Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
GLI ISERNINI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
TUTTO SU ISERNIA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
GLI ISERNINI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che gli Isernini non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che gli Isernini non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
LE ORIGINI DEL MOLISE.
MOLISE MASSONE.
MOLISE MAFIOSO.
IL MOLISE E LA POLITICA.
PARENTOPOLI. IL MOLISE ED I PARENTI: UNIVERSITA', POLITICA, MAGISTRATURA.
MOLISE E MAGISTROPOLI.
MOLISE E SANITOPOLI.
MOLISE E CONCORSOPOLI.
INTRODUZIONE
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa
sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio
debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi,
Preside della
Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet".
Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato
protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del
secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il
comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece,
anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che
preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto,
di seguito brevemente tratteggiati.
Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La
Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima
metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in
questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in
primis alla Germania stessa.
Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale,
talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche
della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la
sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di
avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde,
poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli
anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui
esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori
internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania
negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò
così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra,
secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil
tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler
e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il
debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad
avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è
andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi.
A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione
complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In
quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo
di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce
volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di
poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»).
Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le
rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo
il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e
l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi
dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
LE ORIGINI DEL MOLISE.
I più antichi insediamenti nella regione risalgono al paleolitico (abbevilliano) e numerosi sono i reperti risalenti al neolitico e all’età del bronzo. I romani conquistarono il Molise nel secolo III a.C. sottomettendo le popolazioni sannitiche che lo abitavano. Passato ai longobardi (secolo VI) e incluso nel ducato di Benevento, riconquistò la propria autonomia (9 contee, secoli X-XII) prima di entrare nei domini dei normanni (1092) che gli diedero l’attuale nome (contea di Boiano, poi del Molise). Sotto Rodolfo e i suoi successori conobbe una notevole espansione territoriale (confini all’alta valle del Volturno), sino a che Federico II non lo unì alla Terra di Lavoro (1221), dopo le guerre degli Svevi per la conquista della Sicilia (Enrico VI, sec. XII). Entrato a far parte del regno spagnolo di Napoli, fu annesso alla Capitanata (1558), mantenendo questa condizione, dopo il passaggio ai Borbone (1735), sino all’unificazione italiana (1860), salvo la breve parentesi autonomista (1806) durante il governo napoleonico. Fra il 1860 e il 1870 fu attivo il fenomeno del brigantaggio.
Devastato dai Goti (535-553 d.C.) e invaso dai Longobardi nel 572, il territorio dell'attuale Molise era anticamente aggregato al ducato di Benevento. Annessione che aprì una fase di turbolenza nella storia della regione, invasa anche dai mercenari bulgari, i quali costituirono un castaldato comprendente Sepino, Isernia, Trivento e Venafro. La Chiesa, dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo, riuscì ad acquistare nel Molise un notevole potere, ma con l'inizio delle invasioni saracene del IX sec., il territorio subì una pesante crisi economica. Nel X sec. si costituirono alcune signorie feudali che si resero autonome, formando nel tempo nove contee: Venafro, Larino, Trivento (X sec.), Bojano, Isernia, Campomarino, Termoli, Sangro, Pietrabbondante (inizi dell'XI sec.). Fra queste cominciò a prevalere la contea di Bojano, che ebbe come signori i conti normanni Rodolfo (1092) e poi Ugo I di Molhouse (o de Molinis o Molisio) [1095], dai cui forse deriva il nome della regione. Quest'ultimo ingrandì i confini della contea, e nella prima metà del XII sec. il conte Ugo II, poté assumere il titolo di conte di Molise (1144). Alla sua morte (1168), però, la contea del Molise (comitatus Molisii) fu ceduta dalla reggente spagnola Margherita di Navarra e, all'inizio del XIII sec., divenne di Tommaso di Segni conte di Celano, che la perse a sua volta, a favore dell'imperatore Federico II. Il Molise, dopo aver subito diversi mutamenti in epoca angioina e aragonese, nel XVI sec. fu unito alla Capitanata. La regione attraversò, allora, delle fasi difficili, nei secoli XVI-XVIII, dovute all'isolamento e alla decadenza economica, che colpì tutta la penisola italiana. Nel 1806, con l'occupazione francese il Molise fu staccato dalla Capitanata e divenne una provincia autonoma. La dominazione borbonica, però, peggiorò le condizioni della regione e nemmeno l'unità d'Italia portò ad una ripresa del Molise, che divenne anzi uno dei centri del brigantaggio. Nel corso della seconda guerra mondiale, inoltre, il territorio attorno a Campobasso fu devastato da combattimenti, che ebbero termine solo con lo sbarco alleato a Termoli, avvenuto nel settembre del 1943. Il Molise è divenuto una regione autonoma nel 1963.
Il territorio molisano condivise la sua storia con l'Abruzzo, fino alla caduta dell'Impero Romano. Resti di quel tempo si possono ancora osservare a Larino, dove sono stati rinvenuti reperti di mosaici policromi ottimamente fatti. Tutti i principali centri molisani divennero colonie romane, tra cui Isernia, colonia fin dal 262 a.C. , Venafro, città di origine Augustea, e Bojano, nata durante l'epoca di Vespasiano. E' proprio Bojano a diventare il primo territorio autonomo molisano, il Gastaldato di Bojano che, sotto i Normanni, diverrà Comitatus Molisii. Fu invasi dai Goti negli anni dal 535 al 553 d.C. e invaso dai Longobardi nel 572 d.C. Il territorio dell'attuale Molise era unito, anticamente, al ducato di Benevento. Questo periodo di annessione fu causa di particolari turbamenti, dovuti anche ad invasioni da parte di mercenari bulgari, che costruirono un castaldato comprendente Sepino, Isernia, Trivento e Venafro. Dopo la conversione dei Longobardi al Cattolicesimo, la chiesa acquistà molto potere sul Molise, ma con l'inizio delle invasioni saracene del IX secolo il territorio subì una grave crisi economica. Nel X secolo nacquero diverse signorie feudali che si resero autonome, formando nel tempo nove contee: Venafro, Larino, Trivento (X sec.), Bojano, Isernia, Campomarino, Termoli, Sangro, Pietrabbondante (inizi dell'XI sec.). Fra queste prevalse la contea di Bojano, che ebbe come signori i conti normanni Rodolfo e Ugo I di Molhouse (o de Molinis, o Molisio - forse da questo conte deriva il nome della regione). Ugo I ingrandì i confini della contea e, nel XII secolo, il conte Ugo II potè assumere, nel 1144, il titolo di conte di Molise. Una data fondamentale nella storia del Molise è il 1221, anno nel quale l'attuale imperatore Federico II trasformò il Molise in un distretto di giustizia imperiale, dove l'autorità del Re si opponeva a quella dei feudatari. Nel XV secolo il Molise conobbe una forte immigrazione di zingari, schiavoni ed albanesi, i quali fondarono diversi centri e si insediarono nei territori adiacenti Foggia. Il secolo seguente fu unito alla Capitanata. La regione conobbe nuovamente fasi difficili nel secoli XVII e XVIII, dovute all'isolamento e alla decadenza economica che colpì l'Italia intera. Nel 1806, con l'occupazione francese, il Molise si distaccò dalla capitanata e divenne provincia autonoma, nel 1811 ad opera di Gioacchino Murat. Tra il 1861 e il 1865 il Molise fu uno degli epicentri del fenomeno dei Briganti quale espressione di malessere delle plebi montanare e contadine del Sud. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, il territorio attorno a Campobasso fu devastato dai combattimenti, che ebbero termine solo nel settembre 1943, con lo sbarco degli alleati a Termoli. Il Molise è divenuto una regione autonoma nel 1963.
All’Archivio di Stato di Campobasso si è tenuta la presentazione del volume “Memorie del Risorgimento”. Avvenimenti e protagonisti nel Molise”, a cura di Renata De Benedettis, che raccoglie gli scritti, ispirati ai fatti avvenuti nel Molise a cavallo tra il 1860 e il 1861, di coloro che avevano abbracciato la causa unitaria. A completare l’opera, una raccolta di biografie di garibaldini molisani e di protagonisti che sono venuti nel Molise per combattere una dura battaglia contro i borbonici, stilate da Barbara Bertolini, Luigi Biscardi, Annalisa Carlascio, Renata De Benedettis, Rita Frattolillo, Antonio Santoriello. Tra gli illustri relatori dell’Università di Salerno, Francesco Barra, Pier Luigi Rovito e Sebastiano Martelli oltre agli interventi del Presidente dell’Associazione culturale “Vincenzo Cuoco”, Luigi Biscardi, della curatrice del libro, Renata De Benedettis e della Direttrice dell’Archivio di Stato di Campobasso, Annalisa Carlascio. Sono intervenute anche Barbara Bertolini e Rita Frattolillo per illustrare la vita dei protagonisti molisani. Qui di seguito la relazione tenuta da Rita Frattolillo su “Memorie del Risorgimento in Molise” pubblicata su “Molise d’autore” :
“….Prima di parlare dei miei patrioti e del loro ardimento, Nicola Campofreda e dei suoi figli Antonio, Luigi e Achille, dell’avvocato Girolamo Pallotta di Bojano, dell’eroe mirabellese Francesco De Feo, vorrei spendere qualche minuto per accennare al ruolo delle donne nel processo unitario. Per farlo, vi invito a inoltrarvi idealmente con me tra le mura domestiche di certe dimore molisane, perché non v’è dubbio che l’Unità d’Italia non è stata solo il prodotto del sangue dei campi di battaglia o degli intrighi e interessi nazionali e internazionali, ma il risultato ben visibile di un lungo e paziente lavorio - purtroppo invisibile - di sostegno, aiuto, convincimento alla causa risorgimentale, portato avanti proprio lì, tra le mura domestiche, da donne vere, avvertite e sensibili, che, assumendosi una grande responsabilità, hanno affermato gli ideali risorgimentali inculcandoli nei figli, di cui sono state mentori e guide, li hanno invogliati a passare all’azione al momento giusto e a compiere il loro dovere verso la patria. Sapete bene che all’epoca le condizioni ambientali sfavorevoli, la compressione sociale, l’angustia dello scenario locale, insomma, impedivano alle donne di esporsi, di partecipare direttamente alla vita pubblica, e d’altra parte, nella miscela esplosiva del periodo risorgimentale, non era facile orientarsi, gli orizzonti erano cupi, si era divisi tra i “codini fedeloni” (come aveva scritto don Agostino Tagliaferri, docente nel seminario di Bojano) e il patriottismo; i sospetti, le delazioni e i conflitti erano all’ordine del giorno; per cui, mentre alcune donne restavano dietro la porta chiusa dalle convenzioni sociali e dall’indifferenza, e mentre delle ragazze, come la Silvia decantata da Alberto Mario (l’intellettuale garibaldino veneto fervente mazziniano amico di Carducci che con La camicia rossa –caposaldo della memorialistica garibaldina- ha fatto conoscere all’Italia post-unitaria un Molise dalle tinte forti) covavano la vendetta contro il Borbone senza tuttavia passare ai fatti, e altre, infine, per sfuggire al mondo correvano a rinchiudersi in convento, come fecero le cinque sorelle del garibaldino luogotenente di F. De Feo Gaetano Bracale, che divennero tutte suore ( riesce un po’ difficile credere a una vocazione collettiva), eppure, dicevo, malgrado l’avversità dei tempi, malgrado quel contesto sociale, non sono mancate donne di grande spessore morale, che con slancio patriottico e coraggio hanno acceso nei figli l’amor patrio e li hanno spinti all’azione. I loro nomi forse non li conosceremo mai, ma due ve li posso fare: Enrichetta Formichelli, vedova del notaio Domenicangelo di Isernia, madre di sei figli di cui tre maschi, ideò nell’agosto ‘60 uno stratagemma per corrompere i cacciatori regi accampati nei pressi del suo palazzo, invitandoli a disertare tra una cena e l’altra allestita per quasi un mese sulla terrazza di casa sua . L’impresa, portata avanti con la cognata Teresa, ebbe successo, e i tre ragazzi Formichelli poterono guidare i borbonici “convertiti” anziché a Caiazzo, (dove era la postazione napoletana), verso il Matese, dove si trovavano i garibaldini. L’altro nome è quello della nobildonna Teresa Lembo di Lupara, madre di cinque femmine, bisnonna di Lina Pietravalle; perno della sua famiglia, educò i figli negli ideali liberali, e, spingendo alla battaglia l’unico figlio maschio, Giuseppe Suriani, che ardeva d’entusiasmo ma era fermato dalla angosciata opposizione della giovane moglie, Luisa Bucci di Larino, ne dovette piangere l’uccisione, avvenuta durante i terribili scontri e i massacri di Isernia del 17 ottobre ‘60, la cui eco giunse fino al Parlamento inglese per bocca del ministro degli esteri lord Russel. Quella tragica morte, che portò alla tomba poco dopo Teresa, consumata dal rimorso, ha trovato risonanza letteraria grazie al cognato, marito di Virginia Suriani, Vincenzo De Lisio (l’intellettuale di Castelbottaccio che sarà padre del pittore Arnaldo), e, circa 80 anni dopo, grazie alla penna di Francesco Jovine che in una frase lapidaria del capolavoro meridionalista Signora Ava (1942) sintetizza il sacrificio del giovane. La testa mozzata del giovane, allineata con le altre sulla fontana pubblica del largo della Concezione di Isernia, venne riconosciuta con strazio dal garibaldino Domizio Tagliaferri, che aveva partecipato alla spedizione De Luca, e, fatto prigioniero durante la battaglia di Pettoranello, veniva condotto alle carceri di Gaeta. A Gaeta, lo racconta Domizio, gli fu promessa salva la vita se avesse rivelato chi era tra loro l’attendibile Francesco De Feo. E con lui (1828 - 1879) torniamo sui campi di battaglia. Francesco, esponente di una stirpe che ha dato all’Italia, nel tempo, personalità di spicco in campo militare (il nipote Vincenzo 1876-1955 è comandante di sommergibili durante la I guerra mondiale e governatore dell’Eritrea, 1937) e scientifico (ha messo a punto le nuove centrali di tiro, adottate dalla flotta durante la II guerra mondiale, mentre un altro nipote, Ugo Tiberio, inventa il prototipo del radar , il radiotelemetro) malgrado l’ambiente di fede borbonica, si infervora per gli ideali liberali e a 20 anni si imbarca a Napoli, dove era studente, sul vapore “M.Cristina” noleggiato dalla principessa Cristina di Belgioioso per correre in aiuto dei lombardi a Curtatone (29 maggio ’48), dove morirà Leopoldo Pilla e lui rimarrà ferito. Da allora si distingue su molti campi di battaglia, e quando rientra a Mirabello S., pur se schedato come attendibile, e vessato (persino per l’inno politico Italia di oggi composto da giovane), non rinuncia alla sua azione patriottica. Si laurea in legge e lettere, esercita l’avvocatura a Campobasso, nello stesso tempo rafforza i contatti con i gruppi liberali molisani, si lega d’amicizia con Nicola De Luca e aderisce al comitato fondato da Giuseppe Demarco di Paupisi. Il 30 agosto ’60, quando Garibaldi proclama la dittatura a Napoli, De Feo innalza il tricolore sul castello Monforte. Non posso dilungarmi sulla fase successiva, costellata di battaglie ma anche di divergenze con il colonnello dei cacciatori del Vesuvio Teodoro Pateras riguardanti la conduzione delle operazioni militari nel momento più critico della reazione filo borbonica; sta di fatto che Vittorio Emanuele II, il 24 ottobre ‘60 a Venafro, riceve Francesco, nominandolo sottintendente di Isernia (De Luca è confermato sottogov. del Molise). Da questo momento, De Feo si impegna nella lotta al brigantaggio, come sottoprefetto e prefetto, divenendo ad appena 45 anni il più giovane prefetto d’Italia. Per la sua abnegazione e la prontezza delle sue iniziative ottiene promozioni e riconoscimenti di grande prestigio. Ma con i briganti aveva avuto a che fare in più riprese l’audace e ambizioso albanese di Portocannone Nicola Campofreda (1794-1873), la prima volta quando gli uccisero il padre Nazario in una imboscata, e poi quando ebbe dal governo l’incarico di stanarli: dopo una serie di agguati e vendette la banda Vardarelli è distrutta nel 1818. Impetuoso e ribelle, Nicola aveva conquistato una grande influenza nel proprio territorio, e fin dal 1820 è segnalato alle autorità quale uomo facinoroso per indole; nel ’28 conosce le carceri di Castel dell’Ovo perché accusato di complicità con i rivoltosi del Cilento, ma nondimeno gli vengono assegnati diversi incarichi governativi, forse anche per “tenerlo attaccato alla causa dell’ordine”. In realtà mentre a parole si dichiara fedele alla Corona, nei fatti intreccia rapporti con i patrioti napoletani, abruzzesi e molisani (Dragonetti, Piersilvestro Leopardi, Carlo Poerio, Silvio Spaventa, Nicolangelo Petitti , Giacomo De Santis) e per questo ha dato qualche pensiero agli storici. Nel settembre ’47 mette in piedi un movimento insurrezionale che finisce con gli interrogatori di Nicola da parte della polizia e con l’arresto dei figli Luigi e Achille. L’anno successivo, giugno ’48, prende parte alla cospirazione di Casacalenda (il comitato di Larino discuteva dell’assalto alle truppe borboniche di ritorno dalla Lombardia) in cui risultano imputati Nicola e Achille. Il 4 sett. ’60, convinto dai patrioti napoletani a promuovere l’insurrezione nel Molise, Nicola, benché ormai 66enne, muove da Portocannone con Luigi e Achille, valenti tiratori a cavallo, a capo di una colonna che si va ingrossando via via che si avvicina alla città. Qualche giorno dopo il neogovernatore De Luca invia a Isernia i Campofreda e i 200 volontari da loro radunati, ma affida il comando al commissario politico, medico Giacomo De Santis. L’affronto subito viene attutito dalla lettera inviata il I ott. da Garibaldi a Nicola e Achille in cui li autorizza a chiamare i cittadini alle armi e fa conto sulla loro energia e sul loro patriottismo. E tutti i Campofreda prendono parte attiva ai fatti d’arme dell’autunno ’60. In particolare, il 4 ott. Luigi, capitano come Achille, ma anche uomo di cultura, che ha lasciato diversi scritti, tra cui Cenno storico-politico (1861, sostanzialmente pamphlet contro Nicola De Luca), prende d’assalto Isernia con i suoi volontari albanesi nelle prime file, mentre Achille, che è il primogenito, è l’eroe di Pettorano “per l’indomito coraggio mostrato durante il tragico attacco 17 ott. a Carpinone e Pettorano nel corso del quale riesce anche a salvare i suoi dal massacro”. La disfatta del 17 ott.’60 è anche il nodo a cui è legato il nome di Girolamo Pallotta (1804- 1866)di Bojano. Quest’avvocato, nato in un ambiente culturalmente aperto, era stato convinto fautore delle riforme vòlte a migliorare le misere condizioni del popolo, amministratore attento e sensibile; ma da riformatore era diventato rivoluzionario quando nel ‘48 aveva perso fiducia nel sovrano borbonico. Pallotta il 5 sett. ’60 – prima ancora di Napoli- aveva dichiarato l’adesione di Bojano alla monarchia sabauda, proclamandosi pro-dittatore del nuovo governo provvisorio; poi, temendo la reazione delle truppe regie appostate sulla consolare per Isernia, dimessosi da pro-dittatore (nelle mani del neo-governatore De Luca), era corso da Garibaldi a Caserta per chiedere rinforzi ai suoi 3000 volontari previsti, rinforzi che ottenne solo grazie alla sua tenacia. Purtroppo, c’è da dire che aveva sopravvalutato lo spirito patriottico dei suoi conterranei, che mancarono all’appello – arrivarono solo venti uomini con un sergente e un caporale- eccezion fatta per i duecento volontari albanesi dei Campopfreda. A tale proposito Domizio Tagliaferri rammenta che l’ordine impartito da Garibaldi al colonnello Nullo era di non attaccare prima dell’arrivo dei piemontesi di Cialdini, previsto per il 20 ott., ma il colonnello Nullo, disobbedendo, attacca andando incontro alla disfatta, della quale A. Mario, per motivi ideologici (era fiero repubblicano), getta la croce addosso al gentiluomo di Bojano(favorevole alla monarchia sabauda), per aver “ingannato”Garibaldi ventilando la presenza di volontari mai arrivati. Ma il giudizio severo di A.Mario era anche dettato dalla contrarietà per essere stato allontanato dall’amato generale Garibaldi allo scopo di “dare la caccia a qualche cafone infellonito” con Francesco Nullo, Emilio Zasio e Caldesi, che avrebbero preferito correre all’assalto di Capua con Garibaldi. Concludendo, direi che una felice confluenza di eventi, energie e volontà ha fatto sì che questi nostri patrioti, pur così diversi per temperamento ed estrazione sociale, abbiano dato il meglio di sé in un momento di svolta epocale per la nostra Storia Nazionale.
MOLISE MASSONE.
Massoneria in Molise, poche luci e troppe ombre, scrive Michele Mignogna su “L’Infiltrato”. I Fratelli molisani. Quelli che indossano grembiulini e pregano nei templi massonici; quelli che si nascondono perchè nell'ombra si agisce meglio; quelli che - probabilmente - gestiscono la cosa pubblica a loro unico e insindacabile giudizio. L'etica? Esiste, certo, e si chiama tornaconto personale. In questo scenario che indaga i rapporti tra la massoneria e la politica, in Molise, viene fuori un quadro che per qualcuno sarà difficile da digerire. Soprattutto per quei dirigenti, quei politici, quei dottori che non gradiscono alcuna pubblicità..." In Abruzzo e Molise cresce il numero degli iscritti alla Massoneria del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani. Gli iscritti alla Circoscrizione, che comprende le due regioni, sono 275 suddivisi in 13 Logge: 4 a Pescara, due a Lanciano, una rispettivamente a L'Aquila,Teramo,Montesilvano,Francavilla al Mare, Lanciano, Chieti e Campobasso. L'ufficio stampa del Grande Oriente precisa che l'eta dei nuovi iscritti si abbassa, consolidandosi ad una media di circa 35 anni”. Questa è una agenzia ANSA di poche settimane fa alla quale in pochi hanno dato la giusta importanza, ovvero, cosa succede nella massoneria molisana. Innanzitutto bisogna dire che negli ultimi anni il GOI ha deciso una sorta di riorganizzazione sull’intero territorio nazionale, unificando quelle logge che seppur molto attive, avevano un numero ristretto di iscritti, e cosi al Molise, anche per una questione geografica, è toccato l’accorpamento con la regione Massonica dell’Abruzzo. La sede dei Gran Maestri Venerabili si trova in una zona centrale di Pescara, scelta fatta a seguito della distinzione che la loggia pescarese ha avuto sullo scenario massonico nazionale, disegnando anche importanti dirigenti. Ma facciamo un passo indietro. In Molise sono presenti tre logge legate al Grande Oriente D’Italia - quella massoneria per intenderci che viene definita “regolare”, cioè che opera nel rispetto delle leggi (ed è di quella che parliamo in questo articolo) - rispettivamente Nuova Era 771 con sede, prima dell’accorpamento, a Larino, la Loggia Ernesto Saquella 1366 di Campobasso e la Loggia Ernesto Natham di Termoli. Su questa di Termoli ci sono alcune indiscrezioni che la vorrebbero praticamente in sonno, una condizione cioè di non operatività per un problema legato alla gestione ed alla nomina del locale Gran Maestro, che ha innescato una lotta intestina tra due fazioni che si contendono il controllo, anche se da ultime notizie attinte, sembra che ci sia la convergenza su un nome che ha anche responsabilità di governo cittadino. La loggia di Larino invece ha sempre avuto un’attività più o meno regolare garantita anche da un ricambio generazionale al suo interno: infatti la palma d’oro per il rinnovamento va proprio alla Nuova Era 771, per capacità di fare sintesi e di guardare al futuro in modo diverso. La presenza dei grembiulini è forte anche in Molise ma più che indagare l’ambito prettamente massonico, è interessante indagare l’aspetto politico che apre scenari curiosi sui locali liberi muratori. Infatti, leggendo le cronache nazionali sullo scandalo che ha coinvolto i vertici della Protezione Civile, abbiamo scoperto che quella che viene chiamata loggia P3 – protagonisti Verdini e Carboni - operava indisturbata anche in Molise. Referente di eccezione quel famoso ingegnere Claudio Rinaldi, soggetto attuatore di quasi tutte le opere pubbliche del Molise. Ma andiamo con ordine. All’indomani del terremoto che ha sconvolto l’esistenza di 14 comuni del Basso Molise - così come per ogni calamità naturale - si mettono in moto tanti e tali interessi da far passare in secondo piano la reale emergenza che si viene a creare. E visto che San Giuliano di Puglia è stato il comune più colpito, andava ricostruito totalmente, cosi come è stato. Ad essere nominato soggetto attuatore, il controllore cioè dei soldi pubblici, è stato l’ingegner Rinaldi, indagato a Roma per abuso d’ufficio e a Firenze per corruzione. Cosa c’entra Rinaldi con il terremoto molisano? C’entra e come, infatti tutti sanno che il comune fortorino è l’unico ad essere stato ricostruito perché sotto la gestione diretta della Protezione Civile, tanto che lo stesso Bertolaso è cittadino onorario di San Giuliano. E qui iniziano le stranezze. Come dichiarato anche dalla Corte dei Conti, Rinaldi, in qualità di Soggetto Attuatore, è stato autorizzato anche ad assumere personale tecnico specializzato (quattro unità) e ad avvalersi di sei unità del Servizio integrato infrastrutture e trasporti Campania-Molise. Ma attenzione: già in questo una pesante irregolarità. Inizialmente Rinaldi era stato nominato Soggetto Attuatore soltanto per l’area di San Giuliano di Puglia (per “l'espletamento delle attività connesse con la realizzazione degli interventi e delle opere di ricostruzione inerenti al Comune”), ma ben presto ha assunto la qualità di soggetto attuatore per la realizzazione di tutti gli interventi e le opere di ricostruzione inerenti l’intero territorio della provincia di Campobasso . In più ha avuto anche la possibilità di progettazione e realizzazione di interventi di edilizia, qualora delegato dalle amministrazioni comunali della stessa provincia. E proprio per questi “nuovi incarichi” altro personale: “è stato autorizzato ad avvalersi di sei unità di personale del Servizio integrato infrastrutture e trasporti Lazio-Abruzzo-Sardegna e ad acquisire la disponibilità di una sede logistica idonea per la struttura di titolarità; è stata, altresì, concessa l'apertura di una contabilità speciale di tesoreria intestata allo stesso Soggetto Attuatore”. Un potere enorme non solo nelle mani del singolo Rinaldi, ma nelle mani di una confraternita organizzata per far soldi sfruttando posizioni personali, amicizie particolari, e una forte influenza sui governi locali, originati proprio dall’appartenenza comune alla loggia massonica P3. In che modo, vi chiederete, sia stato possibile tutto questo? E soprattutto perché? Partiamo dall’aspetto economico. Michele Iorio ha aperto ben due distinte contabilità speciali in favore del Soggetto Attuatore: la n.3280, relativa agli interventi di ricostruzione nel territorio della provincia di Campobasso, e la n.3990 relativa agli interventi specifici nel comune di San Giuliano di Puglia. Ci sarà qualche documento che attesti come sono stati spesi i soldi? Certo che no: agli atti del Dipartimento della Protezione Civile non risulta pervenuto alcun rendiconto. Addirittura, per quanto riguarda la contabilità speciale n.3280, istituita il 3 maggio 2005 e chiusa il 4 ottobre 2007, non c’è “alcun movimento né in entrata né in uscita”. Un mare di soldi senza rendicontazione e a favore della famosa cricca. In concreto diverse sono le opere per cui Rinaldi è risultato “Soggetto Attuatore” fino al giugno 2010. Alcuni esempi che ci fanno capire ancora meglio: realizzazione di una Struttura socio-sanitaria assistenziale per anziani a San Giuliano per un importo complessivo di euro 1.060.000,00; “collegamento F.V. Trigno – F.V.Biferno pedemontana Montemauro” - importo complessivo euro 2.300.000,00; la ricostruzione del Comune di San Giuliano di Puglia, per la quale è stato approvato un “Piano Generale di ricostruzione” che comporta una spesa complessiva di 240 milioni di euro, di cui circa 160 per le Opere Pubbliche e 79 per quelle private; realizzazione dei lavori per la messa in sicurezza e ammodernamento della SS 87 Sannitica nella tratta da Campobasso a Sant’Elia a Pianisi (per la cui progettazione compare anche il nome dell’Arch. Carlo Strassil, anch’egli indagato nell’ambito di un’inchiesta pescarese sulla Statale 81 “Mare-Monti”). Insomma, molti soldi ma nessun documento. Una parte della massoneria italiana e molisana opera indisturbata in settori economici sicuri e remunerativi; il tutto con il placet della classe dirigente locale. La stessa storia che poi si è ripetuta all’Aquila. Quindi qual è il ruolo della massoneria locale? Quello di fornire supporto e aiuto nelle operazioni economiche e nelle opere pubbliche: molti Fratelli molisani sono ingegneri, architetti, dirigenti, politici, costruttori, trasportatori, capitani d’impresa (anche se in Molise è un eufemismo) che utilizzano denaro pubblico per gli affari privati (vedi Zuccherificio del Molise, Cantina Valbiferno e Conservificio di Guglionesi). Questi sono i soggetti che in maniera più o meno trasparente gestiscono il potere economico, e non solo, nella XX Regione, per nulla esente dai fenomeni che a livello nazionale hanno più risalto, come appunto, il ruolo di certa massoneria nella vita pubblica, economica e sociale, di tutti i giorni.
Riporto un articolo di stampa apparso qualche tempo fa su un giornale online "pennemolisane". L'articolo è per certi versi simpatico. Firmato da tale Giacomo Donati, contiene però (oltre a commenti singolari e gratuiti del sig. Donati), una ricostruzione storica degli eventi abbastanza veritiera. Lo riporto integralmente. Scrive Giacomo Donati: «L’estro popolare molisano non ha mai disdegnato di toccare le corde satiriche. Anzi, secondo un diffuso convincimento critico, è nella satira che l’animo nostro riesce ad esprimersi in modo originale. Le occasioni per “ricacciare” canzoni erano perloppiù legate a disinibiti comportamenti muliebri, come quelli stigmatizzati a Bagnoli del Trigno.
A Carmela
uocchie basse
Giuacchine la porte a spasse
e se nn’era ru cappotte
re faceva n’antra botta.
E Carmela la
schiummatora
ze ne va a spasse tutte l’ora:
mo ce la fa un’antra botta
senza manche nu delore.
E Carmela
supraffina
z’ha purtata na vicina;
come mai Giuacchine
nen ce iute a San Michele?
Giuacchine
sta mmalate
dentr’u liette scunzelate,
e Carmela puverella
z’ha trevate n’antr’amante.
Giuacchine
l’ha recercata,
ma Carmela ze n’è scappate;
Giuacchine mo ze more
mo ze more de passione.
Né a Bagnoli né altrove mancavano esche diverse, come il tentativo inglorioso di migliorare la posizione sociale portato avanti da qualche intrepido condannato ai capitomboli e agli sfottò in rima e in musica.
Caratille è
iute a Roma
pe cumbrarse la pultrona;
mo z’è rotta la riella,
Caratille è iute a terra.
Care cocò
durmice n’ coppa,
care cocò nen ci penzà,
ca ru debbutate nen l’hai da fà.
Cannavine ci
ha la pultrona,
don Michele la medaglia,
Caratille la cariola:
l’arte seia a la via nova.
Care cocò
durmice n’ coppa,
care cocò nen ci penzà,
ca ru debbutate nen l’hai da fà.
Dall’alto del loro Olimpo, i Cannavina, i Michele Pietravalle ricordati nella satira, e i loro benestanti elettori amavano guardare al “popolino” con atteggiamento estetizzante, infarcito di languori di maniera che alimentavano le sdolcinatezze dei Cirese e dei suoi emuli.
Belle capille
ricce ncannellate,
a chessa bionda testa le tenite,
e quande la matina le ntrecciate
fate fermà ru sole a meza strada:
tu fa’ fermà ru sole e ie la stella,
tu va cercanne l’amante e i’ so quelle;
tu fa’ fermà ru sole e ie la luna,
tu va cercanne l’amante e i’ so une.
Tanto corrivi, i galantuomini, a sospirare per le trecce d’oro o gli occhi neri di ogni pacchiana avvenente e senza meno a insidiarne le grazie, quanto ferocemente determinati ad escludere la povera gente da ogni orizzonte di elevazione sociale. Erano i tempi della massoneria imperante. I molisani, che secondo una icastica riflessione di Nicolò D’Abramo, sarebbero successivamente confluiti sotto l’ala del fascismo prima, della Democrazia Cristiana poi, e – aggiungiamo noi – di Berlusconi oggi, erano a quei tempi alla mercé di capipopolo uniti tra di loro dal vincolo massonico. Una ricognizione in quel mondo sarebbe oltremodo stimolante, a giudicare da quanto anticipato in alcuni studi da Michele Tuono. In questa sede basterà riprodurre una indagine concepita con intenti divulgativi e pubblicata una dozzina d’anni fa, quando la cronaca nazionale era tornata a ridipingere il Molise come terra pullulante di liberi muratori. Niente mi impedisce di trasformarmi in uomo sandwich e andarmene a spasso per Roma con la scritta: 'Sono un massone'. Ma non posso fare la stessa cosa per gli altri. Non posso rivelare i nomi dei fratelli molisani: la leggenda dipinge ancora i massoni come mangiatori di bambini". L'interlocutore anonimo di Villa Medici del Vascello, sede del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani a Roma, è cortese ma ovviamente abbottonato. Undici anni dopo la sinistra fiammata della P2, ci eravamo messi sulle tracce della massoneria molisana, con la convinzione di muovere incontro all'appendice regionale di un organismo ormai in decomposizione. Invece, a ottobre si è cominciato a parlare di connessione mafia-massoneria-politica, e quindi di copertura massonica al movimento referendario di Mario Segni; si è aperto subito dopo il processo alla P2; ed è arrivata, infine, l'inchiesta dei magistrati di Palmi. L'escalation, riportando sulle prime pagine dei giornali le cazzuole, le squadre e i compassi della normale liturgia dei liberi muratori, ha restituito all'attualità il nostro approccio che poteva apparire un po' snob. Però, gli ha tolto la terra da sotto i piedi. Il dr. Giampiero Batoni, portavoce ufficiale della Massoneria Italiana, al quale su indicazione dell'uomo sandwich avevamo strappato l'impegno a fornire i nomi di logge e affiliati molisani, o quantomeno quello di un referente locale, si è visto impossibilitato, certo per l'indagine giudiziaria in corso, a mantenere la promessa. La massoneria molisana vanta una storia di tutto rispetto. Affonda le radici nella seconda metà del Settecento, quando vi aderirono professionisti e intellettuali che avendo studiato a Napoli, recepiranno poi le istanze giacobine. Si fortifica con il sacrificio dei martiri del 1799. Cresce sul terreno degli ideali liberali, propugnati dai carbonari e dai rivoltosi del 1848. L'Unità d'Italia, raggiunta grazie agli sforzi non sempre coordinati ma sempre generosi dei quattro grandi della massoneria nazionale, Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II, apporta nuova linfa alla causa dei liberi muratori nostrani. Appartati nel loro angolo di mondo, i galantuomini dettero vita a un saldo vincolo massonico, cementato da un vigoroso anticlericalismo, di cui è testimonianza nel gran numero di gazzette pubblicate fin nei più sperduti centri della regione. Il vincolo ribadiva lo strapotere di ognuno di loro nei paesi di appartenenza e della casta a livello istituzionale. La massoneria si configurò come la più grande lobby, il più grosso partito trasversale operante in Molise fino al fascismo. I più importanti posti di comando erano nelle mani dei fratelli muratori. E ciò anche grazie alla posizione del Clero, spesso servo e maggiordomo dei notabili massoni, con i quali stabilì intese di reciproci appoggi e supplenze. Il solo don Balduino Migliarese, battagliera e controversa figura di parroco a Petrella Tifernina, cercherà di arginare nel 1914 il dilagare della massoneria con gli strumenti del pubblicista; mentre nel 1915, Mons. Gianfelice, vescovo di Boiano-Campobasso si limiterà a protocollare la presenza della "secta massonica" fin dai tempi antichi. Lo zenit massonico fu raggiunto nel periodo che va dal 1900 all'avvento del fascismo, quando i partiti politici moderni si mostrarono incapaci a scalfire il tessuto regionale (è un fatto che a Campobasso nel 1919 non ancora era stata aperta una sola sezione di partito). Di conseguenza le elezioni molisane promossero sempre gli stessi nomi liberali e ministeriali, quasi sempre massonici. La sede dell'Amministrazione Provinciale di Palazzo Magno a Campobasso si propose allora come roccaforte della massoneria e Campobasso come capitale dei massoni di Abruzzo e Molise. L'Annuario Massonico del 1919 vi registra l'esistenza di un Consiglio dei Cavalieri di Kadosch, che accoglieva gran dignitari del 30° grado, con a capo il potente segretario generale della Provincia, l'avv. Francesco Saverio Giancarlo. Il Consiglio dei Kadosch estendeva la sua autorità su cinque Capitoli Rosa-Croce, con affiliati dal 15° al 18° grado, le cui sedi erano a Campobasso (con lo stesso Giancarlo come presidente), all'Aquila, a Chieti, a Lanciano e a Isernia, con il prof. Antonio Di Lullo presidente. La prof. Annamaria Isastia, storica della Massoneria Italiana, informa inoltre che a tutto il 1923 esistevano cinque logge in Molise. A Campobasso, la "Nova Lux" annoverava tra le sue fila, oltre a Giancarlo, Angelo Del Lupo, presidente della Provincia e Giuseppe Petrucciani, presidente dell'Associazione Industriali; disponeva, inoltre, di un retroterra demomassonico formato dai sindaci Domenico Pistilli ed Eugenio Grimaldi, da Gustavo Spetrino, presidente della Società Operaia, ed altri. Ad Agnone la loggia "Aquilonia" contava sul deputato Alessandro Marracino, poi sottosegretario alla Guerra nel Ministero Facta, e quindi senatore del Regno, e su professionisti locali come Raffaele Sabelli e Michele Cervone. A Isernia, la loggia "Giuseppe Garibaldi-Cesare Battisti" s'imperniava sul deputato Ferdinando Veneziale e sul venerabile Di Lullo. Nel Basso Molise, attorno alla loggia "Giuseppe Mazzini" di Larino ruotavano il venerabile dr. Emilio Ricci, l'avv. Giulio Colesanti e il dr. Giuseppe Battista; a Termoli, infine, la loggia "Ernesto Natham", dal nome del Gran Maestro a capo della Massoneria Italiana dal '17 al '21, aveva punti di riferimento nell'avv. Franco Petti e nel venerabile Felice Folchi. Con la diffusione capillare della massoneria, dunque, bisognava fare i conti. I socialisti, i cui rapporti con la setta avrebbero dovuto essere improntati all'alternativa e furono spesso di commistione, avevano da tempo denunciato il pericolo di deviazione della vita pubblica, insito nel vincolo massonico, non improntato a criteri democratici. Ma fu il Partito Popolare che s'incaricò di portare avanti una veemente battaglia dalle colonne dell'Avvenire del Sannio. La polemica dei popolari con i massoni del periodico Democrazia e rinnovamento toccò toni di un'asprezza mai più raggiunta. Gli uni, a firma Fra' Cristofaro (Gaetano Amoroso), definivano la massoneria come "il serpe verde" che avvelenava la vita pubblica italiana, impadronendosi di tutti i poteri per asservirli a fini settari; gli altri rivendicavano con ostentazione il proprio ruolo e la propria forza nei confronti dei "collitorti baciapile del pipì". In ogni modo, la potenza della massoneria si espresse in forma schiacciante in occasione delle elezioni politiche del '21. In Molise, motivi di autonomia regionalistica e di calcolo politico, avevano suggerito la presentazione di un listone unico in cui confluirono liberali, ministeriali, popolari, fascisti, nazionalisti e altri. Ne risultarono eletti solo i quattro esponenti massoni: Pietravalle, Marracino, Veneziale e Presutti. Ma toccato l'apice, cominciò allora la stagione di declino e per certi versi eroica degli incappucciati molisani. La marcia su Roma segnò l'inizio della conversione al fascismo dei molisani. Si rinnegarono principi e fedi per vestire la camicia nera. Molti massoni presentarono le dimissioni e saltarono il fosso, come Cervone e Marracino. Singolare quel che accadde al Giancarlo. Il "pezzo grosso" massone di Palazzo Magno pensò di poter tenere il piede in due scarpe. Venne, invece, platealmente espulso, insieme ai suoi accoliti, dal sindacato fascista. Tuttavia la massoneria molisana tenne duro e, guidata dalla figura eminente di un collaboratore strettissimo di Amendola, Enrico Presutti, avvocato e professore universitario, nato a Perugia nel 1870 da genitori campobassani, si distinse in una strenua attività di opposizione. Nel settembre 1923, la Società Operaia di Spetrino e il sindaco Grimaldi promossero a Campobasso una grande manifestazione antifascista. Alla vigilia delle politiche del '24, i fascisti provocarono diversi incidenti a Campobasso. Tra l'altro, furono aggrediti il proprietario del caffè Lupacchioli e il barbiere Emilio Brienza, gestori di esercizi frequentati da massoni, e Brienza, in particolare, perché, sbarbando un fascista, gli aveva fatto il segno di Zorro, cioè gli aveva intaccato la mascella. Ma ad aprile, pur tra mille soprusi patiti, l'Opposizione Costituzionale di Presutti riuscì ad eleggere un candidato, lo stesso Presutti, nel collegio di Abruzzi e Molise: degli altri 20 seggi, 19 erano andati ai fascisti e uno ai socialisti. A giugno la Società Operaia di Campobasso aderì allo sciopero nazionale di protesta contro il delitto Matteotti, suscitando preoccupazioni nel prefetto per l'attività niente affatto rallentata dei demo-massoni, che nel novembre di quell'anno aderirono all'Unione Nazionale di Amendola. L'U.N. si avvalse di un foglio battagliero, La Vita del Molise, diretto coraggiosamente da Giulio Colesanti. Ma a causa della solidarietà espressa ad Amendola per l'attentato subito ad opera dei fascisti, il torchio del regime si strinse attorno al giornale. Vennero sequestrate più edizioni e, infine, il 31 dicembre 1925 La vita del Molise cessò le pubblicazioni. La legge di soppressione della massoneria, a seguito dell'attentato Zaniboni a Mussolini, aveva portato, intanto, alla devastazione delle logge di Agnone, di Larino e di Palazzo Petrucciani a Campobasso. La loggia d'Isernia s'era già sciolta spontaneamente. Ancor prima erano stati sciolti il Circolo Eguaglianza e la Società Operaia di Campobasso, perché centri di propaganda e di reclutamento dei democratici. Gli ultimi sussulti massonici in Molise si ebbero con Folchi, venerabile della loggia di Termoli, che perse l'insegnamento per non aver rinnegato la massoneria, con il dr. Battista di Larino che, per lo stesso motivo, perse la condotta medica in quel comune, e con Presutti che, in quanto aventiniano fu dichiarato decaduto dalla carica di deputato nel 1926 e, per essersi rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al regime, perse la cattedra universitaria. Enrico Presutti visse dei soli proventi di avvocato, pare non troppo agiatamente; per cercare nuove fonti di guadagno, tentò di pubblicare un romanzetto anonimo, il cui manoscritto fu però sequestrato dai fascisti. Era ritenuto pericolosissimo e, come tale, sottoposto a sorveglianza e isolamento fino al 1937, quando fu colpito dalla paralisi che lo costrinse a letto, fino alla morte avvenuta nel 1949. Si potrebbe pensare che, con la caduta del fascismo, la massoneria molisana rialzasse il capo e, dal momento che massoni storici come Brienza, Petrucciani, Grimaldi, confluirono nel Partito Liberale, sia lì che bisogna cercare tracce. Il dr. Silvestro Delli Veneri, capogruppo socialista al Comune di Campobasso, ma all'epoca giovanissimo esponente di spicco del liberalismo molisano, è però di tutt'altro avviso. Nega ogni attività massonica nel Partito Liberale. "Prima di tutto, - sostiene - c'era l'ostracismo alla massoneria decretato dal Croce, al quale i nostri, da Morelli a Colitto agli altri, guardavano come a un vero e proprio nume tutelare. E poi, davvero non era il caso di offrire spazio di propaganda alla DC sul terreno dell'anticlericalismo; i liberali, Colitto in testa, erano e mostravano di essere sempre ligi alla Chiesa. Infine, - conclude Delli Veneri - di qualsivoglia attività massonica, per limitata che fosse stata, saremmo venuti a conoscenza". Sul versante cattolico, l'onorevole Remo Sammartino, che da ragazzo era stato testimone della devastazione fascista della loggia di Agnone, cui, a suo dire, aderiva il fior fiore dei professionisti locali, si allinea sulla posizione di Delli Veneri: "In tanti e tanti anni di attività politica non ho avuto mai l'impressione di trovarmi circondato da gente e partiti che tramassero nell'ombra". Lo stesso ripete Antonio Chieffo, presidente della Provincia di Campobasso che fu la roccaforte della massoneria molisana. "Escludo categoricamente di aver mai subito pressioni o comunque contatti che alla setta potessero far pensare. Né in sede istituzionale, né in sede elettorale. Ed è logico: i partiti hanno sottratto spazio di aggregazione a strutture come la massoneria; e comunque con l'istituzione delle Regioni la Provincia non è più la massima espressione politica periferica". Ma alla Regione, ovviamente, si rigetta ogni ipotesi di eredità massonica. E l'on. Florindo D'Aimmo, già consigliere e presidente della Regione Molise, condivide: nessuna traccia di massoni nell'Ente e neppure nelle competizioni elettorali che lo hanno interessato. Insomma, pare proprio che la grande tradizione massonica molisana sia svanita nel nulla. E forse è vero il giudizio perentorio di Nicolò D'Abramo, farmacista di Guglionesi, socialista fin dai tempi di Giolitti, perseguitato da Mussolini, e membro autorevole del Comitato di Liberazione Molisano. D'Abramo, che nel 1922, in qualità di direttore di Molise Avanti, polemizzò aspramente con l'allora sindaco di Campobasso, Grimaldi, e con altri massoni, giura dall'alto dei suoi 105 anni di età, sullo spirito buono ma gregario dei molisani: "Prima tutti massoni, poi tutti fascisti, infine tutti democratici cristiani". Senonché nella sede romana della Massoneria di Palazzo Giustiniani, si è di tutt'altro avviso". L'abbottonato e cortese uomo sandwich, dal quale abbiamo prese le mosse, assicura che non si è seccata l'acacia massonica, tutt'altro, e ce ne sono di logge, ce ne sono di affiliati. Intanto la stampa nazionale comincia ad alzare i veli: opererebbe a Campobasso l'unica loggia del Molise, la "Nuova Era". La loggia, che almeno nel nome ricorda la "Nova Lux", è accreditata di un numero esorbitante di affiliati: circa settecento. Con molta probabilità il solerte cronista ha preso per numero di affiliati il numero d'ordine. Diversamente a Campobasso spetterebbe non il vecchio titolo di capitale massonica di Abruzzo e Molise, ma di capitale d'Italia.»
MOLISE MAFIOSO.
Senza dimenticare la mafia minore, quella Sacra Corona Unita che prova a governare l’area basso molisana ma che in ogni caso dipende dai boss della camorra. Non manca proprio nessuno nell’isola felice – felice per chi? – del centro Italia. Ai Bellocco di Rosarno, una delle famiglie più potenti della Santa, tocca il business della droga; i casalesi gestiscono appalti e rifiuti; la mafia siciliana si occupa di riciclaggio. Il Molise, con un indice pari a 0,31, si posiziona all’ultimo posto della classifica nazionale per presenza mafiosa. Sul podio vi sono Campania, Calabria e Sicilia, rispettivamente con 61,21, 41,76, 31,80. E’ quanto emerge[more...] dal rapporto ”Gli investimenti delle mafie” realizzato dal centro di ricerca Transcrime dell’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Milano per il Ministero dell’Interno e presentato oggi a Milano. Il Molise, analizzando i dati contenuti nell’indagine, sembra essere una di quelle regioni, al di fuori dei territori a tradizionale presenza mafiosa, in cui si registra la rilevante presenza di un solo tipo di organizzazione, ovvero la Camorra, pari all’93,4% del totale. Seguono Sacra Corona Unita (3,7%), Ndrangheta (2,7%) e Cosa Nostra (0,2%). In ogni caso, analizzando le mappe presenti nel rapporto, emerge che il rischio di presenza delle mafie nella regione e’ basso, come confermato dall’indice complessivo. Le attivita’ illegali, in Molise, registrano ricavi medi pari a 134 milioni di euro: spiccano lo sfruttamento sessuale, che va da un minimo di 10 ad un massimo di 40 milioni di euro, e le droghe (minimo 23 milioni, massimo 58 milioni). In particolare, i ricavi illegali della Camorra vanno da un minimo di 22 ad un massimo di 29 milioni di euro. Rilevante anche il fenomeno dell’usura, con 3.211 famiglie coinvolte nel 2010 e ricavi annui pari a oltre 25 milioni di euro.
Benvenuti in Molise: Regione da abolire (più piccola di una provincia) dove camorra e ‘ndrangheta sono di casa, scrive Roberto Galullo. “Sequestrate armi da guerra e altro materiale di qualità”. Era questo il take con il quale l’ufficio di corrispondenza dell’Ansa di Termoli, in provincia di Campobasso, il 22 luglio 2011 dava la notizia del ritrovamento di un deposito di armi della 'ndrangheta. Almeno: sono queste le prime conclusioni alle quali è giunta l’inchiesta, ancora in corso, della Polizia che sta indagando sul ritrovamento di armi in un’auto parcheggiata in un garage. Il sequestro di armi a Termoli rappresenta uno dei più grossi del centro sud avvenuto di recente: 14 fucili, altri a pompa, mitra, di cui alcuni kalashnikov; 10 pistole, silenziatori, passamontagna, lacrimogeni di segnalazione degli elicotteri, munizionamento per armi particolari, giubbotti antiproiettile, cesoie, ramponi per aprire furgoni. In più, tanto per non farsi mancare nulla, qualche grammo di cocaina. Materiale vario e per gli investigatori di qualità. Le indagini non escludono che l’arsenale potesse servire per eventuali grosse operazioni malavitose di una famiglia di ‘ndrangheta di Mesoraca (Crotone), specializzata nel traffico di armi, soprattutto dalla Svizzera, droga e riciclaggio di denaro sporco. Per quei pochi che credevano che il Molise – una regione-città, con i suoi 319 mila abitanti, più o meno la popolazione di Bari o, se preferite, Cagliari e Foggia messe insieme, anche se i molisani si consolano dicendo che l’Islanda ha gli stessi abitanti della loro regione – fosse un’isola felice dalla contaminazione mafiosa, ecco a voi l’ultima testimonianza significativa (e allarmante) in ordine di tempo. Certo che, in tempi di tagli utili, quello di questa Regione sarebbe una mano santa! E’ impossibile pensare che una regione che confina con Lazio, Puglia e Campania, rimanga immune dal contagio. Senza dimenticare che la Calabria è lì a un passo. Non a caso il territorio è stato rifugio di latitanti – nel 2000 in Molise è stato arrestato Aniello Bidognetti, tra i boss dei Casalesi – ed è stato spesso scelto come sede per il soggiorno obbligato, soprattutto dai pugliesi. Diversi arresti di latitanti campani, eseguiti sia in passato che in tempi anche recentissimi, testimoniano che qui la camorra è di casa. Il 15 luglio 2009, è stata eseguita a Toro (Campobasso), un’ordinanza di custodia cautelare emessa il 1° luglio 2009 dal Gip del Tribunale di Napoli per associazione mafiosa nei confronti di due soggetti ritenuti esponenti del “clan dei Casalesi”. Il loro ruolo? Fungere da collegamento tra S. Cipriano di Aversa e Modena. “Resta la circostanza che due esponenti non secondari di un clan camorristico – scrive a De Simone - avessero la disponibilità di un immobile nel Molise, ritenuto evidentemente utile o per la cura di interessi criminali locali non emersi dalle indagini ovvero per fruire di un appoggio utile agli interessi criminali del clan dei Casalesi con riferimento a regioni più o meno vicine come ad esempio l’Abruzzo, sul quale si appuntano le mire di sfruttamento del clan tramite l’imprenditoria collusa, con riferimento alla ricostruzione post-sismica”. Anche la Provincia di Isernia è territorio di elezione di appartenenti a clan camorristici (come il clan La Torre, attivo nella confinante provincia di Caserta). Infiltrazioni camorristiche sono state scoperte anche nei lavori di completamento del 2° lotto della strada Isernia Castel di Sangro-Forlì del Sannio-Rioneo Sannitico. Gli accertamenti svolti dalle Forze dell’ordine hanno rilevato la presenza sui cantieri, con mezzi e personale, di società ritenute in collegamento con alcuni soggetti gravitanti in clan camorristici. Non solo. Alcune imprese avevano tentato goffamente di aggirare la certificazione antimafia.
NEGARE, NEGARE SEMPRE NEGARE. Un antico adagio recita che anche di fronte ad un tradimento colto in flagranza la migliore strategia sia quella di negare sempre e comunque. “Cara non è come credi”. “Caro ti posso spiegare”. Questo adagio mi è tornato in mente quando il 2 luglio ho letto Il Quotidianomolise.it. L’articolo riguardava gli arresti di presunti affiliati al clan dei Casalesi. L’ultimo era quello di Andrea Letizia sul quale pendeva un provvedimento restrittivo e per questo si era trasferito a Venafro dopo il divieto di dimora in Campania e Lazio inflittogli dal Gip di Napoli per presunti delitti commessi per conto del clan Piccolo di Marcianise. Il sindaco di Venafro, Nicandro Cotugno, anziché affrontare di petto il problema dei soggiorni obbligati che – come testimoniano tutti gli esperti è un richiamo irresistibile per il trasloco fuori regione delle famiglie mafiose – racconto che gli episodi di cronaca non riguardano la città. “I fatti- dichiarò il sindaco Cotugno al giornale online - non riguardano la città di Venafro. Posso tranquillizzare i cittadini su questo punto. Venafro non ha nulla a che fare con la camorra. Il territorio è sotto controllo perché qui le forze dell’ordine fanno il loro dovere fino in fondo e di questo non possiamo non ringraziare Carabinieri, Polizia, Magistratura per un lavoro straordinario di prevenzione e di salvaguardia del nostro comprensorio da possibili infiltrazioni malavitose”. Sulla stessa lunghezza d’onda l’ex sindaco Vincenzo Cotugno che in pieno consiglio comunale ha invitato il sindaco e tutta l’assise civica ad alzare la voce e a difendere l’immagine della città e dell’intera comunità venafrana. “Prego il sindaco e tutta l’assise - ha detto tra l’altro Vincenzo Cotugno durante i lavori del consiglio comunale - ad alzare la voce a difesa dell’onorabilità della città di Venafro e di tutte le forze sane della città. A Venafro non c’è la camorra, questo deve essere chiaro a tutti e noi che abbiamo responsabilità istituzionali dobbiamo fare in modo di veicolare questo messaggio all’esterno con unità d’intenti. La nostra città è una città fatta di galantuomini ed è governata da persone per bene da sempre. Il nostro territorio è integro, sano”. La mafia, insomma, è sempre un problema del comune vicino. A domani con una nuova puntata su questa regione che, se fosse abolita, nessuno sentirebbe la mancanza (tranne parte dei molisani).
Molise di cultura e legalità scrive (di Paolo De Chiara su “Malitalia”. “Quando arrivano i soldi dei mafiosi in Lombardia, in Molise, a Duisburg, a Madrid e in qualunque parte del mondo arrivano anche i mafiosi. E questo non è solo un tema delle forze di polizia, degli apparati investigativi o della magistratura. Riguarda la trasparenza dell’economia, il sistema delle imprese, il mercato, la politica, le Istituzioni”. Con queste parole è intervenuto in Molise l’ex presidente della Commissione Antimafia Francesco Forgione e autore del libro Mafia Export. Lo stesso concetto ribadito in passato da diversi giornalisti, magistrati e operatori del settore. “In questo territorio – secondo il procuratore di Larino Nicola Magrone – la delinquenza è anche peggiore rispetto a quella siciliana. Qui in Molise quello che non va è il funzionamento della pubblica amministrazione. In Sicilia poi la delinquenza ti avverte con un omicidio. In questa terra non esiste alcun tipo d’avvertimento”. Sulla presenza delle mafie in Molise si è espressa anche il pm Rossana Venditti: “Il Molise non è un’isola felice. Lo dico ossessivamente ogni volta che mi è data la possibilità. Può essere calma e rassicurante la superficie. Sicuramente a un livello sottostante se solo vogliamo e possiamo arrivarci già riusciamo a cogliere e a intercettare dei segnali piuttosto inequivoci”. I segnali continuano ad essere registrati. Dai sequestri di beni legati alla criminalità organizzata alla presenza di soggetti vicini o parte integrante delle organizzazioni criminali, dalle denunce fino ai vari segnali di intimidazione. Ma in questa piccola Regione continua l’assordante silenzio intorno alla presenza delle mafie. E la politica, che dovrebbe intervenire, resta a guardare e a difendere “l’isola felice”, che come ha affermato Forgione “felice non è”. Secondo l’ex presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia, oggi componente dell’Antimafia: “Per troppi anni il Molise ha sottovalutato la possibilità di infiltrazioni mafiose. Le mafie sono arrivate. La ‘ndrangheta, la sacra corona unita, la cosiddetta “società foggiana” che è quella realtà pugliese che ha una sua consistenza, la camorra. Il Molise per anni ha fatto finta di non vedere, per anni ha abbassato la guardia, per anni ha tacciato di irresponsabilità, paradossalmente isolando e colpendo, quelli che indicavano il male. Non c’è stata prevenzione, non c’è stata un’organizzazione e una strutturazione per impedire e bloccare le prime presenze dell’organizzazione mafiosa, ma si è trasformata la politica in clientelismo, non per esaltare le vostre stupende potenzialità, ma per umiliarle, negarle, offenderle”. E cosa fa la politica locale, oltre a dare il cattivo esempio? Ecco una dichiarazione dell’Assessore regionale alla Programmazione Gianfranco Vitagliano: “Che senso ha citare pochi beni confiscati a qualche delinquente non regionale? Ce ne sono a iosa in tutte le regioni. […]. Il nostro è un popolo di timorati di Dio, lontano dal disprezzo delle regole e legato agli uomini della sicurezza pubblica da rispetto, affetto e riconoscenza. Se, ci si riferisce, ad episodi singolari – sui quali la magistratura sta facendo luce nell’ambito dei propri doveri – intanto, si rispetti il lavoro d’indagine, non lo si condizioni e se ne aspettino le conclusioni nel giudizio. Prima di tutto ciò non si trasformino gli indizi in colpe, non si generalizzi estendendo a tanti quello che potrebbe essere stato comportamento improvvido di alcuni e, soprattutto, non si facciano consapevolmente, alla dignità e alla storia di un popolo, danni ben maggiori rispetto a quelli che deriverebbero dagli ipotizzati comportamenti delittuosi. Questa terra ha bisogno di certezze, di speranza, di valorizzare vocazioni e peculiarità, di dare spazio ai talenti che ha, non di avvitarsi, vergognandosi, su mali che non ha”. Mentre la classe dirigente molisana, quindi, continua a mettere sotto il tappeto problemi che andrebbero affrontati con onestà, coraggio e costanza è utile seguire il ragionamento del presidente dell’Anm Molise Rossana Venditti: “In Molise il fenomeno malavitoso non ha manifestazioni eclatanti, facilmente percepibili e facilmente decifrabili. Non abbiamo, per nostra fortuna, i morti per strada e non abbiamo le saracinesche che saltano. Cominciamo ad avere situazioni più sottili che vanno decifrate, comprese, ricollegate tra di loro e indagate con professionalità. Tutto ciò implica un livello di preparazione ancora maggiore di quello che viene richiesto in realtà dove il fenomeno oramai è conosciuto, indagato. Dove ci sono sentenze passate in giudicato che dicono che esiste una certa realtà criminale così denominata, che ha quella struttura, che ha quella storia. In Molise lavoriamo ancora in una fase sperimentale, di decifrazione. Fatichiamo molto a farlo. Non esistono le capacità di capire fino in fondo cosa sta succedendo e la disponibilità ad esporsi e ad assumere un ruolo, che per definizione è un ruolo scomodo: quello di chi denuncia, quello di chi testimonia, quello di chi inizia un percorso pieno di incognite. Come magistratura molisana ci proponiamo e cerchiamo di essere disponibili, autorevoli, rassicuranti. E’ una fatica quotidiana con i nostri numeri, con i nostri mezzi e con i nostri organici”. Fondamentale è quindi parlarne. Continuare con il concetto di “cultura della legalità”. Per cambiare le coscienze, per far conoscere la realtà, quindi anche i rischi e i pericoli. “Il giorno che è uscito questo libro – ha dichiarato Forgione – il presidente del consiglio non ha trovato di meglio che dire che non bisogna più scrivere libri di mafia perché rovinano l’immagine dell’Italia. Di mafia dobbiamo parlarne, perché dobbiamo rompere questo muro di omertà sul territorio. Mi fa piacere che sia stato usato come pretesto il mio libro per aprire una riflessione in Molise, in questa isola che felice non è. Ho scritto un libro raccogliendo anche l’esperienza della Commissione Antimafia. Un libro contro l’ipocrisia. L’ipocrisia vale per il mondo. Vale per l’Australia, vale per la Germania, vale per la Lombardia e può valere anche per il Molise”. Qual è l’ipocrisia? “E’ quella che non vede le mafie fino al momento in cui le mafie non insanguinano le strade”. Ritorna il concetto che si riscontra da troppi anni in Molise. Per Forgione: “Il massimo di questa ipocrisia l’abbiamo riscontrata in questa dimensione internazionale con la strage di Duisburg. I tedeschi sapevano delle famiglie in lotta dal 1991, al punto che nel 2000 la polizia tedesca inviava un rapporto all’autorità italiane, descrivendo in modo minuzioso cosa facevano le famiglie di San Luca. Poi il problema era degli italiani. Riscoprono la ‘ndrangheta quando la notte di ferragosto del 2007 trovano per la prima volta sei corpi uccisi davanti al ristorante. L’altra faccia di questa ipocrisia qual è? Che puoi prendere, in qualunque parte dell’Italia e del Mondo, i soldi dei mafiosi con la presunzione che quando arrivano i soldi sporchi non arrivano anche i mafiosi. Quando abbiamo un fatturato criminale annuo che oscilla tra i 100 e i 150miliardi il problema non è più del rapporto tra l’economia legale e l’economia illegale. Il problema che abbiamo, che dovrebbe essere l’assillo di ogni governo e delle classi dirigenti, è tracciare la linea di confine tra economia legale ed economia illegale. La globalizzazione ha favorito la dispersione di questa traccia, di questo confine netto”. Per l’ex presidente della Commissione Antimafia: “La ricostruzione di un’etica pubblica del nostro Paese deve riguardare la politica, ma deve riguardare anche il mondo economico, deve riguardare le categorie professionali, deve riguardare la chiesa troppo silente in alcune aree del territorio. Deve riguardare tutti. Noi abbiamo il dovere di partire ognuno dal proprio ruolo se vogliamo far superare l’esclusività della dimensione penale e giudiziaria nella lotta alla mafia”. Ma come si riconoscono le mafie? “Guardate cosa avviene sul territorio, guardate quante aree agricole stanno diventando commerciali, guardate le varianti ai piani di fabbricazione, guardate alle deroghe alle normative urbanistiche esistenti e cosa avviene in deroga, guardate quanti progetti vengono realizzati con il silenzio-assenso. E cominciate a capire cosa sono le mafie. Diciamoci la verità: in nome dello snellimento nelle procedure sono stati abbattuti tutti gli strumenti di controllo in questo Paese. I fondi europei – continua Forgione – vengono gestiti tutti con l’autocertificazione. È chiaro che tutti i procedimenti sono regolari. In Italia c’è l’anagrafe dei conti correnti bancari, stabilita con legge del 2001. Il decreto attuativo della legge viene fatto a febbraio del 2008. Quanti governi sono passati e perché non è stato fatto? Perché questo santuario del mercato è intoccabile. Bisogna fare un patto con gli imprenditori su questi temi. Il sistema dei subappalti con il massimo ribasso è un sistema criminogeno”. Quale deve essere l’impegno dell’antimafia? “La nostra antimafia deve ripartire da una rilettura del territorio, dei processi di modernizzazione. Oggi le mafie sono soggetti dinamici, imprenditoriali. Sono delle grandi holding economico finanziarie. La ricostruzione di un’etica pubblica passa attraverso la ricostruzione di un meccanismo di trasparenza dei comportamenti individuali e collettivi. Se facciamo questo la lotta alla mafia cambia di significato”. Ma qual è la situazione drammatica che dobbiamo affrontare? “Siamo un Paese che ha garantito la latitanza di Bernardo Provenzano per 40anni. Non esiste una latitanza che può durare tutti questi anni senza un sistema di coperture istituzionali, politiche e sociali. Non a caso che per quella latitanza ci sono vertici dei Ros che devono rispondere anche di fronte alla giustizia. Quando si arresta un latitante, quando si aggredisce la dimensione criminale militare delle mafie è sempre un bene. Ma se da un lato aggrediamo questa dimensione, riconquistiamo fette di territorio e dell’altra, però, garantiamo alla dimensione economico finanziaria di potersi espandere e di inquinare settori interi della nostra economia, anche attraverso processi legislativi che ne favoriscono l’espansione, la lotta alla mafia non la facciamo. Questa è la questione drammatica che noi oggi abbiamo di fronte”.
IL MOLISE E LA POLITICA.
La Rai blocca inchiesta sul Molise di News24. “Maxi spese per micro regione” doveva essere questo il titolo dell’inchiesta realizzata da Rainews24 dedicata alla Regione Molise, ma ieri sera viale Mazzini ha bloccato la messa in onda, proteste del CdR e dellUsigrai. Alle 20.40 doveva partire un reportage dedicato alle spese e gli sprechi abnormi della più piccola delle regioni italiane a statuto ordinario e invece una telefonata della Direzione generale ha fermato tutto. Si trattava del primo di tre reportage dedicati alle regioni dove si vota in contemporanea alle politiche, dopo il Molise ci sarebbe stata la Lombardia e la Sicilia. Il governatore Michele Iorio aveva tuonato allo scandalo nella giornata di ieri, con anticipo rispetto alla messa in onda. Le sue parole devono aver avuto effetto al punto da bloccare la programmazione in nome della par condicio. Motivazione singolare in quanto, a detta del CdR, l’inchiesta dava ampio diritto di replica allo stesso governatore, sei minuti su venti complessivi del servizio. Poco dopo è giunta anche la protesta del sindacato dei giornalisti, l’Usigrai, che ha definito “gravissimo” il blocco del servizio soprattutto perché si trattava di un inchiesta documentata sui fatti. I giornalisti del servizio pubblico ritenevano comunque inaccettabile la censura preventiva non trattandosi di uno spazio di comunicazione politica. Non è la prima volta che inchieste televisive si occupano della “micro regione” del Molise. Report, La7, Corriere della Sera e altri hanno affondato telecamere e taccuini soprattutto sugli sperperi della ricostruzione post terremoto, su cui è in corso un procedimento giudiziario. Puntualmente il governatore uscente che si ricandida per il quarto mandato consecutivo ha protestato con energia. Questa, tuttavia, è la prima volta – a quanto si sa pubblicamente – che si blocca un reportage ancora prima di andare in onda. In Molise accadono tante cose che spesso sfuggono alla grande stampa. Bisogna tenere aperta una finestra di informazione, parlarne fa sempre bene.
Il Regno del Molise. Il Regno è ancora di Re Michele Iorio, scrive Alessandro Corroppoli su “Malitalia”. Il Molise è una regione che raramente balza agli onori della cronaca nazionale, nel senso più ampio del termine. Anzi quasi mai ci capita, venendo da sempre accreditata come un’isola felice. Ma negli ultimi dodici mesi si è abbattuto su questa tranquilla e silenziosa terra un ciclone: Vinicio D’Ambrosio. Con il suo libro “Il Regno del Molise. Sprechi, scandali e inchieste giudiziarie nell’Isola felice governata da Michele Iorio”, giunto alla quarta edizione, ha in qualche modo interrotto il sonno e i sogni di tanti cittadini/elettori che da troppo tempo hanno delegato il proprio futuro ad amministratori regionali che hanno fatto della mala politica e della mala amministrazione la propria bandiera. Lo abbiamo intervistato per parlare dell’ultima manovra finanziaria della Regione, della sanità, della magistratura molisana, ma anche di come ci si senta a vivere per un anno sotto i riflettori della critica.
D’Ambrosio, in meno di un anno siamo giunti alla quarta edizione del suo libro “Il Regno del Molise”. Come si sente a vivere sotto i riflettori? Ci fa un primo bilancio
«Un bilancio sicuramente positivo, più che lusinghiero per quanto mi riguarda, dato che il libro è stato recensito a livello nazionale su quotidiani come Repubblica, l’Unità, Liberal e su periodici come la Voce delle Voci. Ho avuto modo di presentarlo in diversi comuni della regione, mentre a metà settembre sarò a Potenza su invito dell’associazione culturale Decander. La cosa curiosa è che in Molise, all’infuori di alcune eccezioni, da parte dei media non ci sono state recensioni, analisi, critiche rispetto al contenuto del libro. Questo perché c’è un controllo quasi assoluto degli organi di informazione da parte di Michele Iorio. In buona sostanza, non parlandone si è cercato di svilire la portata del mio lavoro. C’è stato poi anche qualche tentativo di attacco sul piano personale di cui i responsabili risponderanno in sede giudiziaria.»
A distanza di un anno Lei ritiene che il suo libro sia ancora attuale oppure pensa che abbia bisogno di qualche aggiornamento?
«Il contenuto del mio libro è decisamente attuale. La conferma viene dalla stessa amministrazione regionale, che ha appena messo in campo delle misure di razionalizzazione della spesa per ridurre, seppure parzialmente, gli sprechi perpetrati in questi anni. Sprechi e veri e propri scandali troppo spesso sottovalutati, che io ho descritto nel libro con chiarezza e precisione. Chi l’ha letto si rende conto che buona parte della manovra riguarda proprio il taglio degli sprechi che ho denunciato con documenti e circostanze materiali.»
Possiamo dire che è stato anticipatore e, forse, senza esagerare, buon profeta delle conseguenze del mal costume dei nostri amministratori?
«Ho solo fatto un lavoro di ricerca e di elaborazione di atti, documenti ufficiali, dati numerici, indagini giudiziarie, evidenziando cosa, a mio giudizio, non andava. In Molise c’è un sistema clientelare diffuso, esaltato dalla ristrettezza demografica della regione. Oggi “lor signori” si vedono costretti a tagliare parte delle spese improduttive finalizzate solo ad acquisire consenso. Veri e propri sprechi che riguardano il costo della politica, le consulenze, i contratti di collaborazione, gli apparati politici e amministrativi, il numero dei dirigenti, la soppressione delle commissioni consiliari speciali. Quest’ultime, assolutamente inutili e istituite per accontentare, con personale, indennità e prebende, i consiglieri regionali di maggioranza rimasti senza incarico. Possibile, tanto per fare un esempio, che ci sia ancora una commissione sull’influenza suina? Sappiamo tutti come è finita, a livello nazionale, la storia della “bufala” dell’influenza A, con centinaia di milioni di euro spesi per un vaccino rimasto inutilizzato. Figurarsi i consiglieri della nostra regione che discettano di aviaria! Non si è a conoscenza di un solo documento prodotto dalla commissione in tanti mesi.»
Come giudica, quindi, la manovra economica finanziaria varata dalla Regione: tagli veri o ingannevoli?
«Intanto bisogna dire che Michele Iorio, dopo essersi beccato del “cialtrone” al pari di altri amministratori meridionali da parte del ministro dell’economia Tremonti, in presenza di una forte riduzione dei trasferimenti statali non poteva non avviare una manovra correttiva. Tagli che non possono incidere in profondità per due ordini di fattori: 1) non sono dovuti ad un’impostazione di sana e corretta gestione nell’interesse della collettività ma esclusivamente al taglio dei trasferimenti da parte del governo centrale; 2) Iorio deve comunque preservare le sue modalità di gestione clientelare dato che il prossimo anno ci saranno le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale. Inoltre bisogna aggiungere che c’è stato un ritardo inspiegabile nella pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione della relativa legge.»
Perché questo ritardo?
«L’interpretazione più ovvia è quella che il ritardo abbia consentito al presidente, agli assessori, ai consiglieri di continuare a percepire per l’intero mese di agosto i soliti compensi e prebende. C’è qualche spunto da approfondire contenuto in questa manovra? Va approfondita l’ammissione, contenuta nel provvedimento, del fatto che la società per l’informatica, la Molise Dati Spa, non sia una società in house della Regione. Nelle misure per il contenimento della spesa pubblica è previsto che la Giunta regionale possa procedere all’acquisizione “per completarne la configurazione di società in house providing” della totalità delle quote dai privati oppure di cedere a terzi la sua partecipazione in toto. Ora, se la società non è mai stata in house sono, di conseguenza, ipotizzabili possibili profili di responsabilità degli amministratori e l’annullabilità delle assunzioni, forniture, servizi, appalti posti in essere in tutti questi anni per decine, o meglio, centinaia di milioni di euro? A chi di dovere la risposta.»
Questa sua ultima riflessione costituisce un monito per la magistratura molisana. Anche essa è forse dormiente?
«Nel libro ho scritto che, a volte, si ha l’impressione che talune Procure e magistrature voltino le spalle per non guardare. Eppure la questione morale riguarda tutti i cittadini, anche i magistrati. E invece, in un’apparente, tranquillità, sembra che tutto proceda per il meglio. Chi osa chiedere se sia possibile che non esistano controlli, che non si facciano verifiche di fronte all’utilizzo dei fondi pubblici, che non si sappia quante decine di milioni di euro costano annualmente gli enti sub-regionali, viene visto come un fastidioso rompiscatole. Oggi si ha come la sensazione di una strategia di Iorio per coprirsi le spalle con la nomina di grossi, ma anche meno grossi, calibri a livello giudiziario e di organi inquirenti, a partire dal caso eclatante della nomina di Nicola Passarelli, ex presidente della Corte d’Appello di Campobasso, come assessore esterno alla Sanità, per finire alla nomina contemporanea dell’ex procuratore capo della Corte dei conti del Molise, Giuseppe Grasso, e di un generale della Guardia di Finanza in una commissione di gara. Ma ci sono tanti altri esempi. Sanità: deficit altissimo, Regione commissariata, molte critiche, tante proteste, fiumi di parole. Non sto qui a ricordare gli errori e i favoritismi nella gestione della sanità regionale. Ricordo solo l’istituzione di un reparto di neurofisiopatologia presso l’ospedale di Isernia, diretta dal fratello di Michele Iorio, Nicola. È un caso unico in Italia, e probabilmente al mondo. Perché non esiste in alcun ospedale una unità di neurofisiopatologia senza che sia connessa a un reparto di neurologia, di cui è una branca, o di neurochirurgia. L’ospedale di Isernia non ha né neurologia né neurochirurgia. Infine: nel momento in cui si va verso la riduzione drastica dei fondi e il taglio dei posti letto nei nosocomi regionali, e inoltre si parla sempre più spesso della soppressione degli ospedali di Venafro, Agnone e Larino, cosa ti fa l’Azienda sanitaria regionale? Un avviso, nel quale si spiega che per la realizzazione dei progetti di ricerca scientifica – un inciso, sfido a trovare qualcuno che abbia mai sentito parlare di ricerca scientifica da parte dell’Asrem – intende procedere alla costituzione di una “long list”. Espressione per dire che vuole avere un elenco di consulenti esterni a cui conferire incarichi di collaborazione. Da una parte si tagliano i posti letto e dall’altra parte si pensa ancora di procedere all’assunzione di consulenti.»
Per chiudere. È vero che Iorio ha l’abitudine di tenere per sé documenti e atti che pure dovrebbe mettere a disposizione di ministeri superiori e organi inquirenti?
«Diciamo che c’è questa cattiva abitudine del presidente Iorio di non fornire, e non solo alla pubblica opinione, documenti, informazioni, chiarimenti. Ad esempio il 19 maggio 2010 si è saputo che Iorio non ha mai trasmesso ai ministeri dell’Economia e della Salute una delibera di Giunta regionale del giugno 2008 comportante oneri di spesa per decine di milioni di euro. Poi, per ben tre volte, in tre anni, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Molise ha chiesto, con distinte deliberazioni, informazioni ed elementi conoscitivi alla Giunta regionale sui derivati finanziari contratti dall’ente per ben 258 milioni di euro. È stata anche interessata la procura della stessa Corte. Inutilmente. Il comportamento omissivo della Regione persiste. E il bello, si fa per dire, è che ciò non viene sanzionato e non vengono presi ulteriori provvedimenti e avviati accertamenti.»
Sulle inesattezze de «Il Regno del Molise» il governatore Iorio scrive a la Repubblica. Un «corpo a corpo» fatto di accuse, sottolineature e precisazioni, veleni vecchi e nuovi che certamente non ingentiliscono la sensibilità dell'opinione pubblica presa in mezzo ad un tiro al bersaglio dove i sibili dei colpi sono diventati acuti e sottili ma assordanti, scrive “Il Tempo”. Tutto è partito dalla pubblicazione del libro «Il Regno del Molise» dove l'autore Vinicio D'Ambrosio riconduce al presidente della Giunta una serie di accuse e quindi di riferimenti prontamente contestati e respinti da Iorio in più di un'occasione e da qui l'origine di uno scontro a distanza dove entrambi ribattono colpo su colpo accuse insinuazioni e fatti comunque riportati o dichiarati. Poi la chiamata in causa del giornale «Repubblica» attraverso alcuni interventi apparsi negli ultimi giorni, come afferma il Governatore Iorio, di Mario Pirani. Quest'ultimo, infatti, trattando la recensione del libro di D'Ambrosio, in due puntate si è soffermato su critiche e osservazioni addebitate al governo Iorio. Una posizione che quest'ultimo non ha sopportato in alcun modo, come afferma in una lettera inviata allo stesso Pirani, contestando e puntualizzando su alcune precise situazioni ed esponendone altre al contrario. Prendendo spunto, infatti, da una definizione attribuita all'autore del libro, lo stesso Iorio sottolinea un elenco di episodi e di provvedimenti con tanto di riferimenti date e cifre la cui destinazione, da quanto scrive Iorio, rimane il direttore di Concooperative. Lo stesso presidente della Giunta del Molise ribadendo che i fatti raccontati sono scritti in «documenti più immediatamente a portata di mano dei miei collaboratori», invita il giornalista di Repubblica a valutare meglio il quadro della situazione alimentata anche da altri luoghi giornalistici. Sulla sua condotta politica come ha fatto ieri l'altro in aula a palazzo Moffa, Iorio ribadisce la sua assoluta equa e trasparente linea amministrativa sottolineando ancora una volta che «non esiste traccia di una qualsiasi indagine che riguardi la corruzione o che sia anche solo vagamente riconducibile a una qualche Tangentopoli da lei (ndr.rivolgendosiall'articolista) troppo sbrigativamente richiamata nell'introduzione del suo articolo».
La stampa nazionale torna ad occuparsi del Molise, scrive “Tv Molise”. Il Fatto quotidiano punta il dito contro liste sbagliate e candidati eccellenti indagati in molteplici processi. Per il presidente Iorio l’elenco dei processi dov’è imputato. Non è la prima volta che la nostra piccola regione finisce sulla stampa nazionale, ma le vicine elezioni regionali hanno fornito un nuovo spunto per parlare e far parlare del Molise. Ancora una volta è Il Fatto Quotidiano ad occuparsi dei panni sporchi di casa nostra, con un articolo firmato dal giornalista Gabriele Paglino sulla corsa per un posto a Palazzo Moffa. Sulle colonne de Il Fatto Quotidiano finiscono i problemi giudiziari di diversi candidati impegnati in questa campagna elettorale 2013. In primis del Governatore uscente, Michele Iorio, il cui curriculum – si legge nell’articolo – pare la trasposizione, a livello regionale, di quello del leader nazionale del Pdl. Il giornalista parte dal recente decadimento di Iorio, sancito dal Tar e confermato dal Consiglio di Stato, per poi passare in rassegna tutti i procedimenti nel quale l’aspirante presidente del centrodestra è coinvolto. Inchieste di spessore come quella sulla vendita di parte delle quote dello Zuccherificio, nella quale è indagato per abuso d’ufficio e falso in bilancio; quella sull’acquisto della nave Termoli Jet, con accuse di truffa, abuso d’ufficio e falso; ancora, uno dei filoni dell’inchiesta Open Gates, sullo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi nei campi del Basso Molise, fino ad arrivare all’accusa di abuso d’ufficio nell’inchiesta sullo scandalo della sanità regionale denominata Black Hole. Inoltre – continua l’articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano – sulle spalle del governatore uscente pesa anche una richiesta di rinvio a giudizio per aver gonfiato il numero dei paesi colpiti dal terremoto del 2002. Mentre il rinvio a giudizio è arrivato nell’ambito dell’inchiesta sulla contabilità dell’istituto di musica Imam. Michele Iorio, candidato per la quarta volta alla guida della Regione Molise, annovera infine – scrive Paglino – una condanna in primo grado, ad un anno e sei mesi, per abuso d’ufficio per aver favorito la Bain&Co, multinazionale nella quale lavorava il figlio. Ma l’approfondimento giudiziario de Il Fatto Quotidiano si allarga anche ai fedelissimi del Governatore uscente, come gli assessori Chieffo e Velardi, anche loro coinvolti nell’affaire Termoli Jet. Nonché a diversi candidati nelle liste a sostegno di Iorio, tra i quali compaiono i nomi dell’ex sindaco di Termoli, Alberto Montano, indagato in passato per abuso d’ufficio, accusa poi decaduta, e Vincenzo Ferrazzano, Udc, rinviato a giudizio per truffa, lottizzazione abusiva e abuso d’ufficio e coinvolto nell’inchiesta Black Hole.
Repubblica.it e Il Giornale tornano a parlare del Molise. Questa volta del Pd e del caso Greco, scrive “Prima Pagina Molise”.
Il Giornale.it: Rissa e processo sovietico, l'ennesima faida Pd. Se a livello centrale il Pd è allo sbando, a quello periferico è già capottato. Si prenda il Molise dove il partito, non da ieri, è lacerato da una vera e propria faida intestina. E a Termoli, martedì scorso, è andato in scena uno show tragicomico. Nella sezione cittadina allestita nel centro commerciale «Lo Scrigno» si sono visti interrogatori stile Pcus, insulti e risse. Una bagarre in piena regola terminata, come si conviene, con l'intervento dei carabinieri. Tutto inizia alle 20 quando, nell'ultima ora utile per aderire al partito di Franceschini, si presentano il sindaco di Termoli, Vincenzo Greco, e due consiglieri ex Udeur, Antonio Giuditta e Gabriele Petrella. Il primo, importante esponente del centrosinistra, tuttavia non ha mai avuto alcuna tessera in tasca. Gli altri hanno detto addio a Mastella, reo di essersi spostato a destra. Il gruppetto piomba davanti ai vertici locali del Pd, guidati da Antonella Occhionero, e parte l'insolito esame. Test curioso, visto che nella giunta e nella maggioranza che regge Greco sono presenti diversi esponenti piddini. Il colloquio si trasforma presto in un interrogatorio e la tensione sale alle stelle. Lì dentro c'è chi la tessera non gliela vuole proprio dare e partono gli insulti: «Sputi nel piatto dove mangi», gli rinfaccia qualcuno che lo accusa di simpatizzare per l'Idv. Il sindaco ribatte colpo su colpo ma poi crolla, cede, si alza e se ne va indignato. Accanto a lui un assessore che, più che basito, straccia persino la tessera appena sottoscritta. Il sindaco, amareggiato, si sente un po' Beppe Grillo e non risponde più al telefonino che squilla invano dopo che, presumibilmente, dall'alto è arrivato il nulla osta all'iscrizione. Forse qualcuno si è reso conto che il niet è stato un passo falso. In sezione la bagarre continua fino all'arrivo dei carabinieri ai quali gli ex udeurrini fanno verbalizzare il divieto al tesseramento. Una bella bega per il povero Franceschini, dopo quella recente dell'affaire D'Ascanio. Pochi giorni fa, infatti, il commissario regionale del Pd, il deputato Giampiero Bocci, ha espulso dal partito otto persone. Mica pedine insignificanti: cacciati il presidente della provincia di Campobasso, Nicola D'Ascanio, l'assessore Pierpaolo Nagni, un po' di consiglieri provinciali e l'ex capogruppo Pd al comune di Campobasso, Lello Bucci. La loro colpa, secondo Bocci, l'aver appoggiato una lista che alle ultime comunali era in contrapposizione alla lista ufficiale. Piccata la replica degli epurati: «Il Pd molisano s'è trasformato in un comitato elettorale che serve solo a curare gli interessi di pochi impoverendo il partito che in pochi mesi ha perso due terzi dei consensi che aveva in Molise». E in effetti lì il partito rischia l'estinzione, surclassato dal Pdl e cannibalizzato da Di Pietro. Alle europee Franceschini ha raggranellato un misero 12% contro il 28% dell'Idv e il 41,8% del Pdl. Alle politiche del 2008 prese il 18% e nel 2006, come Ulivo, il 29,7%. Insomma una débâcle. Di chi la colpa? In molti puntano il dito contro Roberto Ruta, ex deputato margheritino, amico di Bocci, sostenitore di Franceschini, eterno pupillo di Beppe Fioroni e vero dittatore-padrone del partito. Ma la resa dei conti in Molise continuerà anche dopo il congresso di ottobre. In vista due date: tra due anni si vota per le regionali e pochi mesi prima è prevista anche l'elezione del nuovo presidente della provincia di Campobasso. Chi prende in mano oggi il partito laggiù gestirà candidature e alleanze.
Repubblica.it: Termoli, niente Pd per il sindaco Tra i 'giudici', assessori cacciati. Una commissione molto vivace per negargli la tessera. C'è stato persino l'intervento finale dei carabinieri. Il sindaco è stato esaminato, valutato col massimo rigore e infine bocciato. Tessera del Partito democratico rifiutata a Vincenzo Greco, primo cittadino di Termoli. La bocciatura, ma prima ancora la convocazione all'esame, un lungo tavolo, di qua lui e di là i dirigenti del partito, e l'avvertenza "comunque la sua iscrizione sarà con riserva", cambia il corso della cronaca che fino a qualche mese fa aveva raccontato la conquista delle adesioni alle diverse mozioni congressuali. Pacchetti di tessere spostati o comprati, allusioni e veleni, traghettamenti operosi e notturni, innalzamento del numero delle adesioni (circa ottocentomila) avvenuto in zona Cesarini, sono temi e testimonianze che non tengono conto che l'Italia è lunga e varia anche il volto del Pd piuttosto cangiante. Se dunque le cronache campane e laziali hanno dovuto occuparsi di alcune tumultuose e improvvise esplosioni di militanza di massa, gli abitanti della piccola città molisana sull'Adriatico hanno letto della severità alla quale il sindaco ha dovuto fare i conti. Al dottor Greco è capitato, purtroppo, che nella commissione esaminatrice - presieduta, secondo i resoconti giornalistici, dalla signora Antonella Occhionero - figurassero ex assessori proprio da lui rimossi. Chiaramente sono stati subito guai. L'interrogazione (o interrogatorio, ma sono punti di vista) è iniziata subito a farsi dura. Le domande sono fioccate e quel foglio di adesione è stato lasciato in un cassetto. Prima rispondi e poi vediamo. Non si è capito se il sindaco abbia replicato, e come. Si è solo saputo che a un certo punto si è arreso: "Rinuncio all'iscrizione". Però i toni evidentemente già concitati, hanno obbligato i carabinieri a bussare alla porta della sezione per limitare i danni e decretare concluso sia il confronto che la campagna di tesseramento.
PARENTOPOLI. IL MOLISE ED I PARENTI: UNIVERSITA’, POLITICA, MAGISTRATURA.
L’UNIVERSITA’ DEI PARENTI. L'università dei parenti, scrive Riccardo Bocca su “L’Espresso”. Una valanga di mogli, zii e cognati che affollano gli uffici. E una ragnatela di contratti esterni per i prof amici. Indagine sul singolare ateneo del Molise. Parenti, parenti e ancora parenti. Tutti insieme appassionatamente negli uffici dell'Unimol, l'università del Molise fondata nel 1982. Alla sede centrale di Campobasso, per dire, il direttore amministrativo vicario si chiama Valerio Barbieri ed è sposato con Maria Teresa De Blasis, responsabile della segreteria di presidenza a Legge. La quale, a sua volta, ha il fratello Salvatore al settore sicurezza e prevenzione. Intanto il cugino di Barbieri, Ottavio Cirnelli, è segretario amministrativo al dipartimento di Scienze economiche gestionali e sociali, mentre la moglie Silvana Rubbo si trova al settore previdenza. Ed è appena l'inizio. Gaetano Campidoglio, capo segreteria tecnica del coordinamento al rettorato, ha il figlio Andrea al settore servizi informatici, mentre il cognato Giuseppe Centillo lavora all'ufficio amministrativo del centro Unimol management. Giovanni Lanza, responsabile dei servizi tecnici, ha per consorte Cinzia Dardone alla segreteria studenti. Dopodiché, per chiudere alla grande, ecco riunita all'Unimol la famiglia di Fiore Carpenito: lui al settore del diritto allo studio, la moglie Maria Di Camillo alla segreteria di Agraria, il figlio Felicino alla biblioteca di Isernia, e la nipote Assunta Di Camillo alla segreteria studenti. Doveroso, visto l'elenco, è chiedere al rettore Giovanni Cannata come sia cresciuto questo reticolo familiare. E la risposta è tra il seccato e il romantico: "Tutto ciò non mi stupisce e non mi turba", spiega, "molte persone lavorano insieme, hanno l'opportunità di conoscersi, e quindi stabiliscono relazioni...". No problem, in altre parole. "Niente è avvenuto fuori dalle norme", assicura Cannata; e poi "i fondamentali di quest'ateneo sono solidi", aggiunge. Il che sarà certamente vero, commentano al ministero dell'Istruzione, ma resta il dato che Unimol è soltanto "al quarantacinquesimo posto tra gli atenei virtuosi catalogati dall'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e ricerca)". Di più: la "Grande guida all'università 2010-2011" del quotidiano "la Repubblica", riserva a Unimol il nono posto sui nove atenei italiani che hanno meno di 10 mila iscritti. Per non parlare dell'analisi pubblicata a luglio 2009 dal "Sole 24 ore", secondo cui il 16,5 per cento degli allievi Unimol "non ottiene crediti in un anno", mentre un migliorabile 14,5 si laurea nei tempi previsti. "L'università più pazza del mondo", l'ha ribattezzata esagerando qualche studente. Ma anche il senatore Giuseppe Astore, oggi gruppo misto ed ex Italia dei valori, ha le sue perplessità: "Cannata è in carica dal 1995, sta svolgendo il sesto mandato, e ha indetto di colpo le ultime elezioni a rettore il 18 marzo 2010, mentre in Parlamento si discuteva la riforma Gelmini con il limite di due mandati proprio per i rettori". Il 6 maggio successivo, Astore ha segnalato il fatto in un'interpellanza parlamentare, citando "l'inopportunità di indire elezioni improvvise in vista di disposizioni che, qualora approvate" avrebbero rinnovato "radicalmente l'assetto di governo delle università". Ma nessuno gli ha ancora risposto. "Come nessuno", rilancia, "vuole toccare un altro punto dolente dell'Unimol: la proliferazione delle docenze esterne". Una voce, quella dei professori a contratto, che nel 2007 è costata all'ateneo 1 milione 258 mila euro, nel 2008 967 mila euro e nel 2009 altri 848 mila. "Fenomeno fisiologico", lo considera Cannata, "frutto anche del blocco delle assunzioni". E ha ragione, in questo senso. Ma c'è un altro aspetto da considerare, già individuato nel 2007 dall'ordinario all'Unimol di Chimica fisica Andrea Ceglie: "Prendere a prestito docenti dall'esterno, dalle professioni, dalle arti e mestieri per attivare nuovi corsi, snatura l'insegnamento universitario", scriveva candidandosi (senza successo) a rettore. E soprattutto, "condanna l'istituzione a un declassamento inevitabile". Frasi profetiche, secondo la Flc-Cgil: "Nel tempo", racconta il sindacalista Paolo De Socio, "si è creata all'Università del Molise una ragnatela di contratti esterni che spazia dalla politica al giornalismo, dalla magistratura alla medicina". Spiccano, tra i tanti nomi, quelli di Nicola D'Angelo e Giovanna Rosa Immacolata Di Petti, magistrati a Campobasso. C'è Rossana Iesulauro, presidente facente funzioni della Corte d'appello locale. Si trova, in questa lista disponibile sul sito Unimol, Giorgio Giaccardi, presidente del Tar molisano. E con lui vantano docenze esterne Antonio Di Brino, sindaco Pdl di Termoli, il direttore di Telemolise Manuela Petescia (moglie del senatore Pdl Ulisse Di Giacomo), i giornalisti Rai Pasquale Rotunno e Mario Prignano, la dirigente dei rapporti istituzionali per la regione Molise Alberta De Lisio (sposata con Carlo Alberti Manfredi Selvaggi, capo dipartimento per gli Affari regionali alla presidenza del Consiglio dei ministri, anch'egli docente esterno). Senza dimenticare Marco Tagliaferri, che oltre a essere un medico ha contribuito alla realizzazione di Progetto Molise: "Una lista vicina al governatore Michele Iorio, cioè allo sponsor storico del rettore Cannata", sottolinea Vinicio D'Ambrosio, autore del best seller regionale "Il regno del Molise". Perplessi, gli studenti dell'Unimol chiedono "una gestione più condivisa e democratica dell'ateneo". E della stessa opinione è il professor Ceglie, il quale boccia anche la composizione del Senato accademico, "esteso ai soli direttori di dipartimento e presidi di facoltà, senza rappresentanza elettiva di professori associati o ricercatori, e tantomeno degli studenti e del personale tecnico amministrativo". Una struttura, spiega De Socio di Flc-Cgil, "che la scorsa estate ha approvato, senza un vero dibattito, il progetto della Federazione pugliese-molisano-lucana". Ottima idea, il matrimonio dell'Unimol con il politecnico di Bari e l'ateneo del Salento, ma ancora da monitorare sui tempi operativi. Lo stesso Cannata parla di "un percorso di avvicinamento". Anzi, di "un cantiere aperto". Insomma: "Non è come una frittata, che si sbatte l'uovo e si mette in padella...". Ecco perché, "sperando di recuperare qualche posizione nella classifica Anvur", molti suoi colleghi incrociano le dita.
PARENTOPOLI. LA DINASTIA IORIO OCCUPO’ ISERNIA.
Sotto accusa il presidente del Molise: "Parentopoli nella sanità", mentre il deficit sanitario regionale ha raggiunto in otto anni 600 milioni di euro, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. All'ospedale "il Veneziale" di Isernia non c'è vento di crisi. Mentre sulla gran parte dei nosocomi della regione si abbattono tagli e ridimensionamenti (con tanto di rivolte cittadine), per porre un argine al deficit sanitario arrivato a 600 milioni di euro in otto anni, al Veneziale no. Qui accade tutt'altro. Infatti, in questo ospedale la Regione Molise ha deciso di investire altro denaro, attivando una nuova unità operativa (una "stroke unit") che costerà alle esangui casse regionali più di un milione di euro. Un finanziamento indirizzato al reparto di neurofisiopatologia, diretto dal primario Nicola Iorio, fratello del governatore. Fondi che saranno gestiti dalla direttrice del distretto sanitario regionale di Isernia, Rosa Iorio, sorella del governatore. Ma i due Iorio citati non sono gli unici parenti di Michele, presidente della Regione, che lavorano al Veneziale. L'elenco, in verità, è lungo ed anche al centro di interrogazioni in consiglio regionale: il cognato Sergio Tartaglione (marito di Rosetta Iorio) è il primario del reparto di psichiatria e presidente dell'ordine dei medici di Isernia; il figlio del governatore, Luca Iorio, nell'ospedale lavora in qualità di medico chirurgo; il cugino del presidente, Vincenzo Bizzarro, attuale consigliere regionale di Forza Italia, è stato direttore del distretto sanitario di Isernia, ed una volta in pensione ha lasciato il posto alla cugina Rosa (nominata tra le polemiche in virtù della sua laurea in giurisprudenza). L'elenco prosegue: la moglie del cugino del governatore, Luciana De Cola, ricopre, al Veneziale, il ruolo di vice direttrice sanitaria. Il primario del reparto di Cardiologia è Ulisse Di Giacomo, senatore di Forza Italia e coordinatore regionale del partito di Berlusconi. Anche lui al Veneziale ha un parente nel suo stesso staff medico. Lavora a Isernia, ma in un centro medico privato (Hyppocrates), convenzionato anche con la Regione, Raffaele Iorio (figlio del governatore) in qualità di direttore medico. La parentopoli ha dato anche problemi giudiziari a Michele Iorio: a causa dell'assunzione del terzo figlio, Davide Iorio, presso una multinazionale estera che ha lavorato per la Regione Molise, il governatore è stato indagato dalla procura di Campobasso per corruzione. I magistrati ipotizzano una correlazione tra il contratto di lavoro del giovane e le consulenze affidate dall'ente alla società. Ma i parenti di Iorio lavorano anche negli uffici della Regione. Infatti un'altra cugina di Iorio, Giovanna Bizzarro, ricopre il ruolo di funzionaria, mentre il fratello della moglie del presidente, Paolo Carnevale, risulta direttore della società pubblica Arpa (Azienda regionale per la protezione ambientale) di Isernia. Dai parenti poi si passa ai colleghi di area politica. Gianfranca Testa, candidata alle elezioni comunali di Isernia con la lista civica (voluta da Michele Iorio) "Progetto Molise", è stata da poche settimane nominata direttrice del distretto sanitario di Venafro. Le connessioni coinvolgono anche lo staff del governatore. Il figlio del suo portavoce, Giuseppe Scarlatelli, è stato assunto negli uffici del distretto sanitario di Termoli con l'incarico di "correttore di bozze" del giornalino dell'ente. La fitta ragnatela è contenuta in un dossier prodotto dal consigliere regionale del Pd Michele Petraroia, che racconta: "L'ultimo episodio è sintomatico. Anche la figlia di uno degli autisti del governatore è entrata a lavorare per un ente regionale. Senza concorso, per chiamata diretta...".
MOLISE E LA PARENTOPOLI.
Compagne e cognati, vecchie parentopoli nel "nuovo" Molise. La Regione e le società del governatore: intreccio di interessi privati, relazioni politiche, parentele e coincidenze, scrive Sergio Rizzo si “Il Corriere della Sera”. «Che cosa vi ha uniti?», le chiede www.primapaginamolise.it. E lei, risoluta: «Una fortissima sintonia di pensiero». Senza sintonia con il governatore Paolo Di Laura Frattura, uomo che dovrebbe incarnare il rinnovamento dopo 12 anni di regno di Michele Iorio, l'ingegner Mariolga Mogavero non sarebbe certo arrivata fin qui. Ovvero, nella stanza dei bottoni della piccola Regione Molise, capo di gabinetto e segretario generale della nuova giunta di centrosinistra. Così da attirarsi le invidiose attenzioni di chi l'ha già acidamente battezzata «la governatrice». Mariolga, però, è qualcosa di più. Tanto che per dipanare l'incredibile intreccio di interessi privati, relazioni politiche, parentele e coincidenze che si addensa intorno alla figura del governatore, non si può che cominciare da lei, sua factotum. E da una società di consulenza, la Gap consulting di Campobasso, di cui l'ingegner Mogavero ha il 50%. Non è una società qualunque: si è candidata a fare un impianto a biomasse, per cui ha presentato apposita richiesta alla Regione. Ma nemmeno la titolare del restante 50% è una persona qualsiasi. Si tratta infatti della compagna del futuro governatore, Gilda Maria Antonelli. Il 10 marzo del 2011 entrambe le signore escono di scena vendendo ai mariti. La quota di Mariolga Mogavero finisce alla società (Civitas) del suo consorte Luca Di Domenico. Quella di Gilda Maria Antonelli, invece, alla società (Proter) del suo compagno. Il 30 gennaio 2012 la Gap regala quindi il progetto della centrale alla Civitas di Di Domenico. In quel momento Di Laura Frattura è il capo dell'opposizione regionale: alle elezioni di novembre 2011 è stato sconfitto da Iorio, di cui a lungo era stato il braccio destro prima di passare al centrosinistra. Intervistato dal giornalista Paolo De Chiara respinge ogni sospetto di conflitto d'interessi. «Con le biomasse non ho nulla a che fare. Quando l'iter autorizzativo è partito non avevo nessun impegno politico. Se faccio politica non posso fare l'imprenditore», taglia corto. Passa un anno e diventa governatore, ventotto anni dopo suo padre Ferdinando, democristiano. Ma qui cominciano i problemi. Perché quando si hanno tanti interessi già è difficile guidare l'opposizione, figuriamoci la giunta. Soprattutto in una città piccola, dove le voci, talvolta insieme alle maldicenze, si rincorrono. E tutti si conoscono. Luca Di Domenico, per esempio, conosce di sicuro l'ex sindaco Giuseppe Di Fabio. Non fosse altro perché sua sorella Marilina Di Domenico, candidata con Fratelli d'Italia alle ultime politiche, è stata assessore comunale. Inoltre la società delle biomasse ha lo stesso indirizzo di una onlus, la Seconda ala, che fa capo all'ex primo cittadino. Anni d'oro, per Campobasso, quelli di Di Fabio: anni in cui partiva il progetto delle Due torri, iniziativa edile milionaria della società Immobiliare le torri, controllata al 51% dall'attuale governatore. Iniziativa pensata per ospitare nientemeno che la nuova sede della Regione. Anche qui fra mille coincidenze. Il costruttore, nonché socio di Di Laura Frattura alla partenza dell'operazione, è l'impresa Nidaco. I proprietari? Cotugno Nicandro, figlio di Cotugno Vincenzo, attuale consigliere regionale, e Giuseppina Patriciello, moglie di Vincenzo Cotugno e sorella dell'europarlamentare Pdl Aldo Patriciello. Vincenzo Cotugno, dettaglio, è in attesa di nomina ad assessore regionale: sarebbe il quinto, ma le norme dicono non più di quattro. Si dovranno quindi cambiare legge e statuto. Coincidenze e intrecci però non finiscono qua. La società della centrale a biomasse del marito di Mariolga Mogavero, ricordate? Il 15 aprile scorso se la compra quasi tutta (il 99,5 per cento delle azioni) la C&t spa, nonostante un ricorso pendente al Tar. Si tratta di una società del settore energetico che controlla pure il 20% della Biocom. Che cos'è? Un'altra ditta del settore biomasse il cui restante 80 per cento era in mano allo stesso Paolo Di Laura Frattura, e che ha avuto dalla Regione Molise un finanziamento di 300 mila euro per realizzare un impianto a Termoli. Ma siccome il Comune non dà i permessi il contributo viene revocato, con immediato ricorso al Tar contro la Regione da parte del futuro governatore. Il progetto si scioglie, la società va in liquidazione e il 7 marzo 2013, due settimane dopo il voto, Di Laura Frattura si libera di quell'ingombrante pacchetto dell'80%. A comprarlo è il liquidatore Vittorio Del Cioppo, sfortunato candidato alle regionali per l'Idv. Partito che ovviamente sostiene la giunta, come anche Sinistra ecologia e libertà. Unico consigliere vendoliano e capogruppo di se stesso, in un'assemblea regionale con 21 seggi e ben 14 gruppi dei quali addirittura nove composti da una sola persona, è Nico Ioffredi, cognato di Paolo Di Laura Frattura. È il marito di sua sorella Giuliana Di Laura Frattura, capo di gabinetto del questore di Campobasso.
Di bene in meglio. In Molise l’intreccio tra parenti e affari continua scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. Si ritorna a parlare del piccolo Molise. Dopo lo sgretolamento del sistema di potere di Michele Iorio (colpito da inchieste, indagini e condanne) è il turno del ‘nuovo’ presidente della giunta regionale, Paolo Di Laura Frattura. Ex Presidente della Camera di Commercio, in passato molto vicino a Michele Iorio, candidato con poca fortuna (per due volte) con Forza Italia. Oggi ha trovato la sua dimensione politica nel centro-sinistra. Grazie alle nuove alleanze e ai continui cambi di casacca. Questa volta è il Corriere.it, con il bravo e puntuale giornalista Sergio Rizzo, a mettere sul piatto un tema mai affrontato: il conflitto di interessi. Potrebbe configurarsi la fattispecie di conflitto di interessi per Frattura? A questa domanda, prima della vittoria, i suoi colleghi di centro-sinistra, non hanno risposto. Non hanno saputo rispondere, non hanno voluto rispondere. Il tema ruotava intorno alla costruzione di una centrale a biomasse. Dovevano leggere prima le carte.
“Non ne so nulla – dichiarò il consigliere regionale del Pd, oggi vice presidente della Regione Molise e Assessore Michele Petraroia – non ho notizie. Prima dovrei vedere le carte. Sull’impianto specifico non ho nessun documento. Sono stato l’unico a mettermi contro la centrale ad olio vegetali a Trivento e Montefalcone. Il mio parere è scontato su questi argomenti. Se mi devo mettere a battibeccare con questi personaggi di nuova generazione, scelgo io il terreno”. Per l’attuale assessore: “le centrali a biomasse sono semplicemente degli espedienti. Nascono per le biomasse e alla fine diventano potenziali destinatari, diciamo, di rifiuti”. Nemmeno Cristiano Di Pietro (oggi rieletto in consiglio regionale con la defunta Idv) era a conoscenza dell’autorizzazione. “Non ho letto la determina. Mi serve il tempo per leggerla. Devo capire meglio, devo approfondire l’argomento. Se dovesse essere vera la notizia bisogna capire se Frattura è ancora socio. Se dovesse essere socio chiederemo spiegazioni di questa situazione. Devo capire come stanno le cose”. L’argomento non suscitò particolare interesse. Oggi i presunti conflitti di interessi del ‘nuovo’ presidente Frattura ritornano alla luce. Scrive Rizzo sul Corriere.it: “Senza sintonia con il governatore Paolo Di Laura Frattura, uomo che dovrebbe incarnare il rinnovamento dopo 12 anni di regno di Michele Iorio, l’ingegner Mariolga Mogavero non sarebbe certo arrivata fin qui. Ovvero, nella stanza dei bottoni della piccola Regione Molise, capo di gabinetto e segretario generale della nuova giunta di centrosinistra. Così da attirarsi le invidiose attenzioni di chi l’ha già acidamente battezzata «la governatrice». La Mogavero, moglie di Luca Di Domenico, è la prima firmataria del ricorso elettorale, andato a buon fine, al Tar Molise. Lo stesso nome che si ritrova in una delle società (la prima proponente) legata alla costruzione della centrale biomasse di Campochiaro, in provincia di Campobasso. Il 20 luglio del 2010 la società Gap Consulting srl “ha chiesto l’autorizzazione unica per la realizzazione e l’esercizio, nella zona del Consorzio per lo sviluppo Industriale Campobasso-Bojano del Comune di Campochiaro, di un impianto di produzione di energia elettrica da biomasse”, si legge nella determina, “utilizzante biomassa legnosa ed assimilati”. Secondo la visura camerale del 5 giugno 2012, la Gap Consulting srl, è stata costituita il 14 luglio del 2005, con un capitale sociale di 10 mila euro. La Gap è composta da altre due società, con pari quote: la Proter e la Civitas. Entrambe a responsabilità limitata. L’amministratore unico della Gap risulta essere Mogavero Mariolga. La Civitas e la Proter hanno altri due amministratori. Per la prima (costituita il 6 aprile del 2009) risulta essere l’ing. Di Domenico Luca, marito della Mogavero; per la seconda (costituita il 1 giugno del 1991) il capo dell’allora opposizione in consiglio regionale, Di Laura Frattura Paolo. Il 30 gennaio del 2012 viene protocollata la richiesta dell’amministratore unico della società Gap Consulting (Mogavero Mariolga, già collaboratrice di Frattura) e dell’amministratore unico della società Civitas (Di Domenico Luca, marito della Mogavero). Per far subentrare la Civitas nel procedimento attivato da Gap. È lo stesso Rizzo che scrive sul Corriere: “Mariolga, però, è qualcosa di più. Tanto che per dipanare l’incredibile intreccio di interessi privati, relazioni politiche, parentele e coincidenze che si addensa intorno alla figura del governatore, non si può che cominciare da lei, sua factotum. E da una società di consulenza, la Gap consulting di Campobasso, di cui l’ingegner Mogavero ha il 50%”. Ma come è andata a finire per la centrale biomasse del marito di Mariolga Mogavero? “Il 15 aprile scorso – spiega Sergio Rizzo – se la compra quasi tutta (il 99,5 per cento delle azioni) la C&t spa, nonostante un ricorso pendente al Tar. Si tratta di una società del settore energetico che controlla pure il 20% della Biocom. Che cos’è? Un’altra ditta del settore biomasse il cui restante 80 per cento era in mano allo stesso Paolo Di Laura Frattura, e che ha avuto dalla Regione Molise un finanziamento di 300 mila euro per realizzare un impianto a Termoli. Ma siccome il Comune non dà i permessi il contributo viene revocato, con immediato ricorso al Tar contro la Regione da parte del futuro governatore. Il progetto si scioglie, la società va in liquidazione e il 7 marzo 2013, due settimane dopo il voto, Di Laura Frattura si libera di quell’ingombrante pacchetto dell’80%. A comprarlo è il liquidatore Vittorio Del Cioppo, sfortunato candidato alle regionali per l’Idv. Partito che ovviamente sostiene la giunta, come anche Sinistra ecologia e libertà. Unico consigliere vendoliano e capogruppo di se stesso, in un’assemblea regionale con 21 seggi e ben 14 gruppi dei quali addirittura nove composti da una sola persona, è Nico Ioffredi, cognato di Paolo Di Laura Frattura. È il marito di sua sorella Giuliana Di Laura Frattura, capo di gabinetto del questore di Campobasso”. L’intreccio di interessi privati, relazioni politiche, parentele e coincidenze sollevato dal Corriere della Sera non interessa a nessuno. In Molise chi ha governato ieri, governa pure oggi? Sotto nuovi colori, sotto nuove bandiere? Di certo c’è un solo assente: Michele Iorio, colpito da un’interdizione dai pubblici uffici.
Legami e parentele tra giudici e politici molisani: il caso a Bari, scrive “Primo Numero”. L’Osservatorio Molisano sulla Legalità presenta un esposto al Procuratore Generale della Repubblica di Bari circa le "relazioni pericolose" tra magistrati e rappresentanti istituzionali. Dopo l’accusa alla Procura del capoluogo di essere un “porto delle nebbie” in cui le inchieste giudiziarie a carico di rappresentanti istituzionali vengono insabbiate, una denuncia con nomi e cognomi e un nuovo punto interrogativo: che fine hanno fatto le indagini contro Michele Iorio? Una lettera che sta facendo rumore, tanto che il Procuratore Generale in persona, il dottor Mazzetti, ha deciso di prendere carta e penna per scrivere la sua versione. Ma senza entrare nel merito. Tra i magistrati che operano a Campobasso e il mondo politico molisano esistono “relazioni pericolose” e rapporti perfino intimi che potrebbero condizionare la correttezza e l’imparzialità di processi che coinvolgono proprio i politici, a cominciare dal presidente della Regione Michele Iorio. Lo dichiara, con tanto di nomi e cognomi, l’Osservatorio Molisano sulla Legalità, che dopo la lettera aperta inviata al Procuratore Generale di Campobasso Silvano Mazzetti il 7 aprile scorso, per mettere in evidenza come determinate inchieste aperte per reati contro la pubblica amministrazione a Campobasso cadano nell’oblio, si rivolge direttamente a Bari, Tribunale competente per esercitare il controllo sulla magistratura molisana. Con una “bomba” davanti alla quale lo stesso Mazzetti, in maniera del tutto insolita, non ha potuto restare in silenzio e ha fornito una propria versione senza tuttavia entrare nel merito né replicare ai paragrafi più scottanti. Per esempio che «nel Tribunale di Campobasso, ove Angelo Michele Iorio è sottoposto a procedimenti penali, opera come magistrato giudicante la dott.ssa Laura Scarlatelli, figlia del portavoce del governatore Iorio». Oppure che «Evelina Palaia, la moglie del sub commissario alla Ricostruzione post terremoto del Molise Nicola Eugenio Romagnuolo, fino a poco tempo fa numero due del Commissario Iorio, è direttore amministrativo della Procura Generale della Corte di Appello di Campobasso», ed è la stessa persona che invia anche comunicati stampa per conto del Procuratore Silvano Mazzetti. E ancora: «Marina Calandrella, moglie del magistrato Vincenzo Pupilella che lavora presso la Corte di Appello di Campobasso, è inserita nella segreteria del consigliere regionale Rosario De Matteis (appena eletto presidente della Provincia di Campobasso), dello stesso schieramento politico del governatore Iorio», e «Alberta De Lisio, dirigente dei Servizi “Rapporti istituzionali e relazioni economiche esterne” e “Avvocatura regionale” in Giunta regionale, è la moglie del dott. Carlo Alberto Manfredi Selvaggi, già Pubblico ministero nella Procura Regionale della Corte dei Conti per il Molise e oggi Capo Dipartimento per gli Affari Regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri». Niente di illegittimo, niente che lasci prefigurare reati o irregolarità. Ma è abbastanza per gettare ombre su quella trasparenza cristallina che dovrebbe caratterizzare la linea di separazione tra politica e magistratura. Soprattutto considerando, sintetizza l’Osservatorio, che non si hanno più notizie su alcune inchieste particolarmente delicate che coinvolgono i vertici della Regione Molise. A cominciare dalla «ricostruzione e “allargamento”, sino a ricomprendere l’intera regione, dell’area del terremoto del 2002 e dell’alluvione del 2003 e sul connesso programma pluriennale – ex articolo 15 - diretto a favorire la ripresa produttiva delle aree danneggiate», che ha usato centinaia di milioni di euro per finanziare i progetti più fantasiosi, fino all’acquisto «con soldi pubblici, del catamarano Termoli Jet» la cui vicenda racconta una storia truffaldina, per arrivare alle «infrastrutture per la rete radio del Servizio regionale di Protezione civile», all’inchiesta sulla malasanità molisana Black Hole, «trasferita a Bari ma la cui udienza preliminare stranamente non risulta ancora fissata». La denuncia riferisce anche di nomine politiche a beneficio di esponenti della magistratura, come quella fatta dal governatore della Regione Molise Angelo Michele Iorio «ancorché sotto processo e plurindagato (senza considerare il Tribunale di Larino, a Campobasso ha i seguenti procedimenti penali in corso: “Bain&Co” e “Turbogas”), che il 21.09.2009 nomina l’ex Presidente della Corte di Appello del Molise ed ex Presidente del Tribunale di Campobasso, dott. Nicola Passarelli, assessore regionale alla Sanità (lo stesso si è dimesso a fine ottobre 2010, dopo 13 mesi)». O l’assegnazione - il 12.03.2010 – dalla Regione Molise all’ex Procuratore Regionale della Corte dei Conti per il Molise, Giuseppe Grasso (andato in pensione alcuni mesi prima), della presidenza della Commissione di valutazione e verifica della gara per l’affidamento del Servizio di Assistenza Tecnica e Gestionale del Programma di Sviluppo Rurale del Molise 2007/2013. Chiamato a far parte della Commissione, insieme a Grasso, anche il dott. Domenico Vitale, Generale in pensione della Guardia di Finanza». E’ normale tutto questo? Garantisce il diritto dovere dell’imparzialità nello svolgimento dei procedimenti giudiziari? La lettera, inviata per conoscenza anche alla Procura Generale di Campobasso, e finita sul tavolo di Silvano Mazzetti, ha fatto in ambienti giudiziari un bel po’ di rumore, tanto da spingere proprio il dottor Mazzetti a replicare con una lunga nota nella quale tuttavia non si affronta il nodo né delle parentele né delle inchieste apparentemente scomparse nel nulla, ma si replica al finanziamento per 250mila con fondi regionali del “servizio di riorganizzazione dei processi lavorativi e di ottimizzazione delle risorse degli uffici giudiziari della Procura per i minori e della Procura Generale di Campobasso”. «Sembra che l’Osservatorio voglia in qualche modo mettere in relazione i procedimenti penali pendenti a carico del Presidente della regione – scrive Mazzetti – con il finanziamento regionale agli uffici giudiziari, ignorando che tale finanziamento è previsto per tutti gli uffici giudiziari delle regioni che hanno aderito al protocollo d’intesa riguardante un progetto interregionale». A parte questo, il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Campobasso torna all’attacco, come già fatto in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, della Procura di Larino. O meglio: della Procura di Larino all’epoca di Nicola Magrone, il magistrato che ha perseguito con particolare attenzione reati di pubblica amministrazione, approdando a inchieste importanti alcune delle quali, iniziate da lui, sono arrivate a Campobasso e restano in attesa di una conclusione. Ora che Magrone è in pensione, fa capire Mazzetti, a Larino si lavora bene di nuovo. Affermazioni pesanti, che sottendono conflitti e guerre molto più radicati di quanto una lettura superficiale dello "scambio epistolare” fa immaginare.
MOLISE E MAGISTROPOLI.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/07700 presentata alla Camera dei Deputati da SUSI DOMENICO (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) in data 13 novembre 1992.
SUSI. Al Ministro di grazia e giustizia. - Per sapere - premesso che: nel 1991 e negli anni precedenti presso la procura di Vasto è stata avviata un'indagine giudiziaria sugli atti concernenti la megalottizzazione denominata SIGMA-SIV, indagine che all'interrogante risulta essersi conclusa con un'archiviazione; durante l'istruttoria sono emersi vivaci polemiche riportate dalla stampa locale circa presunte omissioni e pressioni da parte del dottor Antonio La Rana, sostituto procuratore a Vasto, al fine di garantire sia l'archiviazione dell'indagine sia, principalmente, la fattibilità del complesso SIGMA-SIV; risulta all'interrogante che esistono stretti rapporti di affari tra congiunti del dottor La Rana e il signor Angelo Soria, promotore della SIGMA-SIV a Vasto, tramite il quale il dottor La Rana e/o i suoi congiunti, secondo quanto risulta all'interrogante, hanno acquistato e opzionato riservatamente immobili a condizioni di particolare favore; risulta all'interrogante che, come emerge largamente dai resoconti giornalistici, il predetto magistrato ha conseguito notevoli vantaggi nel settore assicurativo in virtù di legami con esponenti del mondo economico vastese; risulta inoltre all'interrogante che: a) l'impresa Americo Marra, del cui fallimento il dottor Antonio La Rana ebbe ad occuparsi, ha "ceduto" allo stesso magistrato o a suoi congiunti, non si sa a quale titolo e per quale prezzo, locali da adibire o adibiti a negozi; b) il dottor Antonio La Rana ha avuto in uso gratuito delle auto di notevole valore dalla ditta Tessitore di Vasto, il cui titolare è stato arrestato recentemente nell'ambito dell'inchiesta sui trasporti in Abruzzo; c) il dottor Antonio La Rana ha accumulato nel corso di pochi anni un patrimonio miliardario, assolutamente ingiustificato dai redditi denunciati da lui e dalla sua famiglia - le iniziative che il ministro intenda assumere nell'ambito delle sue competenze, in particolare per verificare se, accertata la eventuale commistione tra le attività private del magistrato e dei suoi congiunti e l'esercizio delle delicate funzioni pubbliche che egli svolge quale sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Vasto, non intenda promuovere l'azione disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura. (4-07700).
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/14232 presentata alla Camera dei Deputati da TOTO DANIELE (FUTURO E LIBERTA' PER IL TERZO POLO). Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-14232 presentata da DANIELE TOTO mercoledì 14 dicembre 2011, seduta n.560
TOTO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: con sentenze assolutorie, rispettivamente, del tribunale di Bari n. 1356/2011 e del tribunale di Vasto, in data 22 novembre 2011, proc. n. 939/10, è stata definita la serie di procedimenti penali a carico del dottor Antonio La Rana, già sostituto procuratore presso il tribunale di Vasto poi trasferito a Campobasso con le funzioni di sostituto (e attualmente reggente) procuratore generale, nei cui confronti durante il semestre aprile-settembre 2003 erano stati ipotizzati trenta reati in concorso con undici persone, di cui sei pubblici ufficiali; le prime accuse erano state avanzate da un gruppo di amministratori pubblici al duplice e dichiarato scopo di natura forse ritorsiva e preventiva, in risposta a precedenti inchieste condotte dal nominato magistrato e in vista di una causa di incompatibilità ambientale da precostituire e opporre in relazione a una sua eventuale istanza di ritrasferimento alla procura presso il tribunale di Vasto. I procedimenti penali si sono, poi, arricchiti di ipotesi di reati assunte da sostituti procuratori presso il tribunale di Vasto i quali, pur avendo chiesto ed ottenuto di essere esonerati dalla trattazione di procedimenti penali a carico del dottor La Rana, si sono occupati di inchieste nel cui ambito, emergendo il coinvolgimento anche di detto collega, disponevano la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica presso il tribunale di Bari; è anche accaduto che, nonostante nel corso delle indagini sia stata denunciata, dagli stessi pubblici ufficiali che risultavano apparenti firmatari dell'atto, la falsità ideologica e materiale di un verbale di riscontro dei carabinieri, confluito in un procedimento nel cui ambito sono state persino adottate misure cautelari personali, è stata avviata un'indagine non già, come sarebbe apparso logico, volta a individuare gli autori del falso verbale, bensì, inopinatamente, sui due carabinieri che avevano riscontrata la falsità dell'atto e sullo stesso dottor La Rana, ipotizzando, a suo carico, l'istigazione alla calunnia. Il processo attinente alla vicenda di detto (falso) verbale è ancora in corso. E' singolare che nessuna traccia del parallelo procedimento sulla falsità del verbale sia stata fatta confluire nel diverso procedimento nel quale tale atto ha avuto rilievo investigativo; ciò con evidente grave nocumento per il diritto di difesa e per l'accertamento della realtà dei fatti; la procura della Repubblica di Bari, ignorando completamente i molteplici elementi, anche documentali, che militavano in favore del dottor La Rana, ha confezionato trenta capi di imputazione a carico del predetto magistrato, formalmente denominato all'anagrafe giudiziaria barese «Geotropa Nanni», con la conseguenza che l'interessato non poteva accedere alle doverose notizie risultanti dal casellario giudiziale, proprio perchè iscritte al citato nome di fantasia «Geotropa Nanni», piuttosto che, come imposto dall'articolo 335 del codice di procedura penale, all'effettivo nome dell'indagato, dottor Antonio La Rana; per quindici dei contestati reati è stata chiesta l'archiviazione, ma non al giudice per le indagini preliminari, giudice naturale indicato dal codice di rito, bensì al giudice dell'udienza preliminare. Lo scopo appare, evidentemente, quello di utilizzare tutta la mole delle imputazioni per indurre a un convincimento colpevolista il giudice dell'udienza preliminare di Bari. Obiettivo, questo, che risulta effettivamente conseguito per avere il giudice disposto il rinvio a giudizio del dottor La Rana e degli altri undici coimputati, senza mai deliberare su nessuna delle singole eccezioni e richieste istruttorie avanzate dai difensori; dopo la separazione dei processi disposta dal tribunale di Bari per ragioni di incompetenza territoriale, già, peraltro, sollevate, invano, dai difensori, le ipotesi di tutti i gravi reati contestati si sono dissolte sulla base della sola lettura dei capi di imputazione, inidonei a sostenere l'accusa. Ciò, in sostanziale conformità alle richieste dei pubblici ministeri di udienza, i cui rappresentanti, frattanto, erano mutati; infatti, il tribunale di Bari, pur in presenza dell'intervenuta prescrizione dei reati contestati, ha assolto il dottor La Rana da tutti gli addebiti; l'epilogo della vicenda - risolta in termini di puro diritto e sulla scorta di prove documentali acquisite sin dalle primissime battute dei procedimenti - ha richiesto il trascorrere di oltre otto anni; l'avvicendarsi di numerosi magistrati, circa quindici; l'intervento di numerosi uomini delle forze dell'ordine chiamati a lavorare anche in trasferta; l'uso di materiale per innumerevoli intercettazioni telefoniche ed ambientali corredate da pedinamenti; l'assistenza legale di svariati difensori degli imputati, i quali ultimi, sono, nella gran parte, dipendenti dello Stato e, pertanto, avranno presumibilmente premura di richiedere il rimborso delle spese legali sostenute, essendo il valore economico globale della spesa, secondo una prudenziale valutazione, di circa cinquecentomila euro, a cui andrà aggiunto quello, maggiore, dei danni, oggetto di probabili future richieste di risarcimento, sofferti dagli imputati che, in conseguenza dei richiamati processi, hanno persino subito trasferimenti d'ufficio, rallentamenti della carriera o coazioni al pensionamento anticipato; è assolutamente indispensabile prevenire siffatte aberrazioni, analoghe a quelle in atto descritte, tenuto anche conto che, paradossalmente, tutti i magistrati intervenuti nella richiamata vicenda processuale sono in servizio con identiche funzioni; i presunti autori della relazione di servizio falsa sono in servizio nel medesimo nucleo operativo dei carabinieri di Vasto; è ancora pendente il procedimento penale a cui si riferisce la falsa relazione, attribuita a due carabinieri nella inconsapevolezza degli imputati; è stupefacente e incontrovertibile, in ogni caso, che l'ingente spesa che ha gravato e che graverà sulla collettività è il prodotto di indagini promosse su fatti ritenuti dagli organi giudicanti insussistenti in modo evidente -: se il Ministro della giustizia, vagliati i fatti, non intenda avviare iniziative ispettive ai fini dell'esercizio dei poteri di competenza.(4-14232).
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-06369 presentata da COSIMO GIUSEPPE SGOBIO mercoledì 9 aprile 2008 nella seduta n.278.
SGOBIO. - Al Ministro della giustizia, al Ministro della difesa. - Per sapere - premesso che:
il 6 marzo 2008 il TAR del Molise ha accolto la richiesta di sospensiva dell'ordine di trasferimento per il capitano dei Carabinieri Fabio Muscatelli operante a Termoli (Campobasso). Il trasferimento era stato disposto dai vertici dell'arma che voleva inviarlo a Livorno ma il capitano si era opposto ritenendolo un atto punitivo nei suoi confronti e la sua tesi è stata accolta dal Tar;
il capitano Muscatelli è stato l'autore dell'inchiesta istruita dalla procura di Larino (Campobasso) e denominata Black Hole e di cui ha seguito tutti i passaggi; inchiesta su reati contro il patrimonio, truffa, furto, corruzione e che ha messo in luce collusioni fra mondo della politica e dell'imprenditoria locale coinvolgendo esponenti di spicco del mondo politico molisano. Nell'ambito di quell'inchiesta nello scorso mese di gennaio sono stati emessi un centinaio di avvisi di chiusura delle indagini;
da un filone dell'inchiesta Black Hole nello scorso mese di maggio la procura di Larino (Campobasso) aveva emesso numerosi avvisi di garanzia nei confronti di alcuni appartenenti alle forze dell'ordine con accusa di truffa, associazione a delinquere e rivelazione del segreto di ufficio;
il procuratore di Larino sosteneva la tesi relativa all'esistenza di un «corpo separato» nella Procura che avvisava gli indagati delle mosse dei magistrati e degli inquirenti. In questa indagine era stato coinvolto un alto ufficiale dei Carabinieri del Molise;
nei mesi scorsi un altro ufficiale dei Carabinieri, il tenente Bandelli, è stato trasferito dalla sua sede di Venafro (Isernia) a Foggia. In questo caso si è parlato di «normale rotazione», ma il tenente Bandelli è stato anch'egli autore di una delle più importanti indagini contro i rischi di infiltrazione malavitosa nel mondo imprenditoriale del Molise;
in questo caso si tratta della cosiddetta indagine «piedi d'argilla» tuttora in corso e riguardante appalti per opere pubbliche e che ha coinvolto anche in questo caso esponenti del mondo politico locale;
molti degli inquirenti che hanno lavorato all'indagine piedi di argilla sarebbero stati, secondo indiscrezioni di stampa, a loro volta intercettati e finiti sotto inchiesta per reati minori. Tali intercettazioni sarebbero al vaglio della Procura di Isernia;
sulla possibilità che nei confronti degli inquirenti venissero operate pressioni al fine di inquinare le indagini sono state aperte alcune inchieste e si sono verificate tensioni fra i vertici delle Procure del Molise nonché al loro stesso interno;
il 29 gennaio 2008, secondo notizie di stampa non smentite, la procura di Larino emetteva mandato di perquisizione per i comandi regionali e provinciali dei Carabinieri del Molise e di Campobasso per acquisire documenti relativi alla richiesta di trasferimento del capitano Muscatelli;
iniziativa analoga era avvenuta il 30 giugno 2006 quando la Procura distrettuale antimafia di Campobasso (a firma del magistrato Nicola D'Angelo) emetteva mandato di perquisizione per i locali del comando generale dell'Arma dei carabinieri di Roma, del comando interregionale di Napoli, del comando regione Molise, di quello provinciale di Isernia e della compagnia di Venafro al fine di recuperare, con motivazioni molto dettagliate, documenti relativi a presunte pressioni o tentativi di pressione da parte di singoli sugli ufficiali dell'arma che svolgevano o avevano svolto le delicate inchieste di cui sopra;
presumibilmente a seguito dell'inchiesta avviata dal sostituto procuratore dottor Nicola D'Angelo della DDA di Campobasso su eventuali interferenze, il 31 ottobre 2006, il procuratore distrettuale di Campobasso, dottor Mario Mercone, inviava una lettera alla Procura generale di Campobasso ed al comando regionale Carabinieri e al procuratore D'Angelo, lettera con la quale si chiedeva di trasmettere a sé tutti gli atti inerenti l'ampia mole di procedimenti consequenziali scaturiti dall'inchiesta «piedi di argilla» al fine di evitare, come testualmente riportato dalla missiva, «che pubblici ufficiali si attribuiscano la potestà di scegliere il magistrato cui assegnare i procedimenti»;
il 2 novembre 2006 il sostituto procuratore dottor Nicola D'Angelo (ex titolare dell'inchiesta «piedi di argilla» nonché di quella sulle presunte pressioni sugli ufficiali dell'Arma dei Carabinieri) rispondeva che la missiva, al di là degli intenti dell'autore, potrebbe avere «un effetto lesivo della dignità personale e professionale dello scrivente» aggiungendo di «non essersi mai reso strumento, consapevole o inconsapevole di qualcuno» -:
se non si ritenga necessario ed urgente, alla luce di quanto esposto e nell'ambito delle rispettive competenze disporre un'accurata indagine presso le procure di Isernia, Campobasso e Larino per verificare se sussistano le condizioni di serenità ambientale tali da consentire il corretto funzionamento delle procure stesse;
se non si ritenga di adottare le opportune iniziative al fine di verificare, presso il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, il corretto svolgimento delle procedure relative ai provvedimenti di trasferimento emessi nei confronti degli ufficiali di cui in premessa.(4-06369)
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-12655 presentata da NICHI VENDOLA martedì 1 febbraio 2005 nella seduta n.578.
in data 2 dicembre 2004, la D.D.A. (Direzione Distrettuale Antimafia) di Campobasso portava a termine una operazione anticrimine denominata «Piedi d'Argilla», con l'arresto di quattro persone e l'emissione di 23 avvisi di garanzia;
tra gli indagati dell'inchiesta risulta esserci l'allora vice presidente della regione Molise, Aldo Patriciello, i fratelli Antonio e Aniello, il nipote Vincenzo mentre agli arresti domiciliari risulta esserci un altro fratello, Gaetano;
sempre nella citata data veniva posto sotto sequestro il cantiere della variante autostradale di Venafro (Isernia), opera appaltata dall'ANAS per oltre 55 milioni di euro, primo tratto del congiungimento tra l'autostrada Roma-Napoli (A1), all'altezza dell'uscita autostradale di San Vittore (Frosinone) e l'autostrada Adriatica (A 14) all'uscita di Termoli (Campobasso);
nell'operazione della D.D.A. risultano coinvolti dipendenti della ditta Adanti di Bologna, in quanto aggiudicataria della commessa, nonché di altre imprese sub-appaltatrici e fornitrici, sia del gruppo riconducibile alla famiglia Patriciello, sia quello dei Garofalo di Petilia Policastro (Crotone);
tra gli indagati della ditta Adanti risulta esserci il capo cantiere, Massimo Zullo (attualmente agli arresti domiciliari), e, successivamente, la DDA emetteva altri tre avvisi di garanzia nei confronti di un altro dirigente della ditta Adanti, di un dipendente di una delle ditte sub-appaltatrici e di un rappresentante delle Forze dell'ordine;
le motivazioni che hanno indotto l'autorità giudiziaria a sequestrare il cantiere della variante di Venafro sarebbero: 1) l'utilizzo di materiale assolutamente scadente conglobando nel cemento utilizzato, anche terra e pezzi di legno; 2) nel preconfezionare false fatture d'acquisto di un dato tipo di cemento dal momento che non era mai stato acquistato quello che avrebbero dovuto utilizzare, salvo procurarsene pochi sacchi al solo scopo di confezionare i saggi da inviare al controllo; 3) nell'utilizzo di un cemento per tipologia, qualità e quantità assolutamente diverso da quello prescritto in contratto; 4) nel ricorrere a modalità operative pregiudizievoli alla futura stabilità dell'opera, in particolare provvedendosi a simulare la presenza di un terreno di appoggio sufficientemente solido per la gettata di alcuni pali, predisponendo nottetempo apposite camicie in cemento armato tali da simulare, nella giornata successiva, il raggiungimento di un punto di appoggio solido oppure, in altri casi, nel gettare il palo senza aver trovato un terreno di appoggio adatto; 5) nell'utilizzare in talune occasioni pali normali quando occorrevano pali sonici; 6) nell'utilizzare materiali inidonei tanto che i pochi saggi regolari riportavano valori drammaticamente inferiori al dovuto, al punto che solo a mezzo di un illecito accordo con la ditta Geolab di San Vittore che doveva effettuare la valutazione dei saggi, di riuscivano ad ottenere certificazioni attestanti la bontà dell'opera; 7) nel fare in modo che i saggi fossero dirottati nei punti in cui minore era stata la frode, ma soprattutto, nel predisporre a parte il materiale da presentare come campione di saggio; 8) nel sostituire, almeno in un caso, il materiale dei saggi prelevati da personale dell'ANAS, con materiale appositamente preconfezionato in modo da dare risultati idonei al controllo;
vi sarebbe il coinvolgimento di alcuni appartenenti alle forze dell'ordine in servizio presso il tribunale di Isernia con l'ipotesi di reato di corruzione, concussione e rivelazione del segreto d'ufficio;
tra gli indagati dalla D.D.A. risulta esserci il comandante della Guardia forestale di Venafro, Antonio Varone (la cui moglie è attualmente impiegata presso la clinica Neuromed di Pozzilli di proprietà dei fratelli Patriciello), il quale in una conversazione telefonica con il capo cantiere della Adanti, Massimo Zullo, mostrava disappunto per aver dovuto sequestrare una cava dei Patriciello, promettendo di riaprirla nel giro di pochi giorni;
tra gli indagati risulta esserci il luogotenente presso la procura generale di Isernia appartenente all'Arma dei carabinieri, maresciallo Giuseppe Guerriero, con l'accusa di concussione e rivelazione di segreti d'ufficio. Il ruolo del maresciallo sarebbe stato quello di carpire informazioni sulle indagini della procura della Repubblica di Isernia o di aggiustare vicende processuali così come riportato da notizie di stampa dalle quali si evince che: «Guerriero rivela un notevole grado di confidenza con Aldo Patriciello, al punto di alzare la voce perché l'ex vice presidente non si mostra del tutto disponibile alle sue richieste»;
il maresciallo Guerriero da notizie di stampa risulta proprietario di una grande villa con piscina ubicata sulle colline di Venafro. Nei lavori di costruzione della villa il maresciallo risulta aver ricevuto in dono dalla ditta Adanti degli alberi di ulivo espiantati dai cantieri della variante di Venafro e risulta, altresì, che il maresciallo abbia utilizzato materiali e macchinari che provenivano dai cantieri stessi;
oltre al maresciallo Guerriero risultano indagati altri tre militari appartenenti all'Arma dei carabinieri e altri tre appartenenti alla Polizia stradale;
prestano servizio presso la Compagnia dei carabinieri di Venafro circa 100 militari di cui 20 risultano avere mogli o figli impiegati presso aziende del gruppo Patriciello;
da notizie di stampa si evince che l'attuale procuratore della Repubblica di Isernia, dottor Antonio La Venuta, nel corso di una conversazione telefonica invitava Aldo Patriciello nella sua villa di San Gregorio Matese (Caserta) e nel corso della medesima conversazione il Procuratore La Venuta mostrava familiarità nei confronti di Aldo Patriciello dandogli del tu. Il colloquio avveniva mentre Aldo Patriciello era oggetto di indagine;
il dottor Antonio La Venuta nel 1996 è stato candidato alle elezioni politiche per la Camera dei deputati nelle liste di Forza Italia, risultando non eletto;
l'accusa più grave rivolta ad Aldo Patriciello e ai suoi fratelli, sarebbe quella di aver avuto rapporti con la cosca 'ndranghetistica Garofalo di Petilia Policastro, coinvolta in occasione della campagna elettorale di Aldo Patriciello per il rinnovo del Parlamento europeo avvenuto nel 2004;
tra gli impiegati del gruppo Patriciello, risulterebbe tale Antonio Curcio, appartenente alla cosca dei Garofalo il quale è gravato da numerosi precedenti penali, con l'incarico di ragioniere;
da notizie di stampa parrebbe che: «il clan 'ndranghetistico dei Garofalo si è impegnato direttamente e fattivamente nella campagna elettorale in favore di Aldo Patriciello» -:
quali valutazioni dia il Governo dei fatti suesposti;
se il Governo non ritenga opportuno intervenire presso l'ANAS affinché sia avviato un monitoraggio del cantiere della variante di Venafro, al fine di individuare e, successivamente rimuovere le irregolarità citate in premessa;
se corrisponde al vero che il comandante della Guardia forestale di Venafro, Antonio Varone, sia attualmente in servizio e, in caso affermativo, se non si ritenga opportuno sollevarlo dall'incarico o sospenderlo in via precauzionale, al fine di consentire all'autorità giudiziaria di definire in maniera certa le presunte responsabilità penali;
se corrisponda al vero che il maresciallo Giuseppe Guerriero sia attualmente in servizio presso la Procura Generale di Isernia e, in caso affermativo, se non si ritenga opportuno sollevarlo dall'incarico che ricopre;
se il Ministro interrogato non ritenga sussistenti gli elementi per promuovere azione disciplinare contro il procuratore di Isernia, dottor Antonio La Venuta, dall'ufficio dal medesimo ricoperto a fronte della gravità dei fatti di cui si sarebbe reso protagonista;
se il Ministro della giustizia non intenda avviare una ispezione ministeriale presso la procura della Repubblica di Isernia;
quali iniziative il Governo intenda adottare per riportare il territorio di Isernia in un'orbita di legalità.(4-12655)
SANITOPOLI
Carmelo Abbate su "Panorama" racconta la sua inchiesta filmata sulla Sanità italiana.
Ho indossato un camice bianco, un paio di zoccoli verdi e sono entrato negli ospedali. Mi sono attaccato al petto un cartellino con un nome fasullo: dottor Valerio Trimarchi, dell’inesistente associazione Orchidea bianca onlus. Ho assunto le vesti di un volontario, laureato in medicina in procinto di fare la specializzazione. È bastato per spalancarmi le porte di reparti, pronto soccorso, sale operatorie.
Trattato come un medico da pazienti, inservienti, infermieri, colleghi. Questi ultimi mi hanno accolto nei loro camerini, mi hanno assegnato l’armadietto e gli indumenti da lavoro. Sono entrato a contatto diretto con i malati, ho fatto il giro di visite del mattino e ho preso parte (ma non ho preso i ferri in mano, tranquilli) a interventi chirurgici.
Gli ospedali al centro di questa inchiesta sono quattro: a Catanzaro, Napoli, Isernia e Venafro, in provincia di Isernia. Nel corso dell’indagine (tutta documentata da una telecamera nascosta) ho visto barboni che mangiano e dormono a pochi metri dai malati, zingare che passano fra i letti a chiedere l’elemosina, cinesi che entrano nei reparti per vendere ai bambini giocattoli privi di ogni standard di sicurezza.
Poi medici e infermieri che fumano, alcuni perfino dentro i blocchi operatori. Ho seriamente rischiato di togliere dei punti di sutura dalla testa di una donna. Soprattutto, ho visto da vicino come il personale sanitario si comporta a volte nei nostri ospedali. Come vengono ignorate le più basilari regole di comportamento e di igiene, la cui inosservanza provoca ogni anno circa 500 mila infezioni e più di 5 mila morti. Pazienti che erano andati a curarsi per altre cause.
Per entrare all’ospedale di Isernia, in Molise, mi infilo in un vorticoso giro di conoscenze tipico di una certa Italia dove l’amicizia e il clientelismo la fanno da padrone. Si trova sempre qualcuno che ti consiglia a un altro, che a sua volta non si prende nemmeno la briga di capire chi sei. Gli basta soltanto sapere che sta facendo un favore. Si va avanti così, in una sorta di catena di Sant’Antonio della quale non si riesce più a venire a capo.
Intanto Valerio Trimarchi venerdì 2 ottobre di buon mattino arriva in divisa d’ordinanza all’ospedale Veneziale. Dico che mi sono appena laureato e che mi accingo a scegliere la specializzazione. In medicina generale i pazienti sono tutti anziani. I medici si fermano ai piedi del letto, guardano la cartella, si confrontano, prescrivono esami. Le mani ce le mettono gli infermieri. Si passa da un pannolone all’altro fino alle flebo: senza guanti. Solo un’infermiera è ligia al dovere. Gli altri quasi la rimproverano per l’inutile perdita di tempo. Alla fine vado al bar.
Una dottoressa in camice bianco è appoggiata a un’auto parcheggiata. Aspetta qualcuno. Un medico in tuta verde attraversa la strada. Torno nel blocco operatorio. Mi conoscono tutti, mi muovo in totale libertà. Vedo medici e infermieri senza copriscarpe, mascherine. Senza guanti. Un paio di chirurghi fumano. A pochi metri dalle sale dove si operano i malati, i posacenere sono pieni di mozziconi.
Intorno alle 2 del pomeriggio mi accingo a lasciare l’ospedale. Sbaglio l’uscita. Percorro un corridoio pieno di scatoloni, qualcosa a metà tra un magazzino e un ripostiglio. I muri sono scrostati, alcune piastrelle divelte. Cammino per una decina di metri quando sulla destra mi trovo una porta spalancata: dentro ci sono tre malati che dormono sui lettini. Fanno la dialisi. Le condizioni igieniche sono scadenti. A metà corridoio, senza alcuna porta divisoria, c’è un bagno con due sanitari dove si scaricano pale e pappagalli.
Nel pomeriggio accompagno un medico all’ospedale di Campobasso, nel reparto di anatomia patologica, dove da Isernia mandano ad analizzare i tessuti asportati. Davanti a un cartello con scritto «Vietato fumare» una dottoressa ci intrattiene con una sigaretta fra le mani. La stessa mattina le sono arrivati dei «pezzi» che ancora non riesce a capire perché siano stati asportati. Ci invita a prendere l’abitudine di segnalare la sospetta diagnosi. E accende una seconda sigaretta.
Il giorno dopo, su segnalazione di un medico di Isernia, vado a trovare un collega a Venafro, distante una trentina di chilometri. Ha l’aspetto provato, è stanco. Ha voglia di parlare e di sfogarsi. Fare l’ortopedico lì è come essere in trincea, ti arriva di tutto e lavori in condizioni estreme. Con gente che fuma in sala operatoria. Ogni volta che impianta una protesi, dopo che ha cucito prega Dio perché non subentrino complicazioni e infezioni.
Quello che intende lo vedo con i miei occhi lunedì 5 ottobre. Faccio un rapido giro per il reparto. Le camere sembrano supermercati. I comodini faticano a contenere bottiglie, biscotti, patatine e pasticcini. I medici mi danno subito del collega. Dico che sono troppo buoni e che non merito ancora quel titolo perché devo fare la specializzazione. Non importa, sono molto gentili. Mi invitano nella loro stanza, mi affidano un armadietto e una tuta per la sala operatoria. C’è da correre a fare gli interventi. Ci cambiamo.
Nel blocco operatorio ci sono i canonici indumenti monouso. Poi, stranamente, gli spogliatoi sono più avanti nel percorso che porta alle sale operatorie. Le regole vengono molto disattese. L’infermiere che assiste il chirurgo non indossa guanti. Mentre l’operazione è in corso la porta si apre: è un medico in camice bianco e scarpe normali. Rimane sulla soglia a chiacchierare con i colleghi.
Torno in reparto. Sul tavolo della saletta infermieri c’è dell’uva. Il medico mangia e con la stessa mano tocca la medicazione di una donna. Una signora cammina con un mucchio di lenzuola tra le braccia. Ha disfatto lei stessa il letto della figlia. Intanto il medico controlla la mano fasciata di un uomo. Tre dita sono nere, in necrosi. Dai polpastrelli escono fili di ferro. Lui ci infila le mani, che non ha mai lavato dopo avere mangiato l’uva.
Rimango solo, mi trovo davanti una signora: «Dottò, stamattina il primario mi ha detto che prima di uscire mi devono togliere questi punti dalla testa. Ma ora lui non c’è più. Che fa, me li toglie lei?». Esito. Poi chiedo a un’infermiera di indicarmi la medicheria perché, specifico bene, devo togliere i punti a quella donna. Entriamo. Faccio accomodare la signora, prendo un paio di strumenti, ci gioco, la guardo e le dico che forse è meglio aspettare il primario. Con la salute della gente è meglio non scherzare.
MOLISE E CONCORSOPOLI.
MOLISE, LA LOTTERIA DEI POSTI PUBBLICI: 2000 CONCORRENTI PER 22 CONTRATTI. I vincitori scelti per sorteggio. Il posto pubblico adesso si estrae a sorte, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”.
Da un'urna come per il lotto. Accade nel palazzo della Regione Molise, dove per scegliere 22 lavoratori per un contratto a termine, la commissione giudicante è ricorsa ad una estrazione tra duemila nominativi in gara. I sorteggiati per la verità, alla fine, sono stati almeno 44, poi tra questi, si è passati dal giudizio della sorte a quello del merito comparando i vari profili dei "baciati dalla fortuna". E così si è arrivati alla scelta finale.
La Regione Molise, guidata dal governatore forzista Michele Iorio, assicura che il sorteggio si è reso necessario in quanto l'analisi di duemila curricula avrebbe richiesto troppo tempo rispetto alle scadenze del progetto in questione. Ma l'opposizione di centrosinistra, chiede la revoca dell'aggiudicazione della gara e una nuova selezione su "criteri di trasparenza e merito".
A denunciare l'accaduto un consigliere regionale ds, Danilo Leva, che ha presentato una interrogazione su quello che ha definito "l'assurdo criterio di selezione" di 22 posti di lavoro all'interno del progetto culturale "Molise Live" con contratti relativi per lo più, a qualifiche amministrative e legali.
Il sorteggio, è stato effettuato tra duemila nominativi appartenenti ad uno speciale albo di collaboratori (long list), predisposto in precedenza, proprio dall'ente regionale.
Ma veniamo all'incarico in questione. I prescelti si dovranno occupare, si legge nella disposizione dirigenziale dell'ente "del costante monitoraggio di tutte le fasi del progetto, con lo scopo di enucleare possibili elementi di criticità organizzativa o burocratica, e di verificare la correttezza e la celerità delle richieste di procedure di ordinazione e di pagamento di spesa". Il contratto di lavoro per i fortunati prescelti del progetto "Molise Live" ha una durata triennale.
"Sono francamente senza parole - sottolinea il consigliere regionale Danilo Leva - L'accesso alle procedure comparative è un diritto di tutti coloro che hanno legittimamente partecipato alla gara. Trovo stucchevole che la creazione di uno staff di professionisti sia stata affidata alla sorte e non alla valutazione delle professionalità richieste".
Il presidente della commissione (composta per altro da funzionari della Regione), Claudio Locca (dirigente del settore cultura), che ha estratto a sorte i 44 nominativi, difende le scelte dell'ente.
"Ci siamo limitati a recepire una disposizione dirigenziale che imponeva un percorso, quello del sorteggio, e solo dopo della comparazione, e lo abbiamo eseguito, senza analizzare la questione giuridica, non di nostra competenza. La selezione si è svolta circa un mese fa, in commissione. Abbiamo stampato i nominativi dei duemila iscritti all'albo regionale dei collaboratori esterni, ritagliati e inseriti in un'urna. Al momento dell'estrazione erano presenti solo i tre commissari. Non era previsto che il sorteggio fosse pubblico. La metodologia? Inusuale, ma credo dettata dai tempi stretti del progetto".
"Molise Live" costa alle casse pubbliche oltre due milioni di euro ed è finanziato anche dal ministero dei Beni Culturali.