Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste
testuali
tematiche
e
territoriali.
Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul
1° canale,
sul
2° canale,
sul
3° canale
Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono
indicate.
Promuovo
in video
tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato.
Ascolto e Consiglio
le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei
siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali
video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per
quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo
i media mi
censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni
delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte.
Nessuno mi
sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi
mantenere. Non vivo solo di aria:
Sostienimi o
mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr
Antonio Giangrande
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996
0999708396
INCHIESTE IN TESTO:
TEMA -
TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE:
CONTROTUTTELEMAFIE -
MALAGIUSTIZIA -
ANTONIO GIANGRANDE -
TELEWEBITALIA
LIBRI:
HTML -
EBOOK -
BOOK
FACEBOOK:
(personale)
ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi)
ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE -
TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV:
TELE WEB ITALIA
NEWS:
RASSEGNA STAMPA -
CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
I LECCHESI SONO DIVERSI DAGLI
ALTRI ?!?
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su
atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
TUTTO SU LECCO
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I LECCHESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che i Lecchesi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Lecchesi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PER UNA LETTURA UTILE E
CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED
INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE
MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO
TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER
TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’
E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’
IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA.
QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA
MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’
TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI
ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA,
INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE
A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO
CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA
CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE
COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI
SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI
DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI
PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI.
NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE
PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA
MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60
MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI
DI GIUSTIZIA.
LOTTA
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO
STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO.
LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI
STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
LECCO
MAFIOSA.
LA BANDA
DEGLI ONESTI LECCHESI.
VIOLENZA DI STATO.
MALAGIUSTIZIA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande,
orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si
può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli
avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati
e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti
uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati.
Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra
idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo
diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità
(desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini,
leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa
disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio
irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza
per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio
conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola,
e non solo);
L’Ira (irrefrenabile
desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione
(torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo
l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi,
chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i
precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni
religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore
come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi
sono detti Capitali.
I
vizi capitali
sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima
umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco
di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine
deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana,
contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti
"capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura
umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i
vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei
vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al
pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che
formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una
certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini
non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la
distruggono.
In questo mondo vizioso tutto
ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a
dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano,
ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza
giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione,
ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea
nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza
contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia
senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non
era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo...
tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya
Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi
esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano
vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando
guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della
Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono
sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si
indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e
comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio:
"Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che
vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura
semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono
essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i
loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il
Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come
quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono
vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori
da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè
scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere
“C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il
successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti
querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere
saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi.
Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e
del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di
scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri
scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo
saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte,
di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima
non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli
altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi
non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un
delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e
tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei
miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità
oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha
mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente
per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di
sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio
Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento
alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare
sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro
Manzoni.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Antonio Giangrande, perché è
diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la
legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento
conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione
necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due
facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata
in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli
alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della
Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di
Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di
Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La
Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e
Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male,
ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più
difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la
prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati.
Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che
fotte la Legge.
La giustizia che debba essere
uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo
irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica
quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della
legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita
nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro
Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al
capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare
l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che
quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre
secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle
"Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose
loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario
italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli
altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto
dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un
conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal
citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi
Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per
tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei
potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma,
allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da
quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è
un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco,
chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica
(nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome).
Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che
il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la
sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone.
Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare
dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da
lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe
condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge
Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli
rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi
dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al
palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta
tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di
legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri,
il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di
materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano
gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti
anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è
dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non
giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura
centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni
pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli
aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale:
ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se
per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere
servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur
limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a
ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci
vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per
lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di
questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni
lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a
volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella
posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don
Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre
il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti
pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni
abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, –
rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e
impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al
dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice.
All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle.
Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore
in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il
mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da
lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che
v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione,
per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per
finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se
poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da
peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci,
m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete
dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e
l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le
protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una
pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è
reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne
starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni
intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico,
serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e
voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate
bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi
vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava
fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica,
come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che,
dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro
e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore
volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca,
dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio.
Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a
tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia.
La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per
ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il
dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti
così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha
dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare
oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine,
alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno
stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor
curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho
fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato
proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don
Rodrigo…
- Eh via! – interruppe
subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo
la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di
questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a
farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel
che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa
sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che
volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -.
E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare:
non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, –
ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani
verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse:
– restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente,
non voglio niente.
Quella donna non aveva mai,
in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era
stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le
quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione
sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo
voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito
e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al
paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli
non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi
magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è
cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi,
né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con
il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento
ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di
magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro
interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del
centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi.
Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei
scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri
volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci
educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il
canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci
istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il
pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di
culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che
abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori
l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed
a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che
abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci
imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che
erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i
“coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere
“coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione”
lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita
confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos
organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso
culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il
male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia
del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri
una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai
contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è
l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un
dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo
insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei
Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha
messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti
per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie
disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle
tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a
promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda,
stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione
legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il
partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché
non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le
malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno
sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247,
tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal
Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento
(compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro,
una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato
vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 -
Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la
legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un
baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che
non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i
giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed
il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i
trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di
processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena.
Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta
in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto
che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati...
il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi
formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il
fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera".
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi -
ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione
catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano
la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile
e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi
non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe
sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto
all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere
nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici,
amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto:
nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato
virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico,
economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del
popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati.
Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di
conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato
da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è
conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella
rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e
poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali
negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio
alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso
impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei
concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa,
finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di
imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una
balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato
d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i
carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona
(il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le
fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla
difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela.
Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una
nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna
sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade
per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di
revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non
dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato
dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla
società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai
costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani
non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non
consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere
ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica,
ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed
immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite,
cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove
conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio
culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e
nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non
omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da
viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più
di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro
interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca
di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il
niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi
ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da
un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva
personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei
panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un
importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua
competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non
omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici
figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno
valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere
cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo
insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla
fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa
immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di
imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la
verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il
saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e
spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti
non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende
liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un
insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra,
‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento
criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal
basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle
Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al
dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa
il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri
istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o
patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo
loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono
astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita
il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li
mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando
saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son
fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E
CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera
editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate
al porcilaio.
I giornalisti della tv e
stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e
mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano
solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse
ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale
per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La
Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama,
Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati
tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le
loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare
l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia.
L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le
loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto
quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante
pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio.
L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola
al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la
massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande
è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco,
l’Italia che siamo” pubblicata su
www.controtuttelemafie.it
ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti
da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e
scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa
affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le
rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza
con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai
lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei
cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da
chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né
tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di
opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette
gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di
sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli
gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la
partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED
INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed
informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui
sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi
viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate
sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si
atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in
stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà
di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si
indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si
presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni
castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti
virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore
dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del
fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica
della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale
dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte
ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta
penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip
Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo
superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento
riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo
di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella
diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole
D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole
D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio
dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che
sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e
immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo
D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla
giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato
sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati
gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per
D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della
corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima
indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine
«anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza
del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno
traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge
del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%
dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento,
anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la
lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e
tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore
fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò,
riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza
mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la
stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei
magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e
tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione
ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla
redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che
lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola
Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è
un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e
stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e
mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano
solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo
codardi.
E cosa c’è altro da pensare.
In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci.
L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e
dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani
nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti
raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo
Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno
giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito
perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e
nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella
biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte
confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”.
Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento
significativo”.
Cosa pensare se si è
sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si
facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo
avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai
loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è
da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato”
Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a
dire la verità?
Si badi che a ricever querela
basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli
abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare
l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro
che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede
a loro?
E cosa ci si aspetta da questa
informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale
dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati
identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il
rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104
afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da
ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato
vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma
differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine
costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non
potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando
Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire
invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo
Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero
eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che
sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto
di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come
Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette
l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato.
Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti.
Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché
non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto
sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un
fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che
condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000
(più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma
nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si
dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione?
Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia
gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre
appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima
sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare:
l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure
il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio
nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare
praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale
d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò
volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la
condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di
condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo
legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la
detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel
dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco
Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è
stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare
Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un
indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa
dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove
in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu
obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque
lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti,
parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa
dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose
cambieranno?
Per fare politica in Italia le
strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai
problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi
fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi
prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada
della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione
che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli
avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più
prende piede. Fai il magistrato.
Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto
politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano.
Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la
toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo
movimento arancione con attacco a tre punte: De
Magistris sulla fascia, Di
Pietro in regia e al centro
il nuovo bomber Antonio
Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei
magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una
formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre
magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si
rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza
parlamentare. E poi, ci mancherebbe,
con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza.
Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve
per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi
disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso
personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo
per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei
Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe
incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia
senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”,
solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro
ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e
Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione
nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la
magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia
in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità
in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle
del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo:
moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso.
Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i
malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca
a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella
trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi
dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge
(Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di
Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati
protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti.
Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e
i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle
indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo
è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni
politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia
capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti
"paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia.
Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non
mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con
Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è
capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato
alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in
Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare
documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di
Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino,
segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore
locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro,
catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei
in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia
alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto
della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone
partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per
regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei
distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione
pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente
della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo
anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi
delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento
che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione,
Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e
delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in
Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono
conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei
diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue.
Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei
“tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo
ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più
propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni
del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a
darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso
alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante
carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più
rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare,
che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle
toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della
Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi
media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm
Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di
troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in
attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure
alternative.
"Non possiamo andare avanti
così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione,
Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione
dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei
giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare
la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori
degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo
svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi
istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma
deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale
compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione
giudiziaria".
Questo per far capire che il
problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti
"sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura
dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre
nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più
forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello:
«Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per
candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di
Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni
suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si
accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo.
Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della
giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene.
Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie,
esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell'
imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise
di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il
magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto
costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva
che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce
dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le
loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati,
quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è
dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio
lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a
scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati
si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come
cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il
quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente
della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del
Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012
nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra
essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue
energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua
azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la
cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della
Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha
dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si
colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi
venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di
rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia
dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai
magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere,
anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio?
"E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul
giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la
stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora:
"Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali,
che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di
trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave
il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in
violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante
volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali
che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera,
sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia
Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della
polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso
dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche,
criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della
magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati,
a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha
concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la
politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si
ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di
magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile
in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di
Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico
Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader
di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore
aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex
collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi
sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa
reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima
anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe
leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano.
Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora
in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione
politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino
a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi
interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa
pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe
di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma
questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel
mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7
dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha
ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il
leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se
fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci
sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi
affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui
interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno
estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante
oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere
imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai
valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e
una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché
"mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha
aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero
Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una
legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia
carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega
che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti
nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con
Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore
di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza
con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse
Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata
incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver
bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine
più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così
i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si
tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi
rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati
onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali
sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le
Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la
regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra
diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una
posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di
Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo
Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla
procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra
le tante inchieste aperte,
un'indagine
su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori
del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle
garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di
Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il
procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia"
di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al
fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed
analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un
giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i
magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo
uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E
tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il
sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE
MANETTE.
La Repubblica delle manette
(e degli orrori giudiziari).
Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di
avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per
niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere
mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere)
gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio
mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese
furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del
Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi
in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano
la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non
i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È
disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri
errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte
scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il
manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è
anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e
molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato
un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse
su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia
distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica,
che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla
sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse
una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per
un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la
più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper
qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi
quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini,
si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a
favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che
ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato
a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari
internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia
degli errori e orrori.
Un tempo era
giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le
elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui.
Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E
così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i
delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di
Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che
afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico
ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in
meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque
Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat
e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time -
Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è
mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le
istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav.
Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per
criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della
magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24,
ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze.
I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record
del genere".
"La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera".
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi -
ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o
ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della
casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi
Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro
vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri
Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e
moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate.
Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti
pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno
i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che
ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di
comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro
manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da
dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in
presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia
dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre
qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta.
Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come
ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto
conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle
norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano,
che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei
processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro
operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi
infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si
sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una
corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le
storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando
“Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi
sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il
suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo
se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione
dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero
essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per
legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere
Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa
quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo
Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo
ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro
tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli
ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui
magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte
più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci
dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio
Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di
Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati
del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della
giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli
sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non
funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il
rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia
del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa
inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289
della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di
procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione
meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui
commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non
riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del
settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che
Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne
delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata
all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della
disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia,
niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede
che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la
massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa
9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento.
E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore
del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso
quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno
carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami
che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della
magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state
fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più
severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle
quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo
indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi.
E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le
retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi
dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno
stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti
italiani».
Quasi sempre i magistrati
addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej
dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali,
avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato
2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano
sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto.
Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire
addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi
lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga
rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale
presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare
un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione -
sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura
5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%;
quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state
delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il
2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali
i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il
2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di
quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in
servizio».
Ma c'è anche una legge
sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di
essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117
dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva
abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa
legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state
proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per
responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate
inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di
pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di
decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate
ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise:
lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato
insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto
lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato
ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol
dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso,
perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando
stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal
lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno
di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE
UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI
ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO
MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le
aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di
spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati.
Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire
se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe
degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle
persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più,
divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che
questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e
giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio
dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole
di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua
origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle
ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi,
il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha
come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che
consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo -
ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono
qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie,
prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un
ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come
la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate -
afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo,
dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di
ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby,
Karima El Mahroug, è
parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla
requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio
Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto
impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini
un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale
teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica
parola.
Ancora come esempio riferito
ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi
pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di
Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco
edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del
social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato
proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in
disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi
era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico,
arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo
Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero
Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello
aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella
del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con
quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza
della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui
lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare
intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri
durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un
articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano
Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del
maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della
vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto
medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per
oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al
massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare
sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della
requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati
medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo
della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran
parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e
di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin
dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video
registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi
è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore,
davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è
soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore
precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni
alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte
infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la
storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel
2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a
spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni"
commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia
Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava
quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano,
e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di
giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora
voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad
Ivan Zazzaroni.
«Voglio conoscere la vera
ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione
e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. -
Ricorda:
riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le
piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le
telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un
incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi
hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro
della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una
giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in
testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un
ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello
spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se
parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E
poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri
a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio
le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna
delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in
carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin
troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente
del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna.
Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di
giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli
avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le
intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato
di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi
è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata:
solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa
minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori
che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa
sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di
scrivere o dire come stanno realmente le cose.
Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre
stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE
DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO
E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA
MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono
una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema
di legalità, è da rimarcare come la
parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo
Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato
positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28
giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale
antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso
giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno
2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non
ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30
giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della
contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione
pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un
cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma
le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione
dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo
ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti
per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i
giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno,
vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel
decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria
giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già
durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e
forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici
o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi
valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di
riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere
pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un
carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato
sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé
stessi). In un libro, "Io ti
fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura
in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate
in Rete a quelle più antiche e consolidate.
In Italia, fottere l'altro -
una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto,
"lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E
fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica.
L'armistizio di Cassabile in
Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è
l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze
anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà
non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza
condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in
vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8
settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai
microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più
di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro
Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande
confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia
combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da
lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume
di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è
una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi
ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro
pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra
civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite
di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito
nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche
uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha
dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle
nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli
italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini
professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia
comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri.
Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le
atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se
qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente
comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi
delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa,
"La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà
infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come
nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale”
pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei
fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue
opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando
le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti
in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata
sbugiardata da
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale"
di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso?
Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte
d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci
di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le
carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un
clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare
quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni.
Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri
sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la
diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a
ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico
che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle
stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non
può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica.
Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci
chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia
dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai
criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno
sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura
con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti.
Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà
d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di
Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000
sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline
e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la
Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si
chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia
dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese
della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo
alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza
che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di
conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha
qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Anche se numerosi sono gli
studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri
di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata
protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso
secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i
vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla
Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima
guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo
Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale
decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente
la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica.
Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda
depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione
mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai
propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and
Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come
«sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco.
L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua
parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale
ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò
adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I
marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il
programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra
mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti
si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta
il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri
creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco,
procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che
consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio
miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in
inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche
configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale
e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal
senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero
notevole:
1) l'esposizione debitoria fu
ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla
Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu
estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati
non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito
fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte
annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse
concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali
trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del
'53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla
condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne
nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del
1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di
fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una
intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla
rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro
forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è
avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte
dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile.
Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania
ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di
annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero
pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha
dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle
altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre
che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf
Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default
tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese
che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul
comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la
memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa
che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un
tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del
Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze
tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa
abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di
lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si
comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un
«istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo
comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel
è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti.
L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni
i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è
figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi
preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è
stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di
pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil
tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza
nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per
volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in
Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il
commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania
comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la
Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi
vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa
che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle
manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno,
specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia?
D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli
avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho
mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro
il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza
eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata
pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità
a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino
(354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di
briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il
Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine
contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la
libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente
comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i
detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale
a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe
o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di
Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è
l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico
Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E
come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti
e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il
tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895)
tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse
che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è
l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una
macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in
termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza
verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente
borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta
di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio.
Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo
Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di
briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i
giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il
malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i
magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al
punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le
toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura,
fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente
e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le
Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla
giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa
tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del
sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli
Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è
organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono
poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e
nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una
dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e
tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci,
scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un
sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti
della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse
una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari,
burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto
interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio
sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di
benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi
che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le
inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata
potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al
crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico»
di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia,
non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura
fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto
procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e
arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e
procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che
separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo
stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per
un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive
Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche
autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento
elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un
esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il
«non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra
cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma
andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle
elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi,
consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può
vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una
novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca
alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette
irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il
Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare
l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere
regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a
una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i
penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi
sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per
procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli,
anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di
tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini.
Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di
Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo
d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato
la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice
orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria
Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire
com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa
dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni
fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il
procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato
come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso
dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di
Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura
anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che
ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex
consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò
Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come
Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra
della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in
qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi
coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso
nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di
magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del
Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo
impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di
giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel
rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza
ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una
successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice,
effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione
delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non
volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il
procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza
successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace,
questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva
alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso
fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza,
l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che
mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri
sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al
Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza
nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre
''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato,
ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio,
che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una
seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la
Consulta: serve "leale collaborazione, oltre
che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte
Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello
Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso
rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per
ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio
superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa,
bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente
necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della
Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale
non si è smentita.
Per quanto riguarda il
Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di
Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei
Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al
legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera
contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva
partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di
Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno
concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e
imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di
attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio
con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che
l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione
relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario
concordato in precedenza.
"Incredibile" -
In una nota congiunta i
ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano,
Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi,
Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin,
commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e
profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio
di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine
giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta
della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno
telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda
indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della
Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato
e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge,
"i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a
decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro
Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto".
"Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo
impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei
ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi
all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni
davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella
di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto".
Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi
e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere
ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda
e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai.
Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare
l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo
Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire
in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di
Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro
l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in
nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di
centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e
ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di
centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto,
contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi
Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl.
Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare
il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader
di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato
da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede.
Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a
sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano
quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di
servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita
nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era
attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto
tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi
fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI
APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE
SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini,
legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta
sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo
impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa
dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei
Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta
si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave
preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione
di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due
legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica
giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa
stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa
Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come
la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe
invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo
legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea
un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un
Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo
impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo,
questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione
Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche
politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla
notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi
nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli,
presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci
critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può
accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione
alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo
l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della
sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione
che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le
motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha
detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento
(giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora
premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset,
per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di
Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di
Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il
Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito
di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei
ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di
udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio
in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna
indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi
precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità»
dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario.
"La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si
legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non
costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1
marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio
Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per
tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la
sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la
Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali
dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali
per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte
Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta
è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al
Lodo Alfano, si sottolinea che il
mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si
configura anche come violazione del principio di leale
collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza
di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è
un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte
costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un
organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una
maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra.
Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da
che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati
dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra);
5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti
organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di
sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani.
«Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano
campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio
Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che
un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la
Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo
l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo
Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di
costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte
dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da
Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi,
l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”.
Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale
che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a
sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate
questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano
Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per
nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno
2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci»
Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a
Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel
legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex
sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm
l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente
rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri
s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di
Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino
(sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente
ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex
pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel
medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata
al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio
maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a
97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato
criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata,
il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista -
scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica
possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento
da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in
vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un
solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94,
governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia
contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso
proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002
con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle
opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del
Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con
questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato
di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare
le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro
Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi
De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato
nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi
provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei
radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le
parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per
il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo,
quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un
colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo,
già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che
all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni
dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al
tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il
pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di
Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in
commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di
banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva
cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò
dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe
Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice
dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge
contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma
mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a
fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni
Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne
archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal
’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di
comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo
plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco
dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un
esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge
elettorale.
Tanto comandano loro: le
toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per
svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da
961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero
Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non
bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe
preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli
incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio
dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia
busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è
una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in
crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in
quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione
giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di
consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati
sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre
2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia
attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare
alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le
consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di
editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato
lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella
formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini,
racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio
Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni
varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e
delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un
incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla
società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi
2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore
per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento
professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8
ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In
Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano,
consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di
diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato
ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale
dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato
addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per
36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto
d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano
questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i
giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia
degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo,
cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi
che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è
un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42
alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della
compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo
anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14
gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima
telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria
De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da
Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera
comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome
per favore»
Schettino: «Sono il comandante
Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti
Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua
scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su
quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante
persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante
Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico
una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta.
Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento
la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti:
c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la
percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa
hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di
assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro?
Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente
molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase
di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è
“chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale
professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione
culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di
superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami
scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In
un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare
un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e
di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli
ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei
disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al
dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano
il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con
provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses,
letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto
conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto
generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è
da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum
res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose
ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande
autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella
quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni
economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in
questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi
come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO
CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed
interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di
alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa.
Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una
prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta
nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di
stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche,
biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di
Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti
imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i
metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si
sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la
verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea
dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni
quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente
diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio
garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le
prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con
inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo
della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da
discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un
foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti
eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in
questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è
l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb
sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo
gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di
studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti
lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare
ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito
dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10.
La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti
da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni
altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione
all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi
o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti
tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la
reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere
inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è
intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato
una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato
a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione
VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei
giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur
senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo
della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora
il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione
giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo
contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione
logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante
l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della
prova”.
In particolare per gli
avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER
L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di
Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno
o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema
proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena
della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel
comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del
distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per
i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto
come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale
anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è
sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato
stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia
“legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene
sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il
Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione
delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite”
dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici
concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo
dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i
principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le
conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di
ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità
critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno
stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della
studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012
una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della
Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a
copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar
non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico”
della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel
frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della
ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la
giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli
insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame,
avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che
spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio
di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il
principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene.
Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si
forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene
insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che
una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una
volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano
matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe
essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere
insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si
impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va
bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle
nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto
più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come
sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un
comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla
carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di
molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava
anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai
Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico
nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano,
si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una
scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto
con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga
un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un
accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la
"fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la
Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione
della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da
139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12);
individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la
disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione
italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a
disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle
produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per
modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi
art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al
di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli
atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o
direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate
da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo.
A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea
"dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono
le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge
(decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle
provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal
Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi
essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo
di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato
della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si
collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di
altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la
consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata
condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e
praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini
sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti
principi.
Tutti in pensione da
"presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra
loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine
carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il
presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga
il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma
dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi
componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in
carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di
scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente
dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo
mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La
poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna
accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un
tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior
numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino
al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere
quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità.
Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa
rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche
un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale
hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo
trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione
ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita
una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la
legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27
dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12,
comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte
costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più
elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della
giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della
metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il
Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria
Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio
2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata".
Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi
dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per
soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22
settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal
10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece
Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno
2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente
Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate?
Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi,
anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un
popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di
navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana
dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli
italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul
Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di
Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello
che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di
Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei
Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le
sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono
pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la
Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi
correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di
Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura
di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla
l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il
14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica.
Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di
arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e
non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo
gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai
processi:
«... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della
pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano,
ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti.
La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è
incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio
Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei
magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia
berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi
nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di
tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado
moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno
votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a
casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo
di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere
del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo
psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità
professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di
carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e
prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per
Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano
finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di
consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti
dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri,
Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno
accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa,
rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in
aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati,
fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento)
e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla
Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra
gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a
Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali
relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano
Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di
Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby,
Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240
del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose
che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono
il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della
sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice”
Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della
condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni
le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si
dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è
doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel
vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non
chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così,
con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo
padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la
giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita.
La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in
scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se
possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste
dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo
teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa
di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici
Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema
costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte
le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma,
se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese,
allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a
dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi
è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone
che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni
favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra
novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di
trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico
dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio
Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria
Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento
per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della
Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in
Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti,
assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale".
"Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non
sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di
seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella
requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che
afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura
finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a
Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia.
Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti",
con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era
presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul
libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello
- io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre
lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai
visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata
dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la
verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato".
Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze
che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea
di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista
Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di
chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario
finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella
resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una
simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso
destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino
Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di
Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di
una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con
Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva
descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E
ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il
capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo"
di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo.
Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa?
Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori
a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per
condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro
Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere
conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di
testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità
assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non
ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi.
Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e
protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di
questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza
precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi.
Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma
soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla
condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film
Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi.
Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento,
la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità.
Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti
usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in
difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi,
bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi,
traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello
Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi,
tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati
travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte
alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver
testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di
diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale
il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che
se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi,
sequestro di persona, occultamenti di cadavere.
Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di
concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a
Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai
pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di
prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da
quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il
cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non
solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto
a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi
per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo,
uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi
istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da
realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il
tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi
juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è
stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28
mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli
meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una
“sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso
Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi.
Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi
Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della
Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver
ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi
juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era
sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007,
per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato
condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo,
determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati
come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove
anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele
Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano.
Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per
autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il
contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al
nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio
quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni
Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi
il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di
giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della
Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker,
reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è
stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo
poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno
conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un
politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha
chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex
consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo
del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso
il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un
tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato
condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai
giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione
di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era
stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup.
Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in
primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di
recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i
due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa
la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a
controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco
ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere
di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche
i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle
richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di
carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10
anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre
dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e
Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di
Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi
Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate
due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre
imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della
moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex
dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo
Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di
persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una
provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15
per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo
2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18
anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò
giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente.
Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per
tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato
condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un
cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona.
Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato
condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e
8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito
abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion
Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago
di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo.
Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei
confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente
Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi
internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora
senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión,
ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando
aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina
esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e
Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo,
e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è
come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero
il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque
ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso,
mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super
testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato,
perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima
Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima
Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti
coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora
Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno
c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su
di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono
anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai
contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96
alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati
eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non
c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora
arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi
ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono
soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite,
tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la
Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma
alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo:
beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per
calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i
verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse
qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato
di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o
Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più
influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione)
facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano
1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce
penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei
consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante
uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni
ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i
concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei
libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato
sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene,
prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema
e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi
rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi
chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi
impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione
della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi
artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a
condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di
tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è
così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti
coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo
fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia
di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del
torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il
Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare
per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come
marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi
di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi
piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono
certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla
fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande
c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una
spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete
altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si
diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi
vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in
Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi
validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino
Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone
influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia
parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede
Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia,
abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di
Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini
leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande,
presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it)
e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici
truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti
gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di
questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come
rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta
Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente
accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su
1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni
denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua
calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per
magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli
esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel
2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state
sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato
barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito
di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato,
si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato
(ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima
giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito
giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi
difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni
personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le
motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia
mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi
alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di
Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia
per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son
resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza
precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna
scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria
corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e
mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se
plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento
facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono
concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte
d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di
avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così
finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I
ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame
non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel
frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è
sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a
testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei
per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché
tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché
non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e
li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al
dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e
persecutoria?
Inoltre ci sono buone
possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in
base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi
se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero
dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a
correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera
primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per
verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga
persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le
Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero,
altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali
(spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla
convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati
dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi
esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari,
dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e
giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi
se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e
dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo
per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche
per falsario.
Denigrare la credibilità delle
vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO
TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO:
spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte
dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di
studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza
(perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso
quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto.
Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le
Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed
i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME:
spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che
hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale
presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato
nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la
commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma
(decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18
luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli
Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal
Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri
nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli
avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità
anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre
sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del
proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle
componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame.
Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato,
del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le
Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e
clientelari.
I CONCORSI FARSA:
spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come
il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i
lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE:
le tracce sono composte da
personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce
si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della
stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo
recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare
quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e
non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame
d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del
Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il
Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1,
erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi
rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME:
spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni
prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del
sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per
l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede
all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle
Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del
tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di
ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in
precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte
le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti
all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in
un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la
prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle
relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di
testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE:
c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande
salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso
di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e
materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello
Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di
materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati
dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il
“Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame
di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova
annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è
permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come
succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere
da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e
nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo
scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte
per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla
commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei
elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti
identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile,
diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali
anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente».
Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo
svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa:
“scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di
non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro
a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto
liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente
commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i
nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica
Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi
di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche
Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro
dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma
Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i
veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto
selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli
aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei
mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali
certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno
consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni
e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti
scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne
lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati
dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in
bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli
elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che
qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento
giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande
di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove
nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e
rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine,
chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta
prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime
giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia,
quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente
dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i
commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti
nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti
di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può
capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza
codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari
d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era
rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare
l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per
verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga
persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le
Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero,
altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali
(spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla
convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati
dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi
esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero,
i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per
correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti,
invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio
era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli
involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti
imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i
metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si
sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la
verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea
dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni
quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente
diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio
garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le
prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con
inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo
della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da
discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un
foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti
eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine,
c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb
sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO:
il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente
un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero
essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio.
Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari
firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI
ELABORATI.
Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed
eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di
tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la
commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande
contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte
del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di
ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti,
valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino
un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e
dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più
strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche
giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a
problematiche complesse;
• consultazione collettiva,
interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo,
motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola
contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie
normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un
prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli.
Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito
illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati
tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha
cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in
qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso
altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato
del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti
necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni
d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione
l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del
cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato
la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel
cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello
stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare
nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome
sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine
vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto
l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta
dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto
da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli
studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per
diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio
alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della
Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla
Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari
ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata
all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui
fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti
anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story
e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di
uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano
intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati
in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di
ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche
la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo
son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un
diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a
cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a
scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia
famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi
agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia.
Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta
uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di
preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di
specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre
2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile,
la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi
promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi
spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati
previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia.
Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento
degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati
scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di
specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione
rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice
l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura
degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i
curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me
visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun
candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre
temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra
obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano
Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il
concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in
base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3
minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta
chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno
dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad
ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della
commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame
divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane
Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione
forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1
agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura,
dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata
fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti
degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei
commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non
corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del
Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga
di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove,
scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine.
"Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno
letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto
che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i
concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto
stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il
magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non
aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato
da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei
ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni
consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità
quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di
presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa
6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a
decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri
del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di
ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza,
ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in
contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli
elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la
infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la
corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta
discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione
degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio
composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali
si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il
Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere
l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il
concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura,
il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia
degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori
da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata
verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed
europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al
Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di
accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di
ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008,
che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la
magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha
battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992.
Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei
compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della
busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici
e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti
professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio
radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta
per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul
file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva
preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo
scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A
finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del
concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di
comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che
molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro
genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in
cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati
nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di
nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta»,
«Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele
di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le
tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI.
Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo
al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si
presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio
Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il
Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino
non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex
procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era
il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari
componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo
fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di
Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un
falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in
una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima
non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti
per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione
diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani
nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale
gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato
(una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale
episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali
pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari
attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere
particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella
commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non
è ammesso ricorso amministrativo gerarchico.
Sessione d’esame d’avvocato
2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di
Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla
prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai
candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione
edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i
Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo
che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione
riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza
dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in
cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01,
Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono
entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente
dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie.
Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava
per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con
il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla
Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15
(il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati
che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente
di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico
contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i
trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA.
Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di
giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro
amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di
battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso,
dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza
175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito,
il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”,
secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di
abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion
di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle
commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e
giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del
loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non
promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro
presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento
giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella
massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio.
Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e
umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto
assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.
All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di
Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di
esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento
amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo
tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica
amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione
esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in
relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio
sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul
terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso
a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante
principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n.
8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le
commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti,
meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande
denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla
professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima
di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro
i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia,
chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la
giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici
amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce
(ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per
contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato:
COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO,
COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI
UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON
CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011
presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico
insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun
giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza
cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza
dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui
risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti
puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più
punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di
prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata
e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito
dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno
avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che
non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e
dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad
un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio
2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio
della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben
prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver
tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati
avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine
per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a
supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro
insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono
spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio
2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013?
Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e
prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da
considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le
sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso
ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio
Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la
città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i
concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli
effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia,
ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire
che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi
amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per
l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare
indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra
i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può
venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma
se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato
al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di
controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove,
scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine.
“Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno
letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto
che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i
concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto
stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il
magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non
aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da
mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle
mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini,
mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si
è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante
l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza –
Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il
principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono
preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i
magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso
sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver
sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe
già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è
stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è
già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei,
fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in
pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del
presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che,
prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era
autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei,
redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta
fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008),
che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della
decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il
concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale
De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove
scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una
altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato
(Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo
Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza
(Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi
Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da
irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di
autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e
magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non
ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei
nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima
delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di
concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in
aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.
Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del
concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco
perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le
caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di
abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività
professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina
del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina
arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio
Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte
del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si
scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da
buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una
imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha
scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su
www.controtuttelemafie.it
o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad
informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità
incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si
ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha
paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi
questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media
corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le
speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so
tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca
rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La
quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi
a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior
offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per
esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione.
Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna
farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il
monaco.
Un esempio per tutti di come
si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma
forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi
legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare
danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in
previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i
giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense
(R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e
di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro
riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta
come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi
penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione
giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese
ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che
andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello
che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel
frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di
strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera.
Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare
l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e
marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto
dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la
caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto
inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora
da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato
allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile
la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una
citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da
farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica
esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di
essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun
testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del
fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da
quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta
come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano
stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto
non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la
responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la
vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il
giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed
onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa
afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La
poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata.
La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i
testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che
l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era
competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato
per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la
poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli
amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene
presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro
parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì
chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli:
uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue
cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli
contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per
condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le
accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé
o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante
dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia
contro se stesso.
La procura ed i giudici
accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro
l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per
anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui:
non è suo.
Il paradosso è che si vuol
condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol
condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e
su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come
infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto
con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali
all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di
un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è
qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano
me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i
carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa
la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste
mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era
un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è
avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il
boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione
di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia
penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione
è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della
trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per
tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i
giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della
Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013
risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico
Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le
grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è
altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di
intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a
parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i
campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby
degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni
categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo
loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex
Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo,
un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua
legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla
Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce
grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di
taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella
dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed
anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri.
Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si
sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella
che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa
che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla.
Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che
mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche
in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È
una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano
la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un
nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei
comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti
dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva
Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi
metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia
è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il
primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il
tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di
giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia
penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia
(insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro
impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti,
tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei
casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio
Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure
impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi:
tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in
Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno
condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di
quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e
Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode
fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i
suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la
Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni
di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio
2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del
processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in
Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19
giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113
procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua
discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in
appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di
interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe
intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003.
Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse.
I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per
articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco
Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua
considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non
si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e
collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare
in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché?
«Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi
paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne
vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza
andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale,
dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i
tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di
difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le
polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti.
Tutto iniziò nel
1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo
stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia
del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse
rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se
beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare
questo.
E su come ci sia commistione
criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti
che si confessa. In un'intervista al Foglio di
Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi
anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli:
«Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo
governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco.
E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai
tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e
Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati
ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro
manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di
garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli
a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia
stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il
pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che
lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci
portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se
quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver
parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho
ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui
pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto
che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al
seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra
giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre
la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di
oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri
cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo
italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi
c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il
buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato
che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in
un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo
ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per
prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei
governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le
code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il
classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere
tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione.
Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio
2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel
lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua
auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il
prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò
andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso,
pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di
Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò.
Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il
viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione
arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise
così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici
della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio
alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si
aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al
tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione
offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di
pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si
legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e
brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare
il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una
manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità
avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata
pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in
atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla
nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o
l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti
dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha
inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel
contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto
un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini”
- il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo
materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente,
tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla
coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi
cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate
espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore
e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita,
che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi
ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la
fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi
italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi
ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la
possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la
storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe
politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro
a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi
che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si
rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che
per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di
governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino
all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra
neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio
erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo
contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che
comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico,
un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI
DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo
per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che,
secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti,
agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni
a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di
avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò
Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di
depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa
decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che
secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di
false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di
un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per
mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti
giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono
dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la
sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene
a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante,
ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha
già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi
avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati,
ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la
sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono
rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio,
quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una
riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state
perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel
processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di
favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le
grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando
Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte
nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono
con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli
incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la
nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra
parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio
Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il
faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità
sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di
Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte
pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse
nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per
induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo
quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a
tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso
degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e
novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe
ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la
copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe
mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che
Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e
Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità
giudiziaria.
Comunque torniamo alle
condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo
grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2,
con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora
e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si
parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la
Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e
Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la
trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in
relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio
Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo
e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per
il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della
falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio
Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette
anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche
minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di
reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione
minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore
“orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono
state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è
stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che
erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda
“definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a
discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e
balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare
nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la
conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo:
consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una
o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone
alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto
a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il
14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e
il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in
arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base
all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009
dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le
partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo
le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina
messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in
quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso.
Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani
donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo
scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali
all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip.
Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da
Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione
le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno
paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la
gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di
presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle
cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle
ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e
“ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella
concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina
e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il
pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di
chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che
smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la
sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di
carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare
sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di
intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse
conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non
vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo
processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di
Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri
testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri
testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso
gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della
difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo
stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per
violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse
lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al
Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare
l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di
alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono
trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio
Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se
attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la
testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al
termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i
suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono
numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris
Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la
costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto
la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo
avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per
il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i
legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione
dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla
violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio
mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali
prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie»
proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel
processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che
contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del
giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente
Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il
presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel
processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente
rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata
pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il
Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore
Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel
processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura
la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e
composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici
donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici
Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la
Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare
l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi:
una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno,
anzi, "condanno".
È il sistema automatico che
porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni
dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta
Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un
collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che
dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il
segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo
maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78
uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda
Boccassini,
che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di
Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua
origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle
ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi,
il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha
come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che
consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo -
ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono
qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie,
prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un
ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come
la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate -
afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo,
dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di
ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata
un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si
completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha
affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle
fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì
al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la
risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di
queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano
solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche
Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale,
ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla
consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta
brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata
dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per
"violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre
giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti
per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna
Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel
look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una
battuta. La
testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le
confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In
particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste
conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di
olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede
Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula.
Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde:
“No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è
il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex
ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito
di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di
Bpi.
Manuela Cannavale,
invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a
tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino
è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di
Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato
assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre
giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De
Cristofaro:
sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di
Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il
giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche
qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale).
L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello
di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior
esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di
stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come
“represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e
definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice
è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici
uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che
si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”.
Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere
della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la
sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione”
e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio
quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente
avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha
puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum
dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la
preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di
grande impatto mediatico.
Giulia Turri
è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per
Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto
l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e
droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche
Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro
è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a
quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di
chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia
si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti
parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono
state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva
processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un
articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7
anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado
del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso
per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda
Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e
l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione
penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo
Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne,
tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del
collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e
pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è
stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip
qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento.
Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario
Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una
all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto
per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del
2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl
Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e
che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di
cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga
nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood
e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze
ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è
stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è
stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni
e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario
di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa
Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna
sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di
lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un
volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte
del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli
altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne
stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido
Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003
pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare
Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante
e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla
truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia
Todisco del caso Taranto.
Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto
2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco,
il giudice per le indagini
preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del
Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo
dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a
Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono
"rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi
neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto,
ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non
ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera,
è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non
si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle
ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura
19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si
è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della
direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva
ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle
ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è
cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze
sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione
del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera
con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino
che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu
assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il
peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano
per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla
guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore
dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il
giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della
Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i
sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del
ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario
Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17
agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco
«ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha
deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in
fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di
lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di
quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca.
Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in
vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del
premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di
prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore
capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso
tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi
un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata
né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del
colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa
entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia
di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito
nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come
segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo
lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere
che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona
riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia,
proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra
all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la
procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore
giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o
dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura,
rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe
avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di
quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase.
«Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire
dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e
poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il
tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del
foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori:
i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è
occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno
ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un
suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per
presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non
c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con
il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una
comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da
farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici
del caso Scazzi.
Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda.
«Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita
mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di
Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La
conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle
telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra
l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate.
Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno
addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il
presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici
coinvolte nel caso Vendola.
Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i
due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola,
Desirée Digeronimo
(trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione
del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione)
inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio
segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del
governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice
che ha condannato Raffaele Fitto.
Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e
durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura
irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano
Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul
collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del
Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di
ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al
presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo
svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente
che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la
vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone
l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della
quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce
nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti
della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di
sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi
avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo
proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale
un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata
a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa
sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla
consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato
Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci
sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del
collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze
all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del
caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il
riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito
dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è
la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa,
che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande
di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto
prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale.
Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze:
l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se
tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano,
giudice di Taranto
che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di
libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la
ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva
giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava
estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva,
così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva
denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni.
Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato
chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la
sua testimone.
E poi giudice donna è per il
processo………
E dire che la Nicole Minetti
ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa
che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da
donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a
maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne
riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una
sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare
tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne
normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un
bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e
le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a
fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici
donna? A
questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La
presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne
all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo
di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17
luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli
impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della
giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali
requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di
razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il
dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla
magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore
delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare:
da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul
raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul
sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di
Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare”
(on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare
una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione
intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna
risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita
femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole
Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle
donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna
possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le
derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato.
Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione
del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere
quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste
funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto
in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una
presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme
alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla
specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni
giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e
dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal
modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i
requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio
dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in
magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne
di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre
giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale
disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56
del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto,
nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli
appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale
dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata
in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente
sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva
dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del
1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che
implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una
normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso
delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la
magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben
sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai
quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3
maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne:
otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel
ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne
nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari
ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente
intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare
un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la
metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una
percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno
maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di
concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è
evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso
pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è
inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle
facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso
ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato.
Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente
il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed
integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un
processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio
necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta
pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che
si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli
uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo
colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti
all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se
continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi
e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una
identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un
linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura
professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di
loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero
giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON
POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli”
(secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al
Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian
Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle
storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire
solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo
che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico
a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da
altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello
che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto
assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su
Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre
domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene
fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più
serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia
dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante
che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no.
Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare
gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non
l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo,
giusto?
«Non so se c'è ancora quello.
So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che
quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che
si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica
vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe
sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi
la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo
di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e
di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la
redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e
se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è
meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta
l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa
Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le
ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se
è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere
vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta
in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal
5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto
rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9
milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della
popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè
che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa.
Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei
poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1
milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose
che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non
corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato.
Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace
ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di
servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata.
E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte
riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di
euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno
studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche)
che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È
uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la
questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una
interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul
federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo
Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema
ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le
tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali
(+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il
ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle
amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di
regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%:
il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per
fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una
esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello
locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a
livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una
riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori
locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle
versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio
così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi
locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che
negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono
cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in
alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di
Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è
clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che
voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si
è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a
iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei
nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di
rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo
vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di
diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte -
va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai
visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».
Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non
sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è
diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che
occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede
per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e
Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf
e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni
dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici
a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due
stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il
Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti
di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra
– Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino
– Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena
– La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da
augurio.
Caimano
– Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni
Moretti.
Cignalum
– Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum
(v.).
Cimice
– Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba
– Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo
– Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto
pre-mortem.
Delfino
– Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il
d. del caimano (v.).
Elefante
– Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come
un e. in una cristalleria”.
Falco
– Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le
picchiate.
Gambero
– Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo
– Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre
attuale.
Giaguaro
– Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo
– Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo
– Uno che spera che non
vincano né i falchi né le colombe.
Orango
– L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne
ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione
– Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino
(v.).
Porcellum
– Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa
– Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo
- Chi non vuol vedere e mette
la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino
– Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga
– La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla
ripresa.
Ed a proposito di
ingiustizia e “canili umani”.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita
ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle
carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una
risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante
tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare
attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole
del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi
ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in
carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una
situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che
tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è
scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento.
Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni
carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe
possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e
considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha
una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia
cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile».
«Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del
carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura
Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità
e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare
«giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche
agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte
«c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un
dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le
parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I
detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare
che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di
Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri
di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti,
in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano
l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte
a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana".
E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini
da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove
la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le
guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente
questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa.
Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la
vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici
Italia.
Già!! La giustizia e le
nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo
a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco,
quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della
Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta
terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere
della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo
della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini
avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che
aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io
Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i
carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era
arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che
facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui
sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di
lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con
noi».
Ma proprio questo è il
punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone
della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano
credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro,
Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in
mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava
frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un
imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii
male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in
ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato.
Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma.
Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di
Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di
qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze
dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite.
Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20
luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di
plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la
Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la
ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero
convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia
della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io
vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e
ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per
la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si
possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due
personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato.
Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava.
Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva
raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma
non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto
piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire
chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro
nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino;
restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato.
Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili
cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non
sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in
Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio
Andreotti.
«Il vero capo la fa girare,
ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a
Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due
Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non
farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto
là».
Torniamo a Gardini. E al 23
luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo
ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore.
Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte
che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla
scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata.
Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza,
si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti
correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick
e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora
stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino
presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le
frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi
arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai
carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo
venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con
discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di
Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per
avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo
arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere
stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in
piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il
poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto.
Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché
l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che
sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei
conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin
dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa
mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa:
nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a
lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò
correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse,
ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un
moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido,
razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di
Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un
colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la
vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere
inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per
l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi
successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono
sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte
decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate.
Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto
pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione
del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della
polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini
disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati
si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto
davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come
si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando
arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo
la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria
hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare
Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di
Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo,
nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo
perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è
senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per
autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle
mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro,
allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe
Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive
Stefano Zurlo su “Il Giornale”.
Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in
parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio
'93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta
Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della
Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di
più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex
leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con
la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro
tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di
quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di
Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il
Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco.
Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe
dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva
portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito
di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il
suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del
quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era
salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il
messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i
destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo
dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo
quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i
brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e
dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile
Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la
responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se
la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della
chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini
era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che
lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello
fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe
ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se.
E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro
tentò di farmi incastrare Napolitano.
L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a
denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco",
scrive Paolo
Bracalini su “Il Giornale”.
E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare
nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese:
"È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non
era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo
ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero"
risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro
poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente.
Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva
trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel
che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate,
dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito
uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano
chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato,
potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti
le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già
raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog
paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora
presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse
ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro
democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio,
stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un
corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione
disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per
farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse
finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai
verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta
confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre
volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per
Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far
fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più
filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu
arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio
Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da
ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie»
dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini,
vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera
dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un
sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice
che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo
arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo
opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato.
Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller
Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi,
conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva
promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece
scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le
tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella
cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è
ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono
15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi
sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho
ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno
dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false
ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa
continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza
di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco
è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di
Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese.
L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil
all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per
delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni.
Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni
di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della
sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da
una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove -
attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai
-. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno
trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno
comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo
periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come
Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un
messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per
dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno
della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco,
Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo
perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò
troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista
morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di
aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non
si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella
storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce
dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è
accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone
e a Lamberto Quarta, ex segretario generale
dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5
milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008
insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali.
L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse
altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17
luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera
indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si
autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della
Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio
regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza
prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti
nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette
né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In
dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato.
Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara,
ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex
presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza
di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal
concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali.
Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o
sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di
capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la
vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi
surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa
beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi,
come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi
spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con
mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a
poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori
posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi
familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie
internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno
s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case
che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro)
si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure
prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di
pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento
schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire
che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i
rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in
passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare
Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi»
criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco
perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i
giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima
della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex
procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi,
Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che
tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono
(invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e
deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a
Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre
180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese
compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni,
queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il
sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi
Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso
Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni
dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante
di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava
contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo
ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti).
Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo,
uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i
telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto
della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi.
Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel
giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici
istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova
della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona
ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto
risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento.
Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava
quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della
giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato
prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove
portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono
tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per
fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla
convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti)
qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la
parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il
reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio
vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due
sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di
darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e
riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in
una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei
mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato
senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia
molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura
accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle
parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà
sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di
difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA
E’!?!?
Funziona alla grande, la
giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi
abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di
fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due
esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di
carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato”
Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e
6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette
non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il
suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere
attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per
cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti,
più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine
internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di
patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e
lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che
variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8
mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto
giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio
confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede,
subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene
inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito
di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non
trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano,
né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a
identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da
segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate
è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica
opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando
a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho
ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col
suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro
dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale
non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue
colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle
emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che
meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza
diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità
o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure.
Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col
(buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti
ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio
2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha
dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex
governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli
era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data"
Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del
Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel
corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita
"l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere
indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere
soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente
attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a
delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie
di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e
apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre.
E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più
costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le
valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui
"in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe
doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria.
Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente
denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in
presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes",
sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i
magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico
elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una
approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il
Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla
Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato
ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia
già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora.
Un punto di
vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso
Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero
Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della
persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il
problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si
adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia
cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci
rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di
persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di
potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di
civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del
Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo
è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura
inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e
collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita
la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro
è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di
innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per
questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le
prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili
giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver
“favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto
assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono
rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli
indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna
anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo
nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico
dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una
prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni
indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula:
insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei
quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni
ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un
solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è
assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio.
Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno
(per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla
sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina
d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di
indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo
intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina
di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per
oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della
storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base
esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva
ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e
fannullone: loro il problema della giustizia.
Le condanne abnormi sono ormai
quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire.
Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe
impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le
condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema
giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del
Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è
generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati
(ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di
ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito
per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese
civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e
un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri
italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in
cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la
libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba
al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il
carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo
delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori
si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in
carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto
consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte
Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo
275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di
colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in
carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati,
tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e
in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio
Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il
delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia
cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso
concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma
la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma
la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un
fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale
previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento
una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di
Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza
come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del
“minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve
essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le
esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte,
a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità
graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da
differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a
prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare,
parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete».
Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012,
accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a
Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma
la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile
con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è
quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse
dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per
il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato
della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la
Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le
toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la
custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare
misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici
costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore?
Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare
la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e
riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore
non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione
del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla
Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al
regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del
pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla
sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti
decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari
debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel
2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti
in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia
cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di
un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una
misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici.
Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei
carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte
Costituzionale,
scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino,
comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che
non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e
primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita
fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe
illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che
potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la
vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal
buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone
non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la
donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la
stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva,
lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci
provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla
bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella
ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a
scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano
male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina
oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e
ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di
depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il
petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che
non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno
più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due
stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero
(in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei
abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è
sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge
approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere
chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi
figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza
davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della
pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative
al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in
casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni
passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione
apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende
una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la
Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca,
pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma
3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di
colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi
commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro
di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice
la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo
lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in
faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato
che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo
grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che
possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra
ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo
alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando
ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai
domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e
chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le
gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei:
un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un
pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE
COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un
cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la
consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi.
Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della
giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi
che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera.
Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì,
in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le
entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio
in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della
Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le
voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle
dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci
vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in
piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER
TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse
uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è
tradita.
Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato
sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le
toghe di Md si salvano, scrive
Stefano Zurlo su “Il
Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici.
Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni
telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo
Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro
attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche
se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima
dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui,
mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede
condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette
anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici
al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che
invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md,
trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione
disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni
unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei
film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio
le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il
principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti
disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la
mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale.
Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi,
l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti
giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto
di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso
orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di
Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri
provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili
confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O
meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa
notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal
processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di
secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del
25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal
raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si
può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure
convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché
Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono
protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va
ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il
ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere
rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione
mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura
giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante
sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato
dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro,
apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio
giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle
loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il
principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di
giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta
di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche,
sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di
sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più
strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o
di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo
meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14
vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e
obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici
italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa
Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in
equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il
cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il
secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e
fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito
disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro
non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al
datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il
comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento,
mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro
dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere
discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona
per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro
apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono
uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico.
Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di
famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è
tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro
PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che
è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente
dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista
La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è
cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino
di Enrico.
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’
E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la
Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene”
no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha
aperto una procedura di infrazione contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei
giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta
che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le
toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede
“Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri
errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li
avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e
professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi
europei. La legge italiana 117/88 restringe la
responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa
grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della
prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante che chiede risarcimento per il
danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia
di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della
dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del
giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione
delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche
senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per
colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è
intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione
della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla
violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio
Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello
di Milano.
La Convenzione e la Corte
europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e
ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No
alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle
sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione,
anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è
quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del
30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo.
Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della
collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte
segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte
europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al
sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei
giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della
libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti
coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza
depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai
quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto
professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della
Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro
giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di
documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di
fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito
contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla
presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti
secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale
con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i
giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che
invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del
diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la
Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della
libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro
di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che
viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti
compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere
dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non
incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la
presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco
contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le
notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo
svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato
le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un
rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le
informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea
dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia
la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla
sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la
prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art.
617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato
nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra
edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi
che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e
c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la
divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni
procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci,
Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che
entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale,
sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto
la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà
d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il
rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a
priori un uguale rispetto”
– diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato
Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha
ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo
diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della
Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata
rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la
lesione».
«Sono felice per la sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci,
creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile,
tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto
la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano,
per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il
patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una
vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore -
ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla
libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia
per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone
ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i
conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso
Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda -
si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare
fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia,
Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta
l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua
vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di
avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione
dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da
Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato
Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio
abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma,
dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe
avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che
prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al
Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia
un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato"
che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni
industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta
"inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La
Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per
violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul
mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in
materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte
inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde
acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città
di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è
riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della
direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane
non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto
adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure
per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la
stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono
i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci
pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano.
Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare
l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La
pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene”
su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve
parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio
Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa
ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di
iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena
rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma
se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con
Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel
caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio
shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del
web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le
Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano
state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”,
“dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di
potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti
che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene,
noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai
provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta,
scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei
ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi
fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti
nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I
carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali,
dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale.
Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità
dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene
di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i
carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono
intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma,
ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda
la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva.
Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che
così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio.
Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta
al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in
questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia
Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano
sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza
un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di
Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo
documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di
persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono
in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte
per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori
bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case
improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche
insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di
amianto.”
In effetti il filmato
documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla
situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del
pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie
bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel
servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso
nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle
baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci
sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today
- Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente
lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale.
Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo.
Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte
volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di
raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi
minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il
canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è
ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei
lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la
terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso
clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a
Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla
“Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da
Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel
cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne
del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi,
impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore
di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia.
Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà
passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono
causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi
all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha
ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si
prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica
assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai
cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica
assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con
forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi
sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore
di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro
atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio
coatto.
Colui il quale dalla lingua
biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non
avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE.
L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla
collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili
su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può
dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare
sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe
paghino per i loro errori: adesso lo pretende la
Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha
aperto una procedura di infrazione contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei
giudici al diritto comunitario. Bruxelles si
aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le
toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento
di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la
condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per
l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei
giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva
chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma
non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e
Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e
ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della
violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso
giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue?
Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo
ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad
altri lavoratori e professionisti italiani, ma
anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge
italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli
casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza,
il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e
della colpa del giudice) al querelante che chiede
risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo
poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario.
Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi
estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione
delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga
verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles
nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera
rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è
mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione,
cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
La proposta di aprire una
nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della
Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel
Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare
che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto
necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011.
La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana
sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle
conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi
nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali
deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato
Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile
con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge
nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro
errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato
scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto,
quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in
maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere
“manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea
contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla
magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi
nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista
responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per
errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si
considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti
comunitari.
Pronta la replica delle toghe:
guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia
di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice":
l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo
Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia
dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di
responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra
invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un
problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha
puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo
Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento
dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i
principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla
legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di
sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano
sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà
tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare:
l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su
“Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura
d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle
norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di
palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che
per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente
errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente
della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia
per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che
fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la
legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi,
come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario
politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla
responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli
dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche
responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte
già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella
sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la
minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri
magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le
inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più
quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del
bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento
dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta
non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al
governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i
singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in
linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo
caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una
parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e
alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti,
non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero
gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato
appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è
peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti
appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza
morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non
trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di
presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei
quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a
quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del
CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega
“Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20
settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette
sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la
magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici
sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso,
vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più
convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di
"concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano
che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale"
propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -
senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del
conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità
emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero
momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la
soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto"
ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della
magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché
proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i
giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più
propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio
bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della
Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza
Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re
Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il
senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e
dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire
l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del
protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o
giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti
sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei
dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è
delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la
vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è
intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione
della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla
violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio
Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello
di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono
limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in
galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che
inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali
reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei
medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può
essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La
Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la
Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato
italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più
5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha
condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per
danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni
di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul
suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino
Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione
giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi
europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto
dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi
della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche
Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale
intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti
. “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è
addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui
misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La
redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette
toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il
tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte,
assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo
diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché
pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i
soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il
direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione
economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in
Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la
sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la
certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora,
zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile
rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione.
Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che,
comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida
(governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i
codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle
dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è
dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a
quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia
una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di
questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena
pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di
Libero.
La questione è che per aver
dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse
nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce
a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un
contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità.
Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni
non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe
succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà
una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma
nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non
commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi
infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente
che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di
scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la
galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a
quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive
più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno
scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a
risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in
un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il
carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita
contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti
neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti
terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci.
La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio
Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della
libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento
altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti
parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla
diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti
quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta
essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il
giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che
passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una
riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però,
è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella
mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno
chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari
che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà
di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della
Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del
ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo
coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando
i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile)
scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il
fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la
Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo
sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano
e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del
quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”.
Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione»
nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali
«Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e
Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati
condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila
euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai
giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da
almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani
campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi
articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra
(corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni
su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il
servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le
ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”,
“dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di
potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti
che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene,
noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai
provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta,
scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca
e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan.
Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea
Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava
contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre
militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo
poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbale che il pasticcere li aveva chiamati e
loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la
volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un
semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia
finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene:
Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla
ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito
calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato
sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi
irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce
su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel
filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così
impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social
network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla,
blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube
un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle
strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz
Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di
30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza,
comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel
filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua
che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria
accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri:
ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un
semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico
“è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i
carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo
con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i
militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi
Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i
documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come
immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole
possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i
carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il
loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le
disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato
richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti.
In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non
l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti,
per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno
regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai
colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze,
hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di
screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi,
perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per
aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e
controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato
vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho
visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo
me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai
carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una
perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia
e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc,
sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le
Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla
è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che
documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle
strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla,
già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in
questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe
stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia
non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono
essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito
al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri
avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato
incriminato.
Uno dei servizi più
interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de
Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani
che ha documentato un presunto caso di abuso di potere
perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla.
L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione
ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è
accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo
Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata
appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo
comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio
cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e
davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce
per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in
pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere
filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di
mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei
Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di
consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto
del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire
la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani,
nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i
carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di
Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi,
Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo
Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato
pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario
il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato
tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene
abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un
pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle
intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un
imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati
della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il
lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla
drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella
con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi
due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate
nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o
per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti
dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per
ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i
giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro
colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà
dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi
oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai
due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza,
invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti
sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o
addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati"
con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto
disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei
diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad
un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di
risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da
cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il
massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano
anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora
in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di
Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna,
non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non
confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa
grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro
i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e
portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in
cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere
all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse
coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò
di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle
intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta
denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu
confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente
indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un
suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza
di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e
tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso
abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila
euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che
a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a
Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista
del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale:
"C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la
magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un
pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma
soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto
anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso
della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che
vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai.
Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza
dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in
movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza.
Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella
sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo
Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione
che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in
cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli.
Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a
tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli
continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare
contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa
sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non
solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per
farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro
errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e
basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita
cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione
per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il
popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri,
invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa
rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il
momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare
forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere
liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che
permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida
affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano
condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire
dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento
della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte
della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti
retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è
necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma
per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi,
presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare
sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza
le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne
svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a
"lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia
a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici?
Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S
punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre
un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto
di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si
godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è
farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di
comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di
esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per
lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo
blog. «Spesso
dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi
arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther
King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso
conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai
smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano
azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del
1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in
cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una
in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni
nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi
riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da
sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è
fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il
ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più
uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha
reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di
"discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande
trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo
stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e
l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma
costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e
dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un
invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani.
Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La
gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo
diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone
però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non
far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di
alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo
bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a
una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e
personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda
guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a
negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo
uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche
la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in
quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E'
riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo
del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col
fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne
tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?»
potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita
accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso
integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari
amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone
alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che
riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi,
ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente
consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in
una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che
angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il
peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre
imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha
sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è
questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al
potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta
patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i
servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte
per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a
fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre
famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non
ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti
con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi
particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili
per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per
la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più
la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di
una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature
dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità.
Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura
Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati
pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in
grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data
come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via
giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 -
’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni,
credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla
sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo
Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della
sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi
immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli
di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso
di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula
piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi
mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella
realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo,
tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e
morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun
riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno
aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha
riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro
volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me,
la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed
ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna
condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica,
con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere
definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti,
nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in
Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi
che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati
un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza
nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di
ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben
costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni
ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza,
due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in
capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società
Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi
a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici,
per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre
10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie
lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono
dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che
lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante
l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per
quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con
forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io
sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda
parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del
proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene
all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio
impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver
impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che
non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare
socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del
risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso,
di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di
mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio
giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della
democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi,
di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa
sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo
male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra
Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa
nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni
sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo
civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”,
ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile
uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon
senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di
forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So
bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la
politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una
inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un
mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla
vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi
tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta
sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica
stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del
tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci,
di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È
arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che
amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi
personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di
riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un
partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà
e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore
sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra
tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà,
della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia
sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i
cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima
della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il
nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e
rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia
sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà
diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la
maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma
maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare
ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per
liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in
campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà,
diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e
alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e
magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti
troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in
questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona
consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere
di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al
vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in
Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il
vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro,
non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno
a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti
politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati,
quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza
del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono
convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio
allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima
di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza
Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è
l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio
Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio
Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la
gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io
critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come
altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione
a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i
forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come
lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in
fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il
potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non
è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati.
Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le
lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si
lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi
giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro
padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente
comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia
contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della
democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in
carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se
funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è
sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non
sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che
alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della
povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che
la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle,
svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi
economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica,
anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al
passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la
massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici.
Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo
apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi.
Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai
pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per
farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di
sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio
Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei
vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la
mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che
nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo
che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più
gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse
contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra
e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze
dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine
Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un
giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi.
L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti
magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai
o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla
magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono
infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un
trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un
trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area,
più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti
universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per
addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici
truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei,
avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per
tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini
vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la
collettività)?
Quello che i politici oggi
hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li
difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in
tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio
perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete
tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai
si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E
questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv,
certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se
l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello
Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E
se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione
centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a
navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come
la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e
da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande,
orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità
è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che
è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che
hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato
di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È
uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il
dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo
su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex
PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato
di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa
pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime
vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato
un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla
direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo
giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le
storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis,
nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste
giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a
ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso
totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in
carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso
di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro.
Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla
pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha
trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni.
Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una
vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è
calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche
loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno
che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari,
nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a
sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto,
mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro
dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici
non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola
dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena
Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio
Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo
ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206
carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne
ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione
Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il
cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire
“Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In
questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti
Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le
motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha
condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa
dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La
sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale»
arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli»
della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della
sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare,
può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita:
il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per
l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il
pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità
del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le
sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana
sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo
sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato
oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione
fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale
per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è.
Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non
lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non
può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un
«danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza
appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti
«cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla
tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a
Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come
hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente
a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la
gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da
quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni
morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e
tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei
miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità
oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Ha mai pensato, per un
momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un
book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o
in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza:
la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a
manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive
“Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la
politica rende intellettualmente disonesti. Lo
dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale
University: la passione politica compromette il funzionamento della
mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il
cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo
a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte
- Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated
numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio
di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato
chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla
capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche.
Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono
stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte -
In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole
che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e
variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo
l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in
tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in
contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano
in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una
soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che
imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni -
Il prof della Yale non ha
dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona
il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del
mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato:
fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per
tutti”.
O li si ama o li si odia: non
esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più
contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse:
Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli
avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico
statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una
delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si
parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non
tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani
modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza
animale.
Difensori dei diritti o
azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della
logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario
collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una
cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva
dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo
pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti
offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di
aiuto.
L’odio da sempre legato al
legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa
categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede –
bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In
realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere
di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire.
Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi
greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli
inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai
più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle
chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più
riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche
filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi.
Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima
teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è
che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la
quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo
sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni
professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena
pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva
sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei
migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da
parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda
pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono
occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la
mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con
la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso.
Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha
fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea.
Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A
sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona
abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che
gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta
(calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di
problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal
problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato,
nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se
ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo
gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto
sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale
nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è
costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori,
perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna
di letto.
Così come la caratteristica di
ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile,
dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino.
Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e
interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del
legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E
questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si
rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è
un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non
esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il
resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile.
Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema
dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000
avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati
ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi,
a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di
offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi,
all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di
area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più
soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno
mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa
quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la
chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le
parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in
giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il
problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non
è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo
più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E,
come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto,
dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci,
i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo
all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose
funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i
più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli
inadatti.
Perché? Ma perché proprio i
mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per
raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno
meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati
continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore
dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore
immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi
politici". Se lo dice anche la Boccassini...
Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha
spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il
loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua
parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio
di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione.
Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad
altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro
indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia
per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo
fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha
spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il
loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che
dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda -
durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati",
con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per
salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani
pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la
folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere
l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare
avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male
gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e
delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello
Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda
Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono
sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale
dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di
non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe
Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino:
ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un
collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha
sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono
muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le
prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una
carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il
contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi,
per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e
andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a
lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della
'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono -
in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma
conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha
a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha
una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare",
dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al
cielo.
L’idolatria è il male endemico
di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione
civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a
percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una
tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di
te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la
trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o
pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a
stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e
condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un
riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità
di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far
osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I
MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno
politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra
indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La
persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca
Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un
po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli.
«Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su
un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia».
Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano.
Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare
risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in
Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta
Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper -
anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società
italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili
da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La
magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono
condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra
preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio
quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma
scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme.
Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the
political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013».
Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la
casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le
attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono
eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano
condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa
succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e
dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le
mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati
empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un
partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici
sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali
aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una
chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di
autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento
nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il
partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con
l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli
organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione
sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di
sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro
(Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po'
bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato
inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati
forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle
indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra
appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di
destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di
voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di
destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di
autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due
ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e
finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto,
l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo
per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non
è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due
considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi,
che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale,
di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente
schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di
dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i
comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra:
quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra
preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni
caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta.
Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo:
fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il
suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il
«trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale
dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli
aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E
LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno
strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra
chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud,
regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali,
le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo
Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita
Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali.
Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni
mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi
e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta
del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma
chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del
finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da
Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista”
prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo
la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema
sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una
classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si
dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di
sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove
il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e
municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si
moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano
le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le
anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri
su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e
fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie,
interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati,
intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da
certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio
Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi
scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto
rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante
le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento
(inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo
particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno
di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini
che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre
troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe
politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in
mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe,
stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si
proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate
a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato
in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la
Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati,
accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della
Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi
elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose
nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti
bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata
Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di
euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco
si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani
un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina
alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno
riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli
attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento
per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e
Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del
gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle
scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema
dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori
approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei
confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo
nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare
all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del
reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con
la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni
colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato
dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere
minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare
le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario
regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi
fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA.
QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo
stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il
patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso
Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le
motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato
definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre
mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese
avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in
cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la
sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi
familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della
Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello
Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per
concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso
Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di
intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i
rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che
Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo
stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che
Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso
siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano
presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di
Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano
presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de
relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con
Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha,
con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi
a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze
dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio
mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale
dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è
«ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della
condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua
personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente
in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi
allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative
gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile
considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima
dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima
che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della
sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato
è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una
storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo
Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può
descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non
riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie
drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i
pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla
criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle
mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta
continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di
giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di
"collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono
necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono
un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno
visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché
è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco
apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse
problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima
utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è
inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da
debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio
Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE
MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che
racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra
ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio
da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie:
un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione
o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è
meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non
pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è
regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la
legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada
in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale
per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media
per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta
in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto
che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati...
il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi
formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il
fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato,
alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato
che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”.
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi -
ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi
di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione
catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano
la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile
e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi
non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe
sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto
all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere
nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici,
amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto:
nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato
virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico,
economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del
popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati.
Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di
conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da
una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta
solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai
media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di
frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei
pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La
verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata
culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici
truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le
più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il
diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati
capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso
si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è
sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede
cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire
eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono).
Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche
pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti
l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di
trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore
dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi
ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la
possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la
storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe
politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro
a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei
Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le
sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono
pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la
Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi
correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di
Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura
di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla
l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il
14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica.
Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di
arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e
non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo
gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai
processi:
«... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della
pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano,
ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti.
La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è
incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio
Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei
magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse
uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è
tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili
sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della
discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è
qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano
me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i
carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa
la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste
mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era
un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano.
Così come in fatto di mafia
c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la
mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine
mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi
nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione
dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente,
la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è
ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato
conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei
compiti.
a) chiarezza, logicità e
rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della
concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della
conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della
capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto
giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la
comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica
e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari.
Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di
cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente
leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi
su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta,
irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento
svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un
periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei
singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le
ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della
logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione
esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti
universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi
relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre —
con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica
del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la
prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi
supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è
capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il
Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto,
punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per
la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica
dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che
Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi
materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali
consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione
della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per
prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad
indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità.
quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine
ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante
subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di
Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al
delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto
proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui
scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O
straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del
destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un
risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento
delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208
pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli
«allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la
frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che
si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...».
Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono
scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino
in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti
di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla
una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al
centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione
che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della
condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E
che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non
proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote
Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di
Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza
emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata
da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di
Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su
Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre
prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il
problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze,
ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano
Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di
mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua
insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito,
Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm
(che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?)
in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla
prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito,
una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la
magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in
un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo
ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per
prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei
governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse,
le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il
classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere
tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo
ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio
2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia
Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini,
secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma
Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per
gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato
del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe,
giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro
Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla
madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere
napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via
Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto
ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua
segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha
scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità.
Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un
ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie
comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La
Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico
dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la
politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di
Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60.
A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo
Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare
il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi,
infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero
corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta,
verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I
giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è
stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione
da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati.
Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica
l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di
diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura
della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive
l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la
semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i
temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo
sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso
Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama
Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de
Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio
Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998
capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani
pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello
milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio
(maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di
Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore,
Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di
magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che
i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi.
Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma
che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa
disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare
l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo
entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono,
il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un
trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni
a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico
Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi
Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio
Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di
Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal
1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta
all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al
Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto
industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in
corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno
dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile
del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio
Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario,
l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere,
resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a
guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una
vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe
Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova
sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea
annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è
incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la
nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a
luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella
Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi,
è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione
Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli
istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del
Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in
odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli
esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo
della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale.
Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi
offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio
Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA
BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie
di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il
paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della
Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli
affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene,
secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia
d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per
associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di
ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie
lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo
padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo
marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna,
Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli
affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a
Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta
autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice
Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato
a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso.
L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha
funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai
magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie
lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò
che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a
carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano)
relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta
nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della
Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano
soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano
l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco
(700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i
traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando
con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla
mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero
pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI
americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo
ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato
simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio
contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si
opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da
Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le
Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci
miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro
perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più
volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo
discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di
magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se
il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma
qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che
Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a
essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia
messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA
MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha
«prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
E quindi in tema di giustizia
ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto
Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande,
scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere
gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it:
“Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”.
Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione
la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si
osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho
scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni
città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore
giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente
solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di
infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello
scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è
una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata
detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati.
Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori,
sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello
che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici
giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più
importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il
resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno
scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come
megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il
territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di
coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco
gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che
magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a
Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in
tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma
sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di
vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli
appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da
punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi
salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i
telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda
quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi
approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente
rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si
vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la
qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si
pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura
giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar:
tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti
del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale,
giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di
Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche
come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di
Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre
2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di
rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di
Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi
delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di
vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico
esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si
conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la
certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era
già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri
di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del
processo?
E quello del dubbio
scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti
invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non
sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre
famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre
un termine al governo Letta».
Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non
mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che
amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere
incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E,
nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico
fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle
famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a
Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un
ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei
cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria,
dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi
onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi
politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è
avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il
coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere:
«Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di
una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario
che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un
calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm
del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né
pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta –
prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è
rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una
persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli
interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come
“sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate
nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono
responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli
italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso
fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione
finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno
fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e
piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per
questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere
invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come
quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe
ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del
centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando
il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi:
«Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a
sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro
schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse
a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una
nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le
condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti
fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più
chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento
delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della
modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati
della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata,
condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici
procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive
l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo
la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra
nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e
minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi
non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale
partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via
giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento
irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica.
Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che
senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che
ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e
fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho
scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto
la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma
perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile
al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole
una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea
ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi
dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per
esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per
primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato
se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di
giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto
sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei
confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di
trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove
la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di
aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi
imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione
di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e
prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci
come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano
educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma,
quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e
non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi
cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il
popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a
destra,
scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo
può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin
con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima
serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su
Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in
queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto
populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio.
Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice?
Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire.
In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa?
Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre
la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di
Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma
ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e
Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita
partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i
dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande
sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta
lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri
faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di
Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono
più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale
spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i
popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata,
e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze,
Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo
nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA
STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In
apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura:
“La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura:
“Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura:
“Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura:
“Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura:
“Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel
caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In
apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times
titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato
e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U"
di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News
campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di
Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il
quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la
partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo
l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando
alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una
photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente
adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex
premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non
perdere".
Il conservatore El Mundo,
invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla
figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha
detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato
l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani
tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il
colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel
in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il
Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per
Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto
critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince
il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in
Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times
dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla
minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo
ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di
fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che
"L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito
in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua
edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la
vittoria".
Telegrafico Le Monde,
che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25
senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca"
è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra
Liberation.
Infine Le Figaro,
quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi
risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA
DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi
scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende
e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso
di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per
la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere
sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come
un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa
è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato
Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a
Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo
Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre
intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a
sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima,
il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad
alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei
parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta
all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata
comincia, infatti, molto presto.
2,30
del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo
faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una
sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia
a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30,
“L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o
un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci
urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e
poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda
giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né
possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare,
può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto
focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del
Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni
e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una
lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato
finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto
Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo
Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un
gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra,
collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari:
Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi,
Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso,
Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello.
Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano
Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato.
Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso
quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si
aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In
questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria
a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta
ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che
''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una
decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non
hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una
prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla
sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al
Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono
comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta
fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi
ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del
partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala
antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se
uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''.
In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste
parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente
a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato
ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al
PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene
che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio
Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi
nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la
Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso:
voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10
Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica
ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va
rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per
l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi
ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il
rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di
Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene
zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il
governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli
obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il
presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza
come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante
dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il
coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica
del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il
quanto alle 12,30.
13.32.
Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la
dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e
senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha
rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato
è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un
governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando
tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere
solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il
clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione.
Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier
sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di
esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio
intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è
passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il
Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera.
Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato.
Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo
politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto;
sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26
Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la
Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che
interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà
l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30,
la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435
favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla
quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova
maggioranza.
Vittorio Feltri fa
trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi
spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no,
perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo
continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia,
scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto
sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di
Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo
presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per
alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata
negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria.
Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima
reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere
lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini
che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei
confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà.
Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna
è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa
veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio
che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate?
Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle
imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista
che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci
regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non
svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio
alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di
vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione
pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento
moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare
con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le
deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio
della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia
è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle
tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto
è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la
troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla
corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce
dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno
potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente
controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le
procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità
che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di
sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda
costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è
commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come
tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere
sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti
e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero
legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è
ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume,
sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un
Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di
scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud,
coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle
d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta
dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi
pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari
coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che
tutti sanno: le università sono una lobby, scrive
Vittorio Macioce su “Il
Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa
professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è
l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una
corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in
gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso.
Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo
tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità,
per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla
stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i
devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo
questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno
ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che
sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi
pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro
lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta
questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare?
L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e
pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è
che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per
fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È
quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una
costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta,
Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la
notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari
al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De
Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno
davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di
professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la
terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la
Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese
sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori,
con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri.
Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si
sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di
metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato
a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese
feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo
l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra
visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le
burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È
feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si
improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della
magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di
Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il
sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta
scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo
spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non
cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non
allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia
allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento
non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore
il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si
chiama Dc.
È una storia antica quanto i
baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in
cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno
sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le
indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica
“Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne
una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla
“Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre
discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato —
accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque
commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà
legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di
vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare.
Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La
prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che
citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta
del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore,
rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da
una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano,
scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione
dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che
potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico,
costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia
tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla
«Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti
pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le
posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35
saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è
che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti
nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci
sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di
Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di
Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini
(Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul
terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella
dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco
Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che
dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli
accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma
riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da
professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella
tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di
Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su
tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda
significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso
accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale
nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed
ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta
Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario
titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e
truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si
incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto,
pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il
quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni
eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni
universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della
Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari
espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle
Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di
regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il
destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline
afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi
nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni
giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto
della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io
faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e
patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali
pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio.
Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre
due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli
investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti
sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una
sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si
dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si
salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che
garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono
stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni
hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive
Gianluca Di
Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle
cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a
professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato:
la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del
mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave
dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato
dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati
risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme
berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono
l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma
a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei.
L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato
profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni
finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto
di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari
erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro
effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a
pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori,
al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a
Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo
pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia
all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una
commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede
non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da
raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per
trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti
boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando
un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un
ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo
avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per
farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di
millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono
stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di
loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di
recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la
vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva
parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il
2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di
cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i
capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni
per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il
controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico
il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni
giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la
sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre
docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito
invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono
tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è
persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei
loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada
con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare.
I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali,
ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari
delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza
definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore
Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario
sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al
primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una
lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a
stranieri?
Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi
conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record
delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per
avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande
vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il
Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette
solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle
1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle
case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza
straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra
gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le
graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a
fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi
entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è
lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito
(basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli
immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet)
su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a
favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale
possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente
versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una
casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone,
consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una
potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di
costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a
sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono
nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho
molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla
casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a
trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi
stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e
assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano
essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso
godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli
enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i
5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi,
si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non
viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.
Quando si parla di case
occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare
tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per
sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi,
altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva
dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma
significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva
delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente
sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano,
essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e
se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente
orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli
del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli
del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case
popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di
prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra
poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un
anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni,
settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente
in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa
e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara
sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso
dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere
l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano
essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie
indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica
insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle
case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi
periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali
sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma
del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri
bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì
le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel
sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più
sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno
di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se
difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di
vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008.
E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale,
che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000
persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve
una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto
Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia
legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare
quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte.
Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti
impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti
personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di
contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai
minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone
sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un
certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei
conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto
volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il
solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La
denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince.
Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei
fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le
lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che
certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione
che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è
stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e
consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati
da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie
compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz
leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la
legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al
camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare
domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla
luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà
pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato
pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti
pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato
all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e
stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31
dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge
simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009.
L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria
per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con
graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio?
Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle
norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una
battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati
e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da
ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli
enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è
pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci
sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e
nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna
circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica.
Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la
continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la
guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro
esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora
fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le
famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una
tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato
in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di
alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le
palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle
conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra,
lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità,
polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano
il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti
dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana
idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi
cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori»
ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo
elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto
che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente
all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel
capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le
domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia
che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto
all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo
migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare
altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai
bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo
iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da
inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per
i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un
pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano,
Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi
assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia
camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando
le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri
«fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco,
praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti,
armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a
Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima
persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio
comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico:
«Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in
effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha,
avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case
occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action
organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora
sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo
e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case
abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però,
ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia
di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata
da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile
svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto
per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una
signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare
un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata
anche lei.
L’occupazione abusiva degli
immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio
Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente
adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da
coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre
l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti
dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo
proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il
risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti,
sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia,
in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del
procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile
si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che
in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici,
quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono
ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od
edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio
funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art.
635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa
abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio
(art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue
alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il
reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un
reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di
misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto
quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere
l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna,
non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che
l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che
offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche
laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini
nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità
di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei
vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello
penalistico.
La mancanza di tutela per la
vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più
oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade
spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga
che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può
osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a
convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti,
occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche
ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle
ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59),
non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale
in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente,
solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il
coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza
scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe
rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza
che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in
essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di
questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la
occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando
una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione
abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente
funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava
all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua
mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli
abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno
ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna
credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui
sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria
deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze
ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai
locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè
minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga
nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle
appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di
escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da
uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il
fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è
palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare
tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando
la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare
l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le
responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o
ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo
giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre
secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze
dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o
dell'omissione.
Cosa ha veramente la
Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata
lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema
Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato
abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di
necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha
affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza
d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la
dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di
rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice
ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova
rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente
fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto
il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva
ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per
avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La
seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di
necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa
esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel
momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave
alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e
circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi
tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta
di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi
dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato
soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla
necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi
Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti,
attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e
ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54
Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo
surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo
dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali
cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare
reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile
comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che
il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II
Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati
del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto
Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del
Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo
dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli
indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità
penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui
versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di
evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano
lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo
giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del
provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La
Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della
legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per
le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura
(personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una
causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità.
L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato
un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente
rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B.
sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato
spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna
violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non
consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure
cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza
della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure
cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna
misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza
di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con
riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di
legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel
senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare
reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata
decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona
sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve
limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella
legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente,
pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del
procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa
affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del
periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto,
afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in
questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del
reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce
che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o
privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela
della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si
procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una
almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si
procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni,
fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato,
occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e
ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile
durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge
autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di
invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la
coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti
profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se
essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è
possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori
dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al
reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è
ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza)
nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al
pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di
servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è
limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono
ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare
contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può
assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a
permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per
apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno -
30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità
d'ufficio.
Il reato d'invasione di
terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del
soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al
patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria
dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del
comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita
del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione
dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella
distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato
che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp),
conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la
consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo
trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale
invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai
sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538).
In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto
dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare
del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio
del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis
(edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di
per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è
sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si
devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha
mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi
titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma
anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti
predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare
"destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a
privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto
(Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in
Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa
violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi
indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con
minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la
reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si
considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci
persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione
possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633
è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di
conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non
qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti
profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso
di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di
cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice
introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di
turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del
possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare
l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art.
634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un
numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si
tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene
trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè
la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo,
sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di
domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381,
lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art.
633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo
dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche
di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore
conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno
notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono
delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di
attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice
valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva
di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a
tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto
vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle
esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal
possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto
offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione,
rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del
diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte
dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto
risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa
al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui
sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al
proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva,
dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di
confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti
i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova
del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di
termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione,
tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a
far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti
l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso
incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si
distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a
chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da
proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al
fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al
contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira
alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una
funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di
una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono
la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il
possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le
azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo
proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di
danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie,
cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’
TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di
sinistra) i professionisti dell'accoglienza.
L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete
senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la
pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che
non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una
parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la
pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative,
professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i
poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si
rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti,
volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della
Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro
vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi
provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un
miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno
scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui
carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa
corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima
accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i
trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese
legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti,
mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati
chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna
che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i
disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero
dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per
integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti
asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre
soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le
frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di
porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7
milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal
Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i
rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per
misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come
co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il
fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome
perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel
2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus,
Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si
muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito
che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per
l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa».
Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le
organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero
dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi
pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto
e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli
albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro
diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi
retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire
come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati,
che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza
legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e
Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i
soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli
uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali
martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano
l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e
solidarietà.
Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo
Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto
significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si
presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini
su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato
in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università
italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e
del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la
presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di
rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza –
temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di
deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica
italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano
con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente.
Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono
profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o
i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse
sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per
questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni
regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un
“conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in
questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella
cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici
che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni
del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani.
Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei
“cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente
coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo
del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente
strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante
di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile
comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva
antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio.
Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si
parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità
profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle
forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi
lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e
ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che
dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia
promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il
parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio
condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI
ANTIRACKET.
“L’efficienza delle
associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle
denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data
dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio
Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente
dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce
nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del
presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana
associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il
Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le
Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le
associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che
serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia
di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed
antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali
politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di
passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di
finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in
base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in
giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte
contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non
toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura
neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una
parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà
alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo
zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata
alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno
offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere
nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e
l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo
Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio
Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza
non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede
fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si
informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle
forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello
Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e
quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle
spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa
un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che
lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere
nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a
tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e
come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le
locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è
legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio
Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più
improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né,
tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se
scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato
non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri
sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli
avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono
critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è
sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come
autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in
E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti
questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore
di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e
carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo
orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e
promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a
farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL
e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti
dell’Associazione Caponnetto.
Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di
indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente
assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e
commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia
“Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché
più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo
in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai
più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la
vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe
dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono
oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra
all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler
privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo
mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato
la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi
ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché
il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose,
culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e
denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo
sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo
preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi
accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria
referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e
per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non
osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo
di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che
si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della
lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo
partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella
effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni,
del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione
Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio
quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli –
volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra
Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed
esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa
che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la
gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella
reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci
siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che
si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza
alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare
i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre
dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la
partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura
dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la
nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e
di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera
dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il
convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato
Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha
visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare
altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della
classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di
raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il
quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della
quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa
dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un
consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un
malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto.
Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del
PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri
confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e
lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto
probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente
ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché”
di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol
dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di
carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi
o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di
fatto. E’
solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità
e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non
funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di
“santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi,
anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che
qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e
dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per
elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando
in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che
troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed
all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella
democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è
Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che
universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione
antimafia?
«Innanzitutto
bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per
risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più
indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti
che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione
e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome
di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e
contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro
questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in
via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei
politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è
un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei
propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle
società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il
giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche
bene.»
Ma questo può essere solo un modo
diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non
è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la
questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera
che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa,
da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come
“antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera,
con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati.
Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano,
che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri
fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di
'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose
offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie
espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i
GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per
la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese.
Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle
grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e
connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al
fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che
impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al
mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri
fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto
importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può
confondere il tutto con un caso.
«Prima
di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma
una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il
caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti
delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale
tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha
una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle
propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome
della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi
immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a
Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un
bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno
eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale
chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche
in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore
con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale
era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il
sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi...
Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a
Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco:
Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”.
Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina
Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si
presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete
mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non
era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto,
che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione
antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come
macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni,
sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono
un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente
non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone
qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul
palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia
Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per
truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri...
quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del
personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano
decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI...
cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà,
sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi
Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del
Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito,
omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni
provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario
dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella
con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal
telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in
tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo
scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei
PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia
e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in
Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul
palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A
Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e
dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti
sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e
quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della
sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo
cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.
A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente
spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali
supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e
salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di
quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don
Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li
ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le
amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e
continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova
ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci
la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora
la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a
Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e
dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della
politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei
palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura
indipendente?
«No!
Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi
che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi
politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di
smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non
vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si
faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe
intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza
dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte
vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera
ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il
referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di
centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino.
Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra,
quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra
gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può
quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza
marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in
cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi
vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da
stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!
Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una
delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il
“locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i
propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di
Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia
SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio
nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti
di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene
confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto
di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie!
Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo
per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi
crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna
dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è
proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono
brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere
demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un
fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni
amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal
anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il
CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione
Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto
del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le
mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa
pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi,
con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito
Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di
smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente
sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai
una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la
Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le
società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la
PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento
lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli
incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche
parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra.
Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna,
presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la
“colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali
hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per
avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor
prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse
di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo
Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione
nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio
alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E
mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un
perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera
contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di
tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio
devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che
dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla
devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da
quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.
Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della
non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere
“di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono:
indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta
ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione
della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere
provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore,
Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il
marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente
apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non
era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni
amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata,
apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta
legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può
nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha
risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo
direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un
candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni,
ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti?
Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va
bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo
sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non
c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti,
abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la
delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del
Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello
maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e
'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha
cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che
negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti
che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria
vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso
locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una
cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di
Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla
realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini
sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse
pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa
Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende
del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia
della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei
MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono
stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per
cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro
omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è
stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare”
l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A
Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco
politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli
amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che
svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con
ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria
fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte
anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie
nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e
contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è
stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi
ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che
bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo
con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che
dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo
sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante.
Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una
fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno
tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con
pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl
degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi,
Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL
dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa
Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata,
c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di
Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come
testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di
BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un
dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno
l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto
mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del
suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente
Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi,
le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la
vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra...
della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della
Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei
convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei
volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune,
degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o
addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai
MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle
varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi
abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo
imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi
annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando
non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da
un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è
consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente,
senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle
iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con
6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la
questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della
Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione
elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui
sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative
pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella
inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante
dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è
dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e
ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di
Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed
agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che
hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un
bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi
vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una
bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e
bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente
utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui
poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero
scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e
rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla
comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle
terre confiscate non è importante?
«Premettiamo
una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti
di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la
realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera,
che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed
alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato
“utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto
perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole.
Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà.
Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni
meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi
spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni
confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi
piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono
coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel
Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle
primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come
contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece
silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura
siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è
stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi:
perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove
sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a
ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è
evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni
confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro
di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati?
L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera.
Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni
usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e
conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di
accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è
davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel
secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come
“paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto
l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo
rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o
complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o
comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli
che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e,
purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora)
macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha
lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai
stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di
ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia
mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul
fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo
che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i
giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di
assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero
mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo
spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al
clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia!
Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in
questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati.
Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica
“Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale
quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di
vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano
usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni
confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime
percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli
occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei
casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da
terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei
primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare
Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella
pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo
stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di
Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari
per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su
un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma
fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo,
è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate
avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni
possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito
della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di
quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella
norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione
questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio,
in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati
dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per
questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché
“monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio
non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a
costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie
clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera?
Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non
c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che
testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo
che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona
fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano
di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che
non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare
questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e
risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di
ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale
perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci
sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e
perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una
terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è
acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto
meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per
farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e
comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e
denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci
mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula
dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che
conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo
consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che
rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui
volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e
si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose
che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente
ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione
corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e
perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi
abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili,
riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due
comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla
Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma
si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine,
odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra
fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di
accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare
l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata
effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa
queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì,
le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i
fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo
contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno
da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a
mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando
sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli
abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI...
poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro
esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa.
Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici”
del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di
Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti
tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla
Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la
variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe
provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in
Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando
in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del
Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano
promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho
letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non
funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora
questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era
salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che
in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente
l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi,
con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a
Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per
anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la
Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i
rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di
Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da
risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da
una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della
Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di
un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa
la strada imboccata da Libera?
«La
questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o
concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti
quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se
stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da
millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a
conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad
esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà,
né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e
cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha
un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la
lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un
problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura
nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui
i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una
quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione.
Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui
si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che
frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale,
che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini
legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio
Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di
tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le
elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella
spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del
boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio
Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni
del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto
dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e
poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con
questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso,
incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don
Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla
mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino
Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la
logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione
dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la
lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione
giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna
mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici
frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che
occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità
di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la
mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le
attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione,
prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali
illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è
lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché
Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con
la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci
fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la
politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie
indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso
obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative
“mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni
di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia
ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità,
connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non
è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come
il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve
il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna
ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il
dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive
delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte
ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don
Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto
della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi
nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che
se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne
avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere
l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso
rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare?
Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte
persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di
contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni
mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo
è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera
è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo
le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo:
visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per
promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E
quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un
ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come
unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi
alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le
mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni
giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine
per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna
mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto
è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre
maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni
Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla
vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni
esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha
investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera
regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha
speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala.
Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi
mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le
teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di
mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la
latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che
l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente
manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli
'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e
Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno
l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori
dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto
con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o
comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea
“ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E'
pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano
seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro
screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un
territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che
tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se
tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con
il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni
nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo
sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera...
magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si
rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare
da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante
si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera
dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E
questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera
torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il
presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che
abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è
fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E',
come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni
soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo
stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese
della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la
politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto
risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così
come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e
spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese
mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati
aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a
volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia
di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti
investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato
nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo
perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le
cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se
non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei
probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed
invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche
quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla
politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la
spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che
queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è
meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio
concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando
sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti
legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i
dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di
Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di
Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò
quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla
Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di
Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli
anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di
“educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo
asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con
il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro
che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi
crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione
della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No,
come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter
“abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per
quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da
“paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una
cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci
siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo
una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano
tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e
decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano
riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è
più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete,
non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi
convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della
Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono,
si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato
di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se
indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona
fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte
quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo
di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede,
per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto,
oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della
Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il
“nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno
fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel
briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi
in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come
stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per
quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente
no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di
omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti
ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo
mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta
società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione
spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti
“indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti
perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti.
Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad
una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete
poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe
Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno
domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e
parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far
vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare
impossibile...
«Sarebbe
ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni
anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi
non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno
cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che
vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella
sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta
di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla
concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene
e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori
dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una
diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi
cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei
ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli
permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è
sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore
Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche
qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo
problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con
chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora
totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli
esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di
Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via
Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il
Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci
può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A
Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come
pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione
della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei
Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di
Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il
Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente
regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato”
per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni
che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura
di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le
misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non
esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato
per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta,
che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è
presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed
uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle
risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione…
fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un
“atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza,
atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla
presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza
contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si
potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e
non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo
eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi
potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che,
essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto
che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e
proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di
Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica
ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere
presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà
consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza
viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo
intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data
conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di
Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante,
significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario
ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso
resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto
anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse
ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà
perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco
politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di
Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva
nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe
sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno
devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento
alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei
Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del
“faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro
grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad
Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata,
una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come,
Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa
consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro
lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta
all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono,
coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la
Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi
quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo
parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma
come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di
confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non
saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra
presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa
pubblicazione?
«Vorremmo
dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo
da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel
silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco
feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di
speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo
significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché
ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo
tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un
contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si
possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua
rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per
un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza
sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo
stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da
Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora
inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo
stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella
lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu
Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude
con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un
Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure
da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in
questo libro?
«Le
cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa
una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La
storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da
che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di
Versailles...
«Sì,
perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi.
Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi
dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha
vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia,
società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle
rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri
forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto
era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del
1922.»
Partiti dilanianti e
latitanti?
«Non
hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la
destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a
un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O
qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si
affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una
colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La
moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e
Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei
tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne
accorgono?
«Abbiamo
un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della
libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è
l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare
di ancora più grave?
«L’Italia
ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla
gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa
malattia?
«Mancanza
di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non
crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il
miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica:
che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono
cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto.
Mario Monti?
«Un
economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e
fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve
cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno
l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un
Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si
instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la
riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un
giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa
di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai
preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un
pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte
che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si
muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più
teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter
Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un
perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di
conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un
paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un
uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un
grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma
non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo
presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che
invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai
compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a
destra Una «strana» Italia divisa in due.
Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre
democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su
“Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio
dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la
cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i
mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a
partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica
hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata.
L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva
del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da
una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in
tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica
democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante
delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese.
Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale
antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento
anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società
politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di
obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza
silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno
progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema
tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio
senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È
rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel
ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno
strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della
sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro,
un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non
dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una
forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta
dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e
l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione
dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di
questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte
prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A
pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche
le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che
ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte
delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è
stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività
delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per
reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente
coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio
sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume
carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da
rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia
presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto).
Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei
partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da
maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della
società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo
dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è
progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli
stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un
sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto
molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato
svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal
Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena
politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa
dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è
stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica
all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla
polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di
maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs
Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato
la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso
dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti,
poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio
di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato
solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica
- e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse
sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di
attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente
qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non
meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della
«degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e
della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione
politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S,
rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo
all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme
dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo
protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il
tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14
anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici
uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su
“Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva
contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un
Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza
quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava
anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il
fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di
prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i
traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che,
nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il
sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di
seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò
l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più
notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se
ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno
spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite –
ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la
procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer
fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano
altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli
occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare
dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone
raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che
gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per
proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga.
Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo
l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 –
erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni
malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano,
Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia
di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri
del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il
carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di
Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne
brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al
padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una
brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un
maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul
ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua
pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro
della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile –
dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che
vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un
carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2
lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla
‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose
che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso
una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma
“nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata
ambizione».
Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale
di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo
Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila
euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò
questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante
del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri,
tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con
pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia
decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer
ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di
rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno
del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in
combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al
traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera».
La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma
il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta
da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a
delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto
ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime
responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un
distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli
stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer
non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo
assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di
immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i
condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou
Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu
(ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato,
10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a
Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi
ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e
Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra
il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la
solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa
dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta
vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della
carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che
dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di
sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97”
che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento
disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In
caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati
all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i
delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a
carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica
nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi
appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più
parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa
allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte
un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco.
Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata
di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza
contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex
sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio
in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di
condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di
ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di
militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di
malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie
condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo
provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del
Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante
condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al
generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata
ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle
istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati
arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di
violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro
custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di
polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in
carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della
Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel
corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con
l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla
concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse,
omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in
cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che
ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni
3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco
Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si
sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate,
sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando
sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una
denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’
altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è
partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due
carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano
coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e
della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo
anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per
sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A
Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto".
La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno
2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare
sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale,
"la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si
perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di
completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di
diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella
caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no
global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel
luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di
“assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque
non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi
dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese
definitive sette condanne e accordate quattro
assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i
manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi
processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente
verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i
reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti,
carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili
sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza
definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al
comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei
sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto
all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle
consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla
motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi
felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione
vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al
minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità
di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le
modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni
ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il
“compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso
evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore,
olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco
perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea
difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di
quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli
spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto
esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre
i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha
mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che
la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al
personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò
non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto
dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia
da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro
comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non
necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni
e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei
no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le
violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto,
un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso
invalido dalla polizia:
"Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del
2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella
sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze
dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna
possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati
sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai
cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona
cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine
estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa
che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve,
raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi,
me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega
a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di
vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per
tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la
battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura
scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello
contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la
sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia
furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che
siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo
Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri
appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per
non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in
divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al
”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla
sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per
ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un
risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio
gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di
un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo
Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove
sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia
non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha
avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti
questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che
ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che
ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la
lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la
sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro
dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di
quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma
cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso
ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico
legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido
nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato,
certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa
impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa
attacca l'Italia:
“Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier
governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze
dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive
“FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi
risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate,
la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di
alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da
parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e
molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli
omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla
base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di
sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di
Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi
a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del
reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono
autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i
rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei
centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un
centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che
hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le
proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del
Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e
minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato
accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti
discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei
confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il
2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di
autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”.
Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il
femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la
garanzia dell'anonimato.
In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In
Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro
Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla
divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un
semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del
Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli
spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante
il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei
manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto
mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la
magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto
questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso
febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti
parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere
proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la
trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una
proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza
su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo
nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di
pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio
decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla
polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità
d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici
alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro
dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così
invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle
forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania,
Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma
qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato
l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del
parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora
adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana
non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti
solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici.
Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A
causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la
cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore
della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non
sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia
introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe
a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici
servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche
modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo
insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi,
segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante
violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto
mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare,
tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe
avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni.
Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da
parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma
anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la
poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura
militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico»,
un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non
ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema
di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le
forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della
polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a
Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i
suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa.
All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty
International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra
cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per
Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la
“macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe
succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso
di essere diverso.
“Chi non conosce la verità
è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son
tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri
compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva
censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Ha mai pensato, per un
momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un
book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o
in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
“Pensino ora i miei
venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto,
quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA,
INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani,
giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a
ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati
istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero
di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della
Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it
con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né
l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il
Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di
clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente,
l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la
maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove,
nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi,
qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice
no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su
4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro
interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato
giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla
disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre
fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti
e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie.
Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice
Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una
corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come
direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere
per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione
e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà
giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli
estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una
legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto
soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la
notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del
Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a
dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene.
I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa
succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle
carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane
dentro?
2. Parliamo dei politici e
della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza
di dignità.
«È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri
italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel
quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i
detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo
Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le
condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere.
«Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di
un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha
sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la
rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E
invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea
tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone.
Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un
Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità»
per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere.
Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il
sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei
detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni
irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene
detentive».
3. Parliamo della
sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua
infallibilità.
Il giustizialismo. Nel
linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che
vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante
e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la
politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che
invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie
processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su
qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche
nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla
Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è
considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore
giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano
portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è
propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza
di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il
risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo
all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i
magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato
di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva
quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia
dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella
134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che,
malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un
malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era
comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il
plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987,
la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento
del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa
stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità
personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità
dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a
causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa
fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso
il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino,
allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a
quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un
terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da
una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge
ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i
magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto
che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di
condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante
le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha
acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n.
117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla
novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di
dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della
Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento
alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della
responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande
regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli
altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità
di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati
è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la
garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata
sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e
delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può
dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la
denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del
giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la
violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia
cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo
vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti
separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché
la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio
per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la
massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità,
anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore
giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo
gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze
sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i
giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa
tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo
sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale
Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse
infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe
andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia
avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno,
però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato
il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato.
Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il
calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita».
Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci,
pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché,
secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma
nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va
sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria
Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È
un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se
Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi
una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e
avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è
difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi
tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il
bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato
quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio.
Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che
Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile:
lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro.
Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei
trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome
se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo
un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci,
perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale
non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure,
«poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport
e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare
al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti
della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a
pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani
della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono
l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi
sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di
una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno
vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli
italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e
l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere
anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti
su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12
mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per
non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa
Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto
sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente
fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia
Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro.
Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono
stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli
ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti
innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non
costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del
tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad
aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro
era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo
nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15
anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose
di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non
sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le
sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura
del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga
ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono
persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da
ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della
nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di
primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è
stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta
il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una
inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale
che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure
cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per
Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille
atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto
sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di
Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo
piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti
con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio
di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori,
secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere
finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di
fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma
dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti
domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione
da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari
nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in
Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e
consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici
hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì,
all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel
dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non
sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che
giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti
infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito,
tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003
aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti
dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New
Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di
Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore
delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore
dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il
suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una
conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun
reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e
mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo
lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un
avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera.
“Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti
tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di
Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi
prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende
come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state
letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini
e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si
tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui
filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su
una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda
avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei
anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin
dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e
informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci
fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti
infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di
Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno
certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società
e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per
quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa
sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati
condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione:
"Il carcere peggio di come lo raccontano".
L'imprenditore assolto con
formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La
Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi
nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non
voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio
Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta
secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma
sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente
potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il
periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora
fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei
manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è
diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie
all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia,
tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val
d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però
non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo
affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi
che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere
finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in
Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A
cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla
telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era
stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per
noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità
delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in
Italia, subito.
«Sapevo
esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma
immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di
quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da
anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli
artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in
volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi
una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era
notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso
che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione
su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima
una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi
Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso
in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti
comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è
meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più
dura?
«Più
ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di
impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di
isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una
farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi
sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di
non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile
inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in
un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm,
evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti
domiciliari, un po' di respiro.
«Al
contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod,
l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a
Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo
solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana.
Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di
quell'anno?
«Certo
non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le
persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste
cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia,
oggi?
«Il
mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia.
Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di
garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con
tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà
della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio
di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei
giorni più duri?
«Mai,
neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la
mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a
rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia
famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei
suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia
"mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci
uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono
sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa
ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito
danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il
modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra,
per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco
dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che
ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto
per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne
polemiche italiane sulla giustizia?
«Con
fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio
politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che
vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a
proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse,
ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare
seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il
Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima
dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la
tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano
gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque
conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di
verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo
legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso
(sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare
misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al
carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono
passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di
vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una
persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma
continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è
finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza
una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si
potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE
A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del
giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di
Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla
Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario
di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982:
l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto
Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle
cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren -
nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito),
e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo
una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero
del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato
ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del
1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul
70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece,
accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma
come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia
Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982.
Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la
Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario
durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della
Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti
accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione
tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la
causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta
al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del
cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in
carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso
suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia
all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la
famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo
commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il
1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si
escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film
ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata
congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione -
«l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai
quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una
retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film».
Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non
dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa
all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte,
rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della
Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un
reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922
milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che
avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren,
dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva
presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di
552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco
aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo
che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione
sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva
degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile».
Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre
la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la
liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini
abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di
sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974
(ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come
sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al
60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco -
in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di
differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla
certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono
fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate
all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila
euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente
si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il
miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti
speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente
ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia
Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni
quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente
pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma
l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe
potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela
presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati
andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul
gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina
e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera
- sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di
chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di
ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne
distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa
che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune
per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando
Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri
problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho
mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare
tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino,
tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto
no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità
venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il
gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha
fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié».
Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è
piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da
miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di
Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso
di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di
euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del
Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona
e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha
reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio
Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino.
Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in
Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un
funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili
come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli
fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma
spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia
Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare
Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta.
Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il
fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di
reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso
l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che
già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti
annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario.
La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a
Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna
Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da
poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi
tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha
sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in
realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione -
notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un
eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire,
pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di
euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma
di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco.
Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero
Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode
perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia
a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39
milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il
fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore
argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento
al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro.
Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro
in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora
e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi
contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il
fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa
esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di
Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi
a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto
sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è
innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha
fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito
di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre
sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le
richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la
prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo
è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva
lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori
dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e
la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già
tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza
naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli
calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né
il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la
coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi
quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo
dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle
cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle
cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al
codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo
di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come
oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona,
Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e
fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi
e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre
al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con
cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per
eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva
all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i
calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle
società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi
avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il
fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona
e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a
quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero
dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca
fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto.
In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una
sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli
calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo.
Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il
passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni
non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso
Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal
sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e
Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende
a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia.
La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo
penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto
l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i
calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori
retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco
italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme
che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989:
quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo
essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione
non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si
fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque
sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha
provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché
tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua
ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai
poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in
Italia.
Maradona, l'avvocato su "La
Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi
cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di
pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2
miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò
faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello
accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè
trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a
"Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di
Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue
parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è
palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo
Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici
che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6
milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la
somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le
multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno
accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a
tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il
Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo
sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È
responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo
alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione
anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello,
definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte:
"Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non
essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato.
Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che
è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se
guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO
CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa.
Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi
nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha
incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un
carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha
voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane,
ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi
circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII
e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice
ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli,
mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti -
ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così
isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri
egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più
deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il
Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di
riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di
orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre
debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il
Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni
carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui
è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che
abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai
cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa,
potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata
da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il
fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e
mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero
e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non
condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due
ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice:
"Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a
non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA
CASTA.
E poi ancora, neanche gli
studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle
elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro
che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni:
magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si
laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia,
scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo:
a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè
bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora
sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che
sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno
rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha
sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro,
quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio
post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una
casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano.
Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse
universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila:
soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi
magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può,
perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza
a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a
spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per
definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno
azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare
e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti,
quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di
sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale,
economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro,
i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex
ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi
all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che
Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure
lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando
disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un
laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il
lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si
chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della
vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto
che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da
sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non
si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani
italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo
ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto
chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da
quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato
italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una
percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa,
in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle
situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi
da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli
studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di
proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo
(l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà
viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci,
dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello
sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio»
ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un
lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non
hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono
diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE
COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un
evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di
avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di
migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea:
c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio
effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e
sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI.
L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana
editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle
prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità.
“Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa
alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla
commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste
predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad
avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla
corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il
sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai
candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine,
cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero
deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta
al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome
del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani,
in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro
Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non
riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di
Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a
suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si
racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista
professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono
gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di
eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri
allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha
superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una
professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri
intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le
qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del
resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che
Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di
esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le
sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose
nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su
1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto
l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia
mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste
commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito?
Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento
dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti
estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice
commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione
Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che
bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di
avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n.
1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si
accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da
qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e
rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n.
1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso
principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova
orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso
appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare
apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva
“ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta
recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta
di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione
sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR
siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal
n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del
19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa
Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato.
Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già
decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013,
presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un
giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui
cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande
cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per
sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da
quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto
lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di
1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove
orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato
alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una
media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni
sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è
caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati
furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per
irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di
quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai
commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si
rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle
ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della
Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi
l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro
che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno
più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il
sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema
di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di
istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche
caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di
merito.
Sicuramente nell’affrontare
l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo,
superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute,
compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà
qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte
le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a
giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI
TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia
di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco
Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze
dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido
ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad
ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino
indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia.
Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima
salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i
suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto
salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia
carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è
stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà
perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle
undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti”
da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra
itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice,
è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste
famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di
arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche
semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con
loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di
chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che
provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza
forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le
immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega
l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato
io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze
sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia
Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte
tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei
carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di
primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero
individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o
etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha
assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote
le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato
redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una
semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in
caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti
all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è
vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva,
che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà
ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il
trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico
Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre
2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono
arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora
stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a
Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non
escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale».
Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo
obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato
arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia
di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e
asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto
come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate
della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per
individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il
5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico
ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona.
Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il
maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo
della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua.
Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani ,
il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001
durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il
51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano
Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte
e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano
e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe
Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella
caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che
interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI
SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre
anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni
mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti
in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive
Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto
dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le
intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti,
interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso
insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà
36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà
nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia
storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno,
di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare
dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e
mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan
non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano
accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto
d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco
abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la
richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno,
poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè
piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle.
Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle
famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia
garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato
omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con
l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a
leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non
solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a
spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa
piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e
controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in
genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico
in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se
di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà
perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda
si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i
fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era:
un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti
si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San
Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente
attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il
pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati
alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà
a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un
cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno
del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La
seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice
ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo,
però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere
dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si
accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi
Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze
dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno
circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è
passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro
cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre,
per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”.
Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in
provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord
Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono
circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i
locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza
di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche
conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli
bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono
gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando
nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il
loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene
redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione
illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che
si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello
che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un
processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza:
«Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma
sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in
concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la
pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che
non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in
realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il
fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare.
«Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si
vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle
strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri
era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due
fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può
immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli
spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono
del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?».
«Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in
caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i
giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice
di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre
ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il
rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito.
Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né
il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente
la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto
si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi
approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni".
Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio
dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta
di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di
Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli
anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico
caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza,
al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta
è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli
avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante
l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti -
che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce
l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in
quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che
lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha
smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi
è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va
all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la
riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di
dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha
fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri
Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu
Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di
San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio).
Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel
carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai
militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di
Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di
persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976
presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina:
il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli
interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il
killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere
diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio
di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera,
scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato
trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta.
Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla
grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di
droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore,
riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio,
invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola,
popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città
d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un
libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di
rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono
scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a
fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano
indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene,
altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una
storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato
comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico
quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare
il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche
per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan
nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori
50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in
Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale
Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà.
Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della
Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora
aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema
giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985,
riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano,
Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex
presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo-
giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul
pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel
2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione
penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli
gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la
Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i
tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i
termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere
scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio
Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il
pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto
però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è
altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il
tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli
stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha
rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di
disprezzo per il popolo.
La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo
del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e
ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti
quello che il Pd non ha detto per venti anni“,
è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama
(i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da
parte di Forza Italia).
«Signor
Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia
italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale,
etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che
si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono
ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi.
La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un
percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente
chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari,
corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito,
falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla
prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile.
Insomma un delinquente abituale, recidivo e
dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali.
Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi.
Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in
Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto
soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione
della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di
debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro
l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il
deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata
fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica
per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le
sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una
carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge
vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è
palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse
chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e
violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di
risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni
giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per
onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un
Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni.
Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei
deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV
legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante,
al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega
dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per
certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci
fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa
lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante
non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile
Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il
fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è
la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio
delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato
che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare
alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La
vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…)
L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal
finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel
momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica».
Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci
legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora
adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le
dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo
nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva
ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli
italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire
la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e
degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro
giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a
spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000
euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare
perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una
sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per
applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di
indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non
sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il
senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità
della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità
sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità
morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà
un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito
oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati
dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la
passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese:
disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno
zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi
dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo
Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento!
Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di
un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di
un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben
16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non
godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è
stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del
Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze,
una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri,
Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che
ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più
ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e
addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e
incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto
fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi
interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E,
invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per
cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto
all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città
sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando
Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti
tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali
informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si
conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali…
e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per
debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo
Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra
preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli
minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena
ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh,
sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene
svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece
un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto
del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del
sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di
rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo,
Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice
concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai
cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o
persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono
riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un
futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi,
retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola
Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del
"Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei
corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa:
"La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i
miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo
aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito,
anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è
decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è
ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso
errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida
d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle
che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il
senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio
Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente
Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che
voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al
Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi
in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio
Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata
di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre
riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del
Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E
il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per
la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di
collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e
ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di
craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in
questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono
routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida
dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo
punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E
continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male".
Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta
sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza
Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi
(Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire
Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori
azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al
voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola
persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al
socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon
senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di
interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da
fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i
garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una
decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro
responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che
governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E
con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato.
Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della
maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina
di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del
Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non
c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno,
figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo
Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi
Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della
stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per
Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei
media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui,
scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la
sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso
internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o
corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo
i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la
Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione
tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la
decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica
politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il
suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I
sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine
della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza
davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno
di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima
Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex
premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e
annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla
sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari
davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo
momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere
sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo
come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di
Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda
Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la
sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel
sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il
giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi
assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti
giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non
Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S
pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico
"Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da
oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento
in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già
aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha
ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo
dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla
di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di
un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La
divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di
governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua
edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier
sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo
Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di
Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex
presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori
dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in
un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il
governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima
pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata
a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere
sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico".
Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph
scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un
nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di
rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato
ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una
condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al
Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di
apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal
Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera
- "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora
dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle
principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la
sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana
titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode
fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha
segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio
in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita
politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di
Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a
Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è
firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto
potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo
aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi
politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare
l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante,
mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il
Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna
americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del
Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è
possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento -
scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente
nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo
El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo
dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla
sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery
di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista
spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti
giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia
spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la
sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola.
E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per
le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area
conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la
notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si
definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle
spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come
un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per
politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al
pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno
dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra".
Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha
dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro
Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in
apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include
"I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno
abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la
notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di
Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria.
Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto
di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio
Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal
presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista
Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano
brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori
Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento
che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di
manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della
votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia
"cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal
Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri".
Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi.
Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno
spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per
due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo
mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il
77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per
attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i
misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne
rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro
Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo
scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il
presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello
nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli
Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere
della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra"
(ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo
ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I
segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì
Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con
Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista
del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti
e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa,
dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence
americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per
tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al
«misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del
sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro
festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio
destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio
comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista
preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel
libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la
massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le
dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle
diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse
fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di
altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche
istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli
Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino
al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un
importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea»
(proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli
archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del
padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile
all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra
nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni
Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo
l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per
quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da
tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico
dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia
stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso
prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani,
direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il
passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un
assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte,
l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario
Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul
dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro
(fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla
autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su
Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di
Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su
Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a
dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro,
scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla
luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi
fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in
assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue
aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo
di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce,
innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread
(il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di
terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri
finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in
Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro
giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e
lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu
costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno
Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del
Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40
del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le
dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo
il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi
siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata
ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro».
Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico
Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano
Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che
nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia
dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della
Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è
l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in
dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha
sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»;
«La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire
lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera
preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà
precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il
bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si
illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra,
interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per
salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia
e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra.
Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa
e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni,
limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua
missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al
riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale
dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai
banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la
democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo
che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare
a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con
imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete
di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far
rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav
obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo
svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per
accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti",
scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo
dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte
scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti
pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la
volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier
spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a
Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare
l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del
vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su
Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la
tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca
Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre
all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due
premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe
significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a
Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania
con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati,
considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi
costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre,
con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di
fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti»,
rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà
nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al
posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a
soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero
se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di
euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati
all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier
spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano
perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro.
«C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda
Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del
nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento.
Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il
contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il
toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri
rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo
la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo
attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa,
un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio
Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più
tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che
sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una
frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si
raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma
non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto -
sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo
italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria
con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo
incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da
leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli
italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di
rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna)
la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto
ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili
dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato
possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a
regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel
suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto
emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da
un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare
l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due
sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le
stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi
giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma
innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula
dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica
prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non
poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai
suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato
sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e
forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il
tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della
Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che
tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di
disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato
avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura
grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura
distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico.
Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a
finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare
questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano,
in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe
dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre
alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di
riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che
scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson
e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle
riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet
show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle
procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele
espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto
chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo
per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai
pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13
agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver
accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una
balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della
Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in
relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene
accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con
sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta
irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver
acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore
avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore
generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per
la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle
successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al
processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del
gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno
di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del
superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo
appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il
parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o
dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della
Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di
Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il
coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una
fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non
ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel
nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale,
statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello
Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha
fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli
avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza
partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i
caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo
politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico
Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese
una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il
Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai
improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di
imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima
anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una
linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti
dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio.
Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche
quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di
varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il
potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha
mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al
momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo.
Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a
guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto
che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di
verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e
manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla
decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di
buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano
voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per
un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del
Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe
dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E
invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente
affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni
linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader.
Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si
autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di
tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della
storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza
tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i
tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate
dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso
perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del
perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe
dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi,
ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte
d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà
già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci
scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non
secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga
potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto
(decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il
cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd
di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si
presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26
novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha
dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come
per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si
sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale
sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È
una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende.
Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che
lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i
loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non
corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle
belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno
rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai
tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re,
si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente.
Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno
accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano
dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati
uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente
di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e
impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una
giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace
sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal
popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro
di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico
comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e
Md che fece scattare Mani pulite.
Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per
ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore
contro la corruzione in Italia,
scrive Sergio d'Angelo su
“Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova
Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani
magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino.
Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere
accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura.
Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La
giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e
più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di
potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti
in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della
società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la
prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale
discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta
italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo
giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema
fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti
privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso
l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine
giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante
cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la
sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e
delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a
«fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva
assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine
sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per
l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a
combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida
violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo
elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala
filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante
prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono
indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la
magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente
accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e
questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire
- «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che
fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche
prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri).
Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi
«suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma,
colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal
suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md,
vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito,
in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno
due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica
passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta
armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi
(economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in
discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro
assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale)
sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno
politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della
magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e
proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero.
Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente
interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci
sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito
il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di
look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo,
che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro
l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali,
che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita
dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali
e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il
proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di
un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds
uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono)
della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani
Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino:
Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad
opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal
perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti.
Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il
principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di
clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i
giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito
per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese,
rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua
Sergio d'Angelo su “Il
Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo
tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e
provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice
di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di
qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini
preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un
significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla
sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12
marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano
Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm
statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il
nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del
pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai
colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva
mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era
noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò
fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di
Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un
esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco
Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne
narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una
posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad
acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza
pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e
l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si
avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio
1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime
avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con
il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito,
che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge
Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore
Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei
poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si
rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio
sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e
metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori
di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5
ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo
- a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello
Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà
stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare
millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano
malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi
il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira
dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali
indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la
magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la
Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava
fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un
pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna
forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché
l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla
magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri
privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia.
Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o
promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine
giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento
letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini
fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri:
l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a
giocarselo.
Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario.
I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla
nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato
il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica
negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare
una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico
della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa
scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire
né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi
pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze
politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse
evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le
Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in
pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella
filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della
sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento
di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds
aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col
sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza,
ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era
comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono
resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed
anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine,
intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse
e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito.
Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del
potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era
interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte
si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso
Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut
amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare
eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di
mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata
abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli
occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il
nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto.
Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo
(ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne
ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni
personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti
cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi -
caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i
membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica»,
e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme
per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire
il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo
sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della
magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo
nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data
dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo,
aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler
dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 -
indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto
di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In
realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha
difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi
ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva
pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a
propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro
colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona
- il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora
rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può
senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi
(processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero
(condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in
favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md,
come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del
Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente
Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di
sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi
potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con
risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa
(I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il
pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione
Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando
del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo
è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e
territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale
del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della
competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette
«indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi
alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente).
Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo
dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che
peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a
vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali
democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani,
ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e
autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica
significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno
correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd -
dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai
resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una
democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi,
cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo
Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed
incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.»
Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il
cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35
anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in
pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano:
"Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio
Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta
Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista
giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare
in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo
dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee
precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che
rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di
Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un
fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare
carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma
nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di
sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché
sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex
Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog,
giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e
dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla
sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli
editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra
attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do
ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani
pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in
modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in
politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento
di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma
lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura».
Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il
problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che
vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm
contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto
politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono
le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono
all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e
quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle
toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così
capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il
progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero
Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura
che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui
pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i
suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno
come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono
che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese,
capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici
anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e
soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule:
«Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e
continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini
preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per
rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo
a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla
magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la
corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di
responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex
presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il
giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della
politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a
non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di
spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha
aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese,
l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra
caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora
più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha
scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità
antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era
antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge
Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto
che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle
assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il
cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe
aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa.
Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a
livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia
costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio
avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li
rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli,
singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare
appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha
finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come
leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare
solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di
«convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia
- anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare
quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri
leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della
politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e
ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con
Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha
colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia.
Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è
complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata
«jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale -
all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale:
vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo,
schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per
colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in
vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare
tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle
azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica
difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e
prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato
di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994
per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650
giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un
proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino
a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per
salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è
cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura
- unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a
discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per
frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il
contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato
prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la
determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia
paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai
tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del
processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare
i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza
furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere
che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo
successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record:
tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci
condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo
la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata
descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese:
semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il
paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche -
quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da
trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di
discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo
dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia
effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e
mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si
accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine
della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei
vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E,
senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva
non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una
gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere»
purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più
ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza».
Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di
Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi
possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti
fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere
ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso
sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava
la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per
inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna
prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle
modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta
inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva
provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di
provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile
ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le
sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un
videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì
«sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla
magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far
decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente
di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato
«interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la
decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il
centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del
dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si
entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il
mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della
Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di
infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi
elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il
Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30
ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che
per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà
ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza,
dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le
mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto.
Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -
che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al
Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la
prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però,
dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito
degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura.
Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche
dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di
assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle
intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i
vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi
inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un
po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non
finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra
idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli
infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti,
carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i
nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i
Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle
istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del
Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un
problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013
dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in
assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica
rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è
arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per
concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello
Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il
riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di
Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile
l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che
non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità",
ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto
rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non
escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di
partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che
operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro
rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI
DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di
qualcuno e dei figli di nessuno,
scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per
poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore
un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna
Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia
Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende
simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i
giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni,
ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina
fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione,
questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante
preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e
dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i
cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due
principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi
del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica
Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di
giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un
Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido
ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di
migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non
sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso
passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi
alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi
europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la
prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno,
rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima
volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca
pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico,
usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta
sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers –
sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre
più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo
piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe
comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le
quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato
da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di
dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le
ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con
il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre
trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione
Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano
scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in
famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri
genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che
alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi
precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima,
risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe
dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi
governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li
spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando
si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti
già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario
Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a
20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca
d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25
anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001.
Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in
particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio
Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La
figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime,
Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco
spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la
terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli
24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30
quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino,
l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di
Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del
posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una
carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di
Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale
guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi
giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma
probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque
non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di
altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non
avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i
figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se
messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da
reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il
destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque,
spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per
sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a
di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico,
protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo
Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso
la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco
Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il
motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della
carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura
concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare
interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia
italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del
capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non
nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso
l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato
persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni
pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi
di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia,
tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della
Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di
Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si
auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed
alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o
delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno
Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di
laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei
Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il
romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna
la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo,
attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto
diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi
riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi
Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata
a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a
studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino”
(così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al
termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta
decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle
lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie”
alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione
2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori
sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo
seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di
nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono
spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare
l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver
svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo
38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon,
autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha
scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò
a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu
distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito
estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra
che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e
che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti
figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora.
Non ci sono
anormali, ma normali diversi,
scrive Michele Marzano su “La
Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una
coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse
"perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi
(l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla
Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei
minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più".
Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela
l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi
"perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed
evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri
reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero
essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona
dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E
se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico
ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la
perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che
sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"?
Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è
un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi
soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste
alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le
persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno
presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è
normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale
differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi
ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile
intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la
felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé,
non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e
cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che
questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a
crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a
torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che
l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e
che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei
"fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando
autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere
"perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore
dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità
fatta normalità
con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo
Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti
poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono
«scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un
eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da
un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo
affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili
con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che
l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a
infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci
chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona
percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente
vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un
mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con
severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci
interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi
5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come
conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di
amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e
donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società,
hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione.
Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il
trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone.
Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le
nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia
nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle
generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun
peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società,
dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici
immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si
rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro
Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di
conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da
tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice
azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il
disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le
torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È
su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata
dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato
la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un
lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure
il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui
una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia
sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre
strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è
invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini,
preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente
scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e
si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente
variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da
letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di
biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare
delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti
sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra
dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di
dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa -
è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta
di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare
un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di
senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è
stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a
nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole
ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose,
perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei
rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in
montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato
lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che
arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho
cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come
fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo
fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che
devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che
pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo:
come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di
noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i
rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche
bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e
dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze
principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi
diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla
loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la
passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti
noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda,
la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe
istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero
fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo,
ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI
PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di
Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie
Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella
classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche
temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte
polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei
carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più
votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da
scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e
piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come
la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi
abusivi,
Villette abusive, abusi
sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare
abusiva.
Appalti truccati, trapianti
truccati,
Motorini truccati che scippano
donne truccate;
Il visagista delle dive è
truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna
cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia
sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia
bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di
no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non
rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta
per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no,
commando omicida.
Commando pam, commando
prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo
stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non
più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no?
Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai,
primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo
plasma dico no;
Se dimentichi le pinze
fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti
devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce
l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze,
viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma
un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia
gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la
terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una
pizza da solo;
Un totale di due pizze e
l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia
evviva.
Squerellerellesh,
cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè
nainananai.
Una pizza in compagnia, una
pizza da solo;
In totale molto pizzo ma
l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no,
scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere
fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la
terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice
in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale
italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e
dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre
ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel
rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha
impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la
reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese
e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura
collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro
contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base
mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i
propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la
propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in
quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis
«senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata,
disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale,
disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della
impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché
viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A
giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della
cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale.
Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno
scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle
precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato
una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani
che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato,
passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto
nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente
rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio
sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9%
dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine,
occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di
italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il
Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non
riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi
raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani
che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un
impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per
la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha
attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure
quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei
cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica,
non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie
difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di
ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis
vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più
attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel
turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in
carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle
centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più
di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale
condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella
grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in
due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e
di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di
radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale:
dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla
elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli
strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita
massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo,
secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la
connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti
«restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo
particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per
la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e
nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non
potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica».
Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni
«perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi
delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente
politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire
la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può
sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della
mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario
per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la
personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione
delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide».
Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di
valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari
sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se
lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si
pensi».
Quella che emerge è una
nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle
leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle
campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza
dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di
euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato
con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio
da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli
attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia
il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato,
perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di
Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la
funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra,
questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà.
Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non
esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti
parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire
lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto
quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato
- di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La
pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che
rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di
polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della
Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che
abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un
segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione
clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di
reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media
nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della
polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono
relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per
cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per
cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non
attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei
clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il
capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si
intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini
commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto
turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare
la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto
all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini».
Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura
deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a
una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi
nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto
procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria
del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione
nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a
corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata
promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per
protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo
ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la
Diaz deve valere anche per i cittadini"
"La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e
non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della
Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non
solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è
personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti
mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la
tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i
ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla
pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici
decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi
come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo
differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per
i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate
su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori
pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo
un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore
generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno
giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare
l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità
connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di
procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti
d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la
irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione
degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e'
conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato
o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle
istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza
obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese",
diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua
lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata
ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia
dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la
politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i
burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro
stessi abusi.
È una fotografia impietosa
quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del
Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da
Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale
sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale,
«comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle
influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come
«condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di
fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda
spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del
«balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente
segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale
che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la
realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità,
lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa
"senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno
"poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese -
indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è
fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale,
dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia
altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia,
investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e
il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica
evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale
va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non
filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in
un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza
non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni
low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri
lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella
violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità
organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli
immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi
tv.
La minoranza industriale,
dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla
conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non
possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa
notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel
futuro.
La classe politica, scossa
dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono
trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per
uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e
innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi
mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;
minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in
un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di
appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno
gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni
individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis -
per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia
intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De
Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso
autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione
pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un
atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non
stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una
rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi
dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così:
sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però
non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai
quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può
essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e
l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da
tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi
intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande
delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la
metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più
piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del
peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha
più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo
Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di
meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro
da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati
tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le
formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era
possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni
“alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in
interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo
pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non
è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di
autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica.
De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente
democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe
dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del
partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani.
Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la
sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della
mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico.
Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili.
Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il
militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto
questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere
padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il
boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se
stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il
marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio.
L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei
figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del
capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm
uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure
collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche,
a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio
2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti
che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di
"squallide consorterie"».
Per il Colle è importante
«alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire
fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e
dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione
adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto
dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da
parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche
misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in
"pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche
trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della
‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese
senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese
senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale,
di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi
condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese
«sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È
dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto
aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da
marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la
politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del
‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti
problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia
Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il
rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si
riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono
solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più
automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi
principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità
e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di
presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata
da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge
del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei
politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere
sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e
visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi
qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva
molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo
indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il
divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di
ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di
offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per
fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la
par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta.
Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti
presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono
ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori
dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel
silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta
per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali,
cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più
di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a
deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa
è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il
sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le
prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la
processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un
deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è
presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un
deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi
uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando
serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia
tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i
difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso
rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i
politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva
dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di
“Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca
demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal
quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine
pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime
istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia
quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli
italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei
vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i
sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli
immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la
maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche
l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto
riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci
abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle
indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore
di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella
disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra
preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e
delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli
altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in
fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei
18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica
come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza
freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un
mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste
classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli
italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la
crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte
politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare
e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende
democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta
dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il
più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche
da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese
dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra
inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e
uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa
del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del
2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli
elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il
titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può
far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive
l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la
gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non
essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema
giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa
ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua"
e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio,
con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del
"trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini
stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio
governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina
dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono
chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della
maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio
portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana
urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera
italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una
sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The
Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si
sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad
inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora
simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che
sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana
all'estero: sempre più opaca.
È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio
Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso
noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere
(dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più
importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli
altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa
estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce
vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo
cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici
burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo
fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi
riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di
arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze,
concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The
Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa
d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre
impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il
proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue
spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi
non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza
posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che
però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove
strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda
l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il
fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la
“paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno
fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con
i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in
una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono
anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione
all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi,
invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche
dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca
anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel
modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo
elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare
dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di
minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della
professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora
sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche
negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi
anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”,
non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione…
nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in
situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè
convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di
prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra
coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che
queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli,
ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in
preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere
prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi
cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta
che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del
Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che
partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve
essere:
chiara, facilmente
comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da
elementi superflui;
precisa, priva di
indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon
senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini
davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e
comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in
quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è.
L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la
presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive
Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore
al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del
testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte.
Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del
governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56
decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di
500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che
quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi
sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i
tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della
commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da
Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000
anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne
adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni
bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare
lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe
opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o
anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo
perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario
necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera
a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo
comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati,
determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio
dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il
ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una
legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I
moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa
ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo
catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale
berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più
facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il
18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi
normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire,
modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi
espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni
rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in
regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione,
contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara
comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli.
Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del
governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il
termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del
decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla
legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009
dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il
punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti
burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di
«acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle
regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti,
incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della
facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le
istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in
italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa
seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero
comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli
armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in
disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un
elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare
restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere
incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock
dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street.
Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari
cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in
fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno
segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via
per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma,
l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di
non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti
arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con
chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a
dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la
legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due
mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e
codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del
governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2
milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle
ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per
tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30
dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11,
comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi
legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della
Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La
Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme
della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza
– sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista
o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che
non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei
seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato
l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di
liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di
esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione
della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la
decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può
sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche,
nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo,
dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le
liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme
sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla
coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto
almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni
regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste
«bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza.
Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta
Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto
unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di
maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più
vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e
Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto
dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte
affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio
sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo
stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici
Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio
di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI
INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A
LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE
INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA
QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma
giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione
di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le
leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della
durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi
delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi.
"Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione
espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le
precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla
legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte,
mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si
parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva
dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente
si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge
disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova
sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In
quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per
incostituzionalità.
Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza
di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 –
Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di
una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma
cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai
Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario,
provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum.
Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro
ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 –
Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per
deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila
elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi
tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art.
79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80].
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad
eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata
se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è
raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le
modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per
desuetudine.
Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione
per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di
efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari
grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali
l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è
l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc
(non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla
deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma
"derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata
cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva
retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano
necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo
scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo
implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle
citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi
disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone
che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale
regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a
rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore.
Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è
ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo
costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare
un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di
irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le
problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle
problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con
l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno
può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna,
ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente
vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate
perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una
delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è
richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel
codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali
o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti
amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente,
elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La
conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di
nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge,
nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma
occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la
nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla
legge.
- Inottemperanza alle
sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi
previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non
si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi
essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi
degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo
la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti
amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il
cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto
avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo
(espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di
libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa
forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali
casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto
con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare
ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia
elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse
pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione
comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di
attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in
quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono
invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono
essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza.
È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità
dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del
soggetto;
quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché
emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta
per territorio;
quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica
amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta
per materia;
è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una
materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza
dell'oggetto;
è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato,
indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello
stesso sesso;
e) inesistenza per
mancanza di forma essenziale;
si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo
(solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità.
L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi
essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto
stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo;
l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non
esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto
amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di
illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso
di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza
relativa.
Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse
amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica
tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre
vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei
seguenti casi:
- quando un organo
gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la
potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un
atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di
amministrazione.
b) Eccesso di potere.
Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di
cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o
quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di
consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile
soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge.
Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti:
si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le
regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla
legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto
illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere
eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto
ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un
provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice
amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli
effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere
suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima
parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una
volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del
provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal
diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel
grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto,
l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle
altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come
dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina
delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento
del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus
civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto
processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto
inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che
l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella
pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie
prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza”
dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi
pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa,
la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza,
creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche
funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi
di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il
difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la
giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza,
quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies
e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il
rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione
o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo
applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne
prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la
nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia
amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo
ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro
giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte
Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est
administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra
in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un
segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie,
la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto
amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti
consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di
nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la
osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi,
vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005.
Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il
legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo).
Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della
categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per
contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale
annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere
agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il
giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del
sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La
storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in
realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando
una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA
allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato !
Non
sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della
Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino
che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi
interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare
risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di
questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o
meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di
difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica,
essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti
gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto
anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in
maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi
con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi
anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di
conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento
sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo
questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari
governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi
illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere
alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi,
modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello
Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e
quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per
effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento
illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli
effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe
affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico
nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto
che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab
origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e
costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata
di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero
prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri
economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate.
In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo
concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto
darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice
ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno
in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio
di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la
problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata
successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto
alcune:
“Mentre
l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è
giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare
alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma
anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche
quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è
quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il
fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in
giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia
retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di
norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che,
sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato
luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del
passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli
effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza,
ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o
processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce
di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando
fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla
Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per
effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale
effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più
impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997
n. 7057).”
“La
retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte
costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle
situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla
decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione
dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in
quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato,
con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia
24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la
legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività,
specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica,
incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali
principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del
giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto
precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà
giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia
intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art.
13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore,
adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere
dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato
a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio
secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte
Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il
limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata
nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette
additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il
ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli
effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una
parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non
altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più
complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la
Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata
giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che
siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri,
quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere
il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte.
Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la
consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto
riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà
dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo
avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla
Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora
il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi
dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge
elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi
costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti
sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze.
In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge
elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le
motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno
rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime
settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da
ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di
deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni
materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di
legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto,
bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è
(dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la
giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il
fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista
sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla
Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano,
anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia
perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che
compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di
efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma
della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché,
sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di
questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la
popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili
e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in
animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete
presente le nane bianche?
La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella
viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è
quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive
Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione
d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del
Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle
politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla
Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo.
Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le
fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che
consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito
l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i
tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può
modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo
massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le
decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema
non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il
procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato
questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei
partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel
1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i
privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come
il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici
donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante
dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla
Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a
intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire
delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che
si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche
rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla
responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati
dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al
novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il
cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e
degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza
difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola
aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze
intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato
che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello
del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in
vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai
nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della
lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci
risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete
solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e
siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici
arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se
stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori,
decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire
sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il
padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno
Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano
il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in
vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono
in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto
d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato
fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o
l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo
culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di
cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo
odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per
cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo
sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo
abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa
che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete
voi.
Parlamento dichiarato
illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata
dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli
effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa
illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale
solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello
Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte
le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte
Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è
illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima:
paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo
senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di
chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo
di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!"
("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa
sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici?
Si chiede
Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina
alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del
Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento
delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo
tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a
impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la
magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi
del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine
rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica
italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto,
incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge
propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza,
la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso
dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto
decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima
decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata
peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta
dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno
pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le
dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento
di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa
situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a
intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del
codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte
Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè
che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i
magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento
discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i
lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal
Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro,
cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta
all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse
possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione
amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la
decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi
sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri
del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura
ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni
date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene
di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione?
Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di
minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi
etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o
il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con
buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi».
Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino
intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”,
i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del
Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora
della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato
ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di
particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico
leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale
di fiducia del
Partito Democratico.
Gianluigi Pellegrino, come il
padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del
centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla
legge elettorale,
sui quesiti
referendari,
perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per
esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione
Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la
tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia
Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul
cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito
Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti
dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce
dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che
venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al
polmone poi.
Adesso il giurista incalza:
«La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso
una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio
attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti
fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una
sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha
previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità
di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della
sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo
classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque
dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato
dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha
sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta
delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere
compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a
Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la
sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed
eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della
Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate
le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera
stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine
di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo
di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato
l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è
ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non
con un atto eversivo».
Come deve avvenire
l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato
per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della
Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe
subentrare?
«Quei seggi andrebbero
ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi,
a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al
Pd».
Un terremoto che avrebbe
effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si
tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede
all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione
sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle
motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza
dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio
che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il
Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un
imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche
chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive
indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse
dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista,
Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si
può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli
avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati
e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti
uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati.
Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra
idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si
risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali
esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di
Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per
gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di
vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici
spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non
sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto
e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non
ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo
se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un
periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché
farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI.
NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei
Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta
ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato
molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate
al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di
giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma
anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati)
dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che
possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte
perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così
un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre
meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a
difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello
stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di
percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre
meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il
basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa
ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo
ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti)
rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite
dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di
una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta
posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della
professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del
ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least,
viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti,
il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto
impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in
materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale
unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in
queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia
amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici
riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale
operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano
nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo
cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di
detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto
autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di
ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa
significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si
muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo
quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche
che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la
cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e
proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE
PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5
Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle
lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto
per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si
faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili
lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore
c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel
corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che
diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha
aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano
ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti
di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con
la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati».
Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale,
a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è
spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto
l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione
Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle
pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la
faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari
del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il
dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi
mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono
dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione»,
giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro.
«Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e
iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio.
Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad
alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di
alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto
l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso
dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19
maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle
che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali
per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola
profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni
senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un
emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per
i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che
prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda -
spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi
e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe
elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a
seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a
5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono
impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le
stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale
Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del
centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex
ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di
lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi
scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro
Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in
una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se
provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella
fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della
verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di
fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla
Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il
servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione
mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in
nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono
Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per
entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo
malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova
nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in
nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di
destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il
questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo
Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i
regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i
regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi.
Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente
del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge
che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al
momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA
MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi,
da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti,
naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una
dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli
italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo
l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli
italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta
per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta
l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica
distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e
finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di
distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta,
prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto
casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla
fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci
impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei
denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli
svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può
essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico,
correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che
impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa
sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e
soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture
odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica
alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di
ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso;
ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di
popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili
determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di
vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali
l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione
sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio
– basso.
Perché il Servizio Sanitario
Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico
accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al
pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica
pubblica?
Andare dal dentista gratis
è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a
pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite
odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito,
insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per
averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la
parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere
e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi,
può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale
carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono
avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di
altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche
convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi
dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono
però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti
regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o
quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche,
con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da
un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la
morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così
forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi
legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di
sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una
ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che,
presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa
Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre
degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama
mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio
antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e
fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema
dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho
affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per
esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26
imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi
nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per
l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di
Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo
asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato
pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non
si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è
stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi
bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per
una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio
2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata
pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia
odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le
difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se
tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente
da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento.
ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta
valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera
e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto.
La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo
della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con
gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale
Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta
allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati
ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere
vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente
dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio.
“E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le
prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del
Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza
denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”
La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte
da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si
chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo
dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io
aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha
portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande
lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante
sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì
culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere
sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende
alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre”
che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una
buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura
pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare
le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso,
non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o
vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico
nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi
soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato
un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali
ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti
impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno.
Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl
che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi.
Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza
odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai
non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature
(mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è
molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi
quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo
dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con
i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola
parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari
Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare
quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce
sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di
abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia
parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri
come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene
e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo
denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che
il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott.
Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica
gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai
dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di
prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata
prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale
nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del
dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero
dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di
detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare
la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è
molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché
sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di
analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni
utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti
italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi.
Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il
dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost.
Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per
mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott.
Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua
consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza
fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014,
perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista.
Da un ospedale
all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile
ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive
Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì
11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la
differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver
Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente
anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora
morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa
drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un
dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana,
18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare
immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore
era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più
nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La
Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma
purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto
specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata
portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno
tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva
invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite
polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo.
Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è
stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste
la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale
con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di
malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella
periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà.
Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista
scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di
Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un
infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato.
All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di
vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare,
condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della
pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al
Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di
rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I
medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne
hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel
quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal
di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare
senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi
degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi
economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo.
La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata;
qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che
le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico
polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate
ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il
padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino
Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una
bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre
lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna
con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del
Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa
dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà.
L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è
insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in
prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto
soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla
terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del
nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso
l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata.
Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono
apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una
fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai
polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le
condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la
settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna
inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo
non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura
dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia
alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite
odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale
Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore.
Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica,
settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da
spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega
una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive
“Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un
fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari
e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un
ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi
economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto
d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le
possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la
percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco
Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può
permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le
liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente
di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e
situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che
nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il
settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le
prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari
nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un
allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli
avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il
“Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico
(spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che
significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere
un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la
retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella
professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato -
rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze
professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il
costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60
MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile
Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo
rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive
Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia
si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in
60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa
ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è
in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in
particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario
2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione
annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet
"... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto
calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al
rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e
Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha
scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla
corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano
opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei
commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio
di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione
negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e
cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban
Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60
miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra
sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra
che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo,
magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un
rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille
miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione
corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa
percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi.
Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la
cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che
non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI
DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non
capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio
Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta
letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma
ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri
ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la
gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa
informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun
pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed
ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non
rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi,
invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra
vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un
indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può
essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono
scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò,
addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie
di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle
conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime
d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto
dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e
miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media
omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul
delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in
modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di
quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto
di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014.
Ore 22.00 circa.
Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori
che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur
sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano
non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi
dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non
creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle
sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga
lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno
all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur
invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici
coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha
detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani
potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui
l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto -
ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi
vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente
immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto
infondate».
Se lo dice lui che è stato
Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi:
«Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io
sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto.
E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io
non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi:
«Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle
migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata.
Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere
addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e
rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a
dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo
istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio
del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina
capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il
concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento
malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia).
In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una
distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la
"schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del
2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha
definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio
Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo
diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni
soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati,
avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio
fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di
parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico
Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi,
facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di
conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che
noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che
capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio
noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO
STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori,
o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr
Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal
Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti
foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione
fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013.
In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del
2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo
Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia
sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture,
insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle
sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati:
colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i
tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi
delle società nei cosiddetti paradisi fiscali -
Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti,
hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non
contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi -
dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano
a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli
italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera
che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli
effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno
scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati
fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202
arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno
avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti
per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori
completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da
5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette
scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come
tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di
lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore
fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente.
Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime
attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone
avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco
enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di
fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi
previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il
buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà
sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da
pensionati e contribuenti.
Inps,
Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il
Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e
Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex
Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un
rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo
sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e
Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato
italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a
carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo.
Forse
che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle
pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di
raccontare la questione del
presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non
mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è
semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande
Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8
milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che
andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il
costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso
mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e
pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un
modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei
privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi
spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva
semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici,
ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future
pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo
il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se
volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi
(dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994
si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo?
Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno
per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese
con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa
così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale
pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di
cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un
problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel
passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al
ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci
capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non
versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca
avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non
ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha
anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla
fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine
quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è
il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si
accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore
privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur
assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe
trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il
medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi
all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere
molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il
dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente
è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello
Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la
fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per
mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si
è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il
suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre
quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare
tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva
il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto
una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di
quanto riceve in termini di assegni pensionistici,
scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione
Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti
previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei
liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il
bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va
detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari
italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora
in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il
rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i
contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una
situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in
Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in
piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di
soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro
incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici
silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero
professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata
dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali,
poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la
pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli
altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari,
che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel
mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente.
Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non
supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di
popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento
della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal
governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non
tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo,
ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno
vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO.
LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967
- Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo
(che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni,
telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai",
quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino
Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle
classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della
sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da
elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi
d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè
snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali,
scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù
da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria
collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga
misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista
inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti
quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le
bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e`
scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti
quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a
parlare d'amore
e scoprire che va sempre a
finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti
in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a
tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma
senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti
quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi
piange davvero
e scoprire che è per tutti una
cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La
sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre
il significato originario.
Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa
infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012
(fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of
office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione
dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e
scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono
indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e
comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”.
Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano
il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e
burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le
grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento.
Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le
stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di
capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al
nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi
tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO?
A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione
pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di
risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente
casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una
parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali,
rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le
battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né
in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda
l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in
Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da
compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’
plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta
velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi,
che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo,
dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di
sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione
politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente
protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a
prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile.
In Italia non basta rispettare
le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le
regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in
discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la
strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto,
si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio
cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme
possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti
locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il
primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai
cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli
stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di
consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome.
Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in
definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha
verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori
sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15
punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di
ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito
dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che
in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e
quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio,
conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti
perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli
occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono
“la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre
insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti
politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a
far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente:
gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di
quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e
Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex
magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello
mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”,
“diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai
termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44
Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di
immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro
per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove
saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio
delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza
andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di
Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli
Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una
certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza
offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che
non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera,
scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante
esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della
fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di
dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia,
sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi
italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco,
rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una
visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale
e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il
cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se
le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non
possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo,
consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono
il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI
STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi
"non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra
ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino
Labia su “Panorama”. E sono
tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal
popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con
l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi
(il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato
a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd,
sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo
convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche
alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica,
quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella
segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità
visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di
stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei
nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi
è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a
via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è
stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo
alcuni:
- Governo Letta
(2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo
lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti
(2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo
D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini
(1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi
(1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De
Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi
Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di
crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo
Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della
Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in
questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare
Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento
attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle
segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da
Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più,
Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere.
“Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero
prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto
varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un
ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi
vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si
sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una
durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di
Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive
Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno
noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del
presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e
mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo
facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi)
a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro
ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto
dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta
di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il
ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È
un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del
dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro
intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era
prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del
Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose,
la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia,
pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce
probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda
legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella,
Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla
legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto
censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel
1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle
forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda
legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico,
come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri
degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la
Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri
altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che
avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza.
Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo:
anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del
proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel
giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e
democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque,
non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto
presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne
dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma
fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici.
La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo
Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le
staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le
elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a
testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di
spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia
vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a
legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per
premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in
più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De
Gasperi e
Berlusconi.
Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi
è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato
costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto
per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da
dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il
presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere
la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide
se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche
togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo
dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il
diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della
Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto
ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi,
pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore
di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga
l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la
sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura.
Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne
fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento
satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia
esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa.
La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia
legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una
Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e
non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta
incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente)
Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere
(ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un
adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di
quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno
da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola.
Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è
necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e
menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli
ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente
del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando,
ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia
recente,
Berlusconi
è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva
più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu
approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti,
che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta,
che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono
state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di
governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli
altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal
Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione
dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non
piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e
che soprattutto
si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla
Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a
dimenticare
(così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del
Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere
l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da
chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti.
L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e
nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza
elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non
dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la
democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si
uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti
e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per
gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci
che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le
mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la
Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione
ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene
eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le
elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente
della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del
Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari
cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e
il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in
grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad
elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo.
O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso
votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il
nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A
partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei
sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale
maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito
questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e
centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un
leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non
essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del
Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della
Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare
il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si
formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di
un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza
completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi
piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione
non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014
gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti
da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio
Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro
Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno.
Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti
pubblici.
«Al fine di rendere effettivo
l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri
per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di
questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei
non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di
pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro
attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un
reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base
all’inflazione.
L'onere ricade sulla
collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono
publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal
reddito complessivo.
Le attività professionali
svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o
contributo.
Sono abrogate le disposizioni
di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e
diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un
brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali.
Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la
magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia
massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel
brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il
genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come
già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante
rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae
più)
Abbasso e Alè (nun te reggae
più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae
più)
La sposa in bianco, il maschio
forte,
i ministri puliti, i buffoni
di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae
più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei
commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te
reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae
più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae
più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti
Pirelli,
dribbla Causio che passa a
Tardelli
Musiello, Antognoni,
Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera,
D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio
Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te
reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te
reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in
panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun
te reggae più!)
Il nostro è un partito serio..
(certo!)
disponibile al confronto
(..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al
mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun
te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto
cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la
matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me
sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE
REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber
(1972)
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Vorrei essere libero come un
uomo.
Come un uomo appena nato che
ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con
la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa
l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo
compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di
spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e
che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha
trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche avere
un’opinione,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si
innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la
forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di
spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del
pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche un gesto o
un’invenzione,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” –
Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda.
Così
cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star
sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno
spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda
“chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti
diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie
opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece
non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la
rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora,
prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione:
partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi
essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non
esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e,
naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se
analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole
sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto
comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro,
per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo
vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di
libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto
di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e ,
purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi
gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche
quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non
dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad
oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli
altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione
della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il
diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase
continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere
liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno
nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti
ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi
fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza
strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità,
rispetto dell’altro, partecipazione,
lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per
un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla
criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”,
giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà
necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come
una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo
Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un
sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini
raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio
Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei
fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a
spiare
O meglio ancora a criticare,
appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo
comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati
grossi
Non è mai intensamente
peccaminoso.
Del resto poverino è troppo
misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il
computer più perfetto
Lui pensa che l'errore
piccolino
Non lo veda o non lo conti
affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il
furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a
risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare
il giusto
che io ogni tanto mando giù
qualcuno
ma poi alla gente piace
interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di
mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po'
meglio.
Infatti voi uomini mortali per
le cose banali
Per le cazzate tipo
compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po'
rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il
mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la
vostra carità.
Per le foreste, per i delfini
e i cani
Per le piantine e per i
canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di
riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa
ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più
bestiale
Che mi fa male
e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la
faccia
Per darsi un tono da cittadini
giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi
servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e
nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella
merda
Fa molto effetto un pezzettino
d'erba
E tanto spazio per tutti i
figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri
subdoli altruisti
Che usate gli infelici con
gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro
cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per
primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave
persone
E dove cogli, cogli sempre
bene.
Signori giornalisti, avete
troppa sete
E non sapete approfittare
della libertà che avete
Avete ancora la libertà di
pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e
interessanti
Di presidenti solidali e di
mamme piangenti
E in questo mondo pieno di
sgomento
Come siete coraggiosi, voi che
vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili,
deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio
compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro
umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della
stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a
tanta deficienza
Non avrei certo la
superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la
bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei
ministri
Né gente di partito tra le
palle
Perché la politica è schifosa
e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno
questo gioco
Che poi è un gioco di forze
ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno
questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del
mio trono
Direi che la politica è un
mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a
Platone
Che il politico è sempre meno
filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro
scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui
vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di
parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose
da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne
può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi
incazzare.
Sarebbe come fare inutili
duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai
vostri livelli
Un gioco così basso, così
atroce
Per cui il silenzio sarebbe la
risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un
Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son
proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e
schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei
essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi
sodomizzato
Preferirei la più tragica
disgrazia
Piuttosto che cadere nelle
mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e
riservati
Ed ora con la smania di essere
popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete
anche capaci
Di metter persino la mamma in
galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza
normale
Che la giustizia si amministri
male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non
si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un
po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche
come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una
macchina infernale
È la follia, la perversione
più totale
A meno che non si tratti di
poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è
proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non
essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la
gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui
costumi dei sanniti
In modo tale che in questa
messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si
confonda
In modo tale che se io fossi
Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata
immonda.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una
macchia nera
Una specie di paura che forse
è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni
i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili
avvoltoi
Dei pescecani che non si
sazian mai
Sempre presenti, sempre più
potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo
momento
Son proprio loro il nostro
sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo
stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro
imperi
Una carezza ai figli, una
carezza al cane
Che se non guardi bene ti
sembrano persone
Persone buone che
quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal
freddezza
Che Hitler al confronto mi fa
tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili
bubboni
Ormai son dentro le nostre
istituzioni
E anzi, il marciume che ho
citato
È maturato tra i consiglieri,
i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici
oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste
ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro
vergogne
E sono tutti i giorni sui
nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le
maschere di cera
E sembrano tutti contro la
sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non
ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le
premesse
Per anticipare il giorno
dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta
la sua gente
Sprofondare lentamente nel
niente.
Forse io come Dio, come
Creatore
Queste cose non le dovrei
nemmeno dire
Io come Padreterno non mi
dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né
di guerra
Né di tutta l'idiozia di
questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA
di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo
che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato
sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo
ambientalista
qualche anno fa nell'euforia
mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso
letterale
sono progressista al tempo
stesso liberista
antirazzista e sono molto
buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po'
controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di
solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le
risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni
che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare
pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si
adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a
tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a
scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che
vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori
i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa
che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le
donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo
un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito
bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato
evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie
che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un
dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e
devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a
prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica
quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il
conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa
sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci
voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica
una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un
determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo
sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti
pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la
nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo
vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo
assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è
un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno
riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa
il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc.
è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani
pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e
comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e
comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber
prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili
caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere
tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in
cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“,
per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un
“sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“!
Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine
continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista.
Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di
cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a
dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre
dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle
chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto
il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per
sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza
farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un
uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle
circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza
lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti
noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti
siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il
conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio
Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle
molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la
democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura,
la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista
sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo,
da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per
nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico
pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come
si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola
"democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è
poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo
sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso
ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È
nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che
sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu
deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non
sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono
delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura
una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale
tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve
decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà.
Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un
“No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla.
Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo
aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come
prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al
popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il
fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si
chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser
pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto.
Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo.
Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che
abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o
diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri,
statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia,
che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto:
Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è
innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza
abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere
antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere
antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o
niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita.
Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti,
eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore!
Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa
esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma
più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per
lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa.
Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole,
e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più
gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la
qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico
sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti.
Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci
vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla
portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina
domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra
abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui...
“tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando
saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio
Gaber – 2001
Destra-Sinistra
è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia
generazione ha perso.
La canzone vuol mettere
ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche,
delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi
comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a
specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime,
e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera
«ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento
dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di
una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto
riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con
la storia
ma io dico che la colpa è
nostra
è evidente che la gente è poco
seria
quando parla di sinistra o
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di
destra
far la doccia invece è di
sinistra
un pacchetto di Marlboro è di
destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Una bella minestrina è di
destra
il minestrone è sempre di
sinistra
tutti i films che fanno oggi
son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Le scarpette da ginnastica o
da tennis
hanno ancora un gusto un po'
di destra
ma portarle tutte sporche e un
po' slacciate
è da scemi più che di
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
I blue-jeans che sono un segno
di sinistra
con la giacca vanno verso
destra
il concerto nello stadio è di
sinistra
i prezzi sono un po' di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
I collant son quasi sempre di
sinistra
il reggicalze è più che mai di
destra
la pisciata in compagnia è di
sinistra
il cesso è sempre in fondo a
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
La piscina bella azzurra e
trasparente
è evidente che sia un po' di
destra
mentre i fiumi, tutti i laghi
e anche il mare
sono di merda più che
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora
che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata
non si sa
dove non si sa, dove non si
sa.
Io direi che il culatello è di
destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di
destra
la Nutella è ancora di
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Il pensiero liberale è di
destra
ora è buono anche per la
sinistra
non si sa se la fortuna sia di
destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno
chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20,
un po' romano
è da stronzi oltre che di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora
che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto
che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é
chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è
di sinistra
la mancanza di morale è a
destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato
a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
La risposta delle masse è di
sinistra
con un lieve cedimento a
destra
son sicuro che il bastardo è
di sinistra
il figlio di puttana è di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Una donna emancipata è di
sinistra
riservata è già un po' più di
destra
ma un figone resta sempre
un'attrazione
che va bene per sinistra e
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con
la storia
ma io dico che la colpa è
nostra
è evidente che la gente è poco
seria
quando parla di sinistra o
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di
Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento
italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel
gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di
delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione,
basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o
purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza,
a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il
sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di
anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora
Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo
storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro
Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue
produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome
d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio
1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine
istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da
bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un
ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi
universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è
celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di
cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà,
si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il
genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia
da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor
G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di
contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento
italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a
Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo
occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri
luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del
torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano
un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono
quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che
lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt
Brecht.
Povera Italia. Povera
Calabria,
scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”.
Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o
alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente
da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi
modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i
nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico
si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa
staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a
destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella
vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece
si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto
questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per
le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata
per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel
certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i
protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le
cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più
democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il
proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo
tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte
riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è
dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al
proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia
sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare
anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando
in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti
(di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è
disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si
riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un
esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra
(difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e
croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la
'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la
disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera
Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di
tutti i mali.
Magistratura, la casta e le
degenerazioni,
scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE
CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 –
Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e
lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal
giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali
sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi
disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi
leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima
intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della
magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della
Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14
novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una
riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui
rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli
incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum
e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive
per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si
opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del
Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero
inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il
vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare
una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera
toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver
condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti
nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per
imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato,
la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza
di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione
fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente
che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di
magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi
dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli
perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci
irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul
come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo)
fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa
di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura,
ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei
magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno
era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna;
Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che
saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano
di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve
preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più
da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad
oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per
rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia
della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento –
1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla
volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo
all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li
siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso,
Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene
rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la
corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il
potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo
(facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva
sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere
giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di
dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche
dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere
“mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre
poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non
siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a
pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste
“scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in
bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI
STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che
ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”)
clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura
(vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in
un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E,
di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà,
nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare
di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve
stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo
ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre
impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo
Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso
commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono
letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta
facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile
sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si
fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico
Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento
milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente
con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea”
quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i
suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato
della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la
magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio
del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista
ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera”
inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante.
Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere
legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere
giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La
corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il
compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara
Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il
Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette
ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e
peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare.
“SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente
normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato
vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si
perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da
una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà
costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene
prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una
elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa
l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie
affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi
stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in
cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla
vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato.
La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura
umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli
esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da
eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e
che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si
entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”.
Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il
veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del
potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa
prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo
truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col
curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di
farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei
mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te
danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di
Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra
intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più
volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il
“povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la
macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta:
parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di
un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento
della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.]
ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica
di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo
ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia
delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo
il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che
dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro,
prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a
Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo
è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi
hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi
dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo
tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita
posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto
il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è
andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita,
che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170
metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi
di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della
polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della
Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico
del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico
alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante.
Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina
e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi
proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale
ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le
sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e
di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe.
Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa
dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno
“Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro
gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione
funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno:
‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca
all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere
la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio
da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni
di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a
Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della
carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della
medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le
manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello
che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne,
evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a
dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi
complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una
delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità
hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto
all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi
anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la
procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male
saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante
un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è
lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il
punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del
genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una
cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta
che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della
cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo
(mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come
di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in
magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da
un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la
magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità
parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me
avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di
quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale
Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di
magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con
prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso».
Il profilo di un
magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con
il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal
servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e
posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio
Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27
settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere
milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era
stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva
ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni
immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato
per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di
una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in
particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di
Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della
'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli
avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di
Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria
“ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso
milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e
incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in
cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe
intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta
che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta
o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea
numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e
ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano,
all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del
calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di
quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana,
quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al
Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34
anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «...
Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in
ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che
entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di
Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del
tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come
conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui
Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al
magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il
Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che
dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che
facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo
qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!!
guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che
ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai
capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso,
non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male,
sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè
prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per
codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro
canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali
razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo
occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani
della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti
continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna.
Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i
leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti
colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con
disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e
polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone
come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di
comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la
pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero
quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza
dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera”
sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate
sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale
senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE
FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO
SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA
RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE
UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE,
SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA
L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN
PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE
O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO
LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA
VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E'
REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO
COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE
PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN
UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA'
CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI
CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO
CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E
LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI
CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I
COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL
POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I
MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO.
ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA',
LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI
SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA
CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO
COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI,
E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE
CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO
GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI
CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI
OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI
INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI
DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON
LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I
MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI,
TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE
E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA
UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I
REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA
LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL
VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E
DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E
PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali:
föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano,
da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania
proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo
padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni
novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord,
che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania.
L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega
Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da
figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore
Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La
Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al
territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di
fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia
settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni:
Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega
Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente
definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo
sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe
abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni
della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e
che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e,
conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di
queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica
federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A
fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno
d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania
era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma
anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera
e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il
termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato
politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come,
a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo
utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito
politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti
autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra
i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene
guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai
mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata
da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega
propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di
autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di
riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni
della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale
considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia,
proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata,
successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore
della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle
competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del
federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore
autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre
in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum
costituzionale del 2006.
« Noi,
popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica
federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole
pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.»
(Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una
manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della
politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per
l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con
il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il
"Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum,
si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica
Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da
presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi
elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale
della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano,
né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto
dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione
d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona,
Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate,
e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a
Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non
abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha
da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della
Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di
strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché
attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere
indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano
con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va,
pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in
campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato
le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio
ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di
stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi,
l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva
TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti,
delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una
Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a
livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive
il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la
selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della
Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza
Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della
Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni.
Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di
non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che
promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto
Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto
dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo,
non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima
edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord
organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4
milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il
Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il
Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord,
ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale
sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della
Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da
Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago
(1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo
presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito
dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia,
Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte,
dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti,
è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan.
L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come
vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia,
Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione,
Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco
Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo
Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile,
Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli,
presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto
2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni
delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania
comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni
dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si
è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord
come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del
territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione
(vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono
quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico
del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura
Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò,
tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico
italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore,
i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati
rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati
da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del
1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata
dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e
produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997
altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano
affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione
sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il
risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior
parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al
ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di
Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla
provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un
risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani
nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4%
contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero
diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore
doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini,
fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla
Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti,
portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione
di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani
(evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi
alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe
Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata
locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il
ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche,
senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione
nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega
Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera
sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle
Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto
indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta
firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il
Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di
secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa
da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o
contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario
Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in
questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare
con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La
voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini,
intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la
raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà
sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha
aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il
lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente
l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del
segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in
cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti,
dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il
pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania,
nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti
da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione -
ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì
a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre
regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo
la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama
gli italiani alla secessione. Sul suo blog il
comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli,
scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo,
leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla
secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di
carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più
alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma».
«Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul
suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si
dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla
partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla
Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando
ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso
l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può
essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui
memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da
atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai
servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla
quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile
raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti.
E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle
partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque
maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel
Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di
popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme?
La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile
non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i
Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere
all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di
novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si
atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti
spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria,
territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani,
invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a
centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia,
qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord?
Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e
istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può
essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni
attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici
che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza
significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e
funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari,
come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse
troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla
Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta
e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per
andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo
Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali
d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere
definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al
Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una
voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di
riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che
cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il
pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce
narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il
punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene
da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche
se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i
profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la
salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi
acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza".
Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto
l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva
scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia
e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di
Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità,
all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i
territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad
abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola
con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza
dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della
decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone
passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora
di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi
di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che
partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de
Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive
Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi,
con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un
esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele
che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’
chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una
terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud.
Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il
Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona
poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i
Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione
italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a
galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli
che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per
emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a
rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud,
definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp.
80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop
congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo
è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di
ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi
con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per
«piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di
Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano»
- sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud
lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della
decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile
«alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla
velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di
antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo
poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è
anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che
dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che
hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una
lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando
che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto
decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà
finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i
fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di
Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una
guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del
territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello
predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze
meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è
anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la
modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che
alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di
lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della
malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato
e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto,
della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le
tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più
"privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La
narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al
matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla
camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e
scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e
alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio
su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore
simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il
piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti
e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne
ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie
all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del
Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie
all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista,
scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata
nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del
dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati
anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida
dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è
improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione
premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La
notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini
pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata
agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per
una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E
per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e
messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia
dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare
è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di
terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare
i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto
rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto
dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la
propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500
caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading
teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il
sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del
ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di
Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del
disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua
terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico.
«AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche
requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e
per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi
economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e
ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un
cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il
respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a
Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene.
Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua
trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più
«doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un
minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione
di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando
così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio
(tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro
"canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti
dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia,
laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta
nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio
raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese
d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico
impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata
ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo
passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria
restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti
pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il
piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla,
solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal
finestrino del treno. "Meridione a rotaia".
Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo
anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma
al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra.
Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia.
Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il
treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di
treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili,
l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza
e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie
dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro
nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo
stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del
ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia
a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui
tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene
sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E
questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel,
vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di
montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente,
surreale, commuovente. Un tempo si tornava in
rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta
alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive
Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che
vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di
professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal
Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent
che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello
dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta
per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al
treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più
di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei
ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con
un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo
sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo
due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è
ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che
tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che
torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia
anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla
categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è
stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il
corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti
che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale,
espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo
Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui
stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e
tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle
radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele
comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così.
Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci
costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario
Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di
straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è
tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma
distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco
viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In
questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo
modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile,
spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici,
nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie
di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto,
dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che
nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che
quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che
torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie
la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi,
paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel
viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare,
anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è
come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un
modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che
avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a
polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a
complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/
in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i
brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come
dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso
pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud
non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come
i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove
generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma
perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per
rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno
dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con
l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini
diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati,
emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La
sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non
riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza
solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si
perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come
consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone
a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in
qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi
appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È
un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai
luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per
la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al
contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed
economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome
rancorosa del beneficiato”.
Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del
beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza
dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati
"beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il
coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La
"sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato
rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece,
cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio,
poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei
confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente
riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al
punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o,
addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il
benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da
penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla
dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha
incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie
esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo
del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo,
l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i
danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine.
Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la
proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si
amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è
che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo
verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non
la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per
l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una
contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore
finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non
abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo
amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai
aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche
riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più».
Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma
che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per
salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura
quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i
nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui,
quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso
tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci
ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà
tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha
fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una
ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine
cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente
beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i
loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro
maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha
promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di
eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito
della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così
negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State
attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di
invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico
dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo
santo.
Bene per male è carità, male
per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al
fisco.
Chi rende male per bene, non
vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine
rende.
Dispicca l’impiccato,
impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà
che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel
che mi morde.
Il cuor cattivo rende
ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il
caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in
ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano
sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara
radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a
chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi
al beneficio.
Maledetto il ventre che del
pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla
terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai
mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli
occhi.
Nutri la serpe in seno, ti
renderà veleno.
Quando è finito il raccolto
dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici
all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e
l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi
che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è
seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una
forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe,
Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del
tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus,
Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di
quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond,
Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato
somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro,
rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata,
Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti
gli infelici.
Publilio Siro,
Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto
che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa
dell'ingratitudine.
La rabbia dell'ignorare il beneficio
ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo
vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste
tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza,
caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio
ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia
verso il "benefattore".
Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle
relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel
corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico
madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la
possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi
significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di
autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza
di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso",
pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente
perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto.
Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli
altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale
difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che
instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle
prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le
proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò
comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del
relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve
predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente
modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una
posizione subordinata di "potere";
fidarsi e
considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a
ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il
disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in
cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione
della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri
schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a
una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la
persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé
(in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali,
ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela
insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa
difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non
elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio,
di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta
un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa.
Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza
che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si
instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi
possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia
costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile)
attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto
giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona
beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica
menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione
meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il
meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla
pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di
comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere
l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più
"meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci
apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops...
stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a
chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è
sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e
provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico
che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo
abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per
ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene
la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli
italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi
apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è
dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di
polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di
sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto
il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la
legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è
stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a
quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da
10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa
sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio
debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della
Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è
noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più
grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non
passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni
Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e
potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni
(mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e
terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed
alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e
nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse
loro popolazioni.
Ma si sa parlar
male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi?
Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la
diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a
ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la
pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una
palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale”
è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere
un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi
di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali,
attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati
spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno.
I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi
anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu
infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani
dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di
patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale.
Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe
finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte
sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono
incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra
Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che
modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla
quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico
lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno
rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario.
Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo
delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali
parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata.
Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto
del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una
delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si
era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del
meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea
di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e
mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza
nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite
opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a
legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una
società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello
di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia
largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha
condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il
dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche
«oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un
altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi,
pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A
separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste
opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli
contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione.
Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser
lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno
del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di
essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi
stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo
storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le
dolenti note su
"La palla al piede. Una storia
del pregiudizio antimeridionale".
La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei
Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più
incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul
carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno
continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi
portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso
artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del
Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a
intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana.
Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito
alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che
sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco
con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e
plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva
la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri
autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi
dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava
gran rilievo all’operato della camorra in
Assunta Spina.
Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che
in
Napoli milionaria
mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio,
irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con
film come
Rocco e i suoi fratelli
di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e
sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne
In nome della legge,
e Francesco Rosi, ne
Le mani sulla città,
vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i
meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel
distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.
A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà
tutto lo Stivale ci penserà infine il
Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud
antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si
fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista
Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud.
Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo
di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento
alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti,
volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si
confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non
c’è dubbio.
Benvenuti al Sud,
che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è
posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di
tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un
poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori
dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia,
mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di
Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del
pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce
anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque
inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a
Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto
inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi
dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette
alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non
solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre
sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui
la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi,
le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra
meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a
Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e
Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui
siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio
ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso
rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della
pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che
addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più —
scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di
folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti
all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a
ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del
meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il
profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario
sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi
interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte
di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che
davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica.
L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre
secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può
accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere
messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud
serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a
testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei
briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere.
Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia.
Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di
passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta
dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con
il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno
risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la
considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la
stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla,
ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di
regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione
del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del
Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica,
l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi,
ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le
rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa
incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di
peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a
cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la
peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in
polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che
è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale
che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che
il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo
finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad
esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale.
Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il
dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con
Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita
addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni
Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i
loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre
schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato
che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire
adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare
insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla
fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga,
nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica
e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria
e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico
degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006.
Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza
criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa
sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era
all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito
di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è
Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una
menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più
immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero
che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato
innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della
qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in
bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li
indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una
rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti
abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se
qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se
Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione
toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la
sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto
“Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei
difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità
d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e
più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha
segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri,
arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di
camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex
capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali
risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il
sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria
rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura
Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un
tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la
malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia.
Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla
tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile
enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela
nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu
vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che
invece non amò.
“Il libro
napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su
“L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano.
In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima
nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per
l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il
finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio,
come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore
italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori,
nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed
italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la
città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra
esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore
uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina
momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a
toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli
negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si
chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa
il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri
d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare
il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di
Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più
nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era
amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace
che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e
nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero
Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il
Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa,
non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo,
cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre
spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e
immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione
della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di
Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee”
alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato
solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si
sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto
da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa.
Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino,
un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide
gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa
persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di
“tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che
un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno,
sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il
fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia
per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano
che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire
l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del
1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello
del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i
fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della
professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che
cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non
ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e
freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono
anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta,
svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato
alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace
sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti
tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo
allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle
tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare
qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza
evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria
croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che
ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più
terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i
pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione
costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli
strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o
fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per
non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica,
Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e
dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento
all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale,
questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da
un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile
velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come
quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una
connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora
definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa
che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per
ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte
la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile,
tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove
tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro
che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma
i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una
strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei
giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice
Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino
Aprile scatena un boom di
vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto
con “Terroni” e con “Giù al
Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo
e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla
storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per
accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità
della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista
Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello
stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare
l’Italia”. Nelle librerie “Mai
più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che
già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia
dibattiti accesi.
Molti si
chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non
ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud
per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere
che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di
pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria
piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la
distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica
dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande
maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano
costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto
di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione
che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei
territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche,
e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle
sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono
dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia
telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la
realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di
ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto
sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad
esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un
luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo
sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto
della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera
geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta,
nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile.
E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è
aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega
Lino Patruno su “La
Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto
quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali»)
al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario
di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che
fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più
figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E
come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto
contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla
conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella
nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La
risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno
stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i
massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi:
scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di
autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E
può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150
anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che
annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare
per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti
al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza
il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le
differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in
Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti.
Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua
perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di
ridurla.
Come? Creando un
divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E
non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma
anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali,
assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare
di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E
dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord
che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il
lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle
infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi
sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro
sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro
possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e
mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto
che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche
parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza
dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora
il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter
sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione
comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per
magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga
che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la
visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più
controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa
nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su
ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere
che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe
potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda,
sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che
non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un
ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i
terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia
ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i
ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è
anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno
ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la
Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare
aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano
realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per
capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante
l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali,
colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità
meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso
di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e
sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse
per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di
sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo
omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a
casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i
problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia.
Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla
toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte
l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza
fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di
antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio
si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne,
regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla
sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la
Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un
lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra
tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed
extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di
ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e
tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie
di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro
terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le
distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che
si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione
della memoria”.
La minorità del
Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le
privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed
alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna
reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord,
perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di
Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che
160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa,
col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al
recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta,
che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie
personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo,
ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle
descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste
e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano,
in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa,
tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal
sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente
bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel
sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di
elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea,
conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le
vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della
lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le
sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e
mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una
risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché
i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un
motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono
stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi
interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia
cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a
suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono
accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia
culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati
dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca
della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita
come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra
storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il
1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri
briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la
loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il
proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna
ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono
e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna
riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere.
Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in
piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare
l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le
infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale
dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con
scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare
vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata
d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda,
agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord
si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi
mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi
cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di
tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la
narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi
viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora:
«Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che
il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente
nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione
nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali,
perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande
industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media
industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione
subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud
avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe
distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si
chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico
momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci
si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e
personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati
Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime
indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è
ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le
motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo
pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non
vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel
progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue
leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere
di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non
è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa
per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in
potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo
un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto
smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria
storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare
l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e
conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
LECCO
MAFIOSA.
«Il sindaco
Brivio mediatore con i clan della ‘ndrangheta».
Nell’indagine della Dda le intercettazioni delineano un «comportamento
allarmante», scrive Luigi Corvi su “Il
Corriere della Sera”. C’è anche il nome del sindaco di Lecco, Virginio
Brivio (Pd), nelle molte intercettazioni che costituiscono il supporto
dell’operazione «Metastasi», l’inchiesta condotta dalla Dda di Milano che
all’alba di mercoledì ha portato in carcere il sindaco di Valmadrera, Marco
Rusconi, il consigliere comunale di Lecco Ernesto Palermo e altre otto persone
tra cui il capo clan della ‘ndrangheta Mario Trovato. Un comportamento
«allarmante», come lo definisce il gip, quello che Brivio ha avuto nella vicenda
dell’appalto per il Lido Parè. Perché, anche se sino ad oggi non sono emersi
rilievi penali, il sindaco di Lecco «senza avere dirette competenze
istituzionali e ben consapevole dei collegamenti mafiosi prospettati a carico
delle persone coinvolte, attraverso contatti con Palermo e altri cerca di
raggiungere con la sua mediazione un compromesso economico tra i primi e il
Comune di Valmadrera». Secondo gli inquirenti Brivio era a conoscenza che dietro
l’operazione del Lido si nascondeva Mario Trovato e si sarebbe mosso per cercare
di aiutare Rusconi, accusato di aver ricevuto cinquemila euro come prima tranche
per pilotare l’appalto andato in fumo quando la prefettura aveva detto
chiaramente che non avrebbe rilasciato il certificato antimafia. Un frangente,
quest’ultimo, nel quale il sindaco «nonostante la delicatezza della vicenda e la
caratura dei personaggi coinvolti», aveva preso contatti con l’ufficio del
prefetto girando poi le informazioni a Ernesto Palermo. Proprio da quest’ultimo
il sindaco aveva ricevuto conferma diretta del coinvolgimento di Mario Trovato
nell’operazione del Lido. «Quando gliel’ho detto - spiega Palermo a un amico in
una conversazione telefonica - lui invece di dire cazzo minchia, ha detto va
bene siamo più tranquilli». Da notare che dal novembre 2012 Brivio era scortato
da un vigile dopo aver ricevuto minacce - così aveva denunciato - per aver fatto
chiudere qualche mese prima il bar «The village» perchè gestito da uomini del
clan Trovato. Dalle indagini emerge che Mario Trovato disponeva, principalmente
attraverso Palermo, di contatti con esponenti di primo piano del Comune di
Lecco, «in primo luogo del sindaco Virginio Brivio, coinvolto nella vicenda
dell’aggiudicazione della concessione del Lido di Parè, oltre che con il
consigliere comunale Alberto Invernizzi, più volte contattato da palermo in
relazione agli interessi della ‘ndrangheta». Ma secondo gli inquirenti i
contatti della «locale» erano anche con altri politici. Oltre a Silvia Ghezzi
(Udeur e poi Pdl), c’erano rapporti con Antonio Oliverio, già assessore alla
Provincia di Milano e con Luigi Calogero Addisi (Pd), consigliere comunale di
Rho, nonchè con numerosi esponenti politici di primo piano in Calabria.
Inquietante, infine, anche la capacità della ‘ndrangheta di avere informazioni
riservate dalla prefettura di Lecco, con la connivenza e la complicità di alcuni
dipendenti, tra cui un non meglio identificato Giuseppe.
Operazione ‘ndrangheta, in manette anche il
sindaco di Valmadrera.
Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Claudio
Gittardi hanno portato in carcere altre nove persone, scrive Paolo Marelli su “Il
Corriere della Sera”. Il sindaco di Valmadrera, Marco Rusconi, 36 anni, è
stato arrestato mercoledì mattina all’alba nel corso di una maxi operazione
della Direzione antimafia di Milano. Con lui sono finite in manette altre nove
persone, tra cui il consigliere comunale di Lecco, Ernesto Palermo, 45 anni, e
Mario Trovato, 64 anni, esponente di spicco della ’ndrangheta, oltre a tre
imprenditori, un immobiliarista, un commerciante di auto e un artigiano con una
piccola impresa edile. Sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa,
corruzione, concussione ed estorsione. Le indagini sono partire nel 2009 a
seguito di un incendio di origine dolosa che, nel luglio di quello stesso anno,
distrusse il locale «Pareo Beach» sulla sponda lecchese del lago di Como a
Valmadrera. Un bar che fu distrutto da un rogo anche nell’estate nel 2008.
L’operazione, chiamata «Metastasi», è stata coordinata dal procuratore aggiunto
di Milano, Ilda Boccassini, e dal pm Claudio Gittardi ed eseguita dai finanzieri
del comando provinciale di Milano. A incastrare i dieci lecchesi sarebbero state
una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche. «Gli ho detto prendi due
taniche di benzina e dagli fuoco». Così parlava il consigliere comunale di
Lecco, Ernesto Palermo, arrestato nell’inchiesta sulla cosca della ‘ndrangheta
dei Trovato, intercettato in compagnia del presunto boss Mario Trovato e di un
altro presunto affiliato, riferendosi a una persona che si lamentava con lui
perché stavano aprendo un nuovo bar «sotto i portici». Un’intercettazione
ambientale che è riportata nell’ordinanza di custodia cautelare di 566 pagine
firmata dal gip di Milano Alfonsa Ferraro, su richiesta dei pm della Dda Claudio
Gittardi e Bruna Albertini. Nel provvedimento sono riportate numerose
intercettazioni che dimostrano, secondo l’accusa, che Palermo parlava proprio
come un affiliato alla cosca. In una telefonata del 21 gennaio 2012, nella quale
Palermo parla con la figlia Anna, offre poi, secondo i magistrati, uno «spaccato
illuminante sia della struttura associativa» che dell’attività di «sostegno» del
consigliere «alla vita» del clan. Alla figlia che gli chiede spiegazioni su
alcuni personaggi che Palermo frequenta, il consigliere risponde: «Papà lo sai
che cosa fa? Ti dico la verità... papà, fa incontrare i delinquenti e loro fanno
le cose, hai capito? A me non interessa! Io non le faccio le cose, hai capito?
Io sono sicuro, io non le ho mai fatte, io le faccio fare a loro!». Palermo,
consigliere comunale a Lecco ed ex assessore, era iscritto al Pd e dal 2011 è
passato al Gruppo misto. È accusato, stando all’imputazione, di essere un
«partecipe sotto le direttive» di Mario Trovato, fratello del boss Franco Coco
Trovato, e si sarebbe occupato per conto del clan «in qualità di uomo politico e
consigliere comunale dei rapporti con esponenti politici e pubbliche
amministrazioni comunali». Ma Palermo si lamentava in una telefonata
intercettata anche della «debolezza» del presunto boss della cosca Mario
Trovato, rispetto alla «potenza» che esercitava in passato il fratello Franco,
già condannato all’ergastolo: «Se c’era Franco fuori e io ero in questa
posizione qua andavo da lui e dicevo che potevo avere la possibilità di essere
eletto (...) mi faceva eleggere! Andava lui a contrattare l’assessorato». Ancora
Palermo parlando con un presunto affiliato: «Tutti i boss io tutti i boss li
conosco tutti, io c’ho lo stesso rapporto con il boss, quello che abbiamo visto
lì, quello era Mancuso». Il ruolo di Palermo, secondo gli inquirenti, sarebbe
stato quello di acquisire «appalti e concessioni» e di intervenire per
modificare il piano di governo del territorio per favorire gli interessi
dell’associazione mafiosa. E sempre secondo la Procura, inoltre, Palermo, che è
anche accusato di estorsione, corruzione e turbativa d’asta, si sarebbe attivato
per fare acquisire alla famiglia dei Trovato la concessione di un’area comunale
sul Lido di Valmadrera, sempre nel Lecchese. Stando alle indagini, per tale
concessione, il sindaco di Valmadrera, Marco Rusconi, avrebbe intascato una
tangente per circa 10 mila euro. Giovane esponente del centrosinistra, il
sindaco Rusconi, ingegnere, sposato, due figlie, eletto con la lista civica
«Progetto Valmadrera» nel giugno nel 2009, è stata arrestato mercoledì mattina
all’alba nella sua casa di Valmadrera. Una notizia che ha lasciato sotto choc il
comune alle porte di Lecco, che conta 11.600 abitanti. Con lui, in manette sono
finiti anche: Antonello Redaelli, 58 anni, di Valmadrera; Saverio Lilliu, 50
anni, di Lecco; Alessandro Nania, 54 anni, di Lecco; Antonino Romeo, 54 anni, di
Lecco; Claudio Bongarzone, 45 anni, di Lecco; Massimo Nasatti, 39 anni, di
Lecco, e Claudio Crotta, 48 anni, di Pescate. Inoltre la Procura di Milano ha
sequestrato 17 fra abitazioni e box, 5 auto, 2 complessi aziendali e quote di
partecipazione in tre società: E ancora: tre depositi amministrativi, due fondi
pensione, 14 rapporti di conto corrente, un libretto postale, tre rapporti di
partecipazione a fondi comuni d’investimento per un totale di 700 mila euro.
'Ndrangheta, dieci in manette:
la guardia di finanza sequestra beni per milioni di euro.
Nell'inchiesta della Dda è coinvolto il fratello del boss Coco Trovato e alcuni
amministratori locali del Lecchese. Uno dei politici è accusato di aver
"procacciato voti per i clan", è stato arrestato nella scuola in cui insegna,
scrive Emilio Randacio su “La
Repubblica”.
Da una parte le attività più classiche, come le estorsioni nei confronti dei
commercianti e i business dell'edilizia e delle slot machine. Dall'altra
l'inserimento negli ambienti istituzionali, grazie al ruolo di un
politico-affiliato, per turbare le gare d'appalto, corrompere pubblici ufficiali
e condizionare le elezioni amministrative. E' il "connubio", come rimarcato dal
procuratore aggiunto della Dda milanese Ilda Boccassini, fra "braccia armate" e
"esponenti delle istituzioni" che emerge dall'ultima importante inchiesta sulla
presenza della 'ndrangheta in Lombardia. In particolare, a Lecco e nella zona
del lago di Como. Nell'ambito delle indagini coordinate dai pm Claudio Gittardi
e Bruna Albertini e condotte dal Nucleo di polizia tributaria e dal Gico della
guardia di finanza sono finite in carcere dieci persone, tra cui il presunto
boss Mario Trovato, fratello dello storico 'patriarca' Franco Coco Trovato
(ergastolano e coinvolto nell'inchiesta 'Wall Street' degli anni Novanta), il
consigliere comunale lecchese Ernesto Palermo e il sindaco di Valmadrera
(Lecco), Marco Rusconi. Il consigliere comunale, 45 anni, eletto con il Pd e poi
dal 2011 passato al gruppo misto, è accusato non solo di corruzione e turbativa
d'asta, ma anche di estorsione e associazione mafiosa. La Guardia di finanza ha
sequestrato Gdf 17 immobili, tra abitazioni e box, cinque auto, quote di
partecipazione in tre società, due bar e conti correnti in cui sarebbero
transitati circa 700 mila euro. Decine e decine sono le intercettazioni,
contenute nelle 566 pagine dell'ordinanza firmata dal gip Alfonsa Ferraro, che
dimostrano, come hanno spiegato i magistrati, che Palermo faceva parte della
cosca dei Trovato, che era uno degli "uomini nuovi" del clan e ne curava gli
"interessi" nell'ambito dei suoi rapporti con altri "esponenti politici" e della
pubblica amministrazione.
Palermo, di professione insegnante in un istituto professionale di Morbegno
(Sondrio) dove è stato arrestato, secondo l'accusa si sarebbe adoperato
direttamente per far ottenere al clan la concessione dell'area comunale Lido di
Pare, sul lago di Como, già oggetto in passato di una serie di attentati
incendiari. Per l'acquisizione della concessione, che doveva essere effettuata
da una società dei Trovato in cui aveva investito anche Palermo, secondo
l'inchiesta sarebbe arrivata una mazzetta da 5 mila euro (a fronte di una
promessa di 10mila euro) al sindaco di Valmadrera, Rusconi (eletto con una lista
civica appoggiata dal Pd), arrestato per corruzione e turbativa d'asta e molto
attivo, prima di finire in carcere, in iniziative antimafia sul territorio.
Palermo, inoltre, sempre stando all'ordinanza, avrebbe anche partecipato
"all'attività estorsiva e di protezione nei confronti degli esercizi
commerciali". E sarebbe coinvolto in un attentato a "colpi d'arma da fuoco"
contro il ristorante Old Wild Cafè, avvenuto la notte del 16 gennaio 2012 a
Lecco: Palermo e Mario Trovato avrebbero cercato di "costringere" i gestori del
locale a versare "una somma di denaro a titolo di protezione". In pratica, una
richiesta di pizzo 'evasa' a cui sarebbe seguita la loro vendetta. In una delle
numerose telefonate agli atti, inoltre, il consigliere lecchese parlava con il
presunto boss del clan di come "avanzare richieste di 'pizzo' a operatori
economici, in specie costruttori". E sempre Palermo non solo sarebbe stato
eletto con i voti dei Trovato e puntava a fare l'assessore, ma si sarebbe dato
da fare anche per "incidere sulla raccolta dei voti e sull'andamento delle
consultazioni elettorali locali". Tanto che in accordo con Mario Trovato, il
consigliere "pur appartenendo a diversa forza politica" nel 2011 si offrì di
"procurare voti alla candidata per il Pdl al consiglio comunale milanese Moioli
Maria Mariolina", anche ex assessore milanese alla Famiglia nella giunta di
Letizia Moratti. Si sarebbe offerto di mettere a "disposizione" di Moioli, che
non è indagata, il "proprio bacino elettorale e quello di altri politici in
collegamento con famiglie calabresi" come Antonio Oliverio, ex assessore
provinciale di Milano, e Luigi Calogero Addisi, ex consigliere comunale a Rho
(Milano). Oliverio, per esempio, nel novembre del 2011 contattava Palermo, come
si legge negli atti, per "stabilire un contatto politico con l'ex governatore
calabrese Agazio Loiero". Il procuratore della Repubblica di Milano, Edmondo
Bruti Liberati, ha riassunto l'inchiesta in una frase, non proprio una battuta:
"Quel ramo del lago di Como non è poi così tranquillo".
LECCO MAFIOSA.
Allarme, Lecco come Reggio
Calabria. Scatta l’offensiva contro la mafia. Tra i
primi posti come numero di aziende confiscate al crimine organizzato. Al primo
posto c'è Milano mentre al secondo Brescia, scrive
Fabio Landrin su “Il
Giorno”. Allarme
mafia: Lecco è tra le prime provincie per infiltrazione mafiosa in Italia. Lo
rivela uno studio dell’Università Cattolica di Milano. La provincia lariana
infatti si trova al sedicesimo posto nella classifica nazionale per aziende
confiscate alla mafia. Dal 1983 al 2012 sono ben 20 le imprese che lo Stato ha
tolto dal controllo delle cosche per farle tornare alla legalità. Il dato
allarmante è che a Lecco 7,3 aziende su 10mila sono state confiscate, più di
Napoli, Lecce, Brindisi, Bari e Agrigento. Il capoluogo campano ha un tasso di
6,8 imprese confiscate su 10.000, Bari 3,5 e Brindisi 6,7. A livello regionale
Lecco si posiziona al terzo posto per il numero totale di aziende tolte alla
mafia. Al primo posto c'è Milano (terza in Italia) con 143 imprese, mentre al
secondo viene Brescia (undicesima) a quota 33. «Questi dati vanno
contestualizzati – spiega Antonio Bellomo, prefetto di Lecco –. Se qui a Lecco
ci sono state molte confische è solo grazie alle indagini della polizia
giudiziaria che ha fatto un grande lavoro togliendo i beni del clan Coco Trovato
negli anni ‘90». A Lecco le aziende confiscate sono state in prevalenza bar e
ristoranti. «Se rapportiamo il numero delle aziende al volume di affari –
continua il prefetto – siamo a livelli molto bassi, visto che erano in
prevalenza aziende di ristorazione». Dopo aver lavorato in luoghi dove la mafia
agisce da decenni, Bellomo dà un consiglio importante a tutto il territorio:
«Bisogna tenere molto alta l’attenzione, sia le amministrazioni sia le forze
dell’ordine». Per Renato Bricchetti, presidente del Tribunale di Lecco, il tema
delle infiltrazioni mafiose a Lecco è un «problema serio». Il numero uno del
Palazzo di giustizia sottolinea come »un elemento importante da monitorare è il
controllo dei patrimoni». Un problema della confisca è la perdita
dell’occupazione. «Se c’è da salvaguardare l’occupazione – afferma Bricchetti –
è necessario che lo Stato reinventi le imprese tolte alle cosche, perché nessuno
dica che era meglio quando c’erano i mafiosi».Lo scorso autunno il sindaco di
Lecco Virginio Brivio aveva ricevuto minacce dopo aver imposto, su segnalazione
della questura, la chiusura del bar «The Village» nel quartiere di Germanedo.
Per settimane il primo cittadino aveva girato con una scorta formata da uomo
della Polizia locale, così da tutelare la sua incolumità. «Le infiltrazioni ci
sono – spiega Brivio –, dobbiamo debellarle per migliorare la vita dei cittadini
nel territorio». Maria Venturini, presidente dell’associazione liberi
professionisti di Lecco segnala come sia «fondamentale l’azione repressiva e di
controllo, ma anche un’azione preventiva da parte di tutti. Da commercialisti
dico che troppe volte controlliamo la pagliuzza nell’occhio, ma non vediamo le
travi che ci sono. Il controllo dei capitali e dei movimenti bancari è
sacrosanto per tutelare la nostra economia».
LA BANDA
DEGLI ONESTI LECCHESI.
Ogni mese è andato a incassare
l’assegno della pensione del nonno, scrive Paolo Marelli su “Il
Corriere della Sera”. Ha riscosso dall’Inps novantuno mensilità. Ma, in
verità, il nonno era morto da sette anni. Nei guai è finito un nipote, che con
questo raggiro «arrotondava» il proprio stipendio. E' questo il caso più grave
della maxi frode smascherata con l’operazione «Lazzaro» dalla Guardia di finanza
di Lecco, che ha scoperto 300 casi in cui i familiari continuavano a intascare
la pensione d’anzianità di parenti defunti per una somma totale di 700 mila euro
al netto delle reversibilità. Spiega il comandante Corrado Loero: «Le persone
denunciate sono 50. Nei confronti delle altre 250 non c’è stato invece nessun
procedimento, in quanto non hanno superato la soglia penale dei 4 mila euro
indebitamente incassati e, dopo un sollecito, hanno regolarizzato la posizione
con l’ente previdenziale». Le indagini dell’operazione «Lazzaro» sono cominciate
un anno fa. I finanzieri, in collaborazione con la direzione provinciale
dell’Inps, hanno passato al setaccio, attraverso l’incrocio dei dati, le
pensioni di 10 mila persone che, mentre all’anagrafe dei comuni della provincia
di Lecco risultavano deceduti, continuavano a percepire pensioni di anzianità.
Dai controlli effettuati, anche per mezzo di indagini finanziarie, sono emerse
300 posizioni irregolari «ai fini amministrativi e responsabilità penali per 50
persone». «Queste ultime, titolari di un proprio reddito da lavoro dipendente o
autonomo, hanno continuato a riscuotere per anni le pensioni dei parenti
defunti», spiega ancora il colonnello Loero. E per questo motivo, sono state
denunciate alla Procura di Lecco. Sono accusate sia di truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche, sia del reato d’indebita percezione di
erogazioni a danno dello Stato. L’operazione delle Fiamme Gialle ha permesso
l’immediata sospensione delle prestazioni pensionistiche non dovute, consentendo
il rientro nelle casse dello Stato di oltre 100 mila euro, mentre sono ancora in
corso le procedure di recupero. Inoltre, considerando che alcuni parenti dei
defunti hanno riscosso la pensione in rinomate località balneari poste sulle
rive mediterranee di Spagna e Francia, i finanzieri stanno valutando la
possibilità di attivare la procedura internazionale per il recupero delle somme
illegalmente percepite.
VIOLENZA DI STATO.
IL CASO:
Lecco, denuncia contro i Carabinieri. "Mi hanno preso a calci e torturato".
Isidro Diaz, di origini
argentine ma da 23 anni in Italia: timpani perforati e distacco della retina.
Viene difeso dagli stessi legali delle famiglie Cucchi e Aldrovandi, scrive
Caterina Pasolini su "La
Repubblica".
"Vengo dall'Argentina dove la
mia generazione è stata massacrata. Qui pensavo di vivere in un paese civile.
Invece mi sono ritrovato ammanettato, preso a calci e pugni in testa dai
carabinieri, trascinato sull'asfalto, torturato e sbattuto contro i muri della
caserma senza poter vedere un medico. Insultato, con i militari che mi puntavano
la pistola addosso. E ancora non so perché".
Isidro Luciano Diaz ha 41
anni, dei quali 23 vissuti in Italia dove, nel lecchese, gestisce l'allevamento
di cavalli "Dal Gaucho". Da quando il 5 aprile del 2009 è stato fermato dai
carabinieri vicino a Voghera, è stato operato agli occhi 6 volte per distacco
della retina e ha i timpani perforati. Ferite "compatibili" col suo racconto da
incubo, scrive il medico legale nella relazione che riporta alla memoria le
vicende di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi.
Di giovani morti dopo essere
stati malmenati da uomini in divisa, entrati vivi in caserma o in carcere e mai
usciti, tragedie di cui si è occupato lo stesso studio legale, Anselmo di
Ferrara, che ora difende Diaz.
"Una storia assurda. Qualunque
sia l'imputazione uno deve avere tutte le garanzie, pena la rinuncia dello Stato
ad essere uno stato di diritto, perché la legittimità giuridica e morale dello
stato è affidata alla capacità di garantire l'incolumità delle persone
affidategli", dice sociologo Luigi Manconi che con il suo lavoro come
sottosegretario alla Giustizia e poi come presidente dell'associazione a “Buon
Diritto” ha avuto una parte importante nel far emergere tutte queste vicende.
Una storia inquietante, quella
raccontata da Diaz, che rischia di finire nel nulla perché la sua denuncia
contro i carabinieri è a pochi passi dall'archiviazione nonostante agli atti ci
sia il riconoscimento fotografico da parte dell'argentino dei militari che
l'hanno aggredito. Il giudice dovrà decidere in questi giorni. Diaz, infatti,
condannato a un anno poi commutato in due di libertà controllata per resistenza
a pubblico ufficiale e lesioni (8 giorni di prognosi ai militari), solo dopo
aver patteggiato la pena ha presentato la denuncia per percosse, allegando le
immagini del suo volto stravolto dalle botte, della schiena martoriata.
Ma andiamo con ordine. Il 5
aprile 2009 di ritorno da una gara di monta di vitelli mentre è alla guida della
sua Mercedes, un suv nero, Diaz viene fermato dai carabinieri sulla
Torino-Piacenza. Al termine di un lungo inseguimento a folle velocità, scrivono
i militari. Senza motivo, ribatte l'argentino. "Vedo che hanno le pistole in
pugno, ho in macchina il coltello che mi serve per i cavalli glielo mostro per
consegnarglielo. Mi sono addosso, mi ammanettano e poi calci e pugni in testa,
mi trascinano sull'asfalto". Portato in caserma continua il pestaggio, "mi
trattavano come un pallone, buttandomi contro il muro. Mi dicevano: devi morire.
Provo a chiamare un amico, mi strappano il cellulare. Alla fine ho firmato
qualsiasi carta anche perché non mi chiamavano un medico".
MALAGIUSTIZIA
Aste truccate, corruzione in
Tribunale, scrive Claudio Del Frate su "Il
Corriere della sera".
Lecco: arrestati un cancelliere, un
ufficiale giudiziario, un avvocato e tre imprenditori.
I «furbetti» di Lecco avevano il
quartier generale a Palazzo di Giustizia. Nella casa che dovrebbe
essere il tempio della legalità le aste immobiliari finivano per
favorire sempre tre o quattro nomi noti.
Infallibile fiuto per gli affari? No,
indebite complicità nelle cancellerie del Tribunale, decreta adesso
un' ordinanza di custodia cautelare che sta mettendo a rumore l'
ambiente giudiziario della città manzoniana.
Tre imprenditori, un avvocato e due
dipendenti del Palazzo di Giustizia sono finiti agli arresti per una
serie di gare abilmente pilotate in cambio di «cadeaux». Il pubblico
ufficiale, l' imprenditore, il professionista che media l' accordo:
il vecchio copione di Tangentopoli rispunta stavolta in una città
che già nel recente passato era stata al centro di pesanti inchieste
su usura, estorsioni e affari poco confessabili. Anzi, gli arresti
di queste ore sarebbero una sorta di effetto domino delle due
operazioni precedenti: avevano cominciato i fratelli Dalmazio e
Antonello Gilardi, arrestati due anni fa, a vuotare il sacco, a
svelare che a Lecco funzionava una sorta di finanza occulta, di giro
di prestiti facenti capo a due commercianti di auto: Pietro e
Antonio Colombo, padre e figlio. A loro volta i Colombo - condannati
in primo grado - hanno cominciato a riempire pagine di verbali, con
tanto di nomi e cognomi e a dire in sostanza: «Perché solo noi ci
dovremmo andare di mezzo quando tanti altri facevano parte del
gioco?».
Alle udienze del processo che li ha
riguardati hanno puntato l' indice proprio su quanto accadeva a
Palazzo di Giustizia. Polizia e Guardia di Finanza hanno lavorato
per mesi su quelle e altre informazioni e il lavoro è sfociato nella
raffica di arresti. Si trova in carcere Gennaro Concetto,
responsabile della cancelleria fallimentare del Tribunale di Lecco e
con lui un ufficiale giudiziario dello stesso palazzo, Pietro
Salciccia. Un comunicato diramato ieri dalla Procura definisce i due
funzionari «a libro paga» di alcuni imprenditori che venivano
sistematicamente favoriti nelle procedure esecutive e di sfratto,
nelle vendite e nelle aste dei beni (solitamente case e terreni)
derivanti da fallimenti. In cambio avrebbero ricevuto compensi in
denaro, auto a prezzi scontati e anche vacanze in un villaggio
turistico in Puglia.
Le informazioni passate sottobanco
dalle due «talpe» in Tribunale avrebbero favorito due immobiliaristi
della zona del lecchese, Massimo e Luigi Magni e un altro
imprenditore della zona, Alessandro Cesare Negri. Le accuse per
tutti sono di turbativa d' asta e corruzione. Allo stesso meccanismo
avrebbe preso parte secondo l' accusa anche un avvocato di Lecco,
Walter Cerbiatti, al quale sono stati concessi gli arresti
domiciliari: avrebbe fatto da «ponte» tra gli imprenditori e gli
impiegati del Tribunale.
L' interrogativo è adesso se i due
impiegati potessero da soli garantire l' esito delle aste derivanti
dalle procedure fallimentari. E soprattutto: perché non hanno
funzionato una serie di filtri e controlli che avrebbero dovuto
tutelare tutte le parti interessate?