate dai boss. Zagaria ne ha fatto un elenco dettagliato, indicando anche le anomalie sullo svolgimento dei lavori. Anomalie che i magistrati hanno voluto verificare, inviando di recente le ruspe a Casal di Principe: dagli scavi, coordinati dai carabinieri del Noe di Caserta ed effettuati in corso Umberto, in pieno centro, è emerso che le tubature erano state interrate a 30 centimetri di profondita' invece che ai 60 previsti dalla normativa, mettendo quindi a rischio la sicurezza della popolazione. Nell'ordinanza di custodia cautelare relativa alle tangenti che sarebbero state pagate per la metanizzazione di Ischia non si entra nel merito dei presunti collegamenti tra la CPL e la criminalità organizzata, oggetto di altra indagine. Anche i brani delle intercettazioni, quando gli arrestati toccano questo argomento, sono coperti da omissis.

Attenzione, però, alle inchieste mediatiche.

Woodcock, il persecutore di vip che fa solo flop. Indaga sui potenti, ma colleziona archiviazioni. Ecco i suoi fallimenti, da Vallettopoli al Savoiagate, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La partenza è sempre da prima pagina, fra tuoni e fulmini. La conclusione, il più delle volte, è un'archiviazione formato spezzatino fra le tante procure che puntualmente ereditano i suoi fascicoli. Da Vallettopoli a quello che pomposamente è stato ribattezzato il Savoiagate la parabola delle inchieste condotte da Henry John Woodcock è, se ci è consentito l'aggettivo, mortificante. Assoluzioni ma, in più di un caso proscioglimenti senza nemmeno arrivare a processo, con contorno di risarcimenti per ingiusta detenzione. E il cittadino medio si chiede come sia possibile che ogni volta la montagna partorisca il topolino con il corollario delle umiliazioni, del passaggio in cella poi dimostratosi infondato, delle distruzione di una reputazione poi ricucita da altri giudici. Prendiamo il Vipgate, un nome che è un programma, il primo grande affaccio, nel 2003, del pm anglonapoletano sulla scena mediatica tricolore. Settantotto indagati, in pratica un concentrato del potere: politici di tutti i colori, da Maurizio Gasparri a Nicola Latorre, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice Anna La Rosa solo per fare qualche nome eccellente. Le accuse sono impressionanti: associazione a delinquere per la turbativa di appalti, corruzione, estorsione e altro ancora. L'Italia trema e scopre che la periferica procura di Potenza può fare molto male. Altri, come Maurizio Gasparri, se la cavano con una battuta: «Potrei dire di trovarmi in compagnia degli invitati alla prima della Scala senza esserci neppure andato». Tony Renis, più preoccupato, mette le mani avanti: «Il mio avvocato mi aveva avvisato: vedrai che prima di Sanremo ti sospetteranno anche per il delitto di Cogne. Quasi ci siamo». La paura dura poco. Il gip di Potenza respinge una quarantina di arresti e si dichiara incompetente, Roma che ha ricevuto le carte, archivia. L'accusa ha fatto cilecca. Panorama ribattezza il pm Woodflop. È solo il primo giro. Nel 2006 è il principe Vittorio Emanuele di Savoia a finire in manette e nel carcere di Potenza. Un capitolo riguarda la presunta corruzione legata all'installazione delle macchinette per il gioco d'azzardo nei casinò, un'altra pagina racconta lo sfruttamento della prostituzione. La storia millenaria dei Savoia tocca uno dei suoi punti più bassi, l'Italia viene inondata dai nastri. Intercettazioni su intercettazioni. Un classico del metodo Woodcock. E i dialoghi del principe diventano argomento da bar. Poi si ritorna al solito copione: l'incompetenza di Potenza, il trasloco di gran parte dei faldoni a Como e l'archiviazione senza sentenza, senza processo, senza nemmeno una richiesta di rinvio a giudizio. Nulla di nulla. Va appena meglio con Vallettopoli, altra parata da red carpet di personaggi scintillanti e glamour : la soubrette Elisabetta Gregoraci, Lele Mora, Fabrizio Corona, il portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, Poi i faldoni vengono spacchettati e prendono direzioni diverse: Roma, Milano, Torino. Nel capoluogo lombardo viene condannato solo Fabrizio Corona, il resto si perde per strada. Lui si trasferisce a Napoli. E ricomincia ad ascoltare e a martellare. Ma inciampa ancora. Nel 2012, insieme al collega Vincenzo Piscitelli, mette sotto pressione Claudio Scajola per le fregate lanciamissili destinate al Brasile. È l'intrigo degli intrighi: «La madre di tutte le inchieste per corruzione internazionale». Sarà, anche questa volta non si va da nessuna parte. Ma l'industria italiana perde un'altra commessa miliardaria.

"Giosi" Ferrandino, il sindaco di Ischia che voleva fare il grande salto, scrive “La Repubblica”. In particolare, secondo l'accusa, il 'prezzo' pagato dalla Cpl per la corruzione di Ferrandino consisterebbe nella stipula di due "fittizie convenzioni" con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della "messa a disposizione" di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, quale consulente della Cpl Concordia e almeno un viaggio tutto spesato in Tunisia. Nell'inchiesta emergono anche contatti con ambienti della criminalità organizzata. Un mese fa l'ex presidente del gruppo, Roberto Casari, era stato iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta sui lavori di metanizzazione compiuti tra il 1999 e il 2003 a Casal di Principe e in altri sei comuni del Casertano. Secondo l'ipotesi accusatoria, la Cpl si sarebbe aggiudicata l'appalto con l'appoggio della fazione dei Casalesi guidata da Michele Zagaria.

Ischia, la storia: Ferrandino e l'osservatorio per la legalità. L'organismo ebbe il patrocinio morale del ministero della Giustizia, le parole del primo cittadino in quell'occasione, scrive Pasquale Raicaldo su “La Repubblica”. Il sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, arrestato questa mattina con l’accusa di corruzione nell’ambito dell’inchiesta che ha coinvolto il colosso delle coop Cpl Concordia, aveva tagliato il nastro, un anno fa, all’Osservatorio sulla legalità, istituito dal Comune di Ischia con il patrocinio morale del Ministero della Giustizia. L’intento del nuovo organismo, aveva spiegato Ferrandino, era quello di “far diventare le amministrazioni locali dell’isola di Ischia vere e proprie sentinelle rispetto alla emersione di fenomeni di illegalità nel contesto territoriale”.  E al centro polifunzionale di Ischia, l’evento era stato accompagnato dalla presenza del gotha della magistratura. Nel convegno Ferrandino aveva sottolineato le responsabilità dei Comuni nella tutela della legalità:  “E’ al Comune - aveva spiegato - che si comunica l’inizio di un’attività imprenditoriale. E’ il Comune che rilascia concessioni e licenze, per lo svolgimento di attività commerciali in locali agibili ed urbanisticamente legittimi. Questi aspetti pongono gli enti locali di fronte a nuove responsabilità, proprio se si considera la capacità delle associazioni  criminali di avvalersi del contributo di soggetti apparentemente insospettabili e mai sfiorati da inchieste di camorra. E’ anche vero e non può essere sottaciuto - aveva proseguito Ferrandino - che nell’attuale contesto di grave crisi economica, più forte può divenire la sirena del guadagno illegale, frutto di un illecito accordo fra imprenditori in difficoltà ed associazioni criminali. Le associazioni criminali hanno i soldi. E con i soldi cresce il loro potere di influenza in un tessuto sociale duramente provato dalla crisi economica. Ancora una volta il ruolo degli enti locali, quelli più vicini al cittadino, diventa fondamentale. E fondamentale - aveva sottolineato Giosi Ferrandino - è il ruolo delle amministrazioni locali nella difesa del territorio. Un ruolo che le amministrazioni non hanno saputo o voluto esercitare per lungo tempo se si pensa al fenomeno dell’abusivismo edilizio in un’isola a lungo sprovvista degli strumenti di pianificazione  territoriale”. L’istituito Osservatorio sulla Legalità ha tra le finalità quella di “contribuire significativamente a realizzare forme di prevenzione dell’illegalità perché la prevenzione a differenza della repressione non ha costi”. “Mi auguro - era stato l’auspicio del sindaco di Ischia - che il contributo degli amici magistrati, anche attraverso l’Osservatorio per la Legalità del cui Consiglio Direttivo hanno accertato di far parte, possa concorrere al progresso della nostra comunità civile, non solo vigilando sui fenomeni di illegalità della nostra isola ma rendendo i ragazzi di oggi cittadini responsabili domani, nella certezza che solo educando le nuove generazioni al rispetto dei valori della  convivenza e della solidarietà la comunità isolana potrà crescere e in civiltà ed umanità”.

Il ruolo di D'Alema, scrive “La Repubblica”. In una delle intercettazioni agli atti dell'inchiesta uno degli arrestati, Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo, chiama in causa l'ex premier Massimo D'Alema sottolineando la necessità di "investire negli ItalianiEuropei dove D'Alema sta per diventare Commissario Europeo" in quanto "D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose". Il riferimento è alla fondazione creata nel 1998 da D'Alema. L'intercettazione ambientale in cui Francesco Simone parla di D'Alema con Nicola Verrini, responsabile commerciale di area della CPL Concordia, risale all'11 marzo 2014. Per il gip questa conversazione "appare di estremo rilievo", "oltre che per il riferimento a D'Alema" e "ad alcuni appartenenti alle forze di polizia", anche "per il modo in cui gli interlocutori distinguono i politici e le istituzioni loro referenti". Il gip sottolinea che la Cpl Concordia acquistò "alcune centinaia di copie dell'ultimo libro" di Massimo D'Alema ("Non solo euro"), nonché "alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da una azienda agricola riconducibile allo stesso D'Alema". Il gruppo ha anche sponsorizzato la presentazione del volume "Non solo euro" dell'ex leader del Pd a Ischia, l'11 maggio 2014. Nel novembre 2014 gli inquirenti hanno sequestrato tre dispositivi di bonifici effettuati dalla cooperativa in favore della Fondazione ItaliniEuropei, ciascuno per l'importo di 20 mila euro, nonchè un ulteriore bonifico per l'importo di 4.800 euro per l'acquisto di 500 libri di "Non solo euro" di D'Alema. Nelle carte anche fatture che dimostrano come la Cpl Concordia acquistò anche diverse copie di due diversi libri dell'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti che però ha chiarito: "Ho presentato il mio ultimo libro all'assemblea annuale di CPL Concordia, quelle copie sono state acquistate per essere distribuite in omaggio ai partecipanti". Massimo D'Alema è furioso. Si dice "offeso e indignato" e ha negato qualsiasi addebito: "Certamente ho rapporti con Cpl Concordia" ma "è un rapporto del tutto trasparente, che non ha comportato né la richiesta da parte loro né la messa in opera da parte mia di illeciti di nessun genere", ha affermato l'ex premier. Poi ha sottolineato: "Non ho avuto alcun regalo" e "nessun beneficio personale". L'ex premier definisce scandalosa e offensiva "la diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napol. "Ho dato mandato all'avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede", ha aggiunto D'Alema. Che poi ha voluto precisare: "La mia vicenda non c'entra nulla con quella di Lupi. Non sono un ministro, non sono un deputato, non ho commesso reati. Non vi è, infatti, nessuna intercettazione tra me e i dirigenti di questa cooperativa con cui avevo un rapporto normale come con altre migliaia di persone".

Cominciarono nel 1899. «Cpl Concordia», la coop dell’Emilia divenuta leader mondiale nel mercato gas partendo da una carriola. La coop coinvolta nell’inchiesta su mazzette a Ischia: 1.800 dipendenti, specialisti nel campo dell’energia. La preoccupazione della Cgil: non devono pagare i lavoratori, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Scrivi «Cpl Concordia» ma leggi un pezzo di storia grande così dell’Emilia. Che mescola solidarietà, lavoro, Resistenza. E oggi soprattutto tecnologia, brevetti. Innovazioni nel campo dell’energia. Ora, anche questo pesantissimo inciampo sulla storia di mazzette pagate a Ischia per la costruzione di una rete di distrubuzione di metano, attività in cui è specializzata la coop con sede a Concordia sulla Secchia, nel Modenese. Siamo nella Bassa sgretolata dal terremoto e colpita dall’alluvione disastrosa dello scorso anno. Se girate per i capannoni della Cpl li troverete ancora in giro cartelli a metà tra grinta, poesia e ottimismo con scritto «non mollam» e «Come l’araba fenice rinasce dalle sue macerie ». I numeri son solidi. Fatturato consolidato di 461 milioni nel 2014, 1.800 addetti e 70 società controllate e collegate in tutto il mondo. Nella Bassa non c’è famiglia che non conosca qualcuno che lavora in questa cooperativa storica, nata il 23 aprile 1899, formata, allora, da 382 poveracci, braccianti disoccupati, manovali senza lavoro: gli «scarriolanti», per usare il termine esatto, ossia braccia buone per muovere la terra, costruire argini, scavare canali. Un secolo e un quindicennio dopo la società opera in tutto il mondo e in settori tecnologicamente avanzati (energie, sia tradizionali che rnnovabili, e distribuzione di queste con la costruzione di reti e di impianti tecnologici). Bilanci sempre in utile da trent’anni, fatta eccezione per il 2004. I primi tempi però furono duri. Soprattutto nel Ventennio: le commesse non arrivavano, nemmeno con le bonifiche colossali nel Lazio, dove i braccianti emiliani e romagnoli vennero impiegati in modo massiccio. Dal 1935 al ’45, addirittura, venne sospesa l’attività. Per ripartire bisogna attendere la Liberazione. Poi arriva l’intuizione riguardante la costruzione delle reti di distribuzione del metano di cui il sottosuolo della pianura padana è pieno. Si apre una nuova strada. Tutto quasi per caso, a metà degli anni Sessanta, quelli del boom: una commessa ricevuta dal comune di Castelfranco Emilia. Ma poi si replica ovunque: e si prosegue a passi velocissimi. La cooperativa inizia a costruire reti per la distribuzione del metano, prima in Emilia, poi – dai primi ’70 – in giro per l’Italia (partendo da Novi Ligure). Al settimanale «Sette», l’ex presidente di Cpl Roberto Casari arrestato nell’inchiesta coordinata dalla procura di Napoli (in pensione da poco ma secondo gli investigatori ancora assai operativo nella cooperativa) raccontò così questo successo: «La crisi del petrolio ci favorì, il gas cominciava a essere vantaggioso. Ma, più in generale, la crisi ci obbligò anche a riflettere sull’utilizzo della materia prima. È così che scopriamo il tema del risparmio energetico e delle trasformazioni necessarie». Con il tempo Cpl diventa uno dei marchi italiani più noti. A cavallo del Duemila comincia a operare su scala mondiale: prima in Argentina, poi in Algeria, Grecia e Romania: «All’estero, oggi abbiamo 300 dipendenti». E adesso nel Modenese non si parla d’altro. Il volto bonario e operoso di Casari era conosciuto ovunque. Ma in ballo c’è il futuro della stessa coop. Valga per tutte la preoccupazione della Cgil provinciale: «Il quadro che ne esce è quello desolante di molte vicende similari nel nostro paese. Se i fatti contestati dovessero essere dimostrati emergerebbe un quadro strutturato di corruzione che coinvolge politica e sistema imprenditoriale, a diversi livelli». La preoccupazione è chiara e netta: «Bisogna evitare che, alla fine, a pagare siano i lavoratori - continua la Cgil - certamente tutti, sistema cooperativo, politica e sindacato sono chiamati ad un impegno straordinario, agendo concretamente per rendere la legalità, non solo a parole, il fondamento di ogni politica di sviluppo».

Da destra a sinistra in nome di Craxi. Chi è Simone che coinvolge D’Alema. È pugliese il regista degli affari della Cpl che ha portato in carcere il sindaco di Ischia. È stato uno dei più stretti collaboratori di Bobo anche quando è stato sottosegretario, scrive Rosanna Lampugnani  su “Il Corriere della Sera”. Francesco Simone, Franco per chi lo conosce da tempo, è finito in carcere nell’ambito dell’inchiesta coordinata dai pm napoletani Woodcock, Carrano e Loreto, con l’accusa di essere il regista degli affari sporchi della cooperativa Cpl Concordia che operava a Ischia per la metanizzazione dell’isola, operazione per cui sono finiti in manette anche il sindaco dell’isola e altre nove persone. A tanti il nome di Simone non dice nulla, ma chi ha seguito le vicende dei socialisti dagli anni ‘80 in poi lo conosce bene. Il nome dell’uomo che per la Cpl Concordia svolgeva il ruolo di responsabile dei rapporti istituzionali è, infatti, da sempre associato a quello della famiglia Craxi, in particolare a Bobo, di cui è stato uno dei più stretti collaboratori anche quando il figlio di Bettino ha ricoperto il ruolo di sottosegretario agli Esteri, nel secondo governo di Romano Prodi. Di Simone ha conoscenza antica Gianvito Mastroleo, socialista pugliese: «Fui io a portarlo da Conversano a Roma, in via del Corso, dove ben presto fece carriera, a cominciare dalla segreteria nazionale dei giovani socialisti. Con Bobo divide un lungo percorso, anche di amicizia personale oltre che politica: quando Craxi si buttò a destra con la sorella Stefania, alleandosi con Berlusconi, Franco si buttò a destra; e quando Bobo, ma non Stefania, tornò a sinistra, Franco lo seguì. Per questo fu chiamato da Craxi alla Farnesina, un luogo importante anche per stringere molti rapporti, per ampliare il giro di conoscenze». Il fatto che la Tunisia entri nell’inchiesta, come luogo di parcheggio delle provviste di danaro in nero necessarie al pagamento delle tangenti, non sorprende: «Simone - continua Mastroleo - al di là di ciò che l’inchiesta e il processo accerterà, certamente ha svolto un ruolo di lobbista importante proprio nel paese nordafricano. Conosce benissimo la Tunisia, tanto è vero che alcuni anni fa chiesi a lui suggerimenti e indicazioni turistiche prima di una vacanza in quel Paese». Ma non è tutto: una intercettazione telefonica del pugliese Simone - secondo quanto accertato dagli inquirenti - chiama in causa l’ex premier Massimo D’Alema, a proposito dell’acquisto di bottiglie di vino di sua produzione, di libri e del finanziamento della fondazione Italianieuropei. Un riferimento cui D’Alema ha immediatamente replicato: «Certamente ho rapporti con Cpl Concordia, per cui tenni anche una conferenza in occasione della sua assemblea annuale. Ho rapporti con Cpl come con altre cooperative e aziende private. Dalla Cpl non ho avuto alcun regalo ed è ridicolo definire l’acquisto di 2mila bottiglie di vino in tre anni come un mega ordine, peraltro fatturato e pagato con bonifici a quattro mesi. Quanto ai libri, nessun beneficio personale, ma un’attività editoriale legittima, che rientra nel normale e quotidiano lavoro della Fondazione. Inoltre i libri furono acquistati per una manifestazione elettorale dedicata ai temi europei, alla quale fui invitato dal sindaco Ischia Giuseppe Ferrandino, che era candidato del Pd». Infine, l’annuncio: «Do mandato all’avvocato Gianluca Luongo di difendere la mia reputazione in ogni sede».

«Ogni giorno c’è un esponente del Pd che si alza e sa che dovrà correre più veloce di una gazzella, e la gazzella chiaramente è una gazzella dei Carabinieri». Lo dice il deputato del direttorio M5s, Alessandro Di Battista in un video postato su Facebook in cui commenta l’arresto del sindaco di Ischia, Giuseppe Ferrandino. «Ieri il mio nome è stato associato in maniera subdola alla mafia di Ostia perché un reggente di una famiglia locale ha messo un like sulla mia pagina Fb. I giornali hanno montato ad arte la macchina del fango nei miei confronti ma oggi, hanno arrestato l’ennesimo esponente del Pd: Giuseppe Ferrandino, sindaco di Ischia» sottolinea Di Battista che aggiunge: «loro attaccano noi perché stanno alla frutta. E quando parliamo di frutta nel caso del Pd parliamo di arance».

L’ex premier: La giustizia? Non è pensabile che venga chiamata in causa la gente che non c’entra nulla». D’Alema: «L’inchiesta di Ischia? Vicenda scandalosa, persecuzione contro persona che non c’entra». La rabbia dell’esponente pd: «Non sono indagato, quindi non vedo di che cosa devo rispondere. Il vino non c’entra nulla con l’inchiesta. Sono totalmente estraneo», scrive “Il Corriere della Sera”. «Non sono indagato, quindi non vedo di che cosa devo rispondere. Il vino non c’entra nulla con l’inchiesta: la mia famiglia produce vino in una azienda, per altro ottimo, tant’è che abbiamo più domande che offerta». Lo ha detto Massimo D’Alema a Salerno, a margine di un convegno al Palazzo Arcivescovile, in merito all’inchiesta su mazzette e appalti che vede coinvolti, tra gli altri, il sindaco di Ischia. «Questa vicenda è scandalosa - ha detto l’ex premier - Mi sembra una forma di persecuzione contro una persona che non ha fatto nulla e non ha alcuna responsabilità pubblica. Tra l’altro non sono indiziato di nessun reato e vorrei essere lasciato in pace. Questa indagine - spiega ancora D’Alema - dura da diversi anni. Se io avessi compiuto dei reati e visto che queste persone sono state sentite dai magistrati, credo proprio che i magistrati mi avrebbero mandato un avviso di garanzia. Se nessuno ha ritenuto di dovermi indagare, allora vuol dire che non sono sospettato di aver compiuto alcun illecito». «Non c’entra nulla la mia vicenda con quella del ministro Lupi. Ho la massima solidarietà personale nei confronti di Lupi, ma i due casi non sono paragonabili» rimarca D’Alema al convegno su Sud, fondi europei e rilancio della Campania. «Lui - è il riferimento a Lupi - era ministro dei lavori pubblici e lì ci sono dei vincoli comportamentali. Io non sono ministro, io non do appalti. Un ministro ha degli obblighi di comportamento che derivano dalla sua carica. Io sono un cittadino qualsiasi in pensione. Non sono un ministro, non sono un deputato, non ho commesso reati. Non vi è, infatti, nessuna intercettazione tra me e i dirigenti di questa cooperativa con cui avevo un rapporto normale come con altre migliaia di persone. Non ho nessun incarico istituzionale di alcun genere. Non ho vincoli particolari per quanto riguarda i miei comportamenti. Se un ministro in carica riceve un regalo, può essere vista come una cosa sgradevole, al di là del fatto che sia o meno un reato, ma io non ho alcun obbligo istituzionale. Lancio un allarme - conclude D’Alema - Non capisco perché un cittadino normale, che non ha nessun ruolo istituzionale, possa essere perseguitato in questo modo. Questo può capitare a tutti ed è piuttosto sgradevole». «Una cosa è conoscere i dirigenti di un’impresa, che tra l’altro è una grande impresa nazionale - ha aggiunto - altra cosa è un’indagine che riguarda una vicenda precisa e cioè l’ipotesi che siano state pagate tangenti per il programma di metanizzazione dell’isola di Ischia verso la quale sono totalmente estraneo. Non vedo, dunque, cosa c’entra chi conosco e chi non conosco. È veramente incredibile». «Io - ha ribadito D’Alema - non sono indagato, non c’entro nulla. Ho conosciuto il sindaco di Ischia quando ormai era candidato alle elezioni europee. L’ho incontrato una sola volta nella mia vita in occasione di una manifestazione inerente le elezioni europee. La giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone, ma deve avere come fine la ricerca dei responsabili dei reati. Non è pensabile che venga chiamata in causa la gente che non c’entra nulla. Non so nulla di questa vicenda. Sono totalmente estraneo. D’altro canto nessuno ipotizzi che io c’entri dal momento che non sono indagato. Non vedo di cosa debba rispondere. Non si può utilizzare una vicenda giudiziaria con lo scopo di chiamare in mezzo delle persone che sono estranee. Che rapporto c’è - ha concluso D’Alema - tra i reati di cui si parla e il fatto che io possa avere rapporti con le persone?». In mattinata, appena saputo degli avvisi di garanzia, D’Alema aveva rilasciato questo commento: «Certamente ho rapporti con Cpl Concordia - la coop emiliana i cui dirigenti avrebbero pagato mazzette per ottenere gli appalti a Ischia - » ma «è un rapporto del tutto trasparente, che non ha comportato né la richiesta da parte loro né la messa in opera da parte mia di illeciti di nessun genere»: «non ho avuto alcun regalo» e «nessun beneficio personale».

«Compriamo libri e vino di D’Alema» Poi la frase sullo sporcarsi le mani. Dalle intercettazioni dell’inchiesta su appalti e tangenti a Ischia emerge il nome dell’esponente Pd. Ecco le carte, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Quando parlavano di politici, amministratori e istituzioni, facevano una sola distinzione: quelli a disposizione e quelli che rifiutavano. In realtà l’espressione utilizzata dai vertici della cooperativa «Cpl Concordia» era ben più colorita: «Quelli che mettono le mani nella m...». E naturalmente per agevolare questo atteggiamento erano disposti a pagare tangenti da migliaia di euro, ma anche a elargire donazioni e favori grazie alle conoscenze di Francesco Simone, che prima di occuparsi delle pubbliche relazioni della coop era segretario fedelissimo di Bettino Craxi. «Asservito», secondo il giudice di Napoli, è il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, del Partito democratico, che riesce ad agevolarli nell’affare della metanizzazione dell’isola. Lui ne trae numerosi vantaggi, forse anche per soddisfare le proprie ambizioni che vanno oltre l’incarico che ha. E infatti, in occasione della campagna elettorale, decide di andare a Roma «per parlare con Lotti», il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Tra i favori elencati dai magistrati per dimostrare il tentativo di condizionare le personalità c’è l’acquisto di centinaia di copie dei libri scritti da Massimo D’Alema e Giulio Tremonti, le 2.000 bottiglie di vino che sempre D’Alema aveva prodotto, i viaggi in Tunisia offerti a numerosi amministratori. È il novembre del 2013. Simone scrive una mail ai vertici della «Cpl» e allega la legge di stabilità approvata dal Senato. Sottolinea, come si legge nell’ordinanza, «che il sottosegretario Simona Vicari - il cui intervento era stato da loro stessi invocato - è la persona che si sarebbe impegnata (appunto su loro indicazione) a far assegnare 140 milioni di euro (distribuiti in 20 milioni per 7 anni) per il completamento delle opere di metanizzazione dell’Italia del sud, di cui beneficerà evidentemente anche “Cpl”. Stando a Simone, Vicari si sarebbe personalmente impegnata a far rimuovere, durante i vari passaggi parlamentari, le parole “nei limiti” alla cifra di 140 milioni». Scrive il giudice: «Per comprendere fino in fondo e delineare in maniera completa il sistema affaristico gestito dalla “Cpl” appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti con l’onorevole Massimo D’Alema». Si torna all’11 marzo 2014 quando Simone parla con il responsabile commerciale di «Cpl» Nicola Verrini. «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Dieci giorni dopo lo stesso Simone parla con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema». Il giorno dopo Simone chiama il sindaco Ferrandino «e lo informa che il 10 e l’11 maggio D’Alema andrà a Ischia, sottolineando l’importanza dell’evento che cade nel periodo della campagna elettorale per le europee: “Questo pure è un segnale forte che ti appoggia tutto il partito”». Il 6 novembre scorso Simone dichiara a verbale di fronte al pubblico ministero Henry John Woodcock: «Confermo che la “Cpl” ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rappresentarvi che fu D’Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice dà conto di una perquisizione effettuata il 20 novembre 2014 negli uffici della «Cpl» durante la quale venivano sequestrati: «Tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20mila euro (uno dell’8 novembre 2012, l’altro del 9 giugno 2011, un altro ancora del 7 febbraio 2014) nonché un ulteriore dispositivo di bonifico effettuato l’8 luglio 2014 per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”. Venivano acquisite anche due fatture sull’acquisto da parte della “Cpl” di due diversi libri scritti dall’ex ministro Giulio Tremonti rispettivamente di 7.440 euro e 4.464 euro». Agli inizi del 2014 Giuseppe Ferrandino è in campagna elettorale. Il 21 gennaio il fratello Massimo «gli passa una certa Milena e lei lo rimprovera che le avrebbe detto che sarebbe andata a Roma e l’avrebbe chiamata. Lui dice che andrà mercoledì, domani pomeriggio. Milena dice: “Perché ti devo parlare qua. Ho parlato con tuo fratello, c’è un interscambio che dobbiamo fare io e te”. Ferrandino dice che domani a Roma deve andare al Parlamento a incontrare due deputati, Milena insiste per sapere chi sono i deputati. Ferrandino dice che si tratta di Cuomo e Piccolo. Milena in proposito dice: “Giosi punta in alto!”. Ferrandino dice che i voti li deve prendere in Campania e che deve parlare con Luca Lotti». Per far comprendere quale sia la «rete» di Simone e dei responsabili della «Cpl» il giudice inserisce nell’ordinanza un’intercettazione ambientale tra Simone, il sindaco Ferrandino e l’imprenditore Massimiliano D’Errico «durante la quale Simone dice che un suo amico che si è appena laureato carabiniere vuole andare ai Servizi.

Ferrandino : «Lo dimo a D’Alema».

Simone : «A Minniti?».

D’Errico : «E facimmo prima. Sennò parliamo con Esposito, il generale Esposito».

Ferrandino : «Pollari».

Simone : «Qua sotto Pollari e Marco Mancini».

D’Errico : «E allora tutti quanti».

Ferrandino : «E Fini lo conosci?».

D’Errico : «No».

Simone : «Vi presento Angelo Proietti, il novanta per cento dei lavori che fanno al Vaticano, li fa lui. Era l’uomo di Anemone e Balducci... alla grande, tutti i cardinali adesso hanno messo sotto mano il Bambin Gesù... si è risistemato».

D’Errico : «Tengo questo ragazzo che è il figlio di questo qua... vuole andare... spostare all’Interpol».

D’Alema, sempre lui…e gli altri.

Grandi opere, dalle carte spunta anche D’Alema, scrive “Il Tempo”. Il ministro Lupi si sarebbe dato da fare per cercare un lavoro al figlio. Ma lui nega. Spuntano come funghi e spesso finiscono nel tritacarne mediatico. Come in ogni grande indagine i nomi eccellenti vengono messi nero su bianco. Gli indagati, intercettati, parlano a ruota libera, anche con persone che con le inchieste non c’entrano nulla. Ma alla fine, comunque, il loro nome viene inserito in atti giudiziari. Uguale, vengono considerati comunque come presunte persone che in un modo o nell’altro hanno avuto un ruolo o un rapporto con chi invece avrebbe effettivamente commesso un reato. L’inchiesta di Firenze, dunque, non si distingue dalle altre. Anche in questo caso infatti non mancano nomi "vip" pronunciati da chi da due anni è nel mirino dei carabinieri del Ros coordinati dai pm toscani. Tra questi, c’è il nome di Massimo D’Alema che come molti altri non è in alcun modo coinvolto nell’inchiesta. A citarlo nelle carte è Ercole Incalza, principale indagato. Era l’8 giugno del 2014 quando l’ex dirigente del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, dopo aver letto alcuni articoli di giornale riguardo le vicende relative al Mose di Venezia, viene intercettato: «Chiamiamo... avvisiamo D’Alema...» afferma l’uomo. Bastano tre parole per far finire nel mare magnum di un’inchiesta giudiziaria anche l’ex Presidente del Consiglio. La telefonata però è chiara e il nome del politico viene citato da un indagato che vorrebbe intervenire su articoli poco graditi. Servizi giornalistici che portano Incalza a confidarsi con Sandro Pacella e, dopo avergli parlato dell’articolo, gli dice «mi devo vedere con Lupi assolutamente... questa cosa è molto seria». Anche il Ministro è spesso citato negli atti pur non essendo indagato. Accade ad esempio nella vicenda relativa al porto di Olbia, uno dei grandi appalti "sospetti". Franco Perotti, arrestato, nell’ottobre scorso scopre di avere una forte concorrenza per quanto riguarda il progetto. È un grande affare e quindi l’uomo «si attiva immediatamente nel segnalare a Franco Cavallo (altro arrestato, ndr ) che ha stretti legami con il vertice del ministero delle Infrastrutture, l’esistenza del problema». «Il 21 ottobre 2013 Franco Cavallo chiede un appuntamento ad Emmanuele Forlani della segreteria del Ministro Lupi». Dieci giorni dopo «Stefano Perotti aggiorna Giorgio Mor sugli sviluppi dell’affidamento dell’incarico di progettazione per i lavori del porto di Olbia riferendogli che il 12 novembre successivo andrà a parlare con il capo, cioè con il commissario Fedele Sanciu». Lo stesso giorno Cavallo «telefona a Fedele Sanciu, e, presentandosi come "l’amico di Maurizio", gli accenna soltanto che andrà a trovarlo in Sardegna quanto prima». Qualche ora dopo Franco Cavallo ritelefona a Fedele Sanciu il quale subito fa presente: «Mi ha telefonato il ministro». Cavallo risponde: «... Sì sì... so tutto ero con lui... ma noi ci siamo visti... ci siamo già conosciuti sulla sua barca... ero con Maurizio qualche volta... senta... io vorrei venire da lei.. a trovarla...». «Particolarmente significativa al fine di comprendere il giro di interessi e l’influenza che Stefano Perotti ha sul "mondo politico" – si legge negli atti - è la vicenda relativa al conferimento dell’incarico a Luca Lupi, figlio del ministro Maurizio Lupi». Nel gennaio Perotti «nell’informare il cognato di essere riuscito a convincere i dirigenti dell’Eni ad avviare un’attività di progettazione a loro affidata – continuano gli atti - gli prospetta la necessità di far lavorare in quest’appalto un giovane pagato da loro stessi ("... e metterei un direttore ... un giovane che ho bisogno di far entrare... ovviamente è rimborsato da noi..."). Il riferimento ad alcune indicazioni contenute nel curriculum e il suggerimento a Giorgio Mor ("... è figlio di un mio amico che hai conosciuto anche tu...") lasciano ritenere che si tratti di Luca Lupi(...). Il 10 febbraio 2014 Luca Lupi si vede con Stefano Perotti presso il cantiere della City Life e, dopo meno di un’ora, il secondo telefona al suo ufficio ravennate e chiede alla dipendente quale sia la procedura più conveniente ai fini contributivi per l’assunzione di un «ragazzo... che deve prendere 2.000 euro più iva». Dalle carte dell’inchiesta emerge che anche il ministro Maurizio Lupi si sarebbe dato da fare per trovare un lavoro al figlio. Circostanza però che lui ha negato. Cavallo sarebbe un uomo chiave: «Anche Claudio De Eccher – si legge negli atti - ricorre a Franco Cavallo per raggiungere le autorità istituzionali». Gli inquirenti scrivono inoltre: «Va segnalato che l’imprenditore Claudio De Eccher è stato sottoposto a misura di prevenzione dal Prefetto di Udine». Nel luglio 2014 Claudio De Eccher rivolge a Franco Cavallo una precisa richiesta: «A questo punto te lo chiedo in modo... in modo molto... come dire?... deciso... bisogna che tu ne parli e che ne parliate anche con il ministero degli Interni...». Egualmente esplicito è Claudio De Eccher in una mail indirizzata a Cavallo: «Ti chiedo a questo punto il grande favore di informare di quanto sopra il nostro comune amico con preghiera di urgente intervento sul ministero degli Interni». Effettivamente Franco Cavallo, dopo appena pochi minuti, inoltra la mail al ministro Lupi chiedendogli un incontro. «Il 18 luglio 2014 Franco Cavallo, dopo essersi incontrato con il ministro Lupi, ha telefonato a Claudio De Eccher dicendogli: "Io ho parlato con lui... aveva già parlato sia con l’avvocato sia con Angelino"».

Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd giura il presidente Matteo Orfini non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.

ISCHIA. ABORTI CLANDESTINI E FALSI OBIETTORI DI COSCIENZA.

Praticavano aborti clandestini nei loro studi privati ed in qualche caso anche in Ospedale, dove però il centro per le interruzioni volontarie di gravidanza non è mai stato allestito, scrive "Tele Ischia".

Sono queste le contestazioni che la Procura della Repubblica di Napoli, dopo oltre due anni dall’avvio delle indagini, ha mosso ad Attilio Conte, Primario del reparto di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale Rizzoli di Lacco Ameno (Ischia) ed all’Aiuto, Giovanni Strudel.

I militari della Guardia di Finanza hanno notificato l’avviso di chiusura delle indagini a medici, difensori ma anche a sei donne, cinque italiane ed un’ucraina che si sono prestate alla pratica degli aborti clandestini. A far finire nei guai i due conosciutissimi professionisti sull’isola d’Ischia una troupe di giornalisti, un giornalista locale e la troupe delle IENE.

Da esca alcune giovani donne che chiedevano per se stesse o per amiche, come poter risolvere il “problema” di una gravidanza indesiderata. Per Attilio Conte – in ospedale obiettore di coscienza - e Giovanni Strudel nessun timore e problema, ignari di essere registrate da microtelecamere, concordarono e “confessarono” la propria disponibilità ad effettuare aborti clandestini. Immagini e dichiarazioni esplosive sfociate nell’inchiesta giudiziaria.

Al Primario Attilio Conte la Procura contesta la violazione della legge 194 ed in particolare tre casi di aborti clandestini perché, scrive il pubblico ministero: “cagionava illegalmente e clandestinamente l’interruzione volontaria della gravidanza di una donna gravida alla 6° settimana, praticando l’intervento abortivo in assenza degli accertamenti previsti e presso il proprio studio privato”.

Ad un ulteriore contestazione per un’interruzione di gravidanza effettuata nel 2003, praticata ad una donna di 21 anni, gravida alla 7° settimana, si affianca l’accusa di falsità ideologica per aver il Primario “attestato falsamente nella cartella clinica relativa ad una paziente  ricoverata presso l’Ospedale Rizzoli, al fine di assicurarsi l’impunità, di aver proceduto a svuotamento e revisione cavitaria a seguito di aborto ritenuto, ben consapevole della non veridicità della predetta diagnosi per aver proceduto ad interruzione volontaria della gravidanza in violazione di legge, ovvero in assenza degli accertamenti previsti ed in struttura sanitaria non autorizzata alle interruzioni volontarie di gravidanza”.

Terza ed ultima contestazione viene mossa al Primario Conte per l’interruzione di gravidanza di un’altra 21enne, gravida alla 19° settimana”. Anche in questo caso si è affiancata una seconda contestazione di falso ideologico per “aver attestato falsamente nella cartella clinica di una paziente ricoverata presso l’ospedale Rizzoli, che la predetta aveva espulso spontaneamente un feto premorto, ovvero un aborto spontaneo, ben consapevole della non veridicità della diagnosi”.

Analoga contestazione all’aiuto Giovanni Strudel, indagato per altri tre casi di interruzione illegale e clandestina di gravidanza, e per aver attestato “falsamente nella cartella clinica di una paziente di (una 40enne isolana) ricoverata all’ospedale Rizzoli - gravida alla 20° settimana – che la predetta aveva avuto un aborto spontaneo, ben consapevole della non veridicità della diagnosi per aver proceduto ad interruzione volontaria della gravidanza della paziente in violazione di legge, ovvero oltre 90 giorni dal concepimento, in assenza della verifica di condizioni patologiche ed in struttura sanitaria non autorizzata alle interruzioni di gravidanza”.

Nel febbraio 2006 il fatto balzò agli oneri della cronaca soprattutto quando la troupe di giornalisti, dopo lo scoop, si recò davanti allo studio dello Strudel per un’intervista. Un amico del medico aggredì la troupe con calci e pugni mandandone due all’ospedale. Arrestato dalla Polizia venne poi accusato di rapina per essersi impossessato con violenza di una delle due telecamere. Processato per direttissima venne condannato, sentenza confermata nei mesi scorsi dalla Corte di Appello di Napoli.

META DI SORRENTO. POLIZIOTTI CRIMINALI.

Ci sono appartenenti alle forze dell'ordine che, liberi dal loro lavoro, hanno rischiato la vita (e a volte ce l'hanno rimessa), per bloccare criminali in azione. E ce ne sono altri che, sempre liberi dal servizio, si trasformano loro stessi in criminali.

È il caso di Ciro Arpino, 52enne originario di Vico Equense. È stato arrestato per rapina della farmacia Elifani, a Meta, in via Cosenza. A bloccarlo sono stati gli agenti del commissariato di Sorrento, insieme con il loro dirigente, il vicequestore Galante, di ritorno da una lezione sulla legalità nella scuola «Amalfi» di Piano di Sorrento.

Poliziotti e funzionario sono stati “attivati” da un automobilista di passaggio che, vista la volante, ha segnalato due uomini inseguirne un terzo. In piazza Madonna di Roselle, due dipendenti della farmacia Elifani hanno raccontato di aver subito una rapina e hanno indicato il farmacista che inseguiva il rapinatore. Del bandito i due hanno fornito anche una dettagliata descrizione, precisando anche che l’uomo era armato di pistola.

In pochi minuti i poliziotti hanno bloccato il rapinatore in sicurezza, senza creare panico tra i passanti. L’uomo nelle tasche del giubbino aveva il berretto nero di lana e gli occhiali da sole utilizzati per camuffarsi, i 120€ appena rapinati. La sorpresa arriva dall'esame del contenuto della tasca dei pantaloni dalla quale sbuca il suo tesserino di riconoscimento di appartenente alla polizia penitenziaria, con il grado di ispettore; nella cintola dei pantaloni c'è la pistola d’ordinanza Beretta con caricatore e cartucce.

La ricostruzione è stata quanto mai semplice: poco prima delle 17, in via Cosenza, l'ispettore della penitenziaria, camuffato, pistola in pugno, ha minacciato i presenti e si è fatto consegnare l'incasso. Le stesse vittime hanno confermato che l'arrestato era effettivamente l'uomo che poco prima aveva messo a segno il colpo, rimanendo allibiti quando hanno saputo che l'uomo era un appartenente a una forza di polizia. sono adesso in corso ulteriori accertamenti per stabilire l'eventuale responsabilità dell'ispettore Ciro Arpino, già ospite del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, in altre rapine compiute con la stessa metodica.

NOLA ED I SUOI PARADOSSI.

Accusati di lavorare troppo, di essere troppo produttivi, di rimanere troppo tempo in aula ad interrogare pentiti, ad ascoltare testimoni, a puntare l’indice contro boss e gregari dei cartelli camorristici dell’area vesuviana.

È l’accusa che sta alla base di una clamorosa protesta della camera penale di Nola: forte dell’appoggio dei vertici nazionali dei penalisti, gli avvocati nolani hanno proclamato otto giorni di sciopero a marzo, per protestare contro il calendario sprint imposto dal Tribunale nolano.

Quattro udienze alla settimana, lo sciopero degli avvocati, culminato in esposti e interpellanze parlamentari (ma anche al Csm e al Ministro) e con la replica di ieri mattina dei giudici. Che - ironici ma non troppo - replicano: «Siamo al paradosso, ora ci accusano di lavorare troppo, in tempi di processo breve e di crociate antifannulloni».

Poi, più seriamente: «Questa protesta mette in pericolo i magistrati di Nola, in un contesto a rischio camorra». Uno scontro a tutti i livelli, dunque, locale e nazionale. Ma andiamo con ordine, a partire dall’ultimo atto. Da ieri in campo c’è l’Anm. Ma che succede a Nola? C’è un punto fermo: i penalisti hanno sancito otto giorni di sciopero - dall’otto al sedici marzo 2001 - per protestare contro la decisione del Tribunale di fissare quattro udienze alla settimana, per portare a termine un processo contro organizzazioni criminali locali.

Sciopero con l’approvazione dell’Unione delle camere penali, presidente Oreste Dominioni, che viene però stigmatizzato dai giudici. Scrivono i vertici nazionali dell’Anm (Luca Palamara e Giuseppe Cascini): «Si verificano assurdi attacchi all’esercizio della giurisdizione, sia da parte della politica che degli stessi operatori del settore, che ne provocano una ulteriore delegittimazione. Stupisce come l’avvocatura non dimostri la dovuta sensibilità a tali esigenze e ufficializzi una protesta contro la magistratura nolana, colpevole di celebrare troppe udienze, cioé di compiere ogni sforzo per arrivare alla conclusione del processo in tempi ragionevoli».

Stessa lunghezza d’onda per la giunta distrettuale Anm, guidata a Napoli dal giudice Francesco Cananzi, che ricorda invece il rischio sovraesposizione per i giudici di Nola e la decisione di alcuni imputati di rimettere provocatoriamente il mandato dei propri difensori nel corso del processo: «È assolutamente paradossale che proprio quando i magistrati garantiscono un impegno straordinario, nel rispetto delle prerogative difensive e in applicazione delle norme del codice di procedura penale, per trattare processi complessi con numerosi imputati detenuti per reati di criminalità organizzata, siano tacciati di efficientismo ed autoritarismo nel rendere giustizia, in ossequio ad un sinistro modello inquisitorio».

La giunta di Cananzi insiste e avverte: «Le accuse dei penalisti mortificano, queste sì, il ruolo dei difensori, che ben sanno e possono far valere le legittime censure nell’ambito del processo, con gli strumenti propri della difesa tecnica, che deve restare libera da ogni condizionamento, per la dignità costituzionale della funzione difensiva. Allarma che nella delibera si faccia riferimento alle proteste di alcuni imputati detenuti, che al fine di censurare le modalità di trattazione del processo hanno ritenuto di revocare il mandato difensivo. Peraltro, i toni utilizzati nella delibera, certamente sopra le righe, amplificano il rischio di una sovraesposizione dei giudici».

Diverse, sull’altro versante, le recriminazioni della camera penale di Nola del presidente Giuseppe Guida, che parla di grave violazione del diritto di difesa per la trattazione dei processi, oltre a chiedere un intervento del Ministero della giustizia e degli organi inquirenti: c’è l’impossibilità di svolgere il controesame di testi e pentiti, in mancanza del verbale stenotipico, poi l’impossibilità di seguire quattro udienze a settimana dello stesso processo, visti gli altri impegni professionali in agenda, ma anche la riduzione del processo penale (luogo dell’accertamento della prova) a semplice finzione giuridica.

Protesta in corso, sciopero annunciato a colpi di esposti e denunce, in un Tribunale chiamato a verificare per la prima volta lo tzunami di accuse dei pentiti del clan Sarno, che hanno scompaginato clan di lunga durata, nella delicata fase di transizione successiva all’arresto dei fratelli Russo dopo anni di latitanza.

PORTICI E L'ASSENTEISMO AL COMUNE.

ASSENTEISMO IN COMUNE: TRENTASEI ARRESTI A PORTICI.

I dipendenti pubblici, che avevano escogitato un sistema per non essere quasi mai al lavoro, sono accusati di truffa.

La Squadra Mobile e la Digos della Questura di Napoli, assieme agli agenti del Commissariato locale, stanno dando esecuzione a 36 ordinanze di custodia cautelare con il beneficio dei domiciliari emessi dal Gip del Tribunale partenopeo nei confronti di dipendenti del comune di Portici per truffa aggravata e continuata. I dipendenti comunali sarebbero accusati di assenteismo. Notificate anche 58 avvisi di chiusura indagini.

POZZUOLI E LE SUE ISTITUZIONI.

Pozzuoli, il sindaco irreperibile. Doppio incarico e doppio schieramento.

Consigliere regionale con i voti del centrosinistra, sindaco con quelli del centrodestra, scrive "La Repubblica". La tecnica del dottor Pasquale Giacobbe, medico di base e primo cittadino di Pozzuoli, la città dei mitici Campi Flegrei, nel far resistere il proprio piede nelle classiche due scarpe, merita una menzione particolare. Perché Giacobbe ha elevato la furbizia a pratica politica complessa facendovi ricorso anche nella fase estrema della destituzione, per incompatibilità, dall'incarico regionale.

Quando finalmente la Regione Campania si è decisa - mesi dopo l'ingresso dell'incompatibile in aula - a notificargli la decisione di espellerlo dal consesso per via del suo doppio incarico,  Giacobbe si è dato alla fuga. Dagli uffici comunali è scomparso e anche dalla sua abitazione. Il messo notificatore non ha potuto far altro che accertarne l'assenza, l'irreperibilità. "Macché assente, ero malato, cioè in ferie. E solo per una settimana e per questi ultimi tre giorni", dice il sindaco ricomparso in tempo a rendere la sua furbizia vincente ed esemplare. Perché la notifica, che adesso è stata ricevuta, è compiuta fuori tempo massimo e consentirà al sindaco di resistere nel seggio fino alla scadenza naturale del prossimo marzo. Quel che voleva.

La tecnica di Giacobbe, che d'ora in poi sarà studiata e forse emulata altrove, riserva all'autore anche un altro premio. Da luglio, come la legge gli concede, pur consapevole della propria incompatibilità, ha optato di ricevere, tra le due buste paga in gara, quella più pesante: quella cioè da consigliere regionale. A cui è stato chiamato nel maggio scorso in sostituzione di un suo ex compagno di partito, Roberto Conte, destituito perché condannato.

Giacobbe si era candidato nel 2005 con la Margherita, ed è subentrato grazie ai voti raccolti sotto quel simbolo quando il suo tragitto politico aveva già mutato segno. Nel 2008, grazie al sostegno del centrodestra, era infatti stato eletto a sindaco di Pozzuoli. Sapendo far di conto Giacobbe ha capito che la sua forza sarebbe derivata dalla capacità di resistere nell'ubiquità: un po' al comune un po' al consiglio regionale; un po' di destra e un po' di sinistra. Quando il suo nuovo partito ha comunicato la decisione che i sindaci, nel caso vogliano sottoporsi alla prossima gara regionale, devono assolutamente dimettersi dalla carica di primo cittadino, lui non ha fatto una piega. Non solo non si è dimesso da sindaco, ma ha reso difficile anche la ricezione della notifica della Regione Campania per quel secondo incarico.

Irreperibile, fuori sede, in una parola: scomparso. La fantastica fuga, giacché alla furbizia gli italiani offrono sempre grande considerazione, gli è valsa una seconda deroga ad personam: il partito di Berlusconi gli concederebbe, nel caso voglia, di candidarsi al consiglio regionale senza doversi dimettersi. Le regole sono fatte per essere derogate, e i furbi, che non sono fessi, vincono sempre. Lei Giacobbe si candiderà al consiglio regionale? "Se il partito me lo chiede...". E non si dimetterà da sindaco come prescrive la legge: "Assolutamente no".

POZZUOLI, PERQUISITA LA CASERMA. TRA I 14 C'E' ANCHE IL GENERALE PALAZZO.

Un’intera stazione dei carabinieri (quella di Pozzuoli) perquisita, quattordici avvisi di garanzia recapitati a ufficiali e sottufficiali dell’Arma e a un vicequestore della Polizia di Stato (dal giornale Il Messaggero del 16/4/2005). Le ipotesi di reato sono di quelle pesanti: corruzione, falso, abuso di ufficio e favoreggiamento aggravato a vantaggio di un clan camorristico.

Stiamo parlando di un’inchiesta, condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, che avrebbe scompaginato un autentico «grumo di corruttele», come affermano i pm Antonio Ardituro, Raffaele Marino e Antonio D’Alessio. I tre magistrati asseriscono di essersi trovati di fronte a «un comitato politico-mafioso-affaristico che coinvolge ambienti politici e istituzionali, finalizzato alla salvaguardia di interessi illeciti e senz’altro contiguo, se non interno, alle associazioni camorristiche».

Colpisce che, nel registro degli indagati dai magistrati napoletani, sia finito addirittura il generale Sabato Palazzo. Palazzo non è uno qualsiasi. In pensione da circa un anno, ha comandato (l’ultimo suo incarico) la Regione carabinieri di Napoli ma soprattutto è stato comandante del Ros dell’Arma per circa tre anni e mezzo. Dunque è stato a lungo l’uomo di punta dei carabinieri nella lotta alla criminalità organizzata. Vederlo ora indagato con l’accusa di aver fatto favori - proprio lui - a un boss della camorra, fa davvero impressione.

D’altronde i pm napoletani sostengono che, da intercettazioni telefoniche, sarebbero emersi assidui rapporti di frequentazione tra camorristi e membri delle Forze di Polizia. Il boss camorrista Giuseppe Del Giudice, secondo quanto affermano i pm, l’avrebbe fatta da padrone, chiedendo e ottenendo i trasferimenti di carabinieri “scomodi” e promozioni di militari amici. E avrebbe, il boss, contraccambiato i favori offrendo donne, regalando televisori, cene, biglietti omaggio per traghetti e riparazioni di auto.

Tra gli episodi citati dai pm, come esempio dei presunti rapporti collusivi, ci sarebbe l’intervento del capitano Francesco Sessa, della compagnia di Pozzuoli, che avrebbe inquinato le indagini evitando di verbalizzare le dichiarazioni di una collaboratrice di giustizia sul boss Del Giudice. Un capitolo dell’indagine riguarda la rimozione da Pozzuoli di carabinieri che, con la loro attività investigativa, avrebbero dato fastidio ai clan locali. Negli atti dell’inchiesta si fa infatti riferimento al clima di intimidazione nei confronti di carabinieri che avrebbero “osato” svolgere le indagini. Per le presunte minacce nei confronti di alcuni sottufficiali è in corso - dicono i pm - un procedimento nei confronti del maggiore Nicodemo Macrì, del nucleo di Napoli. Anche un encomio solenne (al colonnello Michele Giordano) è diventato sospetto, per i pm. Così come è diventato sospetto il superamento di un concorso da maresciallo da parte della figlia del maresciallo Esposito, uno degli indagati. I magistrati vogliono vedere chiaro anche su un trasferimento da Pozzuoli di un tenente che aveva emesso un avviso orale nei confronti del boss Del Giudice.

TORRE DEL GRECO E LA GIUSTIZIA LUMACA.

Giustizia lumaca a Torre del Greco, in causa per una eredità da 33 anni.

«Quando è iniziata questa causa avevo 16 anni. Ero minorenne con progetti da grande. E sognavo un giorno di poter andare ad abitare in uno degli appartamenti appartenuti ai miei nonni materni. Oggi sono alla soglia dei 50 anni e ancora quel procedimento giudiziario è in corso». Tra le braccia Vito Iura, poliziotto di Torre del Greco in servizio al porto di Napoli, tiene un faldone pieno zeppo di documenti: «È uno dei tanti che abbiamo sistemato in una stanza e che riguarda la causa ereditaria che vede contrapposta mia mamma agli altri quattro fratelli per dividersi l'eredità dei genitori». Nonni materni deceduti nel 1977 senza lasciare testamento. Di qui alle carte bollate il passo è stato breve.