Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
I CASERTANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
TUTTO SU CASERTA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I CASERTANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che i Casertani non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Casertani non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
L'ANTI CAMORRA. IMPRENDITORIA E POLITICA; STAMPA E MAGISTRATURA.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
POLITICA E CAMORRA. L'ANTICAMORRA? IN UNA STALLA.
SCUOLA PUBBLICA E PARITARIA.
AMMINISTRATOPOLI.
MALASANITA'.
CASAL DI PRINCIPE. STORIA DI UN INNOCENTE.
CASAPESENNA E LA POLITICA.
PIGNATARO MAGGIORE. MAFIA ED ANTIMAFIA: QUALE LA DIFFERENZA?
INTRODUZIONE
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
L'ANTI CAMORRA. IMPRENDITORIA E POLITICA; STAMPA E MAGISTRATURA.
Di seguito gli articoli partigiani di denuncia. Per dovere di verità tutte le parti ideologiche sono rappresentate.
Imprenditori e politici nel sistema Gomorra. In manette i complici del boss Michele Zagaria. Tra i politici arrestati un big di Forza Italia Campania, Carlo Sarro. Sullo sfondo ancora una volta il regno della famiglia di Nicola Cosentino. E la strategia "antimafia" delle imprese colluse che con l'antiracket hanno tentato di ripulirsi dalle macchie del passato, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su "L'Espresso". 14 luglio 2015. L'ultima retata contro l'impero di Gomorra punta dritto al secondo livello. Mira ai complici insospettabili che hanno preferito accordarsi con il clan invece che denunciare il sistema criminale. L'indagine dà un nome e un volto ai colletti bianchi arruolati dal boss Michele Zagaria svelando i favori ottenuti dalle ditte in odore di camorra che si sono accaparrate i lavori per la rete idrica casertana e i finanziamenti illeciti ai partiti. C'è anche una richiesta di arresto, ai domiciliari, nei confronti di Carlo Sarro , 55 anni, deputato di Forza Italia e componente della commissione antimafia. I magistrati della distrettuale antimafia di Napoli l'hanno inviata alla Camera dei deputati. L'accusa ipotizzata nei confronti del parlamentare è di corruzione aggravata dall'avere agevolato un'organizzazione camorristica. L'inchiesta è coordinata dal pool anticamorra guidato dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e dai pm Maurizio Giordano, Catello Maresca, Cesare Sirignano e Antonello Ardituro. Il coinvolgimento della politica campana è però molto più esteso. L'ordinanza di arresto riguarda anche l'ex sindaco di Caserta Pio Del Gaudio, l'ex consigliere regionale Angelo Polverino, entrambi eletti con il Pdl, e l'ex parlamentare dell'Udeur Tommaso Barbato, candidato e non eletto con la lista di Vincenzo De Luca “Campania Libera”. Al centro dell'indagine l'imprenditore edile Giuseppe Fontana , legato da rapporti di parentela con Francesco Zagaria detto ‘Ciccio a benzina’, cognato del padrino Michele Zagaria. Partendo da lui gli inquirenti hanno ricostruito le pedine della zona grigia che hanno assicurato favori e appalti. Ma la storia di Fontana è anche l'esempio di come spesso l'antimafia diventa strumento per realizzare interessi personali. Nel 2009, infatti, l'imprenditore era stato colpito dal provvedimento del prefetto che gli vietava di lavorare nei cantieri pubblici. Era un anno particolare, il 2009. La solidità dei reparti militari del clan era stata scalfita da pentimenti e arresti. I capi carismatici erano o latitanti o al 41 bis. Da lì a poco Antonio Iovine sarebbe stato catturato. Per questo Fontana, insieme ad altri colleghi, aveva elaborato una strategia per salvare le aziende da eventuali indagini. Decide così di denunciare e di provare a intraprendere un percorso con le associazioni antiracket. Ma grazie alle intercettazioni effettuate dal Ros e alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, i pm hanno subito intuito che i fatti denunciati rappresentavano solamente l'inizio «di un più complesso disegno finalizzato a ottenere una "rigenerazione" di tutti quegli imprenditori che, anche a seguito della costituzione di un'associazione antiracket, avrebbe garantito loro nuove commesse con la Pubblica Amministrazione». Un'antimafia di facciata insomma, già denunciata da "l'Espresso" , per ripulire il curriculum macchiato dai rapporti costruiti negli anni con la mafia casalese. In particolare, Fontana, non si è fatto scrupoli a utilizzare amicizie tra i testimoni di giustizia. Sfrutta per esempio l'amicizia con un imprenditore sotto scorta che vive a Modena, Francesco Piccolo, titolare della Pica Holding: importante società inserita in numerosi appalti di rilievo nazionali. Il trucco utilizzato per aggirare le norme antimafia è, secondo gli inquirenti, semplice: Fontana «attraverso la cessione del ramo di azienda della società Co.ge.fon srl, colpita dall’interdittiva, in favore della Pica Holding srl partecipava alle aggiudicazioni dei lavori relativi agli adeguamenti infrastrutturali di impianti di gestione del ciclo integrato delle acque nonché di realizzazione e manutenzione di infrastrutture aziendali». Le amicizie di Fontana sconfinano nella politica che conta a livello regionale e nazionale. «Amicizie politiche influenti», le definiscono gli investigatori. Come Giovanni e Nicola Cosentino o Carlo Sarro, per esempio. Grazie a questi “amici” si assicurava l’assegnazione di una grossa commessa bandita dall’Ato Sarnese- vesuviano. Sarro, deputato di Forza Italia e membro della commissione antimafia, è politicamente un uomo di Nicola Cosentino. E gode di un ottimo rapporto con Giovanni Cosentino, fratello dell’ex parlamentare. Di potere ne ha molto. E affonda le radici nella gestione del consorzio idrico. È infatti il commissario straordinario dell'Ato 3, l’ente che gestisce i servizi idrici nelle province di Napoli e Salerno. In questo ambito avrebbe agevolato le ditte legate a Zagaria. Per questo motivo è indagato per corruzione aggravata. «Il regolare svolgimento della gara d’appalto pubblicata dalla G.o.r.i S.p.a(la società che gestisce il bacino) relativa ai Lavori di manutenzione, pronto intervento, rifunzionalizzazione, ricostruzione e riabilitazione delle reti idriche e fognarie per un importo stimato di 31.710.000 di euro, è stato alterato con l’aggiudicazione dell’appalto (in complessivi tre lotti) a società riconducibili al clan di Michele Zagaria». A tirare in ballo Sarro, poi, numerose conversazioni tra gli indagati che secondo gli inquirenti sono significative del ruolo di cerniera svolto dall'avvocato Sarro. Fontana per esempio «intendeva far leva sull’influente potere della famiglia Cosentino per ottenere da Sarro l’assegnazione di una grossa commessa bandita dallo stesso ente». Per l'imprenditore «tale pretesa rappresentava una sorta di “risarcimento” a fronte di un danno economico che lo stesso avrebbe subito quando Sarro, avvocato amministrativista, aveva patrocinato con esito negativo una controversia connessa all’emissione del provvedimento interdittivo antimafia che riguardava Fontana». Qualora la richiesta non fosse stata esaudita, Fontana aveva pronto il ricatto: «Era sua intenzione denunciare Sarro, poiché responsabile di aver ricevuto una tangente di 2.500.000 euro, pari al 5 per cento dell’importo per alcuni lavori pubblici illecitamente da lui assegnati ad un altro imprenditore di Casapesenna, anch’egli coinvolto nella vicenda delle pilotate assegnazioni dei lavori di “somma urgenza” presso la Regione Campania, legato da un rapporto di comparaggio proprio con lo stesso politico». Sarro dunque, secondo i magistrati, ha stretto rapporti illeciti con «diversi autorevoli esponenti della imprenditoria riconducibile al boss di Casapesenna Michele Zagaria». Non c'è solo Sarro tra i contatti politici del clan. Agli arresti anche Tommaso Barbato: «In qualità di responsabile del settore regionale collegato al ciclo integrato delle acque, successivamente di consigliere regionale in quota Udeur, di Senatore della Repubblica del medesimo partito politico e di persona comunque impegnata in attività politiche, procurava a diversi imprenditori (tutti imprenditori soci di fatto di Zagaria Michele) continue commesse legate a lavori affidati in regime di somma urgenza per la manutenzione e la gestione degli acquedotti regionali della Campania». In cambio Barbato avrebbe ricevuto voti e consenso. Il reato che gli contestano i pm è il concorso esterno. Ecco cosa dice di lui Massimiliano Caterino, tra i pentiti più importanti di Gomorra: «Posso solo dire che era persona di estrema fiducia di Franco Zagaria il quale di lui parlava molto bene. Si parlava di lui all’interno del clan come persona referente del clan nella Regione Campania, nel senso che egli forniva appoggio al clan in questioni amministrative e politiche relative ai lavori che molti imprenditori di fiducia di Michele Zagaria ricevevano grazie al suo appoggio». Si trattava, aggiunge poco dopo il collaboratore, di lavori per svariati milioni di euro concessi nel biennio 2003-2005. È indagato anche Pio Del Gaudio. L'ex sindaco di Caserta, prima delle comunali per la corsa a primo cittadino, nel 2011, ha ottenuto un finanziamento in nero, sostengono gli inquirenti, da Giuseppe Fontana, che in cambio ha ottenuto la promessa di affidamento di alcuni lavori. Sempre del Pdl è Angelo Polverino, anche lui finito in manette, e già coinvolto in un'altra inchiesta giudiziaria. Secondo la procura ha ricevuto importi non quantificati, ma uno di almeno 20 mila euro, per la corsa alle passate elezioni regionali, da parte di imprenditori del clan dei Casalesi, e dallo stesso Fontana. Come contropartita avrebbe agevolato le aziende di Fontana & Co. Soldi a pioggia dall'ala imprenditoriale del gruppo Zagaria in cambio della promessa di appalti e lavori, schema rodato che ha rafforzato il potere dei Casalesi e umiliato l'etica pubblica e le istituzioni. Il nome di Angelo Polverino finisce nei verbali dei pentiti. Massimiliano Caterino, per esempio, riferisce: «Venne sostenuto in occasione delle elezioni regionali. Egli era visto da noi, appartenenti al clan, in maniera favorevole perché di lui nel nostro ambiente si parlava bene (…). Era in ottimi rapporti con la famiglia Caterino e quindi con Antonio Iovine. Era in buoni rapporti anche con la famiglia Zagaria». Un quadro sconcertante, che il giudice per le indagini preliminari Egle Pilla riassume così: «Il clan Zagaria ha creato un sistema per raggiungere l'obiettivo dell'infiltrazione camorristica negli appalti pubblici che non sarebbe possibile senza la disponibilità di imprenditori a raggiungere intese illecite e senza la disponibilità degli amministrazioni pubblici». E per giustificare la misura cautelare scrive: «La presente indagine ha svelato quanto forte e duraturo nel tempo è il legame tra camorristi, imprenditori e politici». I tre vertici del sistema Gomorra.
L’INCHIESTA DI CASERTA. Camorra, manette a ex senatore Barbato sputò al collega che votò fiducia a Prodi. Era il 24 gennaio 2008: il giorno in cui finì l'esperienza del secondo governo Prodi. Tommaso Barbato, all'epoca senatore Udeur, sputò a palazzo Madama contro Nuccio Cusumano, suo collega di partito che aveva appena terminato l'intervento in aula annunciando che avrebbe votato a favore dell'esecutivo.
24 gennaio 2008, atmosfera rovente a palazzo Madama. L’allora esponente dell’Udeur si scagliò contro un altro parlamentare mastelliano che scelse di appoggiare il governo. Insulti e spinte, scrive “Il Corriere della Sera”
1. «Rissa» con il rivale a palazzo Madama. Uno sputo al senatore che votò la fiducia a governo Prodi. È noto (anche) per questo gesto Tommaso Barbato, l’ex senatore Udeur, arrestato a Caserta nell’indagine su appalti dirottati alla camorra che vede coinvolto anche Carlo Sarro, deputato di Forza Italia e Commissario dell’Ente d’Ambito Sarnese Vesuviano, per cui è stata inviata alla Camera una richiesta di autorizzazione all’arresto. Facciamo un passo indietro e arriviamo al 24 gennaio 2008: il secondo governo Prodi non è ancora caduto ma certo ha una vita difficile. In quelle ore Mastella lascia il governo l’Udeur si spacca e tra due senatori mastelliani - Nuccio Cusumano e Tommaso Barbato - scoppia una vera e propria rissa.
2. Gli insulti: «Traditore, pezzo di m...». All’annuncio di Cusumano di votare la fiducia a Prodi contro l’indicazione del gruppo Udeur, il capogruppo Barbato prima gli fece le corna, poi gridò «traditore», «pezzo di m...», e dopo essersi lanciato verso di lui gli sputò contro per superare il muro dei senatori che lo avevano bloccato. Un paio d’ore prima Mastella era stato esplicito. «Chi vota come noi, come me e Barbato, è nel partito. Chi vota contro, è fuori dal partito».
3. Cusumano svenne. Le cronache parlamentari di quella giornata raccontano che Barbato entrò in Aula dopo aver ascoltato dai video esterni la dichiarazione di voto di Cusumano e averla commentata con un eloquente «pezzo di m...». Quindi, una volta nell’emiciclo, proseguì con la raffica di offese: «Pagliaccio, traditore, venduto» e facendogli con le mani il segno della pistola mentre anche dai banchi del centrodestra arrivavano duri attacchi. Cusumano, rimasto immobile al suo posto, svenne tra i banchi del centrosinistra, accanto al capogruppo dei Verdi-Pdci Manuela Palermi e a Mauro Bulgarelli, senatore del Sole che ride.
4. La versione di Barbato. Barbato naturalmente raccontò un’altra versione. Visibilmente scosso nella buvette dopo l’incidente, accerchiato da una selva di telecamere, disse: «Non gli ho sputato e non l’ho offeso. Certo, non l’ho trattato bene, ma non l’ho aggredito». «Cusumano non poteva parlare male di Mastella. Ha avuto tutto quello che voleva. È un accattone» . Poi incalzato continuò: «Questo Paese non risorgerà mai se ci sarà gente di merda a rappresentarlo». Più calmo, disse: «Lui (Cusumano) dice di aver deciso per l’interesse del paese. Io so solo che l’ufficio politico ha deciso di votare contro la fiducia e lui era d’accordo. Cosa è successo in questi giorni? Gli hanno promesso qualcosa? Io non lo so. So solo che così si lavora contro le istituzioni e per l’antipolitica». Conclusa l’esperienza al Senato, Barbato venne poi eletto al consiglio regionale della Campania. Candidato a maggio scorso nella lista «Campania libera» a sostegno di Vincenzo De Luca non è stato eletto. Ora l’arresto.
5. Le accuse. L’ex senatore Udeur Tommaso Barbato concorreva esternamente al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi del clan Zagaria. E’ quanto scrive il gip nelle pagine dell’ordinanza dell’inchiesta che stamattina ha portato all’esecuzione di 13 provvedimenti cautelari su richiesta della Direzione distrettuale antimafia partenopea nei confronti di esponenti e favoreggiatori del clan dei Casalesi. Secondo la Dda di Napoli Barbato, usando i suoi incarichi e il suo ruolo politico, procurava a diversi imprenditori (tutti imprenditori soci di Michele Zagaria Michele) continue commesse legate a lavori affidati in regime di somma urgenza per la manutenzione e la gestione degli acquedotti regionali della Campania: così il clan avrebbe avuto uno strumento di sostentamento stabile e di apparente provenienza lecita, e lui ricevuto in cambio dal clan somme di denaro ed appoggio elettorale. Barbato, si legge ancora, è stato per anni il diretto referente in Regione della compagine di imprenditori legati a Michele Zagaria, beneficiari di ingenti commesse elargite in nome di tale appartenenza.
6. Le rivelazioni del collaboratore di giustizia. A riferire dei legami di Barbato con il clan è stato il collaboratore di giustizia Massimiliano Caterino, che diceva in un interrogatorio del luglio 2014: «Era molto amico di Franco Zagaria per avermelo detto lo stesso Franco e Carmine Zagaria. Costoro mi dicevano che per le elezioni politiche del 2006 dovevamo votare e far votare per il partito politico dell’Udeur. Non ho mai avuto rapporti diretti con lui. Posso solo dire che era persona di estrema fiducia di Franco Zagaria il quale di lui parlava molto bene. Si parlava di lui all’interno del clan come persona referente del clan nella Regione Campania, nel senso che egli forniva appoggio al clan in questioni amministrative e politiche relative ai lavori che molti imprenditori di fiducia di Michele Zagaria ricevevano in Regione grazie al suo appoggio».
Chiesto l'arresto per Carlo Sarro. "Camorra nei servizi idrici campani". Commissario per l'acqua nel sarnese-vesuviano, deputato Forza Italia, sostenitore dei condoni agli abusi edilizi, è anche componente della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi. Stamattina la richiesta alla Camera. L'accusa è di corruzione aggravata dall'aver agevolato un'organizzazione camorristica, scrive Francesca Sironi su "L'Espresso. È componente della commissione parlamentare antimafia guidata da Rosy Bindi. E accusato dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli di corruzione con l'aggravante di aver "favorito un'organizzazione camorristica", il clan dei casalesi. È Carlo Sarro, deputato di Forza Italia, 55 anni, per il quale questa mattina è stata inviata alla Camera dei deputati l a richiesta d'arresto. Nella stessa operazione, condotta dai Ros, sono stati emessi 13 provvedimenti cautelari, che hanno coinvolto anche l'ex sindaco di Caserta Pio del Gaudio e l'ex parlamentare Udeur Tommaso Barbato. La corruzione sarebbe avvenuta all'interno degli enti che gestiscono i servizi idrici della regione Campania. l'Espresso ne ha scritto anche di recente, per dare conto dell' incompatibilità al ruolo di Commissario tenuto da Carlo Sarro nell'Ambito del sarnese-vesuviano nonostante l'elezione da parlamentare. Interrogata dai cinque stelle, infatti, l'autorità anticorruzione di Raffaele Cantone aveva appena stabilito la rimozione del parlamentare dalla guida dell'ente commissariato, da cui dipendono gli appalti con la controllata di Acea - la privata Gori s.p.a - nella gestione degli acquedotti e del rifornimento idrico dell'area. Avvocato, considerato vicinissimo in passato a Nicola Cosentino, pasionario difensore della causa dei condoni edilizi, Carlo Sarro era stato a lungo, prima di esserne nominato commissario, presidente dello stesso ente, ruolo dal quale nel 2010 stabilì un aumento tariffario contestato dal Forum acqua bene comune locale.
Quanti presidenti nei guai con la giustizia. Ma come li hanno scelti? Da Sarro a Galan, da Azzollini a Formigoni e Matteoli. Mai come in questa legislatura s'è visto un tale affollamento di presidenti (o vice) di commissioni parlamentari alle prese, in vario modo, con i tribunali. Sarà colpa delle larghe intese? Si chiede Susanna Turco su "L'Espresso". All’esplodere dell’ennesimo caso, la domanda sorge spontanea: ma come li hanno scelti, a questo giro, presidenti e vicepresidenti delle commissioni di Camera e Senato? Sarà colpa delle larghe intese o del fato cinico e baro? Perché, con un occhio alla statistica, non c’è nella memoria recente una legislatura in cui così tanti – tra i parlamentari blasonati con l’incarico extra – si siano trovati in un modo o nell’altro nei guai con la giustizia: in galera, ai domiciliari, sotto indagine o sotto processo. Oggi è il caso del casertano Carlo Sarro, vicepresidente Fi della commissione Giustizia (e membro della commissione Antimafia) per i quali i pm hanno chiesto l’arresto ipotizzando l’accusa di corruzione aggravata dall’aver agevolato un clan camorrista. Ieri, cioè a giugno, la richiesta di arresto è arrivata per il barese Antonio Azzollini, da quindici anni presidente della Commissione Bilancio del Senato: indagato per associazione a delinquere finanziata alla bancarotta fraudolenta, nell’ambito dell’inchiesta sulla “Casa Divina Provvidenza” di Bisceglie, il senatore si è dimesso l’8 luglio da capo della Bilancio, dopo che la Giunta per le autorizzazioni ha votato sì alla richiesta dei pm e, soprattutto, dopo che il tribunale del Riesame ha confermato l’ordine di arresto. E’ rimasto invece formalmente presidente della Commissione Cultura della Camera Giancarlo Galan, nonostante sia agli arresti da quasi dodici mesi. Giusto il 22 luglio 2014, infatti, l’Aula della Camera votò sì alla richiesta dei magistrati che, nell’ambito dell’inchiesta sul Mose, gli contestavano i reati di corruzione, concussione e riciclaggio. Forzista, ex ministro ed ex governatore del Veneto, il padovano Galan si trova adesso ai domiciliari, avendo patteggiato una pena a due anni e dieci mesi e una sanzione di oltre due milioni di euro. Vuota da un anno la sua poltrona: si spera ora coi rinnovi dei presidenti di commissione di rimetterci qualcuno, nel frattempo una bazzecola come la riforma della Scuola si è colà esaminata e approvata senza presidente. Finita qui? Fino a un certo punto. Sempre al Senato, a guidare la commissione Agricoltura, c’è Roberto Formigoni, ex governatore della Lombardia, oggi senatore Ncd, imputato per associazione a delinquere e corruzione nel processo Maugeri (si è difeso davanti ai giudici di Milano per la prima volta giusto una settimana fa). E’ da poco, invece, che Palazzo Madama ha autorizzato i magistrati di Venezia a procedere contro il senatore Altero Matteoli, ex ministro dell’Ambiente, oggi presidente forzista della commissione Lavori pubblici, anche lui finito nell’inchiesta del Mose con l’accusa di corruzione. “Voglio uscire da questa vicenda a testa alta, andando a processo”, ha spiegato lui in Aula ad aprile, a in occasione della votazione. Dice che non vuole né patteggiamento, né prescrizione: si vedrà come andrà a finire. Ecco, si tratta certamente di casi tutti diversi fra loro. Ma, andando indietro nel tempo, un tale affollamento di problemi giudiziari si ritrova magari a livello di governo e sottogoverno (vedasi ad esempio l’ultimo esecutivo Berlusconi, dal caso Cosentino in avanti). Oppure si tirano i fili di vicende che però hanno avuto una evoluzione più lunga: pure Sergio De Gregorio, per dire, fu presidente della commissione Difesa nel 2006, eppure i suoi guai giudiziari cominciarono un paio d’anni dopo; ed è finito ai domiciliari solo nel marzo 2013, allo scadere dell’immunità parlamentare (dopo che il Senato, nel 2012 aveva votato contro il suo arresto). E anche Marcello Dell’Utri, un suo più modesto ruolo di presidente lo ebbe: quello della Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico, al Senato, ma nella XIV legislatura, cioè prima della condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa (e quando la simpatica vicenda della biblioteca dei Girolamini di Napoli non era neanche alle viste).
Il «concorso esterno» per Diana: magistrati e difesa, letture diverse, scrive Gigi Di Fiore su “Il Mattino”. L'ex senatore Lorenzo Diana, per anni simbolo dell'antimafia nella terra del clan dei Casalesi, punta tutte le sue carte difensive nell'interrogatorio che ha sollecitato, non ancora fissato. Con il passare dei giorni l'indagine, dove l'ex senatore è accusato di concorso esterno in associazione camorristica, appare sempre più delicata. Quello che accadde tra il 1994 e il 2006, gli interessi del clan dei Casalesi nell'affare metano, le connivenze della Cpl Concordia la cooperativa rossa concessionaria della metanizzazione nell'agro-aversano, il ruolo avuto da imprenditori e politici sono elementi da continue sorprese. Le date sono importanti, come la ricostruzione del contesto storico in cui si inserisce l'ultima vicenda su cui indaga la Dda napoletana. Il 1994, ad esempio. È l'anno della prima elezione al Senato di Lorenzo Diana nelle liste del Pd. Da sei anni, è stato ucciso Antonio Bardellino. Sono esplose nel clan le guerre di successione, solo un anno dopo sarebbe scattato il blitz della prima grossa inchiesta sui Casalesi, quella storica avviata da Federico Cafiero de Raho con il sostituto procuratore nazionale Lucio Di Pietro, denominata Spartacus. L'agro aversano è oppresso dalla cappa asfissiante di una mafia-camorra, che uccide, taglieggia, entra negli appalti, condiziona la politica locale lontano da riflettori e senza ancora molte inchieste giudiziarie in grado di fermarla. È proprio allora, tra il 1994 e il 1995, che il consorzio Eurogas firma le prime convenzioni con i comuni di Casal di Principe, San Marcellino e Villa Literno, per la metanizzazione. Il progetto prevede finanziamenti statali Cipe per il 65 per cento e il resto a carico dell'Eurogas. Ha spiegato agli inquirenti, l'ingegnere Mario Elena, oggi novantenne, allora amministratore del consorzio: «Intorno al 1996/1997, non essendo iniziati i lavori ed essendosi quasi fermati i contatti commerciali con i comuni interessati, fummo contattati da una persona che veniva per conto di uno dei sindaci di quei paesi per sondare la mia disponibilità a cedere le concessioni ad un'altra ditta». E ancora, il passaggio più delicato: «Approfittando del nostro timore per la presenza in quei paesi della criminalità organizzata, mi fu proposto il subentro per una cifra assolutamente ridicola fissata in 50mila lire. Accettai». Chi era l'emissario che si presentò a Cervinara in nome di uno dei sindaci? Di certo, appena due mesi dopo la cessione della concessione dall'Eurogas alla Cpl Concordia, venne approvata una legge di finanziamento statale per mille miliardi di lire sulla metanizzazione nel Mezzogiorno. Dopo essere stato sentito dagli inquirenti, l'ingegnere confida in auto alla figlia Paola che, a differenza dei suoi soci, non aveva paura dei Casalesi e aggiunge «A me fecero parlare con un capo mafia, e io questo a loro non gliel'ho detto!». E poi ammette di aver ceduto la concessione, che avrebbe servito un territori esteso, per appena 50mila lire. Quasi una cessione a costo zero. Arriva la Cpl Concordia, appena pochi mesi dopo la cattura del latitante Francesco Schiavone «sandokan», il secondo tra i capi, dopo Francesco Bidognetti, a finire in galera. Restano latitanti Antonio Iovine e Michele Zagaria. Il 1999 è anche l'anno dell'arresto dell'affiliato Nicola Panaro, uomo del gruppo Schiavone, che da attuale collaboratore di giustizia racconta come la Concordia fosse «disponibile a dare gli appalti per i vari comuni, non so se in subappalto o in appalto, alle imprese che noi gli segnalavamo». E aggiunge un particolare che risulta in sintonia con quanto dichiara anche il boss pentito Antonio Iovine. Dice Panaro: «Questa ditta, ora non posso essere preciso perché poi non ho continuato il rapporto e non sono andato nei dettagli, questa impresa madre, l'unica cosa che voleva riservarsi era il comune di San Cipriano D'Aversa, cioè noi potevamo dare i nomi delle nostre imprese per tutti gli altri comuni tranne San Cipriano». Entra in scena Lorenzo Diana. Dal 1996 al 2006 è senatore componente della commissione parlamentare antimafia. Per due anni, dal 1999 al 2001, ne è anche segretario. Tra i fondatori del Pd, è politico di riferimento della sinistra nel difficile territorio dove è presente il clan dei Casalesi. Sulla metanizzazione, nel suo territorio fa il tifo naturalmente per le cooperative rosse in contrasto con i politici della destra, come Nicola Cosentino. Aggiunge, dunque, Panaro: «Questa impresa doveva, inizialmente si disse, accontentare un politico della sinistra di San Cipriano, Lorenzo Diana». A gestire l'affare per il clan è Michele Zagaria, affidandosi alla mediazione dell'imprenditore, finito in carcere, Antonio Piccolo. A Casapesenna lavora la ditta di Piccolo, a Casal di Principe quella di Claudio Schiavone. Nel comune di San Cipriano, invece, i fratelli Pirozzi. È Antonio Iovine a fornire i nomi di tutti gli imprenditori, che lavorarono alla metanizzazione su segnalazione del clan e per incarico diretto della concessionaria Cpl: Piccolo a Villa Briano oltre che a Casapesenna; Nicola Di Bello a San Marcellino; Giovanni Di Tella a Frignano Maggiore; Claudio Schiavone a Casal di Principe e Villa Literno. Secondo la ricostruzione investigativa, la cessione della concessione alla cooperativa rossa Cpl Concordia fu forzata, per l'interessamento politico di Diana. L'ex senatore avrebbe ottenuto, insieme con il sindaco Angelo Reccia, di riservarsi la segnalazione della ditta per i lavori a San Cipriano d'Aversa, suo paese di residenza. E qui scatta l'ipotesi di concorso esterno in associazione camorristica, per un presunto accordo indiretto che portò guadagni ai Casalesi: la spartizione degli incarichi alle ditte sulla metanizzazione nei sette comuni dell'agro. Diana fu «facilitatore» del business delle ditte mafiose, sostiene il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Di certo, vi fu l' interesse politico di un senatore del Pd a portare a lavorare sul suo territorio una cooperativa rossa. Quell'interesse viene letto dagli inquirenti come accordo indiretto con il clan mafioso, nella consapevolezza che su quei lavori avrebbero messo le mani anche i Casalesi con le loro ditte. Vero, falso? Racconta Angelo Matano, dipendente della Concordia: «Lorenzo Diana era il referente politico sul territorio casertano della Cpl Concordia. Mi fu riferito dall'ingegnere Giulio Lancia». Quando seppe di doversi occupare della metanizzazione nell'agro aversano, Matano racconta di aver espresso perplessità per «la presenza mafiosa sul territorio». Gli rispose il vice presidente Severo Barotto, dicendogli di «stare tranquillo, perché la Cpl aveva ricevuto rassicurazioni da parte del senatore Lorenzo Diana, notoriamente attivo nel contrasto alle mafie, che le ditte impiegate nello svolgimento dei lavori erano tutte affidabili e non collegate alla criminalità organizzata». Era il 1999, Diana era segretario della commissione antimafia. Era davvero sicuro di poter garantire la trasparenza dei lavori? Anche in questo caso, una stessa affermazione può essere interpretata in due modi: politico, o penale. Nella telefonata intercettata con Diana, l'ex presidente della Concordia, Roberto Casari, gli dice: «Avevo delle preoccupazioni, delle perplessità, dopo fai lavorare la gente del posto e amen insomma, non si può mica dire non facciamo l'acquedotto perchè è un ambiente camorristico. Quando ce lo hai chiesto, noi ci siamo andati, abbiamo cercato di fare le cose fatte bene e via che siamo andati». Come leggere questa frase? In una delle telefonate intercettate con alcuni giornalisti, Lorenzo Diana spiega, a scatti: «Su un territorio del genere... convinto che….. come dire ci tenemmo ben lontani. perché ditte si avvicinavano. Si candidavano ovviamente…. Queste ditte…. Avevano… contatti…. ma i fatti, con la camorra...». Anche in questo caso, l'interpretazione offre margini interpretativi di ambiguità: è l'analisi di un conoscitore del territorio e del fenomeno mafioso, o l'ammissione di conoscenze dirette non denunciate in quegli anni?
Boss tira in ballo il pupillo di Saviano: imbarazzo nel mondo dell'antimafia. L'ex capoclan pentito Iovine: "Ecco i rapporti tra il senatore Diana e la coop indagata", scrive Simone Di Meo Mer, 08/04/2015 su "Il Giornale". Racconta il super pentito Antonio Iovine che quattro imprenditori a cui sarebbero stati affidati i lavori per la metanizzazione del Casertano li scelse la camorra. Il quinto no. «Io e Zagaria (altro capoclan Casalese, ndr ) dovemmo fare un passo indietro dal momento che furono il sindaco di San Cipriano Angelo Reccia e il senatore Lorenzo Diana che individuarono Pietro Pirozzi come subappaltatore della Concordia. Dunque, io personalmente e Zagaria trovammo un'intesa con Reccia e col senatore Diana». Nelle carte dell'inchiesta sulla tangentopoli ischitana, che nei giorni scorsi ha portato in carcere manager, politici e imprenditori legati alla coop rossa, ci sono un paio di paginette che minacciano di sconvolgere il tranquillo mondo dell'antimafia campana e nazionale, e che danno linfa a un altro filone investigativo che riguarda la costruzione del gasdotto dell'Agro-Aversano ad opera sempre della Cpl Concordia. Lorenzo Diana è un ex parlamentare diessino, oggi presidente del Centro agroalimentare di Volla per volontà del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. È tra i principali testi d'accusa nel processo per concorso esterno mafioso nei confronti di Nicola Cosentino ed è soprattutto l'unico politico citato (positivamente) in Gomorra di Roberto Saviano. «Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina - si legge nel best seller dello scrittore - quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale». Oggi, l'ex parlamentare che ha vissuto sotto scorta per il rischio che i Casalesi gli piazzassero una bomba sotto l'auto si trova però a fare i conti con le rasoiate dell'ex padrino che per 25 anni ha gestito gli affari criminali nella provincia casertana. L'ex senatore non è indagato, anzi sostiene di essere vittima di una calunnia. «Leopoldo Martino è stato assunto dalla Cpl grazie alla raccomandazione del senatore Diana», continua a raccontare Iovine ai pm a proposito degli accordi tra la coop emiliana e le cosche campane. Ma perché è tanto importante questo dettaglio? Il collaboratore lo spiega: «Martino è una persona a me legata. Era solito accompagnarmi durante la mia latitanza, quando io mi incontravo con gli affiliati per concordare affari e strategie». Leopoldo al volante, il gran capo del malaffare nascosto dietro. «Io mi mettevo nel cofano della macchina e lui la guidava (?) - ricorda Iovine nell'interrogatorio del 26 settembre scorso - in uno di questi spostamenti, fu Martino a dirmi di essere stato assunto alla Concordia grazie al senatore Diana». Coincidenze. Come quella che vede la sede della coop rossa ospite di un immobile di proprietà di un parente del pentito a San Cipriano d'Aversa, paese natale di Iovine e dell'ex parlamentare. Il garage di quel palazzo - ha spiegato il pentito - «veniva utilizzato come tappa nei numerosi e diversi spostamenti che mia moglie e mio figlio facevano per incontrarsi con me».
L'eroe anticamorra di Saviano mediava tra mafia e coop rosse. Indagato l'ex senatore Ds Diana. I pm: fu il tramite tra la Cpl e i boss in cambio di consenso e favori per i figli. E l'amico de Magistris lo molla, continua Simone Di Meo il 4 luglio 2015 su “Il Giornale”. L'icona anticamorra finisce indagata per concorso esterno in associazione mafiosa. Lorenzo Diana, già parlamentare con i Ds, citato come «eroe» da Saviano in «Gomorra», e teste d'accusa nel processo a Nicola Cosentino, da ieri è indagato per concorso esterno nell'inchiesta della Dda di Napoli sulla metanizzazione dell'Agro Aversano da parte della Cpl, la coop modenese che avrebbe stretto un patto con il clan dei Casalesi e il cui ex presidente, Roberto Casari, già ai domiciliari per l'inchiesta sul metano a Ischia, è da ieri in carcere, con altri dirigenti e imprenditori. A piede libero Diana, che commenta di sentirsi «tra un sogno e Scherzi a parte». Eppure per i magistrati partenopei l'ex parlamentare, vicinissimo al sindaco di Napoli Luigi De Magistris, è stato il «facilitatore» dell'accordo tra camorra, coop e imprenditoria per portare il metano a Casal di Principe e nei comuni limitrofi. Appalto pubblico da oltre 23 milioni di euro finito alla Coop modenese dopo che l'azienda concessionaria, la «Consorzio Eurogas», è costretta dall'intervento dei Casalesi a cedere l'autorizzazione all'opera a titolo gratuito in favore della Cpl. Il patto criminale prevedeva, per l'accusa, anche l'affidamento di subappalti a imprenditori vicini alla cosca. Racconta il super-pentito Antonio Iovine: «Io e Zagaria (altro capoclan, ndr ) dovemmo fare un passo indietro dal momento che furono il sindaco di San Cipriano Angelo Reccia e il senatore Lorenzo Diana che individuarono Pietro Pirozzi come subappaltatore della Concordia. Dunque, io personalmente e Zagaria trovammo un'intesa con Reccia e col senatore Diana». Inoltre, Diana avrebbe speso il suo peso politico «per ottenere le delibere di approvazione della concessione e dei progetti presentati dalla Cpl nei tempi previsti per accedere ai finanziamenti pubblici in favore della coop», pur conoscendo - secondo la Procura - gli intrecci sottostanti con imprenditori vicini ai boss Iovine e Zagaria. Dall'impegno per l'accordo tra coop e clan il politico, per il gip, trae un beneficio «in termini di consenso e vantaggi personali». Consistenti, tra l'altro «nel far assumere il figlio Gennaro dalla coop per un'attività fumosa e non rilevata neanche dagli stessi dirigenti della società», ma retribuita con 8.300 euro tra 2006 e 2007. Agli atti pure la storia dell'autista di Iovine, assunto secondo il boss dalla Cpl proprio su segnalazione dell'ex parlamentare. Ma dalle intercettazioni sulla coop emerge un'altra storia per la quale il gip impone a Diana il divieto di dimora in Campania e un anno d'interdizione dai pubblici uffici. Si tratta della recentissima «trattativa» tra l'ex parlamentare e il procuratore federale Figc Manolo Iengo per far ottenere al figlio di Diana, Daniele, un falso documento che attestasse la collaborazione con una società sportiva, per poter partecipare a un corso Figc propedeutico a un successivo master Fifa, offrendo in cambio a Iengo ostriche e incarichi professionali al Caan (centro agroalimentare) di Volla, del quale Diana è presidente su chiamata di De Magistris. Il gip picchia duro sull'attivismo dell'ex parlamentare «in spregio a quella cultura della legalità della quale si spaccia per paladino», e considera la vicenda «ancora più spregevole» perché Diana, mentre era preso dalla «commissione dell'illecito», faceva da relatore a convegni sulla legalità e poi andava agli appuntamenti per il documento falso «accompagnato dalla scorta». Tra i primi a mollarlo, l'«amico» sindaco di Napoli. de Magistris, così indulgente con se stesso quando si tratta di magagne giudiziarie, ieri ha subito firmato la revoca di Diana da presidente del Caan. È l'ammontare dell'appalto della metanizzazione finito alla Cpl. Diana avrebbe mediato coi Casalesi.
Da "Il Corriere di Caserta. Riceviamo e pubblichiamo: "Egregio direttore, mi rivolgo a lei, sicura di poter ottenere quella parola che avrei voluto contrapporre durante la trasmissione "Che tempo che fa", con lo scrittore Roberto Saviano. Si parla tanto della mia terra martoriata, ma non è un paese civile quello che impedisce la replica a chi viene attaccato in quel modo. Sono Tina Palomba, cronista di nera e giudiziaria del Corriere di Caserta. Ho firmato parte degli articoli incriminati, di cui ha parlato in tv il signor Saviano. L'altra sera, guardando il programma di Fabio Fazio, sono rimasta di sasso, incredula, indignata per la piega che ha preso la trasmissione. Alla fine ho pensato di restituire all\'Ordine, la tessera di giornalista. Tutta la trasmissione, o meglio, il monologo, lasciava intendere chiaramente una cosa: il Corriere di Caserta e i suoi giornalisti, sono collusi con la camorra. Un\'operazione mediatica senza precedenti, un attacco indecente ai danni di un quotidiano libero, condotta senza un minimo di onestà intellettuale, da parte del conduttore e del suo ospite. Mi rifiuto di credere che il motivo di tanto livore sia da ricercarsi nella vertenza intentata dal cronista Simone Di Meo, nei confronti di Saviano, dove si ipotizza un plagio realizzato nel libro Gomorra. Un caso di cui Il Giornale ha svelato i retroscena e ha messo a raffronto gli articoli ‘locali\', con i passi salienti di Gomorra, dove risultano ricopiate anche le virgole. Ma di questo, Saviano non ha parlato. Forse perché proprio in questi quotidiani locali ‘megafono di criminali\', ha attinto a piene mani senza mai citare la fonte. Sarebbe bene che tali vicende processuali si consumassero nelle sedi deputate, senza battere la grancassa delle televisioni, nel tentativo di influenzare il giudizio. Senza attaccare e delegittimare chi, ogni giorno, compie solo il suo dovere di informare l\'opinione pubblica. Di esempi di faziosità della trasmissione, ne potrei citare a decine. Ne prendo uno a caso: la lettera di un capo della camorra casertana, pubblicata sul giornale e mostrata durante il monologo. La lettura di quelle poche righe sarebbe stata sufficiente a smontare tutto il progetto di delegittimazione, poiché il boss, nero su bianco, intimava esplicitamente di non comprare il Corriere di Caserta, giudicandolo nemico dei clan. Ma così non è stato. Io, giornalista di un giornale di camorra? Sono stata individuata dal pentito Augusto La Torre, come la portavoce del pm della Dda, Raffaele Cantone. Questo concetto è stato ripreso pari pari dal boss Bidognetti e dal latitante Iovine, in una lettera al processo Spartacus. Delle due l'una: sono la portavoce della camorra, o dei magistrati antimafia? Per questa missiva e per altre minacce, sono stata sottoposta a vigilanza quotidiana. E con me, altri colleghi. Non vivo sotto scorta solo perché sarebbe impossibile continuare a lavorare con i carabinieri che ti seguono ovunque. Gentile direttore, dopo una notte in bianco, ho deciso di non restituire la tessera all'ordine. Mi hanno convinto le tantissime telefonate di solidarietà di lettori, carabinieri, magistrati, avvocati. Questo mi ha ridato fiducia, nonostante Saviano. Continuerò a raccontare anche ciò che qualcuno sembra aver dimenticato: che la vera lotta alla camorra, la fa chi indossa una divisa o chi coordina le indagini in procura. Continuerò a scrivere le brutture, i misfatti, i crimini, gli orrori che i camorristi perpetrano ai danni degli uomini e delle donne di questa terra martoriata. Nonostante Saviano". Tina Palomba, giornalista professionista de Il Corriere di Caserta".
Condannato a un anno, pena sospesa, scrive “Il Mattino il 17 settembre 2014. Questa la sentenza emessa dal giudice di Napoli, al termine di un processo con rito abbreviato, per l'ex sindaco del comune di Castel Volturno, Francesco Nuzzo, magistrato a Cremona. Nuzzo era stato coinvolto in un'indagine della Dda di Napoli su presunti favori resi a esponenti del clan dei Casalesi. Nella sentenza di oggi sono stati esclusi tutti i collegamenti con la camorra. Per Nuzzo, a cui erano stati contestati il falso e l'abuso d'ufficio con l'aggravante di aver agevolato il clan dei Casalesi, è stata esclusa l'aggravante mafiosa. «Sono deluso - ha commentato l'ex sindaco-magistrato Nuzzo - non mi aspettavo la condanna». Dodici anni di reclusione: questa la richiesta di condanna pronunciata dal pubblico ministero dell'Antimafia, Giovanni Conzo al termine della requisitoria finale nel processo con rito abbreviato nei confronti dell'ex sindaco di Castelvolturno e magistrato, Francesco Nuzzo. L'ex primo cittadino, in servizio a Cremona fino a poco tempo fa, è accusato di aver favorito la camorra in cambio di consenso elettorale in base alle accuse del pentito Luigi Guida detto O'Drink, il boss dei quartieri della Sanità di Napoli poi passato con il gruppo Bidognetti del clan dei Casalesi. «Per la richiesta di condanna formulata dal pm sogghigneranno la camorra e i suoi compari "in guanti gialli" che hanno organizzato il complotto contro di me - ha dichiarato Nuzzo appena appresa la notizia - continuo fermamente a credere nella giustizia e sono certo che si arriverà a una sentenza giusta!»
Getta la spugna il pm Francesco Nuzzo, primo cittadino del paese che nel 2008 è stato teatro della strage in cui furono uccisi sei immigrati. Castel Volturno, via il sindaco anticamorra. "Lasciato solo, ora i clan brinderanno", scrive “La Repubblica” il 28 aprile 2009 a firma di Patrizia Capua. Getta la spugna il sindaco di Castel Volturno, terra di frontiera e roccaforte della camorra più spietata. Francesco Nuzzo, magistrato, pm in servizio alla procura di Brescia, abbandona, logorato dalla solitudine di fronte ai rischi patiti nella lotta ai clan, e dai "litigi continui" nella maggioranza di centrosinistra, costituita da Pd e due liste civiche che lo sostenevano. La coalizione si è sfaldata proprio alla vigilia dell'approvazione di tre fondamentali provvedimenti: il piano urbanistico territoriale, il piano per il commercio e il piano spiaggia. "Provvedimenti" ha detto Nuzzo, "che la città attende da decenni, e ora mi vengono a chiedere posti per figli, mogli e mariti". Le "dimissioni sono irrevocabili" fa sapere Nuzzo, "e non penso di continuare l'attività politica". Aggiunge: "Sono profondamente amareggiato, adesso la camorra potrà stappare bottiglie di champagne. Continuerò in altre forme il mio impegno civile" dice il sindaco dimissionario che annuncia un libro-dossier: "Sarà un atto d'accusa". Il magistrato prestato alla politica se ne va sbattendo la porta. Era stato eletto nell'aprile 2005 alla testa di una maggioranza composta da Ds, Margherita e due liste civiche. Anni difficili alla guida del Comune del litorale domiziano, territorio strategico per gli affari dei Casalesi e assediato da un'emergenza sociale: a fronte di 20 mila abitanti, vivono circa 15 mila immigrati, per lo più irregolari tra i quali è infiltrata la mafia nigeriana che controlla prostituzione e traffico di droga. La tensione è scoppiata nel settembre dell'anno scorso in una mattanza di cui rimasero vittime sei immigrati del Ghana. "Mi hanno lasciato quasi sempre solo nei momenti difficili di questi anni". Nuzzo fa intendere che ai suoi danni c'è stata una congiura ordita con la complicità della sua stessa maggioranza. "Ho solo un rammarico. Ed è per i cittadini di Castel Volturno che mi hanno onorato della loro fiducia. Non ho mai confuso la funzione esercitata con interessi personali". Nuzzo ha ricevuto la telefonata dal governatore Bassolino e incassato la solidarietà di Claudio Fava. Fra venti giorni l'arrivo del commissario prefettizio. (ha collaborato Raffaele Sardo).
MANETTE AL GIUDICE CORROTTO. In tribunale si vedeva poco, lo stretto indispensabile, scrive “la Repubblica” il 7 marzo 1995. Più facile incontrarlo in piscina, ai bordi dello specchio d' acqua, mentre urlava come un dannato per incitare la sua squadra del cuore. Pallanuoto e politica, ecco i grandi amori di Raffaele "Lello" Sapienza, il giudice in carriera arrestato ieri mattina. Allo sport il gip Sapienza dedicava la vita, per un seggio a Montecitorio avrebbe fatto pazzie. Il 27 marzo si era pure candidato nelle liste di Forza Italia, a Caserta, senza successo. Ma non se l' era presa, aveva ben altro a cui pensare: proprio in quei giorni, in piena campagna elettorale, la Procura di Salerno gli aveva spedito un avviso di garanzia per corruzione, lo sospettava di essere uno dei tanti magistrati collusi con la camorra. Lui, Sapienza, si proclamava innocente. Sperava che l' indagine sulle toghe sporche fosse archiviata, invece ieri ha avuto la seconda mazzata: è finito in cella per concussione, avrebbe preteso una tangente di oltre 300 milioni come compenso per scagionare un imputato. Sapienza, gip nel tribunale di Santa Maria Capua Vetere vicino a Caserta, attualmente in servizio a Potenza, è rinchiuso nel carcere di Fuorni in isolamento. Non potrà vedere i familiari né il suo avvocato Paolo Trofino fino a giovedì prossimo, quando sarà interrogato. Sapienza è l' ottavo giudice arrestato in Campania per i processi "aggiustati", però stavolta la camorra non c' entra. Un ingegnere dell' ufficio tecnico di Caserta, Domenico Balsamo, ha puntato l' indice contro il gip, raccontando che quando era imputato in un processo per tentata concussione, fu avvicinato da un intermediario che si presentò a nome di Sapienza, pretendendo denaro per l' assoluzione. Balsamo pagò e riuscì a farla franca: il gip firmò una sentenza di non luogo a procedere, trasformando il reato da tentata concussione a tentata truffa, un' imputazione meno grave. Il faccendiere che agì da tramite tra il giudice e la sua presunta vittima è irreperibile, è riuscito a scappare prima di essere arrestato. Di lui si sa che è proprietario di una tipografia a Caserta e che sponsorizza il team di pallanuoto di cui Sapienza è fondatore e presidente onorario, il "Volturno Sporting club", una squadra di serie A nata nel 1981. L' imprenditore in fuga è l' uomo-chiave nell' inchiesta, indispensabile per accertare le responsabilità del giudice. Cinquantadue anni, originario di Bari, dal ' 70 al ' 76 Lello Sapienza cominciò la carriera nel tribunale di Larino, in provincia di Campobasso. Poi si trasferì a Santa Maria Capua Vetere, dove lavorò fino all' anno scorso prima come pubblico ministero, poi come presidente dell' ufficio gip. Dopo la candidatura nelle liste di Forza Italia, Sapienza cambiò ancora sede, scelse Potenza. Ma la sua vita era a Caserta, non aveva mai dimenticato la pallanuoto, sognava lo scudetto per il suo settebello. Delle traversìe processuali non sembrava preoccuparsi, il tempo libero lo dedicava allo sport, ostentando grande serenità in pubblico. Eppure l' accusa di corruzione gli bruciava: la Procura di Salerno lo aveva messo sotto inchiesta per aver archiviato un fascicolo sul complesso turistico "Parco dei Fiori" a Positano, costruito dalla camorra per iniziativa del defunto boss Antonio Malvento. Sembrava l' unica indagine a carico di Sapienza, ma ieri sul capo del giudice è piovuta la seconda, pesantissima tegola giudiziaria.
Magistratura corrotta e collusa con la camorra. Iovine, la procura di Roma indaga per corruzione e sentirà il boss pentito, scrive “Il Mattino”. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione alle dichiarazioni del pentito dei Casalesi Antonio Iovine che ha raccontato di una «struttura al tribunale di Napoli» per corrompere i giudici. Il pentito sarà ascoltato. Le carte trasmesse per competenza dai magistrati partenopei sono all'attenzione dei pm romani da alcuni giorni. Gli inquirenti capitolini, in base a quanto filtra, interrogheranno Iovine che nelle sue dichiarazioni tirerebbe in ballo anche un ex giudice della corte d'assise d'Appello di Napoli già sotto processo a Roma per il reato di rivelazione del segreto d'ufficio ed abuso d'ufficio. Quando il pentito del clan dei casalesi Antonio Iovine parla dei casi di presunti aggiustamenti di processi fa in particolare riferimento a due episodi. Si tratta di vicende che si erano concluse con la condanna in primo grado e con il ribaltamento della sentenza da parte della medesima sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli che lo assolse. Il 26 maggio scorso Iovine è stato interrogato dal pm della Dda di Napoli, Antonello Ardituro. «In alcune occasioni l'avvocato Michele Santonastaso - ha affermato Iovine - mi ha chiesto dei soldi per farmi avere delle assoluzioni». Il collaboratore si sofferma dapprima sul processo per l'omicidio di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca. Santonastaso, a suo dire, gli avrebbe consigliato un penalista «che aveva un buon rapporto» con il presidente della Corte di assise Appello. «Il discorso fu molto chiaro, mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte». Il pentito nei verbali fa i nomi del giudice e dell'avvocato che sarebbero stati coinvolti nella vicenda, ora all'attenzione dei pm della procura di Roma, cha ha la titolarità delle indagini in cui sono indagati magistrati del distretto partenopeo. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l'avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l'assoluzione. «Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascunò »Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l'assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti«. Al pm Ardituro il pentito (che fu condannato a 30 anni in primo grado e assolto in appello) ha ammesso di aver commesso il delitto con la complicità di altri tre camorristi. Iovine si sofferma poi su un duplice omicidio. Si tratta dell'uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985. Per tale delitto Iovine fu condannato all'ergastolo in primo grado e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. Quando seppe che il processo era stato assegnato allo stesso presidente »mi tranquillizzai molto« dice Iovine. »Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto. Pagai i 200mila euro a Santonastaso in due rate da 100mila a distanza di una settimana l'una dall'altra«. Anche per il duplice omicidio Iovine ha ammesso la propria partecipazione diretta. Alla domanda del pm sul perchè avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima per »aggiustare« i processi, Iovine spiega: »Santonastaso mi faceva il ragionamento che per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua vetere non era sua competenza, perchè Santa Maria era un pò così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria». Le dichiarazioni del pentito di camorra Antonio Iovine coinvolgono anche l'ex presidente della corte d'assise d'appello di Napoli, Pietro Lignola. Il magistrato, per un'altra vicenda in cui gli viene contestato il reato di rivelazione di segreto d'ufficio e abuso d'ufficio, è attualmente sotto processo a Roma davanti alla II sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio.
Il caso Lignola: giudice integerrimo o corrotto? Chi è, si chiede “Caserta Monitor”. “Integerrimo e severo”: così Paolo Chiariello, ora a Sky Tg24 definisce Pietro Lignola, il magistrato finito nella bufera delle dichiarazioni del boss camorrista pentito Antonio Iovine perche é in buoni rapporti con l’avvocato Sergio Cola, già parlamentare An, destinatario dei 200 milioni oggetto della richiesta del legale casertano Michele Santonastaso al boss per aggiustare il processo davanti alla Corte d’Appello presieduta da Lignola. Di ottima famiglia, con ascendenze nobiliari, ex allievo dell’esclusivo liceo “Pontano” di Napoli, retto dai Gesuiti, l’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Napoli Pietro Lignola, citato nei verbali dal boss pentito dei Casalesi Antonio Iovine, è un magistrato stimato, in pensione dal 2009. Colto, musicologo, esperto del teatro napoletano del ‘600 e animatore di una compagnia che portò’ in scena le fiabe del “Pentamerone” di Giambattista Basile, è collaboratore di quotidiani e periodici (proprio al Roma Chiariello lo ha conosciuto). Lignola è attualmente sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio, a Roma davanti alla seconda sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio. In magistratura è rimasto 50 anni, giudicando importanti processi. Nel 1997 in primo grado presiedeva la Corte d’ Assise che condannò i killer del giornalista napoletano Giancarlo Siani. Aveva giudicato anche i sicari del sacerdote Don Giuseppe Diana e guidato il processo per l’omicidio del fratello del magistrato ed ex senatore dei Ds Ferdinando Imposimato. Noto per sentenze rigorose nei confronti della criminalità organizzata, aveva invece fatto discutere per l’assoluzione in appello, nel 2003, dell’agente di polizia Tommaso Leone, condannato a 10 anni in primo grado per l’omicidio di Mario Castellano, 17 anni, che guidava una moto senza casco e non si era fermato all’alt. I difensori della famiglia di Castellano avevano presentato istanza di ricusazione nei confronti di Lignola, che avrebbe anticipato il giudizio in alcuni articoli firmati come opinionista su un quotidiano cittadino. Spesso polemico nei suoi articoli anche nei confronti di altri magistrati, era stato querelato da alcuni colleghi per aver stigmatizzato la loro presenza in piazza in occasione delle manifestazioni contro il “Global Forum” svoltosi a Napoli nel 2001 e coinvolto in una richiesta di risarcimento economico avanzata dai magistrati, che aveva interessato anche altri giornalisti all’epoca al Roma.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
POLITICA E CAMORRA. L'ANTICAMORRA? IN UNA STALLA.
Così come dall’inchiesta di “La Repubblica”. Testi e Video: Caserta, tra polvere e topi contro il clan dei Casalesi. Commissariati ridotti a porcili, uffici in condizioni tali per cui non è possibile viverci o lavorarci. Lo dicono gli ispettori più volte chiamati a verificare gli ambienti in cui lo Stato dovrebbe "riaffermare la propria presenza sul territorio". La frase è del ministro Maroni, ma i fatti raccontano una realtà di incredibile degrado.
Commissariati anticamorra come "stalle". Poliziotti costretti a vivere in uffici "in stato di totale abbandono in termini di pulizie" nei quali sono "violate le più elementari norme della legge 626 sulla sicurezza nei posti di lavoro". Accade nel Casertano, terra di Gomorra, quartier generale della Polizia di Stato della lotta al clan dei Casalesi. È qui il posto che il ministero dell'Interno ha elevato a esempio (il cosiddetto "modello Caserta"), di come si combatte la malavita organizzata e di come - sono le parole del ministro Maroni pronunciate nel 2009, all'indomani della strage di Castelvolturno nella quale i camorristi trucidarono 6 senegalesi - "lo Stato deve riaffermare la propria presenza sul territorio".
Ma è in questo contesto di frontiera che si registra la ribellione degli agenti, che insorgono contro il ministero dell'Interno che li "ha abbandonati" al loro destino, lasciandoli in mezzo a "spazzatura, disordine e sporcizia", "in locali disastrati" come quelli del posto fisso di polizia di Casapesenna e della Squadra Mobile di Casal di Principe, la città indicata dallo scrittore Roberto Saviano come il "cuore" del clan dei Casalesi.
La denuncia, senza precedenti in Italia, viene dai sindacati di polizia (in particolare dal Siap) ed è stata rivolta direttamente al prefetto di Caserta. "Metà questura - denuncia in Prefettura il segretario provinciale Siap, Silvio Iannotta - e l'80 per cento dei commissariati del Casertano versano in una situazione di degrado diventata intollerabile per l'inesistenza delle più elementari regole d'igiene dei locali". "Da diverse settimane - si legge ancora nella denuncia - non si effettuano più pulizie in taluni uffici. Ciò provoca un estremo disagio non solo per gli agenti che vi devono lavorare, ma anche per gli utenti che, recandosi in questi uffici, sono pervasi da un sentimento di chiaro imbarazzo per la disattenzione della legge 626".
La denuncia al prefetto dei sindacati di polizia trae forza dalle relazioni tecniche del Servizio di prevenzione e Protezione della Questura che da due anni a questa parte ha effettuato decine di sopralluoghi corredati da centinaia di fotografie. Immagini che dimostrano come l'80 per cento dei commissariati in terra di camorra, in quel "modello Caserta" fiore all'occhiello di Maroni, da Aversa a Marcianise, da Sessa Aurunca a Castelvolturno, da Casal di Principe a Casalpesenna (ma anche metà della stessa Questura di Caserta), si trovino "in condizioni scadentissime". Fili elettrici scoperti, uffici trasformati in depositi di immondizia, sedie rotte, bagni inagibili, muri scrostati, autorimesse diventate discariche, macchie di olio, scatoloni ammucchiati alla rinfusa, batterie rotte, pezzi di computer, infissi rotti abbandonati, faldoni giudiziari rosi dall'umidità. E poi mucchi di spazzatura ovunque, muffa, ruggine, incrostazioni, disordine, aria resa insalubre dalla mancanza di finestre, presenza di insetti, di topi. Una vetrata andata in frantumi per una sparatoria avvenuta 9 anni fa non è mai stata sostituita. Secondo i verbali redatti dal responasbile del Servizio di prevenzione, dottor Aldo Poli, e dal Medico competente dottoressa Alessandra Zibella, ad Aversa, ad esempio - dove si nascondeva il boss Michele Zagaria - "gli alloggi collettivi di servizio del commissariato sono assolutamente inadeguati".
"L'ambiente è insalubre - si legge ancora nella relazione del 29 marzo scorso - per uno scadentissimo livello delle pulizie, per la presenza di servizi igienici deficitari, incrostati e malfunzionanti, per vistose infiltrazioni di umidità e per la presenza di materiale lettereccio e di arredo accantonato nei corridoi". A Castelvolturno, teatro della strage del 18 settembre 2008, "le condizioni igienico sanitarie in cui versa la struttura di polizia - scrivono i dottori Poli e Zibella - risultano seriamente compromesse. Il livello delle pulizie nei bagni e negli spogliatoi è assai deficitario". E poi: "L'autorimessa versa in totale stato di abbandono. E l'inferriata sovrastante il cancello automatico di ingresso, causa presenza di ampie zone di ruggine, è a forte pericolo di crollo". Nella Questura di Caserta, annotano i due ispettori, "nell'autorimessa le condizioni igienico sanitarie sono pessime. Nel magazzino vestiario l'aria è pesante e l'ambiente insalubre per chi vi lavora. I locali della Scientifica presentano criticità per l'inquinamento dell'aria. L'armeria non ha un idoneo impianto antincendio. Gli infissi del magazzino Immigrazione sono sudici. Il pavimento dell'Urp è in condizioni igieniche scadentissime, le condizioni igienico sanitarie dei bagni vicino all'ufficio Immigrazione sono inaccettabili".
"La situazione è drammatica - conferma Giuseppe Tiani, il segretario nazionale del Siap - perché queste criticità sono state denunciate da almeno un anno, ma in questi 12 mesi nulla è stato fatto. Anzi le condizioni igieniche sono addirittura peggiorate in tutti gli uffici ispezionati. Non è così, lasciando i poliziotti che lottano la camorra in questo stato di umiliante degrado, che si combatte la camorra. Il governo da una parte fa vedere i muscoli approvando leggi antimafia, dall'altra, però, con i tagli di risorse al Comparto sicurezza, provoca malessere tra i poliziotti che quelle leggi devono applicare: gli agenti abbandonati in strutture fatiscenti, in vere e proprie "stalle", subiscono una demotivazione professionale perché non sentono un riconoscimento oggettivo del loro lavoro. E non vorremmo che quel malessere che serpeggia da tempo fra le forze dell'ordine sia un messaggio interpretato dalla camorra come un abbassamento della guardia". Giuseppe Tiani, segretario generale Siap, denuncia: "Il problema del crimine è serio, è antico, e va combattuto sul piano strutturale. Ma se le strutture sono queste, credo che avremo difficoltà. Ormai affidiamo la nostra sicurezza alla forza di volontà".
La lotta alla camorra ed alla illegalità non deve essere, né sembrare, lotta di parte o di facciata.
Nè deve mirare a criminalizzare una intera classe politica o a denigrare l’immagine di una regione, forte della sua storia, cultura e tradizione. I media nel nord vanno a nozze nel creare un solco incolmabile con la loro Padania.
La sinistra non si deve appropriare di una battaglia di civiltà, per il sol fatto di essere capace di fare corpo unico nella difesa della sue fazioni, delle sue posizioni, delle sue bandiere.
Ognuno di noi ha scheletri nell’armadio. Nessuno viene da Marte.
L’onestà intellettuale pretende che nessuno si erga a paladino della legalità e della ragione, sbandierando la sua presunta superiorità morale.
Noi, “Associazione Contro Tutte le Mafie”, unico sodalizio nazionale pluritematico, ben conosciamo tutte le realtà: dall'Alto Adige alla Sicilia. In loco abbiamo denunciato infiltrazioni camorristiche nella vicina provincia di Latina, con conseguente sospensione delle giunte comunali interessate.
Abbiamo scritto un libro che parla delle nefandezze italiane, taciute dai media ed impunite dalle istituzioni.
Di contro abbiamo avuto attacchi dalla mafia e dall’antimafia.
Purtroppo, a ragion veduta, non siamo di sinistra, né santifichiamo i magistrati. E questo ci penalizza.
Ma la realtà deve essere conosciuta da tutti, pur pagando, noi, un prezzo altissimo per le nostre esistenze.
Sul Magazine del Corriere della Sera del 15 ottobre 2009, pag 78, vi è «L’intervista » di Vittorio Zincone a Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli.
Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare controcorrente sul tema Saviano è impegnativo.
Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: "A noi della squadra mobile fu data la delega per riscontrare quel che Roberto Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull'assegnazione della scorta. Ho arrestato centinaia di delinquenti - ha aggiunto il capo della squadra mobile - Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. Resto perplesso quando vedo scortate persone, che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti, che combattono la camorra da anni. 'Gomorra' ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori". Secondo il capo della squadra mobile per rapportarsi alla criminalità organizzata bisogna rispettare "delle regole deontologiche" e soprattutto cercare di non dare "un'immagine eroica della lotta alla criminalità" perché "la lotta alla criminalità è una cosa normale. A cui tutti possono partecipare".
All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times.
Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?
E per finire una domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don Ciotti, presidente di "Libera", non fosse appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di sinistra, avrebbe avuto tanta visibilità e sostegno ?
A tal proposito vi è l’intervento di Vittorio Sgarbi, critico d’arte, opinionista Tv, già parlamentare e sindaco di Salemi, in Sicilia: “sono anche uomo di parola, e di denuncia, ma senza accettare regole e senza essere iscritto al club dei professionisti dell’antimafia.
Cosicché senza avere il sostegno di Repubblica, di Annozero, di Marco Travaglio, di Rita Borsellino, di Sonia Alfano, quando io ho denunciato gli interessi della mafia della schifosa impresa dei parchi eolici, improvvisamente cresciuti nella provincia di Trapani, nessuno, dico nessuno, dei sopra citati professionisti dell’antimafia (diversamente da quanto è accaduto in Sardegna) mi ha seguito e sostenuto, con l’eccezione del sindaco di Gela, Rosario Crocetta. E sarei stato ancora più solo se un’indagine della magistratura non avesse portato all’arresto di tredici persone, tra imprenditori, politici e mafiosi, sotto il controllo di Messina Denaro, a conferma delle mie posizioni. La lotta continua e nel frattempo ho ricevuto buste con pallottole, teste mozze di maiale, cani morti e innumerevoli, quotidiane, telefonate anonime.
La premessa era necessaria per dire che anch’io, come Saviano, sono sotto scorta, nella forma più lieve della cosiddetta «tutela», assegnatami dopo le minacce e con l’obiettivo di prevenire rischi per rivendicazioni annunciate perché io sono in una posizione singolare: sono minacciato anche dall’antimafia, o sedicente tale che non mi perdona le critiche alla magistratura e in particolare a Caselli e si apposta, con evidente intenzione provocatoria e inevitabili telecamere a ogni mio incontro pubblico, non per sostenere la mia azione contro la mafia, ma per denunciare le mie critiche all’antimafia. Basterà ricordare la mia presa di posizione rispetto al suicidio del giudice Lombardini dopo essere stato interrogato nel suo ufficio a Cagliari dai magistrati di Palermo e sull’arresto di un prete, padre Frititta, mostrato in manette perché accusato di avere confessato un mafioso, e poi, naturalmente, assolto perché il fatto non sussisteva nell’indifferenza generale. Ma non è consentito criticare gli intoccabili, indicare le loro distrazioni, l’impegno straordinario su falsi obiettivi, i veri obiettivi mancanti.
Ne consegue che io mi sono trovato paradossalmente minacciato dalla mafia e dall’antimafia, non essendo, come Roberto Saviano, politicamente corretto, e cioè da una parte sola. “Gomorra”. Un libro Mondadori, una pubblicità Mondatori (la Mondadori dell’odiato Berlusconi, ndr). Niente di male ma, mentre si invoca la libertà di parola per sé, eroe minacciato, si indicano i nemici in altri, che hanno o dovrebbero avere diritto di legittima critica, o per lo meno di dubbio, e che sono accusati di non difendere il minacciato Saviano, di abbandonarlo, di far mancare «l’impegno unitario» di stare con lui, dalla sua parte e di proteggerlo.
Chi lo critica non ha nome, non merita di essere citato, è «un funzionario». Saviano scrive «Mi ha difeso l’Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero de Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario». Toccherà a me dire che il «funzionario» è Vittorio Pisani. Un uomo che rischia la vita. Mi sia consentito dargli parola per rispondere a Saviano: «Io faccio anticamorra dal 1991. Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato… Be’, giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta». Che ragioni ha Pisani di esporsi, mettersi contro tutti e dire quello che ha detto? Non c’è antipatia nella sua intervista e non c’è neppure contrapposizione politica. Semplicemente la consapevolezza che le cose che ha scritto Saviano le hanno scritte altri giornalisti, senza pubblicare libri fortunati e reclamizzati, senza fare le vittime e senza avere scorte. Il fatto è che, come alcuni, come i magistrati di Palermo, come il presidente della Repubblica, Saviano appartiene alla categoria degli intoccabili. Io invece a quella dei toccabili. Faccio e ricevo critiche e non esalto la mafia descrivendomi come un eroe minacciato dall’antimafia. Non riesco a dividere il mondo in buoni e cattivi. Non sono fiero, ma sono incazzato contro chi vede distruggere la Sicilia, la Campania, la Puglia e tace raccontando di essere minacciato. Ma Saviano ha mai visto la distruzione del paesaggio fatta nelle regioni meridionali dagli speculatori dell’eolico, crocefiggendo montagne, solo per cupidigia di denaro?
E perché ha taciuto? E perché tace? E con lui tutti gli amici di Beppe Grillo, di Travaglio, di Di Pietro, di Santoro pronti a esprimere solidarietà e a firmare appelli. Io sto con Vittorio Pisani e credo alla sua parola e al suo impegno di poliziotto. Saviano ricorderà che Montanelli fu gambizzato, che Costanzo sfuggì a un attentato, e che altri giornalisti come Walter Tobagi, o Peppino Impastato (non solo magistrati) sono stati uccisi. I giornalisti che dicono la verità sono a rischio, siamo a rischio, ma nessuno può pretendere di essere intoccabile, nessuno ha diritto di indignarsi o di fare emozioni degli affetti per una critica, né Saviano, né il presidente della Repubblica.
A meno che non aspirino e non glielo vorrei augurare a diventare come padre Pio, e a pretendere non ragionamenti, valutazioni, discussioni, ma atti di fede. Con questa logica, come chi critica il capo dello Stato, anche chi critica Saviano rischierà di essere processato per vilipendio a «professionista dell’antimafia». Sciascia laico e irriverente, resterebbe senza parole. Lui, non «intoccabile», ma toccabilissimo (dalla sinistra, ndr).”
QUANDO LA QUESTIONE MORALE E’ BIPARTIZAN.
Antonio Giangrande: “La presente inchiesta coordina varie fonti pubbliche, in calce citate, che da sole non sarebbero state esaustive della realtà dei fatti. Le contrapposizioni ideologiche delle fonti, o il mancato intervento della magistratura, ha imposto il coordinamento e l’aggiunta delle posizioni di alcuni esponenti politici, che non risultano indagati, ma che meritano di essere conosciute.
Giusto per fare un quadro politico completo ed imparziale e per svelare improbabili superiorità morali. In questo modo nessuno si sentirà discriminato.
Siamo garantisti, per questo diamo la parola prima ai protagonisti”.
Per tutti parla Mario Landolfi su "Napoli On Line": «In Campania sono inquisiti Bassolino, Mastella, Pecoraro Scanio, Bocchino e sono inquisito anch’io. O c’è un’epidemia o c’è un certo protagonismo giudiziario. Protagonismo che meriterebbe maggiore attenzione».
C’è il politico che prende voti grazie al sostegno della camorra e quello che cambia in continuazione casacca, c’è l’ex ministro della giustizia e i suoi intrecci familiari e l’assessore comunale, che trucca atti pubblici per entrare nelle grazie dell’imprenditore di turno. E’ una fotografia impietosa della situazione politica di Napoli e della Campania quella scattata da Bruno De Stefano e Vincenzo Iurillo, autori de La casta della mondezza. Ma la nostra inchiesta va molto oltre, per non essere tacciati di parzialità.
Oltre 50 politici coinvolti nelle inchieste. Da Bassolino a Landolfi, il fronte bipartisan. I più importanti in ordine alfabetico.
Politici di grande rilievo, anche nazionale, sotto inchiesta per i reati più gravi. Ecco la classe dirigente della Campania. Parlamentari, amministratori, consiglieri regionali di sinistra, di centro e di destra, in una terra attraversata da una questione morale bipartisan.
I leader di una regione che dal 2000 ha speso 13 miliardi di fondi europei e sta per investirne altri 15. Una regione caduta nel baratro dell’emergenza spazzatura, la più grave catastrofe ambientale dai tempi del colera. Una regione in cui intere aree sono soggiogate da una camorra sanguinaria, che la politica ha combattuto con risultati altalenanti, oppure, nei casi peggiori, ha sfruttato scendendo a patti coi clan,. Secondo stime prudenziali sono almeno una cinquantina i politici indagati in Campania. In una regione ad alta densità criminale, la politica avrebbe dovuto produrre anticorpi più resistenti al rischio di infiltrazioni e degenerazioni nella gestione della cosa pubblica. Invece a Napoli e dintorni è accaduto esattamente il contrario, scrive Vincenzo Iurillo. C’ è chi è accusato di truccare appalti, chi di associazione per delinquere. C’è l’imputato di omicidio colposo per non esserci accorto di una situazione di pericolo e c’è l’indagato di riciclaggio.
Luigi Anzalone. Ex presidente della Provincia di Avellino, consigliere regionale del Pd, Anzalone è imputato in Appello per omicidio colposo plurimo in seguito alla frana della montagna di Pizzo Alvano, a Quindici, del 5 maggio ’98. Undici le vittime. In primo grado è stato condannato a tre anni di reclusione. Stamane potrebbe uscire la sentenza di secondo grado.
Antonio Bassolino. Governatore della Campania, membro dell’assemblea nazionale del Pd. È imputato per truffa aggravata e frode in pubbliche forniture nell’ambito del processo sul disastro rifiuti. In uno stralcio del procedimento, relativo alle consulenze del commissariato di governo per l’emergenza spazzatura, deve difendersi da una richiesta di rinvio a giudizio per peculato e falso. Un altro procedimento, relativo alle spese dei lavori di un casale in Toscana, è stato trasferito alla Procura di Arezzo. La Corte dei conti lo ha condannato due volte in primo grado per risarcire gli sprechi della sua gestione commissariale: dovrebbe versare più di 3 milioni di euro. Su entrambe le sentenze pende un ricorso. Il presidente della Regione Campania è stato imputato con altri 25, tra cui i vertici della Impregilo nel processo sui rifiuti in qualità di commissario straordinario per abuso d'ufficio, frode in forniture pubbliche, violazioni ambientali e truffa aggravata. Il processo è da un anno nella fase dibattimentale. Ha fatto discutere non poco la lista che annovera ben 536 testimoni e che rallenta di fatto l'arrivo di una sentenza, facilitando il sopraggiungere della prescrizione. I numerosi rinvii delle udienze si sono avuti nella prima fase del dibattimento anche per i continui cambi alla presidenza del collegio giudicante ora guidato da Adele Scaramella. Bassolino risulta indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle bonifiche ambientali. La Corte dei Conti ha invece stabilito in primo grado la responsabilità del governatore, in qualità di commissario ai rifiuti, per il progetto Sirenetta. La sentenza è stata impugnata in appello di fronte alle sezioni centrali. Giudicata eccessiva la spesa di 47mila euro per la commissione di gara per la realizzazione del call center (da molti definito fantasma) nell'ambito del progetto PanProtezione Ambiente e Natura.
Italo Bocchino. Vice capogruppo del Pdl alla Camera, candidato sconfitto da Bassolino alle regionali del 2005 in quota An, Bocchino è inquisito in Magnanapoli, l’inchiesta sul sistema Romeo per il controllo degli appalti del Comune di Napoli.
Ciro Borriello. Sindaco di Torre del Greco noto per numerosi cambi di casacca: indagato dalla Corte dei Conti per i danni derivati dalla mancata raccolta differenziata nell'ambito dell'emergenza rifiuti.
Angelo Brancaccio. Consigliere regionale dell’Udeur, ex Ds, nel 2007 è stato arrestato e in seguito rinviato a giudizio per una sfilza di reati contro la pubblica amministrazione, relativi al periodo in cui è stato sindaco di Orta d’Atella, nel casertano.
Enrico Cardillo. Ex assessore al Bilancio di Napoli, Pd. E’ in corso nei suoi confronti un processo con rito abbreviato per Magnanapoli, l’inchiesta sui presunti appalti truccati e telecomandati dall’immobiliarista Alfredo Romeo. Il pm ha chiesto una condanna a sei anni.
Luigi Cesaro. presidente Pdl della provincia di Napoli, è chiamato in causa dal pentito Gaetano Vassallo, uno degli accusatori di Cosentino. Vassallo lo ha definito “uomo vicino al clan Bidognetti” e racconta l’esistenza di un patto tra Cesaro e la camorra casalese per la realizzazione dei lavori di riconversione degli stabilimenti Texas di Aversa.
Aniello Cimatile. Il presidente della Provincia di Benevento, Pd, docente universitario, è indagato nell’ambito di un’inchiesta sui rifiuti e sui collaudi degli impianti di Cdr. Per un breve periodo a giugno 2009 è stato sottoposto agli arresti domiciliari.
Carmelo Conte. Già ministro Psi del governo Andreotti e candidato alle politiche con Berlusconi, oggi è un leader del Pd salernitano. E’ imputato in Corte d’Appello per concorso esterno in associazione camorristica, per presunte collusioni con il clan Maiale, attivo nella piana del Sele. In primo grado è stato assolto con formula piena, ma il sostituto pg ha presentato ricorso. E’ stato invece condannato in primo grado a quattro anni e dieci mesi per aver estorto negli anni Ottanta finanziamenti per il Giornale di Napoli.
Roberto Conte. Ex consigliere regionale del Pd, a giugno 2009 è stato condannato in primo grado a due anni e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe versato nelle mani di due galoppini del boss Giuseppe Misso 120 milioni di lire in cambio del sostegno del clan della Sanità alle elezioni regionali del 2000. All’epoca militava nei Verdi.
Nicola Cosentino Il deputato di Casal di Principe, sottosegretario Pdl all’economia. Il Gip di Napoli ne ha disposto l’arresto per concorso esterno in associazione camorristica. Cosentino è accusato di collusioni con i clan Bidognetti e Schiavone, dai quali avrebbe ricevuto sostegno elettorale sin dagli anni ‘90.
Andrea Cozzolino Europarlamentare Pd, molto vicino a Bassolino, il potentissimo ex assessore regionale all’Agricoltura è sotto inchiesta a Santa Maria Capua Vetere nell’ambito delle indagini sulla realizzazione di una centrale a biomasse a Pignataro Maggiore.
Rosetta D'Amelio. Ex sindaco di Lioni in provincia di Avellino attuale assessore alle politiche sociali della regione Campania Pd: condannata a sei mesi di reclusione per abuso d'ufficio.
Vincenzo De Luca. Sindaco di Salerno, Bersani lo ha cooptato nella direzione nazionale Pd. Due volte rinviato a giudizio nell’ambito delle inchieste sull’assegnazione dei suoli industriali liberati in seguito alla dismissione della Ideal Standard e sulla delocalizzazione dell’ex Mcm. In questa seconda tranche condivide lo status di imputato con Gianni Lettieri, presidente degli industriali di Napoli.
Sergio De Gregorio. Il senatore “transfugo” da Di Pietro a Berlusconi è indagato per riciclaggio. L’inchiesta si riferisce ai rapporti economici intercorsi nel periodo 2004-2005 tra il politico e il presunto contrabbandiere Rocco Cafiero. La procura ha fatto ricorso al Riesame contro il rigetto della richiesta di arresto da parte del gip, rendendo così pubblica la partita giudiziaria in corso.
Ferdinando Di Mezza. Ex assessore al Patrimonio Pd: imputato nel processo Global Service per abuso d'ufficio e associazione per delinquere.
Fernando Errico. Il consigliere regionale del beneventano divide con Clemente e Sandra Mastella alcune accuse nell’inchiesta sull’Udeur connection. Dall’Abruzzo, dove si è rifugiato causa divieto di dimora in Campania, ha annunciato le dimissioni da capogruppo del Campanile.
Antonio Fantini. Ex segretario regionale Udeur. condannato a due mesi e dieci mesi di reclusione nell'ambito della ricostruzione post-terremoto.
Nicola Ferraro. Consigliere regionale Udeur, presidente della commissione Affari Istituzionali. È sotto processo insieme alla Mastella per tentata concussione. Secondo un pentito di camorra, Michele Froncillo, Ferraro è stato eletto grazie al sostegno interessato del clan Belforte di Marcianise. Froncillo rivela che Ferraro, per ingraziarsi Mastella, avrebbe regalato un Porsche Cayenne al figlio dell’ex Guardasigilli, acquistato presso la concessionaria di un parente del boss. Mastella respinge con fermezza questa ricostruzione e annuncia azioni legali.
Marco Fiorentino. Sindaco di Sorrento, azzurro, poi Udeur, poi di nuovo berlusconiano. E’ imputato di omissione d’atti d’ufficio e omicidio colposo per la tragedia del 1 maggio 2007, quando una gru che si muoveva sopra un’area non transennata, di fronte al municipio, precipitò al suolo uccidendo due donne. E’ accusato di non aver emesso un’ordinanza di tutela dell’incolumità pubblica nei confronti della ditta che stava montando le luminarie.
Corrado Gabriele. Assessore regionale al Lavoro per Rifondazione: imputato per molestie sessuali.
Giuseppe Gambale. Ex assessore a Napoli del Partito democratico: imputato nel processo Global Service per associazione per delinquere.
Alberico Gambino. Esponente di spicco del Pdl salerninato, già sindaco di Scafati e assessore provinciale della giunta Cirielli. È stato sospeso da primo cittadino e si è dimesso da assessore in seguito a una condanna in primo grado a un anno e sei mesi per peculato: gli si contesta l’uso improprio della carta di credito dell’amministrazione comunale. Cirielli lo ha ‘ripescato’ assumendolo nel suo staff.
Amedeo Labocetta. Deputato Pdl, è considerato dai pm un sodale di Romeo e divide con l’immobiliarista alcune accuse dell’inchiesta sugli appalti truccati a Napoli. Ha preferito non aderire al rito abbreviato.
Mario Landolfi Deputato e vice coordinatore regionale del Pdl, è coinvolto in un’inchiesta della Dda sui rapporti tra politica, imprenditoria e camorra e relativa allo smaltimento dei rifiuti a Mondragone e in provincia di Caserta attraverso l’Eco 4 dei fratelli Orsi. Gli inquirenti gli contestano il reato di corruzione e truffa con l’aggravante di aver favorito il clan La Torre.
Felice Laudario. Ex assessore all'Edilizia in quota Sdi: imputato nel processo Global Service per abuso d'ufficio e associazione per delinquere.
Renzo Lusetti. Parlamentare del Partito democratico. Nel filone Global Service figura con Italo Bocchino. Per loro la Procura avanzò richiesta di autorizzazione a procedere. Sulla questione però è stata sollevata un'eccezione di costituzionalità. Secondo la difesa il Gip non avrebbe potuto mandare gli atti direttamente alla Camera dei Deputati.
Sandra Lonardo Mastella. La presidente del consiglio regionale della Campania è stata rinviato a giudizio per tentata concussione per aver provato a imporre, senza successo, la nomina di tre primari all’ospedale di Caserta. Nell’inchiesta-bis sull’Udeur connection, appalti e raccomandazioni all’Arpac, le è stata inflitta la misura del divieto di dimora in Campania.
Clemente Mastella. L’ex ministro della Giustizia di Prodi, europarlamentare del Pdl in quota Udeur, è accusato dai pm di Napoli di essere il leader di un’associazione per delinquere finalizzata a spartirsi nomine e appalti con criteri clientelari nell’Arpac e negli altri enti controllati dal Campanile. Per lui pende una richiesta di rinvio a giudizio per concussione ai danni di Bassolino. Insieme a due ex assessori regionali avrebbe minacciato una crisi in giunta per ottenere la nomina di un suo uomo all’Asi di Benevento.
Gianfranco Nappi. Ex capo della segreteria di Bassolino, sotto inchiesta a Santa Maria Capua Vetere nell’ambito delle indagini sulla realizzazione di una centrale a biomasse a Pignataro Maggiore.
Luigi Nocera. Ex mastelliano, candidato dell’Udc alle ultime Europee, è stato a lungo assessore regionale all’Ambiente. In questa veste ha segnalato 100 assunzioni all’Arpac, l’agenzia per la protezione ambientale, ed è finito sotto inchiesta per una raffica di reati contro la Pubblica amministrazione. Gli inquirenti lo ritengono uno dei perni del sistema Mastella, almeno fino a quando ha militato nel Campanile. Imputato di concussione per la nomina all’Asi di Benevento estorta a Bassolino, indagato per associazione a delinquere e altre accuse nell’inchiesta – bis sull’Udeur connection, deve difendersi anche da una richiesta di rinvio a giudizio per l’alluvione dell’area di Sant’Anna e Villanova, a Nocera Inferiore, nell’ottobre del 2007: 90 parti offese, 1,2 milioni di euro di danni alle strutture pubbliche, 4,5 milioni di euro di danni per i privati.
Marco Nonno. Di Alleanza nazionale ma sospeso dalla carica di consigliere comunale a Napoli : imputato nel processo sugli scontri per la discarica di Pianura per devastazione e associazione per delinquere.
Alfonso Pecoraro Scanio. L’ex ministro verde dell’Ambiente è indagato con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri reati contro la pubblica amministrazione. Avrebbe promesso e compiuto favori di vario tipo in cambio di viaggi e soggiorni gratis in Italia e all’estero. Sentenzierà il Tribunale dei Ministri. È indagato anche a Crotone nell’inchiesta sulle mazzette per la realizzazione di centrali elettriche a turbogas della Calabria.
Gaetano Pesce Fino a giugno l’esponente di An è stato vice presidente del consiglio provinciale di Napoli. E’ stato condannato in primo grado a tre anni e sei mesi per abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la camorra. La vicenda risale al periodo in cui Pesce era sindaco di S. Gennaro Vesuviano: l’amministrazione, poi sciolta, avrebbe avuto un occhio di riguardo per le aziende e gli affari del clan di Mario Fabbrocino.
Giuseppe Petrella. Ex deputato dei Democratici di sinistra: condannato a sei mesi con pena sospesa per minacce.
Salvatore Perrotta. Sindaco di Marano: indagato per discarica abusiva a Marano.
Americo Porfidia. Indagato per camorra in qualità di sindaco di Recale per l'Italia dei valori.
Antonio Pugliese. Ex vicepresidente della provincia di Napoli nel centrosinistra, si è poi candidato nella tornata successiva nel centrodestra. E’ imputato nell’affaire Romeo per un appalto di competenza provinciale: il pm ha chiesto 6 anni e otto mesi di condanna.
Dario Rotondo. L’ex sindaco di Pietravairano (Caserta), di Alleanza nazionale, a maggio è stato arrestato assieme all’assessore ai Lavori pubblici e ad altre sette persone, nell’ambito di un’inchiesta sulla spartizione degli appalti comunali in cambio di tangenti. L’operazione è scattata due settimane prima delle elezioni comunali, vinte dall’opposizione.
Domenico Zinzi Il parlamentare dell’Udc è sotto processo con Anzalone e altri imputati per la frana di Quindici. Tre anni di condanna in primo grado, per una storia che risale al periodo in cui era assessore regionale alla Protezione Civile.
Italia Dei Valori. Scrive Fabrizio Geremicca su "Il Corriere della Sera". Partito dell’anticasta, se lo si osserva da lontano; gabbiano con le ali appesantite dalla zavorra di esponenti dal dubbio passato e dai molteplici cambi di casacca, se si avvicina il punto di osservazione. Ecco Italia dei valori secondo MicroMega, la rivista che, nel numero, quello dedicato a Teresa Strada, di Emergency, riserva un’inchiesta approfondita alla creatura dell’ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. La firma Marco Zerbino, che scrive più di una pagina sulla «Campania infelix» e sugli esponenti di Italia dei valori all’ombra del Vesuvio.
Di Nello Formisano, il segretario regionale del partito, riferisce l’iscrizione alla Massoneria, citando un’inchiesta pubblicata tempo fa dal mensile la Voce della Campania. Racconta che rappresenta l’ala 'pragmatica' del partito e gli attribuisce il demerito di avere candidato nel 2006 al senato Sergio De Gregorio. «Il quale — scrive ancora Zerbino — dirigerà poi il quotidiano del partito, Italia dei valori, nella cui redazione Formisano aveva piazzato il figlio come praticante». «Il segretario regionale di Idv — si legge ancora su MicroMega — ha inoltre traghettato nel partito Mimmo Porfidia e Nicola Marrazzo». Riguardo al primo, sostiene la rivista: «Il suo nome compariva, insieme a quello di altre sedici persone, in una informativa del 2005 che la Squadra Mobile di Caserta aveva successivamente trasmesso alla Direzione investigativa antimafia. Negli ultimi giorni del 2008 la notizia, appresa dai giornali, di essere indagato per 416 bis mandò a Porfidia di traverso il panettone».
Quanto a Marrazzo, rileva Zerbino: «Ex Dc poi passato ai Democratici, alla Margherita, a Rinnovamento italiano e infine a Idv. Già consigliere regionale. La sua famiglia possiede diverse imprese impegnate nel settore dei rifiuti, quattro delle quali si sono viste ritirare dalla Prefettura il certificato antimafia. Marrazzo è stato uno dei protagonisti dello scandalo che, nell’ottobre 1991, portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose dell’amministrazione comunale di Casandrino». La rivista passa in rassegna anche la vicenda di Cosimo Silvestro, ex consigliere regionale di Idv, che aveva tra i collaboratori un imprenditore pomiglianese del settore della ristorazione più volte fermato dai carabinieri in compagnia di pregiudicati. Un’inchiesta, quella di MicroMega, che non è passata naturalmente inosservata. La Stampa, ad esempio, l’ha ripresa in un ampio servizio e c’è già chi ritorna a parlare, come aveva scritto il Corriere della Sera, di un caso campano nel partito di Di Pietro.
Certo è che dalle informative contenute negli atti depositati emerge una figura, quella di Mautone, «al centro di un sistema di potere molto forte... volàno di una serie di raccomandazioni in tutti i settori pubblici». Un sistema che vede l'ex provveditore come punto di riferimento anche per 5 esponenti dell'Italia dei valori, compreso il figlio del leader del partito, Cristiano Di Pietro. Nessuno di loro risulta tra gli indagati, come a proposito di Di Pietro jr sottolineava un comunicato dell'Idv. Nelle carte dell'inchiesta-Romeo emergono però richieste precise avanzate da parlamentari in carica, come il deputato Nello Formisano e il senatore Aniello Di Nardo. Quest'ultimo in una telefonata ricorda a Mautone di un suo amico «che doveva essere chiamato» e non è stato più convocato per dei lavori di impiantistica di una galleria a Vico Equense. In un'altra conversazione segnala due architetti amici di Cristiano Di Pietro «ai quali non bisogna far prendere collera».
Americo Porfidia, deputato dell'Idv e sindaco di Recale, in provincia di Caserta, poi, è inserito tra le persone che hanno rapporti istituzionali con Mautone, e l'informativa degli investigatori precisa anche che a suo carico la Squadra mobile di Caserta ha aperto un procedimento penale per un'ipotesi di reato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Cardiologo, deputato in carica, a Mautone si è rivolto per chiedere consiglio per investimenti pubblici nel casertano.
L'intreccio di richieste che dalla Campania provava ad incidere su Roma sfocia anche in un emendamento da inserire in Finanziaria. Nell'ottobre 2007 Mautone chiede a Formisano una modifica per favorire un contributo a favore della "casa degli anziani" cui è interessato Francesco Manzi, consigliere regionale della Campania che fa riferimento al partito di Di Pietro. Spicca, infine, una telefonata tra Mautone e Cristiano Di Pietro sul tema forniture pubbliche: per l'impresa che realizza l'impianto elettrico di una caserma a Termoli e per dove va a rifornirsi del materiale. I due parlano delle percentuali di ribasso per la gara d'appalto: percentuali ritoccate "al rialzo" su suggerimento di Mautone, avallato da Di Pietro junior. Dal Pdl attacco di Maurizio Gasparri al leader dell'Idv: «Come ha fatto il babbo a sapere che erano intercettate le telefonate tra il pargolo e Mautone?
SCUOLA PUBBLICA E PARITARIA
Caserta, il boom delle "paritarie". Il Reportage di Mario Reggio. Per ogni scuola pubblica due private. Viaggio nella provincia che detiene il primato nazionale degli istituti paritari: quasi quattrocento contro i 217 statali. Ma dietro a questo successo c'è spesso un segreto inconfessabile: buste paga in ordine, ma in realtà stipendi al nero di poche centinaia di euro. E i prof ci stanno un po' per paura e un po' perchè è l'unico modo di fare punti per i concorsi. Caserta, Santa Maria Capua Vetere, Capua, Aversa. Un interminabile serpente di case e palazzi. Traffico caotico ma vivace. Lungo i chilometri d'asfalto decine di cartelloni pubblicitari: istituto paritario... scuola materna e primaria. Istituto paritario... recupero anni scolastici, dalla primaria al diploma. “La provincia di Caserta vanta il record nazionale delle scuole paritarie – spiega Enrico Grillo, segretario provinciale della Cgil Scuola, il nostro chaperon nel viaggio alla scoperta di questo mondo sommerso – qui da noi le scuole statali sono 217, mentre quelle paritarie sfiorano quota quattrocento. Su scala nazionale, il rapporto è 74 per cento di scuole statali e 24 per cento paritarie”. Prima tappa del viaggio Santa Maria Capua Vetere. Il primo incontro con l'insegnante di una elementare paritaria è un flop. “Niente macchina da presa, niente registratore, non vi dico neanche il mio nome – taglia corto – non voglio passare guai, io sto lì solo per accumulare punteggio. Altro non vi dico”. Il secondo appuntamento va meglio. Dopo molte insistenze la maestra accetta di parlare. “La telecamera va bene, ma io mi metto di spalle e dobbiamo togliere tutto quello che potrebbe far capire in che posto ci troviamo”. La tensione si scioglie e le prime verità vengono a galla. “Alla fine del mese ti danno il foglio stipendio legale, ma in realtà la tua paga non supera i 250 euro al mese, non hai orari né ferie e, se ti va male, ti paghi anche i contributi. L'unico mio obiettivo è incassare alla fine dell'anno i dodici punti che, assieme agli altri accumulati negli anni, mi permetteranno di fare un concorso nella scuola pubblica”. Marta, nome di fantasia come tutti quelli che seguiranno, saluta: “Mi raccomando non fatemi passare guai”. Si risale in macchina, il traffico è meno caotico perchè è ora di pranzo, obiettivo una trattoria di Capua. Ad attenderci il signor Roberto, un uomo sulla cinquantina, giacca e cravatta, sguardo preoccupato. Lo chef consiglia minestrone, pasta e fagioli, gnocchi alla sorrentina, vino rosso della casa. Il signor Roberto non è insegnante, lavora come contabile da molti anni in una scuola paritaria che dalla materna ti porta al liceo. “Il corpo docente è di buon livello, ma il meccanismo è sempre lo stesso: buste paga ufficiali e retribuzioni in nero. Da noi, però, si pagano i contributi. I docenti più esperti e fedeli arrivano a prendere anche 700 euro al mese. Il padrone è un imprenditore che ha capito come la scuola può essere fonte di lauti guadagni. Da noi c'è il tempo pieno alle elementari e si applica il modulo delle tre maestre. I bambini entrano alle otto del mattino e escono alle cinque del pomeriggio. La retta non è esosa: 300 euro al mese, più l'iscrizione e la mensa. Le domande di iscrizione sono in continuo aumento. Poi abbiamo il recupero degli anni scolastici”. Come funziona? Il signor Roberto vuota il sacco: “Molti degli studenti delle superiori vengono da altri comuni e alcuni da fuori regione. Il primo passaggio è il certificato di residenza dell'allievo, che deve soggiornare nel comune dove sta la scuola – spiega – ma non è difficile, abbiamo ottimi rapporti sia con il Comune che con la Provincia, come dire che non si nega un favore ad un amico. Lo studente in realtà è presente solo alcuni giorni a settimana, segue i corsi, recupera gli anni e alla fine arriva alla maturità. I prezzi variano da duemila a tremila euro l'anno, poi la tassa per l'esame finale. Più tardi ci si iscrive e più sale il prezzo”. Signor Roberto, nelle scuole paritarie c'è la camorra? “La gente vuole stare tranquilla, non vuole guai. D'altro canto, basta avere un prestanome e tutto si risolve. Nessuno le dirà se c'è e dove sta la camorra. Qui ci conviviamo da anni e conosciamo anche il loro codice. Se rompi le scatole, per prima cosa ti trovi sotto casa un uomo che ti dice buongiorno, volta le spalle e se ne va – racconta Roberto –. Se continui, arriva a casa una telefonata anonima. Se insisti, ti sparisce la macchina, ma spesso te la fanno ritrovare sotto casa dopo un paio di giorni. L'ultimo avviso consiste nel darti fuoco all'automobile. La gente non vuole guai”. La lunga chiaccherata si conclude con due caffè forti, neri, fatti con la macchinetta napoletana. Il signor Roberto esce prima e sparisce. Di nuovo in macchina, destinazione la Camera del Lavoro di Aversa. Il traffico è ripreso, caotico, eppure nessuno mostra nervosismo anche quando due giovani in moto e senza casco ti tagliano la strada all'improvviso. “Qui c'è rassegnazione, ed è un veleno che uccide la società civile – dice Enrico Grillo –. La gente non parla, tutti sanno, ma sono in pochi quelli che denunciano, intanto l'imprenditoria intelligente sta approfittando dell'agonia della scuola pubblica per aumentare il numero di studenti e ci sta riuscendo. Nella statale si tagliano le cattedre, il tempo pieno non esiste più ed è scontato che i genitori che lavorano fanno uno sforzo per mandare i loro figli in una scuola paritaria dove si fa anche quello che un tempo si chiamava doposcuola. Molte delle scuole paritarie pagano i docenti poche centinaia di euro, quindi i costi di esercizio sono molto bassi, poi hanno anche i contributi statali. In Campania sono più di 35 milioni di euro”. L'Ufficio scolastico regionale esegue i controlli periodici che è tenuto a fare per legge? “L'Ufficio è in condizioni disastrose – commenta Grillo – dovrebbe avere in organico trenta ispettori invece ce ne sono solo quindici per tutto il territorio regionale". E le poche volte che parte un ispettore da Napoli alla scuola arriva immancabilmente una telefonata che annuncia la visita. Imprigionati nel traffico di Aversa, c'è la possibilità di dare uno sguardo intorno. Sul corso s'innalza un palazzo di sei piani, color sabbia, tre terrazzi per piano, segno evidente che si tratta di una costruzione destinata alla “civile abitazione”. Invece no. All'entrata un cartellone: liceo statale G. Siani. La scuola è dedicata al cronista del Mattino ucciso dalla camorra. Seconda sorpresa, il palazzo è “fittato”, come si dice da queste parti, da un privato alla Provincia per quattro milioni di euro l'anno. Dopo quattro traverse appare la Camera del Lavoro. Lì dovrebbero aspettarci cinque insegnanti. L'appuntamento è per le 17. Si fanno le cinque e mezza ma non si vede nessuno. Poi nella stanza fa capolino una giovane. Appena vede la telecamera mostra segni di nervosismo. “Non voglio essere ripresa. Posso dirvi solo che ho lavorato in una scuola primaria, mi davano 250 euro al mese e facevo di tutto: badavo ai bambini, pulivo le classi, facevo anche la spesa per la direttrice. Una volta arrivò un ispettore, ma noi giovani eravamo già uscite in strada. Ora lavoro in una scuola di suore e tutto va bene”. Poi arriva Arianna che accetta di farsi riprendere, ma di spalle. La sua storia è uguale a tutte le altre. “Sono sei anni che lavoro in quella scuola, non vedo l'ora di andarmene e con il punteggio accumulato fare un concorso nella scuola pubblica”. Il ritorno a Caserta è faticoso: decine di camion che sfrecciano a tutta velocità, auto che viaggiano a fari spenti, mentre due elicotteri dei carabinieri volteggiano nel cielo scuro. “A quelli ci siamo abituati e nessuno ci fa caso”, commenta Enrico Grillo. Nessuno poteva immaginare che si trattava dei preparativi per la cattura di Michele Zagaria. Finalmente Caserta. All'orizzonte fari e luci illuminano a giorno il “Centro Campania”. “E' il centro commerciale più grande della Campania, sono riusciti a stravolgere il piano regolatore per costruire questi enormi viadotti che portano alla struttura. Qui ogni domenica si forma un ingorgo gigantesco, la gente viene anche dalle altre province”. Chi può aver investito tutti quei soldi? Tutti lo sanno ma nessuno pronuncia la parola che fa paura.
AMMINISTRATOPOLI.
MASOCHISTI. Per la serie: rompiamo i giocattoli che funzionano e facciamoci ridere dietro. La crisi dei rifiuti in Campania è un’emergenza con cui, da anni, convivono diversi paesi della regione. Non tutti i Comuni hanno però questo problema. Luigi Pelazza accende i riflettori su una ventina di paesi della Provincia di Caserta che, grazie a una virtuosa raccolta differenziata, sembrano non essere toccati dai problemi di città poco distanti. Questi centri abitati, infatti, possono vantare, a fronte del pareggio di bilancio, una percentuale di raccolta differenziata con punte che superano il 60%. Una percentuale che straccia le più blasonate ed osannate località centro settentrionali. Una situazione ottimale che dal 1° gennaio 2012 ha subito una modificazione in seguito alla legge 26/2010 che prevede che la gestione dei rifiuti sia affidata ad un consorzio provinciale, tra le diverse incognite legate ai suoi costi. Visto l’ottimale funzionamento dei Comuni e la cogenza della legge che obbliga gli stessi comuni virtuosi ad aderire obbligatoriamente al consorzio, modificando un sistema ben collaudato di raccolta differenziata, lo stesso Presidente della Provincia di Caserta Domenico Zinzi, tramite le Iene, fa un appello per modificare questa legge. Tutti ormai sappiamo che la Campania è flagellata dalla crisi dei rifiuti. Non tutti però sanno che una ventina di Paesi della provincia di Caserta si sono salvati da questa crisi, grazie a una raccolta differenziata più che efficiente. La percentuale di questo tipo di raccolta sfiora anche il 60%, un dato più che positivo. Tuttavia, la situazione è cambiata a causa della legge 26/2010: in base al testo normativo, la gestione dei rifiuti passerà a un consorzio provinciale, senza alcuna garanzia di funzionamento e contenimento dei costi. Per chi non si conformerà subirà l'intervento coatto da parte del Prefetto, con il commissariamento del Comune. A differenza di quanto ci si aspetterebbe, il servizio del "Le Iene" del 16 novembre 2011 ha illustrato la situazione di alcuni comuni che ha stupito i molti prevenuti. Luigi Pelazza si è recato in queste cittadine della provincia di Caserta dove la raccolta differenziata è fatta scrupolosamente, niente buste dell’immondizia per strada, niente bidoni traboccanti pattume. Niente a che vedere con le immagini che molti di noi hanno visto in tv di una Napoli immersa nella sporcizia. Questi comuni sono riusciti ad ottenere una percentuale di raccolta differenziata che, in alcuni casi, superano il 60%, tra le più alte d’Italia. Nonostante questo esempio di civiltà e rispetto della legge, la situazione è drasticamente cambiata a causa della legge 26/2010, che prevede la gestione dei rifiuti affidata ad un consorzio provinciale. Nasce così il problema dei costi potrebbe aumentare in maniera vertiginosa e che potrebbero risultare ingestibili da parte di questi comuni. Da qui la protesta dei Sindaci dei comuni interessati sulla trasmissione del “Le Iene”. «Drammatica», così definisce la situazione finanziaria e gestionale del Consorzio unico di bacino (Cub) di Caserta Domenico Zinzi. Il presidente della Provincia ha inviato una lunga lettera inviata ai sindaci dei Comuni di Terra di Lavoro sulla situazione del consorzio. Lettera spedita ai sindacati, per conoscenza anche ai parlamentari casertani, al presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, al prefetto Ezio Monaco, al commissario dell'articolazione casertana del Cub, Gaetano Farina Briamonte e all'amministratore unico della Gisec, Felice Di Persia. Al centro della questione c'è da un lato il Consorzio unico che rischia il dissesto e dall'altro le 58 città consorziate rischiano una nuova emergenza rifiuti. «Se le amministrazioni comunali inadempienti non provvedono al pagamento delle quote, anche parziale e riferito agli anni 2010 e 2011 - spiega Zinzi - il Consorzio rischia il collasso, con la possibilità che vi sia una nuova emergenza rifiuti sull'intero territorio». Le quote dei comuni serviranno a coprire gli stipendi dei lavoratori almeno fino al 31 dicembre. «La drammatica fase che sta attraversando il Cub sotto il profilo gestionale - ha aggiunto il presidente della Provincia - è anche frutto delle scelte scellerate compiute in passato da chi ha retto in maniera formale e informale le sorti del Consorzio Unico e dei disciolti Consorzi in precedenza operanti sul territorio provinciale». I problemi gestionali, inoltre, sarebbero legati a «scelte inaccettabili» e a «un aumento indiscriminato del personale». Il presidente della Provincia, poi, ha annunciato che saranno convocati i sindaci dei Comuni serviti dall'articolazione casertana del Consorzio Unico di Bacino ai fini «della sottoscrizione di una delega irrevocabile all'incasso, a favore della Gisec, delle somme introitate, a titolo di Tarsu/Tia, a valere sull'esercizio finanziario 2012, che opererà anche in ipotesi di proroga della legge 26/2010. Tale delega - ha continuato Zinzi - costituisce una condizione necessaria per il subentro della Gisec, a partire dall' 1 gennaio 2012, nell'erogazione dei servizi di igiene urbana, non potendosi in alcun modo consentire una dissociazione tra titolarità dei servizi e materiale disponibilità delle relative risorse finanziarie». Infine, l'appello: «Oltre che ai sindaci - ha concluso Zinzi - mi rivolgo anche ai parlamentari, ai consiglieri regionali e ai consiglieri provinciali. Tutti insieme dobbiamo lavorare per evitare che si materializzi uno scenario apocalittico».
Autovelox col trucco, scrive "Il Corriere della Sera": più di 200 persone, tra cui molti sindaci, assessori e comandanti delle Polizie municipali, sono indagate nel Casertano nell’ambito di un’operazione condotta dal comando della compagnia dei carabinieri di Capua e della Stradale di Caserta in esecuzione di un decreto di sequestro preventivo emesso dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. Comuni e ditte, secondo l'accusa, avevano creato un modo «facile» per fare soldi, «ritoccando» le immagini inviate agli automobilisti. Le indagini, poi sfociate nell’emissione del decreto, hanno avuto infatti per oggetto il rilevamento delle infrazioni attraverso autovelox, photored o altri macchinari simili. Destinatari dei provvedimenti numerosi Comuni della provincia di Caserta e di società. L’indagine ha evidenziato un sistema «creato dai Comuni e dalle società che, in violazione di legge, rappresentava un modo di facile, ingiusto e rilevante profitto». Le condotte contestate riguardano le modalità di affidamento del servizio da parte dei Comuni alle ditte private, la non corretta indicazione in bilancio delle somme provento delle sanzioni, le illecite modalità di rilevazione delle infrazioni. Ed ancora, l’omessa comunicazione alle competenti autorità delle infrazioni per il decurtamento dei punti e illeciti nel trattamento dei dati personali. I reati contestati riguardano la truffa, l’abuso d’ufficio, la turbata libertà degli incanti, la falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale in atti pubblici, il rifiuto e l’omissione di atti d’ufficio. E poi, la soppressione, la distruzione e l’occultamento di atti veri, la violazione del codice della privacy per il trattamento dei dati personali. Le somme incassate dai Comuni attraverso gli autovelox col trucco sono state sequestrate come quelle ricevute dalle società coinvolte e corrisposte dai Comuni per il noleggio e i servizi relativi al rilievo delle infrazioni mediante autovelox o strumentazioni simili. Analogo provvedimento riguarda le apparecchiature stesse e la documentazione cartacea e informatica relativa al rilievo delle infrazioni. L'inchiesta è stata avviata nel 2005 dai carabinieri di Capua, dopo le denunce presentate da automobilisti. Ai sindaci di 33 comuni, ad altri amministratori ed ai comandanti delle polizie municipali, viene contestato, tra l’altro, di avere installato autovelox e photored senza uno studio sulla pericolosità e sull’intensità del traffico, spesso con il trucco, ovvero senza idonea segnalazione, nascosti tra gli alberi o posizionati dopo una curva e con una improvvisa variazione del limite di velocità previsto sulla stessa strada. La constatazione delle infrazioni attraverso i riscontri fotografici non veniva effettuata dai vigili urbani e, dunque, da un pubblico ufficiale ma da dipendenti delle stesse società che provvedevano anche a redigere i verbali ai quali, poi, apponevano la firma digitale di un vigile urbano. A sindaci ed altri amministratori comunali di quasi tutti i 33 comuni del casertano vengono anche contestati accordi diretti con le ditte per l’installazione ed il funzionamento delle apparecchiature e non attraverso regolari bandi di gare. Al centro dell’indagine compensi alle ditte non fissi ma proporzionali all’entità della sanzione comminata all’automobilista. Poi, l’iscrizione nel bilancio comunale di somme di denaro non corrispondenti all’effettiva entità degli introiti derivanti alle sanzioni per infrazioni al codice della strada. Non era stato, poi impiegato, come prescrive la legge, il 50 per cento delle somme riscosse per il miglioramento delle strade e le opere destinate alla sicurezza stradale nei singoli comuni.
MALASANITA'
Per la mafia dei funerali le salme valgono 200 euro, scrive Carmine Spadafora su "Il Giornale". Arrestate 22 persone. «Fammi un piacere, quando vai a prendere il morto, dài la mazzetta a quelli sotto la sala mortuaria». È uno dei tanti dialoghi registrati dai carabinieri di Caserta e di Santa Maria Capua Vetere, intercorsi tra due impresari di pompe funebri casertani, arrestati all'alba di ieri in base a una ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Antonio Baldassarre. Diciassette persone sono finite in cella, cinque agli arresti domiciliari, mentre, altre undici hanno ricevuto una misura interdittiva. L'accusa, a vario titolo, per gli arrestati è di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, illecita concorrenza operata con violenza e minaccia nel settore delle imprese funebri, alla ripartizione secondo criteri territoriali delle esequie relative a decessi. Il racket ruotava attorno a tre figure essenziali: gli addetti alla sala mortuaria dell'Azienda ospedaliera casertana. Erano loro che, avvertivano tempestivamente gli impresari di pompe funebri, che c'era «un morto da venire a prendere». Secondo quanto accertato dagli investigatori, gli infermieri non solo avvisavano gli imprenditori delle ditte per garantire loro la tempestività in ospedale ma facevano anche intendere ai familiari dei defunti che il servizio fosse convenzionato con la struttura pubblica. Grazie a loro, a Caserta e provincia, si era creata una sorta di monopolio: lavoravano solo quattro agenzie di pompe funebri, più un paio del Napoletano, che si erano spartite il territorio. Le altre, zac! Tutte tagliate fuori. E, per chi non accettava questa dittatura del funerale, erano minacce e violenze. Ma, nonostante il clima di intimidazione, qualcuna delle vittime si è ribellata alle prepotenze e ha denunciato tutto ai carabinieri. Il monopolio è durato almeno una decina di anni. Imponente il giro di affari, quantificato in diverse centinaia di milioni di euro. Anche i tre infermieri in servizio presso l'Istituto di medicina legale dell'Azienda ospedaliera San Sebastiano di Caserta, se proprio non si sono arricchiti, poco ci manca. Quei millequattrocento euro di stipendio che gli passava lo Stato ogni mese, era un'inezia, rispetto al superstipendio da manager di grande azienda, che le pompe funebri consegnavano ai presunti corrotti: dai 5 ai seimila euro. Nel dettaglio, ogni salma valeva 100 euro, ma la cifra raddoppiava per i funerali importanti o per i feretri da trasportare fuori regione o addirittura all'estero. Dall'attività investigativa è emerso anche che uno dei tre infermieri truffava i colleghi di corruzione, tenendo per sé anche la parte destinata agli altri due. Emblematica appare una vicenda avvenuta un paio di anni fa in occasione del funerale di una donna, deceduta a Casapulla, la cui salma era da trasferire al cimitero di Lusciano (entrambe località del Casertano). Le esequie erano a carico di una ditta esclusa dalla spartizione (il cui titolare nel frattempo stava collaborando con i carabinieri) ma il carro funebre, una volta giunto a destinazione, ebbe l'amara sorpresa di trovare parcheggiato davanti alla chiesa, l'autocarro di una delle ditte del racket. Accanto al mezzo, una «scorta» minacciosa e armata di due pistole. Il titolare della ditta, che aveva eseguito il trasporto della donna deceduta, fu affrontato a muso duro dal collega dell'agenzia che operava in regime di monopolio. «La bara la portiamo noi dentro, voi dovete andare via di qui». Al rifiuto, uno degli indagati, gli disse: «Cornuti, andate via di qui... Stanotte vi incendio tutti e due gli uffici che avete». La seconda parte del funerale della donna, fu portata a compimento dalla ditta che faceva parte del racket.
CASAL DI PRINCIPE. STORIA DI UN INNOCENTE
Marcire in prigione senza avere colpe. Era il destino di Alberto Ogaristi, operaio accusato di omicidio, condannato all'ergastolo. Ma, ancora prima, segnato dalla "tragedia" di essere nato a Casal di Principe. Tutto perso. Fino a quando le parole di un pentito offrono alla coscienza di un pm e alla determinazione di un avvocato il riscontro: «Non fu lui». Eppure non basta. Passeranno giorni, forse mesi, prima che la giustizia della logica si traduca in quella delle carte. Prima che un innocente possa riprendersi la propria esistenza. La fetta di paese che non si arrende, sorride. Senza brindisi. E in una palazzina di via Giovanni Spadolini, a Casal di Principe, la madre dell´ergastolano che non aveva colpe da espiare, Teresa Ricciardi, si tormenta le mani, aspettando che torni libero il suo Alberto. «Ce l'avevo a morte con la giustizia. Pure i cortei e la fiaccolata mi hanno impedito. I parroci, don Franco Picone e don Carlo Aversano, ci erano vicini. Ora dico: ridatemelo presto. Mio figlio esce a testa alta». Eccolo il caso di Alberto Ogaristi, «muratore e stuccatore», dall'età di 15 anni, da Reggio Emilia in Germania. Nato a Casal di Principe, incensurato e figlio di persone incensurate, primogenito del proprietario di un bar poi ammalatosi di cirrosi epatica, Alberto viene arrestato il 6 luglio 2007 come presunto killer del pregiudicato Antonio Amato - ucciso il 18 febbraio del 2002, nella faida di Villa Literno. Ad accusarlo è il cognato della vittima del raid, un cittadino albanese, Qoqu Telat, sfuggito per miracolo (oggi tornato in Albania, irreperibile). L'albanese crede di riconoscere l´assassino nella foto segnaletica di Alberto Ogaristi. I magistrati non credono all'alibi raccontato dalla fidanzata di allora (oggi è sua moglie: ma si erano appartati in auto, lei si vergognava di farlo sapere, ed esitò nella deposizione). Lui viene assolto in primo grado, ma condannato in appello. Con sentenza passata in giudicato. Ergastolo. Invece. È un clamoroso errore giudiziario. Svelato, definitivamente, dalle indagini dei carabinieri di Caserta e dai pm Raffaello Falcone e Marco Del Gaudio, che con un'ordinanza inchiodano tre pregiudicati per quel delitto: Luigi Guida, di 59 anni, Luigi Grassia, di 36 e Gaetano Ziello, di 29 (ai quali la misura è stata notificata in carcere). E scagionano di fatto, sulla scorta del racconto del pentito Emilio Di Caterino - che a sua volta conferma quanto dichiarato dal collaboratore Massimo Iovine - l'innocente Alberto. Rinchiuso in cella da 1 anno, 6 mesi e 22 giorni. Tuttora detenuto nel carcere di Rebibbia. E ora a Casale, la signora Teresa bacia santini e madonne. «Scrivetelo che avevamo fatto di tutto per fare venire a galla la verità. Tutto sembrava perso. Ma non ho mai smesso di pregare». È una cinquantasettenne invecchiata di colpo, famiglia di contadini, quattro figli. Prova ad assaggiare un sollievo che sa di non potere ancora abbracciare. Anche il suo avvocato, Romolo Vignola, penalista tenace del foro di Santa Maria Capua Vetere, un professionista che non ha smesso di credere che l'antidoto alla malagiustizia fosse riposto nelle pieghe più asciutte e pazienti della giustizia, suggerisce moderazione: «Ci dà conforto sapere che ormai l'innocenza di Alberto è una verità sostanzialmente acquisita. L´avvocato Vignola dice grazie ad un magistrato, in particolare: «Con encomiabile e davvero laica capacità di ascolto il pm Falcone che aveva sostenuto la pubblica accusa è stato poi il primo a lottare con noi, quando si è reso conto, già nel dicembre 2007, che il pentito Iovine scagionava Ogaristi. La stessa Procura generale di Napoli si è attivata». Si attende solo che giustizia sia fatta.
CASAPESENNA E LA POLITICA
Allucinante da “Il Corriere della Sera”. Arrestato il sindaco di Casapesenna. Costrinse l'ex primo cittadino alle dimissioni per prenderne il posto. Fortunato Zagaria, 57 anni, ingegnere, primo cittadino dal 2009, è accusato di aver agito su mandato del boss Michele Zagaria, arrestato lo scorso 7 dicembre minacciando il precedente sindaco del Comune casertano, Giovanni Zara. Secondo l'accusa, a quest'ultimo, durante il suo mandato, avrebbe consigliato ripetutamente, anche a nome del 'boss', di non assumere iniziative pubbliche contro la camorra, perché erano sgradite a Michele Zagaria. Lui stesso, in occasione dell'arresto del boss, dichiarò: «La camorra non è ancora stata sconfitta». Nell'indagine condotta dal capo della Dda di Napoli Federico Cafiero de Raho sono coinvolti anche altri assessori e consiglieri comunali di Casapesenna. Nel frattempo è stata avviata la procedura di scioglimento dell'amministrazione comunale del paese che ha dato i natali a Michele Zagaria. Fortunato Zagaria, non imparentato con il boss, è stato eletto nel 2009 in un raggruppamento di centrodestra, è stato arrestato nella sua abitazione. L'accusa nei suoi confronti è di violenza privata. Zagaria era già stato sindaco del paese natale del boss, ed è stato anche vicesindaco del primo cittadino precedente, Giovanni Zara. Quel consiglio comunale fu sciolto per le dimissioni di 11 consiglieri, 10 giorni dopo che Zara, considerato un sindaco anti-camorra, aveva firmato un protocollo per l'avvio di un progetto in un bene confiscato al capozona Vincenzo Zagaria.
Da “Il Fatto quotidiano”. Casapesenna, arrestato il sindaco del feudo degli Zagaria: “vietava” le iniziative antimafia. Secondo al Dia di Napoli, Fortunato Zagaria (omonimo ma non imparentato con il clan) minacciava il suo predecessore, noto per l'impegno anticamorra. Convegni in beni confiscati e interviste in occasione della cattura di latitanti tra le attività sgradite ai boss casalesi. Il sindaco di Casapesenna, feudo del clan Zagaria in provincia di Caserta, minacciava altri politici locali e “sconsigliava” a tutti di organizzare iniziative contro la camorra. Con questa accusa è finito in carcere Fortunato Zagaria, politico di centrodestra, omonimo ma non imparentato con il clan di primo piano dei Casalesi, il cui capo Michele è stato arrestato nei mesi scorsi dopo una lunga latitanza. La Dia di Napoli lo accusa, in concorso con Michele Zagaria, di violenza privata nei confronti del precedente sindaco di Casapesenna, Giovanni Zara. A quest’ultimo, durante il suo mandato, era stato ‘consigliato’ ripetutamente da Fortunato Zagaria di non assumere iniziative pubbliche contro la camorra, perché erano sgradite al boss. L’arresto è stato eseguito nell’ambito di un’indagine condotta tra il Casertano e il Basso Lazio sul favoreggiamento al clan dei Casalesi, e in particolare all’ex superlatitante Michele Zagaria. Coinvolti alcuni “colletti bianchi”, perquisiti anche l’abitazione del sindaco e gli uffici del Comune di Casapesenna. Fortunato Zagaria è stato eletto nel 2009 in un raggruppamento di centrodestra. Nella legislatura precedente era stato vicesindaco di Giovanni Zara, oggetto secondo l’accusa delle sue minacce. Quel consiglio comunale fu sciolto per le dimissioni di undici consiglieri, dieci giorni dopo che Zara, considerato un sindaco anti-camorra, aveva firmato un protocollo per l’avvio di un progetto in un bene confiscato al capozona Vincenzo Zagaria. Le indagini sono partite anche dalle dichiarazioni di un pentito, Roberto Vargas, secondo il quale il sindaco Zagaria è la diretta espressione di Michele Zagaria, che lo avrebbe fatto eleggere. “Determinanti” per l’arresto sono state anche le dichiarazioni dell’ex sindaco Zara, “che con notevole senso civico e alto coraggio istituzionale” ha riferito con chiarezza gli eventi, ha spiegato il procuratore aggiunto di Napoli Federico Cafiero de Raho. Tra gli episodi raccontati da Zara, le minacce subite da Fortunato Zagaria per convincerlo a non partecipare a un convegno organizzato in una villa confiscata a un elemento di spicco dei Casalesi e a una manifestazione di solidarietà alle forze dell’ordine a Casapesenna, perché Michele Zagaria aveva espresso un divieto di partecipazione a quella iniziativa sulla legalità. Intimidazioni furono rivolte a Zara anche perché non rilasciasse interviste o dichiarazioni quando polizia e carabinieri arrestavano i latitanti.
Ed
infine da
“La Repubblica”
Operazione contro i Casalesi.
Arrestato anche un sindaco. E il primo cittadino di Casapesenna Fortunato
Zagaria, omonimo del boss arrestato due mesi fa dopo quindici anni di latitanza,
Michele Zagaria. Il sindaco è accusato di violenza privata ai danni del suo ex
vice, al quale avrebbe impedito di organizzare manifestazioni per la legalità.
Perquisizioni della Dia in provincia di Caserta e nel basso Lazio. In manette
anche "colletti bianchi" che riciclavano denaro sporco.
C'è anche un sindaco tra gli arrestati nell'operazione della Dia di Napoli
contro i Casalesi, in corso dall'alba di oggi tra Caserta e il basso Lazio. Si
tratta del primo cittadino di Casapesenna, Fortunato Zagaria, omonimo ma non
parente del boss della camorra Michele Zagaria, arrestato due mesi fa dopo
quindici anni di latitanza in un covo proprio a Casapesenna. Fortunato Zagaria è
accusato, in concorso con Michele Zagaria, di violenza privata nei confronti del
precedente sindaco del Comune casertano, Giovanni Zara. Secondo l'accusa, a
quest'ultimo, durante il suo mandato, era stato 'consigliato' ripetutamente da
Fortunato Zagaria, anche a nome del boss, di non assumere iniziative pubbliche
contro la camorra, perchè erano sgradite al padrino. Sono in corso perquisizioni
nel municipio di Casapesenna e a casa del primo cittadino. L'indagine è condotta
dalla Dia e coordinata dai pm Giovanni Conzo, Raffaello Falcone, Catello Maresca,
con il procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho. Tra gli arrestati anche
"colletti bianchi" che riciclavano il denaro sporco dei Casalesi. Fortunato
Zagaria, eletto nel 2009 in un raggruppamento di centrodestra, è stato arrestato
nella sua abitazione. Zagaria era già stato sindaco del paese natale del boss,
ed è stato anche vicesindaco di Zara. Quel consiglio comunale fu sciolto per le
dimissioni di 11 consiglieri, 10 giorni dopo che Zara, considerato un sindaco
anti-camorra, aveva firmato un protocollo per l'avvio di un progetto in un bene
confiscato al capozona Vincenzo Zagaria. Nell'ordinanza di custodia cautelare
emessa dal gip Maria Vittoria Foschini si legge che Zagaria, definito da un
pentito un "pupazzo" nelle mani del capoclan, intimò a Zara di non rendere
interviste ai giornali per elogiare o manifestare solidarietà alle forze
dell'ordine in occasione dell'arresto di latitanti. Fortunato Zagaria si
presentava come emissario del capoclan omonimo e gli ribadiva l'"assoluta
contrarietà" di Michele Zagaria a interviste e dichiarazioni, prospettandogli il
pericolo di gravi ritorsioni contro la persona o l'attività politica; a Zara, il
sindaco arrestato oggi, rammentò la sorte di Antonio Cangiano, vittima di un
attentato nel 1998, quando era assessore ai Lavori pubblici di Casapesenna, in
seguito al quale Cangiano rimase gravemente menomato. In un'altra circostanza,
Fortunato Zagaria, sempre per conto del boss, cercò di costringere l'ex sindaco
a non partecipare ad un convegno organizzato presso una struttura confiscata a
Luigi Venosa, noto personaggio del clan dei Casalesi, prospettandogli una
reazione negativa da parte dei Venosa; Zara partecipò comunque al convegno, ma
fu obbligato a non intervenire e a tenersi in disparte. Altre intimidazioni Zara
le subì dal consigliere comunale Luigi Amato, che lo spinse, per esempio, a non
partecipare ad una manifestazione di solidarietà con le forze di polizia. Amato
spiegò che il divieto era stato disposto dal latitante Michele Zagaria e gli
specificò: "Queste persone sono pericolose, devi stare attento". Dall'inchiesta
Dia emergono numerosi retroscena sull'arresto del boss Zagaria in un covo, al
quale si accedeva tramite una botola in una villetta privata a Casapesenna.
Innanzitutto le perquisizioni in municipio e nelle abitazioni di alcuni
consiglieri comunali sono finalizzate proprio ad accertare chi abbia agevolato
la realizzazione abusiva del nascondiglio. Inoltre, il giorno dell'arresto del
padrino, il sindaco Fortunato Zagaria lo definì "importante". E dopo la cattura
esclamò: "Finalmente".
"Spero sia una lezione per i giovani - aggiunse - e per chi, in questa terra,
resta facilmente affascinato dalla camorra. Spero faccia capire che il conto si
paga sempre". "Certo sono dispiaciuto che alcuni concittadini lo abbiano coperto
e, dunque, aiutato - disse ancora il sindaco - ma l'importante è che lo abbiano
preso". Due mandati, poi un'interruzione, poi di nuovo sindaco dal 2009, un
passato nel Pdl anche se ora il sindaco si definisce "apolitico". "Qui si
contano oltre 6800 residenti, tanti anziani e un elevato tasso di disoccupazione
- concluse - qui non sono tutti camorristi". Poi lanciò un invito "a non
abbassare la guardia perchè la camorra non è affatto sconfitta". Nell'ordinanza
di custodia cautelare sono contenute tra l'altro le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Roberto Vargas, ex fedelissimo di Nicola Schiavone,
il figlio del boss Francesco noto come "Sandokan". Vargas spiega i rapporti che
intercorrevano tra Fortunato Zagaria e il capoclan omonimo, ma anche gli accordi
tra i capi del clan dei Casalesi per gestire i Comuni del Casertano: "Nicola
Schiavone mi disse, nel corso di diverse riunioni avvenute nel 2008 - 2009, che
il Comune di Casapesenna, ed in particolar modo il sindaco Fortunato Zagaria era
sotto il controllo di Michele Zagaria. Il sindaco era stato indicato
direttamente da Michele Zagaria, ovvero era stato messo a fare il sindaco
proprio da Michele Zagaria, il quale lo gestiva allo stesso modo di un pupazzo".
"Michele Zagaria gestiva tutto il comune di Casapesenna - dice ancora Vargas -
Nicola Schiavone mi diceva che noi al comune di Casapesenna non potevamo
intervenire in quanto si svolgeva tutto sotto il controllo di Michele Zagaria.
Mi viene chiesto in che modo Michele Zagaria ha agevolato il sindaco ed io le
rispondo che lo ha fatto votare da tutti i suoi paesani sfruttando il suo potere
camorristico, ed anche perchè gli Zagaria avevano a loro disposizione sia i
politici del Comune che i tecnici comunali". "Ricordo che se Nicola Schiavone
aveva qualche esigenza al Comune di Casapesenna, mandava l'imbasciata
direttamente a Michele Zagaria, il quale, siccome comandava a Casapesenna, gli
risolveva il problema. Ciò accadeva con reciprocità, ovvero se vi erano problemi
a Casale loro si rivolgevano a Nicola Schiavone - conclude - La stessa cosa
avveniva a San Cipriano con Iovine (il boss Antonio Iovine,a sua volta rimasto
latitante per 15 anni) ed in altri comuni come Casaluce, Villa di Briano e
Frignano, pure gestiti da Antonio Iovine".
PIGNATARO MAGGIORE. MAFIA ED ANTIMAFIA: QUALE LA DIFFERENZA?
Da “Il Giornale” si viene a sapere che Saviano mandò in carcere un uomo innocente. Nel 2003 lo scrittore accusò un sindaco casertano di camorra: 11 mesi in carcere e scagionato. La lettera: "Chiedo scusa". “Gentile avvocato Magliocca, in relazione all’articolo dal titolo «La Svizzera dei clan», pubblicato sul settimanale Diario, nel settembre 2003, ritengo doveroso precisare quanto segue, con specifico ed esclusivo riferimento all’episodio da me narrato nell’articolo e che l’ha vista involontariamente protagonista”. Cominciano così le “scuse” pubbliche che lo scrittore Roberto Saviano rivolge oggi, attraverso il quotidiano Il Giornale di Milano, all’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca. L’esponente politico del Pdl, due giorni fa assolto in primo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione camorristica dopo aver trascorso oltre 10 mesi di carcerazione, era stato al centro di una feroce riflessione da parte dell’autore di Gomorra. Saviano si è anche detto disposto ad incontrare Magliocca in un dibattito pubblico sui temi della legalità. “Le informazioni che ho poi pubblicato – ha argomentato lo scrittore – mi erano state fornite da fonti locali attendibili, quando il periodico mi aveva incaricato di raccontare ai lettori la realtà locale, in particolare, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul delicato tema dei rapporti tra camorra e poteri pubblici. Non ho avuto modo, per i tempi stretti imposti dalle esigenze editoriali e per l’impossibilità di accedere ad altre fonti, di verificare la veridicità di quanto mi era stato riferito e non avevo ragione per dubitare della buona fede di chi mi aveva fornito quella informazione. Alla luce dei successivi accertamenti e di quanto emerso, nel corso della vicenda giudiziaria che ci vede contrapposti ho, infatti, verificato la sua assenza dal luogo in cui le Forze dell’ordine hanno proceduto allo sgombero della villa confiscata al Ligato, del fatto che lo stesso boss non ha mai proferito la frase riportata nell’articolo e, conseguentemente, dell’errore in cui sono stato indotto”. “A riprova della mancanza di qualsivoglia volontà offensiva nei Suoi confronti – ha concluso Roberto Saviano rivolgendosi a Giorgio Magliocca -, Le esprimo sin d’ora la mia disponibilità a prendere parte a un incontro sulla criminalità organizzata in Campania, da Lei organizzato, con la sola irretrattabile condizione che sul palco ci siano soltanto giornalisti. Sono certo che questa mia costituisca la migliore prova della mia buona fede e, nel contempo, valido strumento di conciliazione”. Nel 2003 aveva scritto un pezzo sul settimanale Diario accusando alla sua maniera (cioè senza mezze misure Giorgio Magliocca, allora sindaco Pdl di Pignataro Maggiore nel Casertano, di presunti legami con la camorra. Nel 2009, 6 anni dopo, Roberto Saviano ha fatto marcia indietro e chiesto scusa: avevo tempi stretti per scrivere quell'articolo - spiega nella lettera inviata a Magliocca l'autore di Gomorra -, le sue fonti erano attendibili. Non ha potuto verificare e si è sbagliato. Piccolo particolare, infatti: l'ex sindaco era innocente. Facile, in fondo, sparare nel mucchio in una zona ad altissima densità di infiltrazioni criminali. Anche sulla scia di quella pubblica denuncia, Magliocca ha passato 11 mesi in galera e ha visto distrutta la propria carriera politica. Chi condusse le indagini contro l'esponente Pdl, ricordano Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo sul Giornale, era un poliziotto dichiaratamente di sinistra poi candidato alle elezioni nello stesso Comune. Il pm aveva chiesto per Magliocca 7 anni e mezzo di carcere, ma il Gup De Gregorio lo assolse con formula piena. Non è vero che Magliocca favorì la cosca Ligato-Lubrano né ebbe rapporti col boss Raffaele Ligato. Né promise appalti e finanziamenti pubblici. Tutto questo è stato appurato col tempo, ma intanto il danno era fatto anche grazie a Saviano. "Chi combatte la criminalità può essere ucciso in due modi: con le pallottole o con il fango", ha commentato un amaro Magliocca. Tutto sommato, sono le stesse parole usate spesso da Saviano per ribattere a chi lo critica. Solo che dall'altra parte stavolta c'è lui, l'ex santino di Gomorra. Quelle scuse, tardive, sono solo un atto di decenza.
Per “Il Corriere della Sera”: Assolto, perché «il fatto non sussiste». E, adesso, Giorgio Magliocca, ex collaboratore di Alemanno, si sfoga: «È stato un complotto ai miei danni, una vendetta della camorra contro le mie battaglie per la legalità». Magliocca esce indenne dalla sentenza di primo grado, emessa dal gup di Napoli Eduardo De Gregorio, per l' accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa»: secondo la Procura, l' ex sindaco di Pignataro Maggiore aveva favorito il clan locale Lubrano-Ligato. E il pm della Dda napoletana Giovanni Conzo aveva chiesto sette anni e mezzo di condanna. «L' ipotesi accusatoria - dice Mario Iodice, avvocato di Magliocca - si è rivelata assolutamente inconsistente». Enzo Palmesano, del Comitato anticamorra (si è costituito parte civile nel processo) commenta: «Rispetto la sentenza, ma non la condivido. Ci sono gli elementi per ribaltarla in appello». Ma, in attesa delle motivazioni del giudice, le reazioni sono soprattutto politiche. Magliocca è «scandalizzato dalla strumentalizzazione di questa vicenda ai danni del sindaco Alemanno, che non ha nessuna colpa» e il Pdl insorge: «Il Pd ha intenzione di chiedere scusa?», dice il coordinatore regionale Vincenzo Piso. «Il fango della sinistra ora ritorna indietro», aggiunge il delegato alla sicurezza del Comune Giorgio Ciardi. Mario Landolfi, del quale Magliocca è stato a lungo collaboratore, parla di «gioia e soddisfazione per l' assoluzione: questa storia rafforza la nostra fiducia nella verità, che trionfa sempre». Ma anche il consigliere Udc Alessandro Onorato tira una stoccata ai colleghi di opposizione: «Chi gettò la prima pietra oggi faccia un pubblico mea culpa. L' assoluzione dell' ex collaboratore del sindaco è un sospiro di sollievo per la politica romana».
La lettera dell'On. Nitto Palma al direttore de 'Il Mattino' Inviato Giovedì, 23 febbraio 2012. «Ill.ssimo Direttore, l'ex sindaco di Pignataro Maggiore, avv. Giorgio Magliocca, è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa perchè il fatto non sussiste. La giustizia trionfa, e all'avv. Magliocca viene restituito l'onore. Certo rimane il fatto dei mesi passati in carcere da Magliocca, ma a questo davvero non può porsi rimedio (salvo la causa che l'avv. Magliocca vorrà eventualmente azionare per l'ingiusta detenzione). In Italia funziona così. Troppo facilmente si finisce in carcere, e vane risultano le parole del Presidente della Repubblica e del Primo Presidente della Corte di Cassazione, i quali, a più riprese, hanno parlato di un uso eccessivo della custodia cautelare. Ma non è su questo che desidero soffermarmi. Scorrendo le notizie in Internet mi sono imbattuto in molteplici affermazioni di esponenti del PD, i quali, con scarsa attenzione alla presunzione di non colpevolezza sancita dall'art. 27 Cost., non hanno esitato ad appiattirsi sulle tesi dell'accusa e a lanciare i loro strali sul povero Magliocca (mafioso! o quant'altro di simile) e sul PDL. Fra le tante, giusto per rimarcare che "il piacere dell'oblio" non è solo una elucubrazione di Alberoni ma lo strumento attraverso cui l'errore o la colpa o il misfatto si scolora e, scolorando, impedisce ogni riflessione, mi piace citare quelle di Amendola, segretario regionale del PD Campania. "E' una vergogna che ormai con cadenza quotidiana ci troviamo a dover commentare arresti o indagini che riguardano amministratori e dirigenti del Pdl ... Il sindaco Giorgio Magliocca è solo l'ultimo di una serie infinta di scandali che sta colpendo la classe politica del centrodestra ... La questione morale nel Pdl campano è enorme. Come il senso d'impunita' dinanzi all'opinione pubblica di una classe dirigente allo sbando e alla ribalta delle cronache solo per vicende giudiziarie". Amministratori del PDL, quelli citati da Amendola, oggetto di attenzione da parte del P.M., ma tutti, ad oggi, privi di una valutazione in contraddittorio da parte del giudice. Da quando mi sono insediato come commissario del PDL campano, ripetute sono state le domande dei giornalisti sulla questione morale, e sempre ho risposto che il tema della legalità è assolutamente prioritario, ma che deve essere affrontato senza strumentalizzazioni di sorta. Ed è questo, proprio questo, il punto. Comprendere che la legalità è un bene di tutti e nel concetto di legalità rientra anche la presunzione di non colpevolezza. Comprenderlo e agire di conseguenza. Il che equivale a dire che non giova ad una lotta comune, senza distinzioni ideologiche, analoga a quella che ci vide uniti ai tempi del terrorismo, utilizzare un accadimento processuale per farne una battaglia politica di bottega a tutto campo. Generale e generalizzante, dall'uno al tutto, cioè quanto di più sbagliato (anche sul piano giuridico). Così come non giova ergersi autoreferenzialmente a censori dell'altro, magari dimenticando quanto accade a casa propria. Marcare una differenza che non è giustificata dai fatti. Arrogarsi il ruolo di monopolista di tutti i valori positivi, consegnando all'antagonista politico l'intero paniere della negatività. E ciò solo perchè antagonista. Solo perchè non si riesce in altro modo a nascondere i vuoti della propria politica. Solo perchè conviene. Solo perchè, a forza di dirlo e di ripeterlo, l'apparenza diventa realtà, e resta realtà anche quando viene frantumata da chi, giudicando, ha il potere di farlo. Ed è su questo che dovrebbe aprirsi un sereno dibattito. A condizione che ognuno ricordi quantomeno gli errori commessi, e, percorrendo il dovere della memoria, non si faccia scudo dell'oblio e partecipi generosamente ad una lotta per il Paese, dove gli interessi di parte non hanno alcun rilievo rispetto alla posta in gioco. Evidentemente non chiedo ad Amendola, o ad altri dirigenti del PD di formulare le scuse a Magliocca. Sarebbe un bel gesto, ma se non hanno ritenuto di farlo, sarebbe inutile il mio sollecito. Ognuno con il suo stile. Ognuno con il suo modo di fare politica. Certo se lo facessero dimostrerebbero di avere memoria, dimostrerebbero che si può lottare insieme. Cordiali saluti, Nitto Francesco Palma»
SANTA MARIA CAPUA VETERE. IL TRIBUNALE DELLA VERGOGNA.
Il Tribunale della vergogna. Sul Corriere la video inchiesta de “Il Corriere della Sera”. Doveva essere una sistemazione provvisoria. Da dieci anni, invece, il tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, si trova in un condominio. Al momento di individuare la sede, il Comune di Santa Maria non trovò niente di meglio che uno stabile di quattro piani appartenente a un fratello di Nicola Cosentino (ex sottosegretario all'Economia), a cui paga il canone di affitto. «Non so come si optò per tale scelta visto che, tra l'altro, c'era il forte timore che il calcestruzzo non fosse di eccellente qualità e non adeguato al rischio sismico» confessa un preoccupato presidente del tribunale, Andrea Della Selva. Da anni prova a denunciare le condizioni «indecenti» in cui magistrati e avvocati sono costretti a lavorare. Entrando nel cortile del tribunale troviamo quattro persone che discutono animatamente in una macchina. Al volante c'è un giudice, accanto c'è un testimone disabile e dietro due avvocati. Ci spiegano che siccome manca una rampa d'accesso per i disabili, in questi casi le udienze si tengono in auto. I fascicoli processuali si trovano nei garage del condominio accanto alle auto. Un cartello avverte: «Spegnere i motori». Evidentemente per il rischio incendi. Altrimenti sono affastellati su tavoli di fortuna, nei sottoscala, o per terra, sul marciapiede. Le stanze sono piccole, del resto sono quelle di un appartamento e non di un tribunale. Proviamo ad entrare in un'aula dove generalmente si svolgono le udienze. L'intento è quello di chiedere a un giudice come sia possibile lavorare così. Ci troviamo davanti una muraglia umana. In una stanza di circa venticinque metri quadrati sono accalcate circa trenta persone tra avvocati e testimoni. A malapena riusciamo a intravedere il giudice dietro la scrivania. «Che dobbiamo fare? Questo è lo spazio che abbiamo. Ci arrangiamo» ci dice. Il Comune ha diramato una nota in cui avvisa che «per motivi economici il riscaldamento sarà possibile solo dalle 10,00 alle 13,00». Le apparecchiature elettroniche di cui è fornito il tribunale sono aggiornate fino al 1996. I computer non leggono file nati dopo questa data, non ci sono i programmi. «Molti magistrati scrivono le sentenze a casa e poi non possono integrarle in ufficio perché i software sono vecchissimi» spiega Anna Rita Motti, presidente della sottosezione dell'Associazione Nazionale Magistrati di Santa Maria Capua Vetere. Lei, come tanti altri giudici, si porta tastiera e mouse da casa. «Ottenere la riparazione di quelli che ci sono vorrebbe dire aspettare dei mesi e non possiamo permettercelo - aggiunge -. Anche i cancellieri si portano le penne da casa e, in alcuni periodi, anche la carta. Non solo quella per scrivere». Non va meglio agli avvocati che sono ammassati negli stanzini o costretti a lavorare nei corridoi. Tramite il presidente dell'Ordine degli Avvocati di Caserta, Elio Sticco, hanno chiesto la chiusura del tribunale per motivi di agibilità. I giudici ci raccontano che in alcuni punti le aule di udienza sono così vicine agli appartamenti circostanti che d'estate, con le porte aperte, i condomini si affacciano al balcone per ascoltare le testimonianze. In alcuni punti, infatti, si è proprio a un tiro di schioppo. Ma il vero dramma è che in questo tribunale si decidono la cause di lavoro della vicina area industriale. Su ogni giudice pendono in media 2800 processi. Sono cause riguardanti spettanze, rimborsi, crediti, licenziamenti, richieste di assistenza previdenziale. Passeranno anni prima di una sentenza. In molti casi sono persone ammalatesi sul posto di lavoro che ora chiedono giustizia. «Una giustizia che purtroppo non riusciremo a dargli - ammette il giudice Motti -. Sarò sincera, quasi sempre sono cause di cui non vedranno la sentenza, perché non facciamo in tempo».
Aria pesante al tribunale di Santa Maria Capua Vetere
Pm e procuratore: sospetti, faide e denunce
Accuse di strabismo giudiziario nelle inchieste su appalti e sanità al procuratore capo Maffei
Il giorno degli arresti, due distinti signori si aggiravano nei corridoi della Procura colloquiando amabilmente con i giornalisti, chiedendo loro notizie sull'inchiesta, e soprattutto da quali fonti le avessero apprese. Erano due carabinieri in incognito, incaricati da uno dei magistrati titolari dell'indagine di prendere informazioni e redigere la relazione di servizio. C'è un'aria pesante al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e non da ieri. Sospetti, faide tra pubblici ministeri, denunce di abusi. E accuse di strabismo giudiziario nelle inchieste su appalti e sanità formulate dall'interno al procuratore capo Mariano Maffei, molto simili a quella che giungono ora da Clemente Mastella.
«Un Vietnam» è la sintesi di un giudice ovviamente anonimo. Una situazione di conflitto perenne che finisce per lambire anche l'inchiesta sull'Udeur campano. L'oggetto del contendere è Maffei. In due denunce presentate nel novembre 2007 al Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli alcuni suoi pubblici ministeri lo accusano di aver creato un clima «insostenibile» basato sul sospetto e sulla delazione. L'esposto riferisce di ufficiali di Polizia giudiziaria interrogati dai sostituti di fiducia di Maffei, tra i quali viene citato Alessandro Cimmino, titolare dell'inchiesta Udeur, al solo scopo di ottenere informazioni sui magistrati «dissidenti».
Il fascicolo «autoassegnato». La denuncia più scabrosa riguarda però un altro argomento, alcune indagini sulla sanità casertana definite «anomale», dove l'anomalia consisterebbe nel comportamento del sostituto procuratore Maria Di Mauro, che all'inizio del 2006 con l'appoggio di Maffei si sarebbe autoassegnato un procedimento su alcuni dirigenti dell'Azienda Sanitaria Locale Caserta 2 e Giuseppe Tatavitto, direttore dell'ospedale di Santa Maria Capua Vetere, pur essendo a conoscenza dell'esistenza di una inchiesta in corso condotta da un collega sulla stessa persona, per gli stessi reati. Prima di autoassegnarsi il fascicolo, la dottoressa Di Mauro si era sempre astenuta dalle inchieste sulla Asl 2 di Caserta, in quanto suo marito, l'avvocato Aurelio Marino, è consulente legale dell'Asl in questione. Questa volta l'astensione non viene chiesta, anche se la notizia di reato riguarda un concorso dell'Asl nel quale il testimone chiave a carico di Tatavitto è il direttore della Asl stessa, ovvero il datore di lavoro di Marino. La posizione dei responsabili dell'Asl indagati viene stralciata. Nel procedimento principale, diventano addirittura parti offese, mentre lo stralcio si conclude con una archiviazione.
Tra i metodi poco ortodossi di Maffei figura anche l'apertura di un fascicolo a carico di alcuni magistrati della procura di Santa Maria Capua Vetere allo scopo - così riferisce la denuncia - di fare indagini sulle loro attività. Pubblici ministeri vengono «interrogati» ufficiosamente, al telefono, da pm dello stesso ufficio. Gli atti vengono mandati alla Procura di Roma, che archivia definendo «inesistente» la notizia di reato. E' questo grappolo di denunce che induce il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli a chiedere e ottenere nell'ottobre del 2007 l'invio degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia. Ma alla fine del novembre 2007 arriva un altro esposto che inevitabilmente interseca l'ispezione in corso e l'attuale indagine su Mastella. L'inchiesta sull'Udeur campano, per ammissione dello stesso Maffei, consiste nell'unione di tanti fascicoli diversi tra loro, tutti assegnati al pm Cimmino e poi unificati nell'attuale procedimento. Una di queste indagini comincia nel luglio 2005. Giacomo Caterino e Domenico Bove, consiglieri provinciali Udeur vengono indagati con il direttore generale dell'Amministrazione provinciale Anthony Acconcia per falso ideologico e turbativa d'asta, in relazione alla modifica del piano regolatore del Comune di Casagiove. I primi due vengono arrestati e poi scarcerati dal Tribunale del Riesame.
«Anomalie nell'indagine». Il 30 novembre 2007, Caterino spedisce un esposto al Procuratore generale di Napoli, nel quale segnala «anomalie nell'indagine» e richiama l'attenzione sul rapporto di parentela tra Maffei e il presidente della Provincia di Caserta Sandro De Franciscis, suo nipote. Ex enfant prodige dell'Udeur, vincitore a sorpresa delle elezioni provinciale del 2005 per il Campanile, De Franciscis ha «tradito» Mastella per il Pd portando con sé altri funzionari del partito e intere sezioni. Una diaspora che ha causato la scomparsa dell'Udeur in molti comuni del casertano. Diventa «il» nemico. Secondo Caterino, i vincoli familiari potrebbero aver negato al procuratore capo la necessaria serenità di giudizio nei confronti del presidente della Provincia.
Il caso De Franciscis. A sostegno della sua tesi, l'assessore provinciale Udeur segnalava il diverso trattamento ricevuto dal direttore generale Acconcia, uomo di fiducia di De Franciscis, al vertice della macchina amministrativa, più di mille uomini, ma non ritenuto responsabile del suo funzionamento e controllo. Ma l'affondo riguarda soprattutto De Franciscis. Nel corso delle indagini - secondo la denuncia di Caterino - sarebbero state raccolte testimonianze, anche di assessori provinciali della sinistra radicale, che attribuirebbero a De Franciscis la diretta responsabilità, non solo politica, delle modifiche al Piano regolatore, che avrebbero reso edificabili terreni di proprietà di Carlo Panella, padre della compagna di Acconcia e di Vincenzo Natale, dirigente locale del Pd. Secondo Caterino queste dichiarazioni proverebbero l'ingerenza di De Franciscis. Il nipote di Maffei è stato ascoltato come persona informata dei fatti. Il Riesame di Napoli ha accolto alcune delle tesi dei difensori di Caterino, invitando la procura ad indagare anche su altri aspetti dell'inchiesta.
VILLA LITERNO, LA CAMORRA E L'ANTICAMORRA.
Da “Il Giornale” ed “Il Corriere della Sera”. Il consigliere regionale del Pd Enrico Fabozzi sedeva nella commissione d'inchiesta anticamorra. Aveva uno scopo preciso: difendere il territorio contro la criminalità organizzata. Ma lo stesso Enrico Fabozzi, scrive l'Antimafia, "scese a patti con i casalesi pur di incassare le preferenze del clan alle elezioni". Con queste accuse stamattina Fabozzi è stato arrestato. L'ex sindaco di Villa Literno aveva fatto il pieno di voti (oltre 11.546 voti) nel distretto casertano. I provvedimenti costituiscono l’epilogo di un'indagine che, secondo gli investigatori, ha permesso di riscontrare l'esistenza di un patto criminale fra il clan dei Casalesi e l’ex sindaco di Villa Literno (attualmente consigliere regionale della Campania), fondato su un accordo generale mirato a garantire al clan il controllo e la gestione degli appalti e delle risorse pubbliche in cambio del sostegno elettorale e di tornaconti economici, personali ed elettorali. Sono stati arrestati anche imprenditori di rilievo nazionale accusati di concorso esterno nel clan capeggiato dal boss Antonio Iovine, detto o' ninno, arrestato un anno fa dopo quindici anni di latitanza. Nel contesto dell’operazione, il Gruppo Guardia di Finanza di Aversa sta dando esecuzione al sequestro di beni, società e conti correnti riconducibili ad alcuni indagati. Concorso esterno in associazione mafiosa. È questa l'accusa per cui è stato arrestato alle prime luci dell'alba il consigliere regionale della Campania Enrico Fabozzi. Ex sindaco di Villa Literno per due legislature, eletto nelle file del Pd, dal luglio del 2010, da quando vennero confermate le voci sull'inchiesta in corso, siede in consiglio regionale nei banchi del gruppo misto. Secondo quanto avrebbero accertato i carabinieri coordinati dalla Dda di Napoli, proprio in qualità di ex sindaco di Villa Literno Fabozzi avrebbe stretto un patto con il clan dei Casalesi, in particolare con il gruppo capeggiato dal boss Domenico Bidognetti, per procurarsi appoggi elettorali in cambio di appalti. L'arresto di Fabozzi rientra in una operazione che ha portato all'arresto di altre otto persone accusate di estorsione, turbativa delle operazioni di voto mediante violenza e minaccia, corruzione, impiego di denaro di provenienza illecita e ricettazione, reati tutti aggravati dalla finalità di agevolare il clan «dei casalesi». I provvedimenti costituiscono l'epilogo di un'articolata indagine che ha permesso di riscontrare il controllo del clan sulla gestione degli appalti e delle risorse pubbliche in cambio del sostegno elettorale e di tornaconti economici, personali ed elettorali. Sono stati arrestati anche imprenditori di rilievo nazionale accusati di concorso esterno nel clan capeggiato dal boss Antonio Iovine, detto «ò ninno», arrestato un anno fa dopo quindici anni di latitanza. Complessivamente sono 15 gli indagati nell'indagine della Dda di Napoli. Tra gli arrestati compaiono i nomi di alcuni imprenditori di San Cipriano d'Aversa, Casal di Principe e Villa Literno: Nicola e Vincenzo Caiazzo, Raffaele Garofalo, Raffaele Meccariello, Giovanni e Giuseppe Malinconico, Giuseppe e Pasquale Mastrominico e Wanda Caiazzo, ora collaboratrice di giustizia. L'ordinanza di oltre 200 pagine firmata dal gip Alberto Capuano include nomi di imprenditori che, stando all'accusa, avrebbero ottenuto appalti grazie anche all'interessamento di Fabozzi. Una delle accuse principali scattata nei confronti dell'ex sindaco di Villa Literno e consigliere regionale nel gruppo Misto, è quella di aver partecipato al reimpiego dei soldi illeciti con la società Gruppo casa srl, di cui è stato socio assieme a Vincenzo Caiazzo, detto «Stefano». L'imprenditore è il padre della fidanzata di Massimo Iovine, killer al soldo della famiglia Bidognetti, poi diventato collaboratore di giustizia assieme alla fidanzata Wanda Caiazzo, studentessa universitaria alla facoltà di Giurisprudenza.